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Archivio del Tag ‘shock’

  • Lockdown: piano militare creato da Rumsfeld nel 2005

    Scritto il 07/4/21 • nella Categoria: Recensioni • (Commenti disabilitati)

    La Covid 19 è il passato, un passato remoto. Un tempo andato, mai dimenticato. Perché c’è chi ha davvero documentato il trapasso di un’epoca. Al netto della propaganda, per ciò che diranno dal futuro voltandosi indietro, fino al nostro presente. Paolo Borgognone, storico di razza, autore di saggi preziosissimi che riescono sempre a decifrare senza troppi fronzoli la nostra contemporaneità, entra a piedi uniti nel tema che ormai sta monopolizzando da un anno intero le nostre esistenze, financo le nostre coscienze: la malattia “Covid 19. A cosa serve, come ce lo raccontano, a chi giova”. L’autore ha scelto di narrare un passato remoto, dove una epidemia influenzale fu utilizzata per cambiare il mondo: «In Occidente il passaggio dal capitalismo finanziario al capitalismo integralmente digitalizzato fu gestito previo smantellamento d’ogni residuo di economia reale e di vita comunitaria convenzionale». Il libro narra gli accadimenti legando la cronaca, le diagnosi del mondo scientifico, i fatti politici, economici e geopolitici che la gestione della crisi provocò ad una società intera, atomizzata per decreto.
    Le tappe che hanno scandito l’emergenza sanitaria ed epidemiologica del 2020, da Wuhan a Codogno, fino alle bare di Bergamo caricate su camion militari che psicologicamente piegarono le ginocchia all’Italia. Alternando statistiche accreditate e dati ufficiali, l’anatomia degli eventi si intreccia con le decisioni politiche sovranazionali e nazionali fino ad affrontare il confinamento di intere collettività, secondo i programmi elaborati nel 2005 da Richard Hatchett -  un neocon direttore del Cepi (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations) – su invito dell’allora segretario alla difesa Usa e magnate di Big Pharma, Donald Rumsfeld: «Un piano d’isolamento domiciliare obbligatorio per l’intera popolazione, da attivare in caso di attacco bioterroristico».
    Nel 2020, per la prima volta, i governi occidentali «applicarono il piano Hatchett che, però, non era affatto una misura sanitaria, bensì un mezzo per trasformare le società, per introdurre un nuovo modello di organizzazione socioeconomica e di convivenza civile improntato al principio della rifeudalizzazione. Il lockdown non era, ovunque venisse applicato, una misura sanitaria, bensì amministrativo-militare. Il distanziamento fisico era altresì una misura militare e non sanitaria». Il capitalismo finanziario e multinazionale, dopo decenni di profitti stratosferici a danno dell’economia reale, adesso reclamava l’intera torta. Il Forum dei multimiliardari riuniti a Davos lo chiamò il “Grande Reset”: l’anno zero, cioè l’eliminazione della classe media, ossia la morte improvvisa di quella che era diventata la “società signorile di massa”, come l’aveva definita il sociologo Luca Ricolfi.
    Strano a dirsi, proprio nell’epoca dominata dai padroni del vapore digitale, detentori dei mezzi di produzione di Intelligenza Artificiale, si rischiava di tornare ai tempi antichi, ad «una società esclusivamente signorile, in cui lo 0,1 per cento della popolazione avrebbe fatto parte della casta dei signori del trasnumanesimo e il restante 99,9 per cento sarebbe andato a ingrossare le schiere dei plebei post-umani». Paolo Borgognone ci porta ad esplorare il capitale e le sue fazioni, da quella prevalente liberal-globalista a quella nazional-globalista (ricordate Donald Trump?), ma anche gli equilibri geopolitici. La nuova Guerra Fredda – Stati Uniti vs Cina – dove il gigante asiatico, uscito prima di tutti dalla crisi Covid, mostrava i muscoli grazie alla sua supremazia nelle reti 5G, l’infrastruttura fondamentale della nuova società digitale: «La chiave per la quarta rivoluzione industriale, così come le ferrovie avevano dato vita alla prima rivoluzione industriale».
    La Paura veicolata incessantemente dai grandi media, la cittadinanza nella psicosi. Mesi dopo mesi, ormai è un anno: «I cambi di fase radicali necessitano, per essere avviati e completati in poco tempo, di periodi di shockterapia». “Covid 19. A cosa serve, come ce lo raccontano, a chi giova”: il grande saggio di Paolo Borgognone è un documento fondamentale non solo per decifrare il nostro presente, ma soprattutto per chi verrà, perché dal futuro possa studiare e indagare per capire cosa, nel 2021, ci sta accadendo realmente. Se è vero, come è vero, che la storia ciclicamente si ripete, il lettore di domani forse potrà rispondere, coi fatti e con la ragione, alla domanda cruciale che l’autore ci pone alla fine del saggio. Non la sveleremo, perché essa vale la lettura dell’intera opera.
    (Jacopo Brogi, “Covid 19. A cosa serve, come ce lo raccontano, a chi giova”, da “Come Don Chisciotte” del 5 aprile 2021. Il libro: Paolo Borgognone, “Covid 19. A cosa serve, come ce lo raccontano, a chi giova”, Iniziative Editoriali Il Cerchio, 344 pagine, 32 euro).

    La Covid 19 è il passato, un passato remoto. Un tempo andato, mai dimenticato. Perché c’è chi ha davvero documentato il trapasso di un’epoca. Al netto della propaganda, per ciò che diranno dal futuro voltandosi indietro, fino al nostro presente. Paolo Borgognone, storico di razza, autore di saggi preziosissimi che riescono sempre a decifrare senza troppi fronzoli la nostra contemporaneità, entra a piedi uniti nel tema che ormai sta monopolizzando da un anno intero le nostre esistenze, financo le nostre coscienze: la malattia “Covid 19. A cosa serve, come ce lo raccontano, a chi giova”. L’autore ha scelto di narrare un passato remoto, dove una epidemia influenzale fu utilizzata per cambiare il mondo: «In Occidente il passaggio dal capitalismo finanziario al capitalismo integralmente digitalizzato fu gestito previo smantellamento d’ogni residuo di economia reale e di vita comunitaria convenzionale». Il libro narra gli accadimenti legando la cronaca, le diagnosi del mondo scientifico, i fatti politici, economici e geopolitici che la gestione della crisi provocò ad una società intera, atomizzata per decreto.

  • Elezioni Usa: la polizia e i cittadini temono una guerra civile

    Scritto il 24/10/20 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Il fatto che i funzionari delle forze dell’ordine si aspettino una violenza diffusa in tutta la nazione come conseguenza delle elezioni, dovrebbe far tremare ogni americano fino alle ossa. Continuo a ripetere che la violenza non risolverà nulla, ma gran parte della popolazione non ascolta più voci come la mia. Come leggerete nel prosieguo, le autorità hanno deciso di “prepararsi al peggio” in modo che tutti siano consapevoli di cosa sta per accadere. Ma, a questo punto, se non possiamo tenere un’elezione presidenziale senza violenza, quanto tempo ancora potrà reggere il nostro sistema? Chiunque finisca per vincere, le elezioni del 2020 ci diranno molto su dove si sia spinta la situazione in America. Per fortuna, i funzionari della maggior parte delle grandi città non hanno ficcato la testa sotto la sabbia e stanno preparandosi a fronteggiare i disordini di massa che seguiranno le prossime elezioni. Il Nypd (polizia di New York) sta addestrando centinaia di rinforzi per prepararli al giorno delle elezioni, per timore che possano scoppiare rivolte e proteste dopo l’annuncio dei risultati.

  • Scuola di paura: quando è il mediocre a fare grandi disastri

    Scritto il 28/9/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Esiste una legge di natura, in base alla quale sono proprio i mediocri a firmare i peggiori disastri? Solo gli storici potrebbero dare una risposta al quesito, ammesso che abbia un senso. Nel frattempo, una panoramica sull’attualità sembra garantire alcune sinistre conferme. Chi era, l’oscuro Roberto Speranza, prima di trasformarsi nell’attuale spietato censore dei medici che propongono – terapie alla mano – di uscire dall’incubo del coronavirus? E analogamente: chi aveva mai sentito parlare di Beatrice Lorenzin, prima che diventasse di colpo Lady Obbligo Vaccinale? Se la cosiddetta sinistra 2.0 si è coperta di gloria sull’altare della sudditanza ai cosiddetti poteri forti – finanziari, farmaceutici, eurocratici – i grillini non hanno certo perso tempo: parlano da soli i casi di Giulia Grillo, che aveva promesso di revocare l’obbligatorietà di alcune vaccinazioni, e della surreale Lucia Azzolina, che ha mutato la scuola in una specie di Halloween del Covid traumatizzando i bambini, fino a escogitare trovate memorabili come i seggioloni a rotelle. «Se fossimo di fronte alla peste bubbonica, è chiaro che certe misure avrebbero un senso», premette Massimo Mazzucco. «Invece, è ormai assodato che non siamo più nella drammatica situazione della scorsa primavera». Nonostante questo, «è stato utilizzato il panico, lo shock iniziale, per fare in modo che chiunque – anche a scuola – si sentisse in diritto di imporre prescrizioni assurde».
    Una madre ha inviato a Mazzucco una pagina del quaderno del suo bambino, intitolata: “I ‘non’ che sentiamo oggi a scuola”. Eccoli: «Uno: non fare confusione. Due: non toccare le persone, e mantenere la distanza. Tre: non parlare, finché la maestra non ti dà la parola. Quattro: non alzarsi dal banco, senza mettere la mascherina. Cinque: non togliere la mascherina, in giardino. Sei: non parlare al compagno vicino, senza mascherina. Sette: non mangiare andando in giro per l’aula». Provate a pensare cosa significa, tutto questo, nella testa di un bambino: quali ripercussioni psicologiche comporta. «Molti piccoli hanno vissuto così, quest’anno, il loro primo giorno di scuola: cioè il loro primo impatto con la società», dice Mazzucco, nella diretta web-streaming “Mazzucco Live” del 26 settembre 2020, su YouTube, con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Nella sua concezione iniziale, la scuola serve – soprattutto – a insegnare al bambino a interagire con gli altri. Qui stiamo creando dei mostri, poverini, che hanno questi “non” davanti a tutto: proibizioni. Si sta abituando un’intera generazione a una serie di divieti, che per i piccoli sono assolutamente irrazionali e incomprensibili, ma che è obbligatorio accettare». Quindi, per Mazzucco, «stiamo creando una nuova generazione di schiavi mentali che poi, da grandi, accetteranno tutti i “non” che verranno loro imposti».
    Se infatti imponi quei “non” a un bambino di sei anni – aggiunge Mazzucco – hai condizionato il suo cervello, «abituandolo a un’accettazione acritica dell’autorità», e quindi «lo hai rovinato per tutta la vita». Beninteso: tutto questo «è un grande “successo”, dal punto di vista di chi ci controlla». Massimo Mazzucco è un cavallo di razza dell’informazione alternativa, in Italia: fotografo, regista e sceneggiatore, attivo per 15 anni a Hollywood negli studios della De Laurentiis, ha “ribaltato” la propria vita dopo lo shock dell’11 Settembre. Il suo primo documentario sul tema, “Inganno globale”, fu trasmesso da Canale 5 in prima serata. Da allora, Mazzucco è diventato un tenace oppositore del mainstream, cui contrappone la più ferrea logica giornalistica. Si è occupato, in modo esemplare, dei casi più controversi: l’omicidio Kennedy, la demonizzazione della cannabis, le “cure proibite” che neutralizzano il cancro. Bersaglio preferito dei “debunker”, i cosiddetti “cacciatori di bufale”, nel documentario “American Moon” fa dire ai maggiori fotografi del mondo – da Peter Lindbergh a Oliviero Toscani – che le immagini dello storico “allunaggio” del 1969 furono palesemente girate in un teatro di posa, magari uno studio cinematografico.
    Analisi che sono valse a Mazzucco l’accusa di “complottismo”, ora corretta in “negazionismo”, secondo il trend-Covid che ruba impunemente i neologismi coniati dalla storiografia per condannare chi tenta di negare o ridimensionare la tragedia della Shoah. E a proposito di nazismo: «Vorrei tanto che un giorno ci potesse essere una Norimberga, per questa gente, che sta rovinando intere generazioni», dice Mazzucco, pensando ai politici di oggi che stanno abusando, anche nelle scuole, del panico suscitato dall’epidemia. «Lorenzin, Speranza, Conte: sono tutti responsabili diretti di quello sta venendo fatto ai bambini». Un auspicio: «Dovremmo poterli processare, un giorno: e mi auguro anche abbastanza presto, se fosse possibile. Vale anche per tutti i giornalisti che si sono prestati a questa operazione, aumentando la percezione del pericolo e quindi provocando il panico». Osserva Mazzucco, amaramente: «Se utilizzi una leva antica e micidiale – la paura – come mezzo di controllo della mente, spegni la capacità di ragionare». E’ lo spettacolo a cui stiamo assistendo, da mesi: «L’unica, vera forma che ti permette un controllo totale sulla mente delle persone è proprio la paura. E quando la gente ha paura, non capisce più niente: a quel punto, puoi fargli fare quello che vuoi».
    A monte c’è una manipolazione evidentissima, planetaria, che collega l’élite farmaceutica mondiale (Bill Gates, Anthony Fauci) a organismi come l’attuale, opaca Oms, largamente finanziata proprio dal patron di Microsoft e dalla Cina, il paese in cui l’epidemia sembra essere esplosa, per poi venir stroncata con il lockdown, secondo un modello autoritario esteso in tutto il mondo e promosso da poteri che tendono a indicare come modello virtuoso proprio il regime di Pechino, che comprime libertà e diritti. Ma la storia non è mai lineare: un altro autocrate, il bielorusso Lukashenko, è stato trasformato di colpo in un insopportabile dittatore, il giorno dopo aver denunciato l’Oms (e il Fmi) per aver offerto alla povera Bielorussia 900 milioni di dollari, se avesse «fatto come in Italia», cioè imposto il “coprifuoco sanitario” con il pretesto del Covid. Accuse, quelle di Lukashenko, subito derubricate come propaganda elettorale. Non la pensa così lo storico Nicola Bizzi, editore di Aurora Boreale: «Diversi paesi africani hanno mosso all’Oms accuse analoghe a quelle di Lukashenko. E da fonti di intelligence – aggiunge Bizzi – so che svariati paesi, anche europei (tra cui l’Italia) hanno accettato denaro dall’Oms per potenziare le forze dell’ordine, in modo da far applicare il lockdown nel modo più severo».
    Trent’anni fa, Fruttero & Lucentini pubblicarono “La prevalenza del cretino”: ora siamo alla Prevalenza del Mediocre Disastroso? Chi avrebbe scommesso un bottone su Giuseppe Conte, quando fu estratto dal cilindro grillino nel 2018, con un curriculum di cui tutti i giornali ridevano? Se non capite chi è Conte, e perché un anonimo avvocaticchio si è trovato di colpo a Palazzo Chigi – disse Gianfranco Carpeoro, scrittore e simbologo – ricordatevi della poesia di Giuseppe Giusti, quella del Re Travicello «piovuto ai ranocchi», uomo di paglia di poteri ben più sostanziosi, intenzionati a instaurare una dittatura dopo aver promesso la democrazia. Non è un segreto: Conte – ricorda Fausto Carotenuto, già analista dei servizi segreti Nato – è cresciuto alla scuola del gruppo vaticano del cardinale Achille Silvestrini: un uomo a cui, all’epoca, “rispondeva” Giulio Andreotti. Così, il giovane avvocato pugliese è approdato al potente studio legale del civilista Guido Alpa, e quindi – grazie al sistema delle baronie universitarie – ha potuto fregiarsi della docenza in svariati atenei, a volte solo come “visiting professor”. Destino, anche: è toccato a lui, cioè al primo ministro più mediocre della storia, fronteggiare la peggiore crisi in agenda dal 1945.
    Vuoi vedere – s’è domandato qualcuno – che proprio la mediocrità dell’incolore Conte sarà sfruttata per osare l’inosabile? Chi meglio dello yesman, per provare a imporre la più inquientante restrizione della libertà mai tentata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale? Non è un caso solo italiano? Appunto: tutto tornerebbe. Non è forse un potere-ombra, di natura oligarchica, quello che sta cercando di usare il coronavirus (problema reale, non inventato – ma enormemente amplificato, ad arte) per convincere i cittadini – italiani, europei, mondiali – che in fondo è più “conveniente” restare a casa, subire un distanziamento permanente, e quindi rinunciare a vivere? «Niente sarà più come prima», ha ribadito il ministro Speranza, con un tono che nemmeno Churchill avrebbe usato. Forse si crede Giulio Cesare, quella mezza cartuccia che il partitone di un altro statista leggendario – Bersani – mise a fare il capogruppo, genuflettendo l’Italia ai poteri che imposero, tramite Monti, la morte civile della repubblica, con la Costituzione umiliata dall’obbligo del pareggio di bilancio? Tutti eventi riassumibili in una parola seccamente odiosa – diktat – che racconta benissimo dove siamo arrivati, di mediocrità in mediocrità, e di alibi in alibi: ieri lo spread, oggi il Covid. Fino al bavaglio pericolosamente punitivo inflitto ai bambini, costretti a fare lo slalom, a scuola, in una paurosa selva di “non”.
    (Giorgio Cattaneo, “Scuola di paura: è sempre il mediocre a produrre i maggiori disastri?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 2020).

    Esiste una legge di natura, in base alla quale sono proprio i mediocri a firmare i peggiori disastri? Solo gli storici potrebbero dare una risposta al quesito, ammesso che abbia un senso. Nel frattempo, una panoramica sull’attualità sembra garantire alcune sinistre conferme. Chi era, l’oscuro Roberto Speranza, prima di trasformarsi nell’attuale spietato censore dei medici che propongono – terapie alla mano – di uscire dall’incubo del coronavirus? E analogamente: chi aveva mai sentito parlare di Beatrice Lorenzin, prima che diventasse di colpo Lady Obbligo Vaccinale? Se la sedicente sinistra 2.0 si è coperta di gloria sull’altare della sudditanza ai cosiddetti poteri forti – finanziari, farmaceutici, eurocratici – i grillini non hanno certo perso tempo: parlano da soli i casi di Giulia Grillo, che aveva promesso di revocare l’obbligatorietà di alcune vaccinazioni, e della surreale Lucia Azzolina, che ha mutato la scuola in una specie di Halloween del Covid traumatizzando i bambini, fino a escogitare trovate memorabili come i seggioloni a rotelle. «Se fossimo di fronte alla peste bubbonica, è chiaro che certe misure avrebbero un senso», premette Massimo Mazzucco. «Invece, è ormai assodato che non siamo più nella drammatica situazione della scorsa primavera». Nonostante questo, «è stato utilizzato il panico, lo shock iniziale, per fare in modo che chiunque – anche a scuola – si sentisse in diritto di imporre prescrizioni assurde».

  • Il complotto del virus: chi ha fatto bingo con la catastrofe

    Scritto il 01/8/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Nel documento che abbiamo pubblicato su “Luogo Comune”, intitolato “Il complotto del coronavirus” e costituito da 200 slide, si ipotizza la disseminazione intenzionale del virus. Riepiloghiamo, si legge, gli scopi del complotto portato avanti dall’élite mondiale. Ridurre le libertà civili e il diritto di assemblea e di manifestazione. Rendere legali sistemi di controllo sempre più pervasivi (telecamere, droni, app, spyware). Fomentare la guerra tra poveri, istigando collaborazionisti inconsapevoli. Prolungare lo shock il più a lungo possibile (quarantena, distanziamento sociale, mascherina). Lucrare direttamente, con la pre-conoscenza degli eventi, nel settore economico-finanziario: per esempio, quelli che hanno scommesso sul crollo delle Borse nella primavera 2020. Ricomprare a pochi spiccioli le aziende che falliranno. Avere disponibilità di folle impoverite, che accetteranno lavori a condizioni degradanti. Lucrare direttamente nel settore medico, imponendo l’obbligo di vaccinazione per il Covid.
    Sempre nel settore medico, lucrare estendendo l’obbligo di vaccinazione antinfluenzale. Aggiungo l’obbligo per tutti gli altri vaccini, perché tra un po’ arriverà il “passaporto vaccinale”, senza il quale non potremo più fare nulla. Ancora: portare a compimento vari progetti sospesi per l’interferenza nella società civile, cioè il tanto ricercato bavaglio alla Rete. Sono anni che si disperano per cercare un modo per metterci il bavaglio, e adesso – con la scusa del Covid – hanno creato le task-force contro le “fake new” sul Covid; poi il Covid andrà via, ma le task-force contro le “fake news” rimarranno, ovviamente, e quindi avranno trovato il modo di mettere il bavaglio alla Rete. Poi: installazione e attivazione del 5G senza rispettare il principio di precauzione. Quante volte abbiamo sentito dire: poverini, gli studenti a casa, che non potevano seguire la didattica a distanza perché non avevano una buona connessione; corriamo tutti a mettere il 5G, così il bambino avrà il cellulare all’orecchio sempre acceso, anche quando va in bagno a fare la pipì.
    Altri vantaggi del complotto: giustificare l’introduzione fattiva della moneta elettronica a discapito di quella fisica. Indebitare le nazioni verso le banche, con strumenti quali il Mes. Eccetera, eccetera. Questa “laundry list” di vantaggi è praticamente infinita, ed è proprio quello che ti porta a pensare come sia impossibile che siamo di fronte a un evento naturale, cioè che questo virus sia arrivato per caso, dal pipistrello. Fa felici talmente tante persone, ai livelli alti (quelli che si occupano del controllo della popolazione) che non può essere una coincidenza. Nessuno è così fortunato da fare tombola 27 volte di seguito con un solo virus. E’ chiaro, che c’è dietro qualcuno che l’ha voluto.
    (Massimo Mazzucco, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Mazzucco Live” del 25 luglio 2020 su YouTube, in relazione al dossier “Il complotto del coronavirus” pubblicato su “Luogo Comune” il 19 luglio 2020).

    Nel documento che abbiamo pubblicato su “Luogo Comune”, intitolato “Il complotto del coronavirus” e costituito da 200 slide, si ipotizza la disseminazione intenzionale del virus. Riepiloghiamo, si legge, gli scopi del complotto portato avanti dall’élite mondiale. Ridurre le libertà civili e il diritto di assemblea e di manifestazione. Rendere legali sistemi di controllo sempre più pervasivi (telecamere, droni, app, spyware). Fomentare la guerra tra poveri, istigando collaborazionisti inconsapevoli. Prolungare lo shock il più a lungo possibile (quarantena, distanziamento sociale, mascherina). Lucrare direttamente, con la pre-conoscenza degli eventi, nel settore economico-finanziario: per esempio, quelli che hanno scommesso sul crollo delle Borse nella primavera 2020. Ricomprare a pochi spiccioli le aziende che falliranno. Avere disponibilità di folle impoverite, che accetteranno lavori a condizioni degradanti. Lucrare direttamente nel settore medico, imponendo l’obbligo di vaccinazione per il Covid.

  • Ilaria Bifarini: coronavirus e suicidi, così il lockdown uccide

    Scritto il 05/6/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Nel mondo un virus oscuro miete ogni anno 800 mila vittime, ossia una ogni 40 secondi, e si insidia come una delle principali cause di morte tra i giovani, più letale del coronavirus: è il suicidio. Numeri sorprendenti e spaventosi, che vengono subito dopo quelli dell’Hiv e prima della malaria, e verosimilmente sottostimati, se consideriamo che in alcuni paesi togliersi la vita è considerato illegale e molti casi vengono classificati come morti per incidenti. Il tasso di incidenza del suicidio tra i decessi totali di una popolazione segue matrici non ben identificabili: il primato spetta alla Groenlandia, con una percentuale di incidenza sui decessi nazionali addirittura pari 7,21%, segue la Corea del Sud col 5%, seguita dalla Guyana, il Qatar e lo Sri Lanka. In Europa la percentuale risulta più alta in Russia (2,45%), in Ucraina, in Bielorussia, ma anche in Francia, dove solo negli ultimi anni tale indicatore è sceso sotto il 2%, rappresentando con i suoi 11.000 casi registrati nel 2017 la settima causa di morte, prima delle malattie epatiche e del diabete. Regno Unito, Italia e Spagna registrano tassi inferiori all’1%, bassi rispetto alla media ma comunque numeri preoccupanti, pari a migliaia di decessi ogni anno.
    Tra i fattori di rischio riconosciuti nella letteratura scientifica come i più rilevanti nel fenomeno suicidario sono indicate le patologie mentali, quali la depressione e altri disturbi dell‘umore, spesso un riflesso delle difficoltà di adattarsi agli standard sociali e lavorativi richiesti al giorno d’oggi. E proprio il livello di disoccupazione e la situazione economica del paese in cui si vive sono variabili che incidono fortemente sul tasso di suicidio. Gli studi condotti su tale relazione sono numerosi e giungono a evidenze chiare e predittive: esiste una chiara correlazione tra recessione economica e andamento del tasso di suicidio, anche se non lineare, poiché è più forte nei paesi con un tasso di disoccupazione pre-crisi più basso. Analizzando gli effetti della crisi economica asiatica avvenuta tra il 1997 e il 1998, è stata riscontrata una correlazione con i tassi di suicidio, in particolare quello maschile, aumentati in modo evidente in Giappone, Hong Kong e Corea, mentre nel caso delle donne il tasso è rimasto pressoché invariato. Come emerge palesemente per la Corea del Sud, l’aumento avviene sia durante la crisi che negli anni successivi, essendo le ripercussioni di una crisi economica spalmate e durature nel tempo.
    Uno studio analogo è stato condotto in Europa, a seguito della crisi dei mutui subprime del 2008 che, nata in Usa, proprio nel Vecchio Continente sembra essere stata più deleteria e persistente, tanto che molti paesi, come il nostro, non ne sono ancora usciti mentre si trovano ad affrontare uno shock economico mondiale ancora più travolgente, quello legato al coronavirus. Anche in questo caso è stato riscontrato un aumento del tasso di suicidi legato alle dinamiche economiche. Interessante è il focus sulla Grecia, il paese che più di tutti ha sofferto la crisi economica del 2008, con l’intervento della Troika che ha imposto misure durissime di austerity alla popolazione, ridotta allo stremo. Ebbene, proprio dal paese ellenico, che in passato poteva vantare uno dei tasso di suicidi più bassi in assoluto, proviene l’incremento più significativo, con una crescita del 56% tra il 2007 e il 2011 e del 35% tra il 2010 e il 2012. A seguito dei tagli draconiani apportati al settore della sanità sono stati rilevati anche peggioramenti nello stato di salute generale della popolazione: il virus dell’Hiv è aumentato del 52%, si è assistito a un’epidemia di malaria che non si riscontrava dal 1974 e a un aumento della mortalità infantile.
    È la conferma che l’austerity uccide, come hanno dimostrato gran parte dei paesi occidentali, in primis l’Italia, di fronte all’emergenza coronavirus: i tagli alla sanità hanno reso inadeguata la risposta ospedaliera allo scoppio di un’epidemia, peraltro prevedibile, con un numero di terapie intensive insufficienti ovunque, ad eccezione della Germania, dove il numero è 6 volte quello dell’Italia. In Italia, come nel resto del mondo, in questi giorni di lockdown e restrizioni sociali per far fronte all’emergenza coronavirus, l’allarme suicidi manifesta le prime avvisaglie. Numerosi sono stati i casi di persone che si sono tolte la vita per aver contratto il Covid-19 o per il solo timore di essere contagiati, soprattutto tra il personale ospedaliero, il più esposto al virus, in particolare nel Nord Italia. Si tratta di una reazione istintiva alla paura della malattia da parte dell’essere umano, tanto che già Ovidio nelle “Metamorfosi” racconta: «Si impiccarono, per uccidere le paure della morte con la mano della morte».
    Diversi anche i casi di violenze domestiche, legate a una convivenza forzata e senza interruzione che ha esacerbato situazioni già problematiche, e degenerate in omicidi (dal ragazzo di Roma che ha decapitato con un coltello la madre alla studentessa messinese uccisa dal compagno). Nel torinese un ragazzo di 29 anni già nei primi giorni di lockdown si è tolto la vita perché la sua ditta  ha chiuso e dunque aveva perso quel contratto di tirocinante tanto ambito. Analoga sorte per un giovane di origini senegalesi a Milano. Poi è stato difficile tenere il contro, vista la scarsa attenzione dei media sul tema. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio suicidi per motivazioni economiche della Link Campus, sono 25 i suicidi avvenuti in questo periodo di isolamento forzato; altri 21 sono stati sventati dalla polizia o da familiari, ma è difficile pensare che sia stato un vero salvataggio di vite umane quando non si estirpano le cause di questo drammatico gesto.
    Di fatto abbiamo vissuto, e continuiamo a vivere, una condizione innaturale per l’essere umano, che per sua natura è un animale sociale e nella comunità trova sostegno e riconoscimento, fondamentale soprattutto per le persone più fragili. Il lavoro, oltre che necessaria al sostentamento economico, è una componente imprescindibile dell’equilibrio psichico dell’individuo e della sua integrazione nella collettività. L’attenzione per i decessi con coronavirus non deve farci dimenticare quelle 800.000 persone che ogni anno muoiono per sofferenze psicologiche, molte delle quali potrebbero essere salvate con maggiore sostegno sociale e attenzione verso di esse, e ricordarci sempre lo stretto nesso che esiste tra aspetto economico e sanitario, complementari e entrambi imprescindibili per il benessere della collettività.
    (Ilaria Bifarini, “Coronavirus e suicidi, il lockdown uccide”, dal blog della Bifarini del 23 maggio 2020).

    Nel mondo un virus oscuro miete ogni anno 800 mila vittime, ossia una ogni 40 secondi, e si insidia come una delle principali cause di morte tra i giovani, più letale del coronavirus: è il suicidio. Numeri sorprendenti e spaventosi, che vengono subito dopo quelli dell’Hiv e prima della malaria, e verosimilmente sottostimati, se consideriamo che in alcuni paesi togliersi la vita è considerato illegale e molti casi vengono classificati come morti per incidenti. Il tasso di incidenza del suicidio tra i decessi totali di una popolazione segue matrici non ben identificabili: il primato spetta alla Groenlandia, con una percentuale di incidenza sui decessi nazionali addirittura pari 7,21%, segue la Corea del Sud col 5%, seguita dalla Guyana, il Qatar e lo Sri Lanka. In Europa la percentuale risulta più alta in Russia (2,45%), in Ucraina, in Bielorussia, ma anche in Francia, dove solo negli ultimi anni tale indicatore è sceso sotto il 2%, rappresentando con i suoi 11.000 casi registrati nel 2017 la settima causa di morte, prima delle malattie epatiche e del diabete. Regno Unito, Italia e Spagna registrano tassi inferiori all’1%, bassi rispetto alla media ma comunque numeri preoccupanti, pari a migliaia di decessi ogni anno.

  • Dal Fmi 400 miliardi a costo zero, però l’Italia non li vuole

    Scritto il 23/5/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Quando la Grecia nel 2010 entrò nel programma del Fondo Monetario, il suo rapporto debito-Pil era del 146%. L’Italia, fatte le debite differenze, quest’anno raggiungerà il 170%. Non lo possiamo certamente ridurre con l’avanzo primario tirando la cinghia. Bisogna parlare di come generare risorse addizionali. Siamo davanti a un shock unico nel suo genere. Come si dice in econometria, c’è un “regime change”. Il problema non è tanto e solo la fine del lockdown, ma quello che verrà fatto nei prossimi mesi. Servono due cose. La prima è incidere in modo sostanziale sulle aspettative di imprenditori e consumatori. La seconda è creare un parallelismo virtuoso, per nulla scontato, tra fine dell’emergenza sanitaria e riaperture. L’unicità di questa crisi dipende anche dal fatto che riaprire le attività commerciali non vuol dire che i consumatori andranno necessariamente a spendere, in assenza di aspettative più favorevoli. Gli strumenti messi in campo dal Decreto Rilancio? Non sono adeguati. Nei primi tempi della pandemia sono stati promessi aiuti a pioggia. Ma interventi di questo genere mi sembrano finalizzati a stabilizzare i consensi piuttosto che favorire la ripartenza nel medio termine. Per costruire quest’ultima occorre una strategia, che manca.
    Bisogna incidere sulle aspettative, dicendo chiaramente su quante risorse gli italiani possono contare, in quali tempi e a che condizioni. Ci dev’essere, poi, uno effetto shock sulle aspettative. Per semplificare: se metto nel sistema un euro, è un euro buttato; se ci metto un trilione, quel trilione agisce sulle aspettative, perché crea sicurezza intorno ai flussi di reddito che si materializzeranno nel futuro prossimo amplificandone l’impatto. Merkel e Macron hanno trovato un’intesa sul Recovery Fund: 500 miliardi di trasferimenti a fondo perduto dal bilancio Ue. Innanzitutto mi limito ad osservare che Austria, Olanda, Finlandia e Danimarca per ora si oppongono. Sono gli stessi paesi che finora hanno impedito l’accordo. E senza unanimità non se ne fa nulla. Un altro requisito chiave sono le dimensioni: di 100 miliardi in 100 miliardi non andremo da nessuna parte. E poi, ammesso che l’operazione riesca, che fondo sarà? Che tipo di condizionalità imporrà esplicitamente o implicitamente? Un fondo “emasculated”, come dicono gli americani, o che invece ha “grinta e denti”, sono due realtà completamente diverse. Come sarà il Recovery Fund non lo sappiamo e probabilmente occorrerà ancora parecchio tempo per capirlo.
    Il livello di cooperazione europea è molto importante, ma potrebbe non bastare. Molti dettagli del nuovo strumento sono ancora indeterminati, come quelli di altri strumenti europei. Un fatto è certo: i nostri spazi di finanza pubblica sono angusti e i debiti vanno sempre restituiti. Da dove cominciare? All’Italia serve una modernizzazione della propria economia. Una semplificazione della normativa ci consentirebbe di rilanciare le opere pubbliche e creare posti di lavoro. L’esempio virtuoso è il nuovo ponte di Genova: va riprodotto quel modello. La competitività dei paesi non si misura solo dal rapporto debito-Pil, ma anche dai giorni necessari per attivare i permessi regolamentari necessari, per accedere al credito, o per la risoluzione di una disputa contrattuale. Intervenire su questi parametri non necessariamente comporta l’esborso di risorse finanziarie; e oggi diventa ancora più urgente, visto che le nuove norme anti–Covid hanno l’effetto netto di aumentare ancor più il peso di burocrazie e codicilli sulle attività economiche, per le quali già il nostro paese vantava un considerevole primato.
    Insieme all’ex segretario al Tesoro britannico Jim O’Neill, io ho elaborato una proposta. Chiediamo che il Fmi emetta dei diritti speciali di prelievo (Dsp, Special Drawing Rights). Il “Financial Times” ha proposto di emettere Dsp per 1,250 trilioni di euro. Noi sviluppiamo una proposta per moltiplicare la capacità di questa allocazione. I Dsp sono assegnati ai paesi membri del Fmi sulla base delle quote detenute nella base di capitale del Fondo. All’Italia, con quota pari al 3,17%, andrebbero circa 40 miliardi di euro. Una cifra superiore alla linea di credito del Mes per la pandemia, e a condizionalità zero. Questi 40 miliardi si possono usare a garanzia per costruire un veicolo finanziario che a sua volta emette obbligazioni acquistabili da altri paesi, utilizzando le rispettive allocazioni di Dsp. Questo eviterebbe l’accumulo di ulteriori passività nel bilancio dello Stato.
    Prospettive di investimento per l’Italia? Se ipotizziamo un rapporto di leva finanziaria uno a cinque, l’Italia potrebbe aumentare la propria capacità finanziaria da miliardi a 200 miliardi di dollari. Gli altri paesi del Fmi sarebbero d’accordo? Serve l’accordo dell’85% dei paesi membri. Gli Usa, con il 17,45% delle quote, avrebbero potere di veto, ma difficilmente lo userebbero davanti al crollo dell’economia mondiale. Inoltre gli Usa potrebbero acquistare parte di queste obbligazioni senza pesare sul contribuente americano, ma usando parte delle allocazioni che il Tesoro Usa riceverebbe dall’emissione di Dsp. Perché agli investitori dovrebbe convenire sottoscrivere il veicolo? Si tratta di mobilizzare una “coalizione di volenterosi” tra quei paesi con maggiori riserve. Questi mobilizzerebbero parte delle allocazioni di Dsp ricevute per sottoscrivere le obbligazioni del veicolo. Così facendo, beneficerebbero di un interesse positivo, anche se non elevato, sulle loro sottoscrizioni, vedendosi remunerare la loro solidarietà. Ribadisco che utilizzerebbero le risorse addizionali liberate proprio attraverso l’emissione di Dsp, senza pesare sulla fiscalità generale e sui propri contribuenti.
    E la Cina? Con le sue ingenti riserve, potrebbe essere uno di questi paesi volenterosi, come del resto gli stessi Stati Uniti. Ripeto: non si tratta di chiedere regali, ma piuttosto attivare un meccanismo virtuoso con la creazione di nuove risorse che renda politicamente agevole il sostegno ai paesi maggiormente affetti dalla pandemia, come l’Italia. Che ruolo potrebbe avere la Bce? Potrebbe sottoscrivere parte delle obbligazioni del veicolo insieme ad altri soggetti istituzionali e sovrani. Quello sul Mes non è un reale dibattito. Mi è parso che si trattasse di ratificare una decisione già presa a priori e all’inizio della pandemia. L’impatto della crisi sull’economia italiana è così profondo e avvolgente che non si può arginare con un solo strumento, né il Mes né il nostro. C’è bisogno di più strumenti e della creazione di nuove risorse, che ogni paese dovrebbe o potrebbe coordinare secondo le sue specificità. Ecco, su questo è mancato un dibattito vero, a tutto tondo, nel nostro paese. Perché il governo non ha esplorato altre soluzioni? Questa è un’ottima domanda che giro a voi, fiducioso che interlocutori istituzionali possano raccoglierla.
    Che cosa mi lascia più perplesso? L’Italia ha chiesto un prestito Mes fino all’altro ieri, addirittura subordinando l’adesione alla scelta di Francia e Spagna. Come se accodarsi ad altri potesse garantire una sorta di immunità di gregge capace di diminuire l’impatto, in termini di responsabilità, associato al programma. Qui nascerebbero molte domande. Perché quei paesi si sono ritirati? L’Italia intende seguirli? Il Mes non era conveniente? Purtroppo, in Italia, si è teso a far coincidere, in modo puramente strumentale, la posizione a favore o contro il Mes come europeismo o anti-europeismo. Dovremmo allora concludere che anche Francia, Spagna, Grecia e Portogallo sono diventati anti-europeisti l’altro giorno, decidendo di non avvalersi del Mes? Io credo che si possa essere europeisti pur avendo qualche riserva su come gli aiuti esterni sono configurati. È vero, stando a come viene presentata, che la linea di credito anti-pandemica del Mes è a bassa condizionalità, per ora. Se a causa del crollo del Pil e del fardello dell’elevato debito pubblico i nostri fondamentali si deteriorassero, scatterebbero clausole di salvaguardia più impegnative. Che impatterebbero sulle tasche dei cittadini. Credo che questo andrebbe spiegato loro.
    (Domenico Lombardi, dichirazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Meglio i 200 miliardi (a costo 0) del Fmi che l’Italia non vuole usare”, pubblicata dal “Sussidiario” il 21 maggio 2020. Lombardi è stato un consigliere economico del Fmi).

    Quando la Grecia nel 2010 entrò nel programma del Fondo Monetario, il suo rapporto debito-Pil era del 146%. L’Italia, fatte le debite differenze, quest’anno raggiungerà il 170%. Non lo possiamo certamente ridurre con l’avanzo primario tirando la cinghia. Bisogna parlare di come generare risorse addizionali. Siamo davanti a un shock unico nel suo genere. Come si dice in econometria, c’è un “regime change”. Il problema non è tanto e solo la fine del lockdown, ma quello che verrà fatto nei prossimi mesi. Servono due cose. La prima è incidere in modo sostanziale sulle aspettative di imprenditori e consumatori. La seconda è creare un parallelismo virtuoso, per nulla scontato, tra fine dell’emergenza sanitaria e riaperture. L’unicità di questa crisi dipende anche dal fatto che riaprire le attività commerciali non vuol dire che i consumatori andranno necessariamente a spendere, in assenza di aspettative più favorevoli. Gli strumenti messi in campo dal Decreto Rilancio? Non sono adeguati. Nei primi tempi della pandemia sono stati promessi aiuti a pioggia. Ma interventi di questo genere mi sembrano finalizzati a stabilizzare i consensi piuttosto che favorire la ripartenza nel medio termine. Per costruire quest’ultima occorre una strategia, che manca.

  • Novelli: capitalismo al capolinea, la finanza se l’è mangiato

    Scritto il 21/5/20 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Le Borse festeggiano la fine imminente del lockdown globale ma, a questi livelli, non stanno certamente prezzando il danno che rimarrà sull’economia, sui profitti attesi, sull’occupazione e, soprattutto, sulle insolvenze che arriveranno. Credo che il reale impatto che la pandemia avrà sull’economia globale si capirà solo nei prossimi tre mesi, quando si avrà una evidenza di come effettivamente si delinea il ritorno alla normalità tanto attesa. Se guardiamo a quello che accade in Cina non ci sono motivi per essere particolarmente ottimisti. Sebbene il governo cinese abbia imposto la ripresa dell’attività industriale, quello che accade fuori dal settore produttivo, in gran parte gestito con politiche centralizzate, non lascia spazio a facili entusiasmi. Il settore dei servizi e dei consumi interni, che non è gestito da politiche centralizzate e dipende dalla reale domanda privata, è pesantemente penalizzato dal fatto che i cittadini cinesi non hanno ancora superato lo shock, e la paura del contagio rimane latente. Le vendite al dettaglio sono ancora sotto del 16% rispetto a fine 2019 e gli unici settori che vedono un incremento dell’attività sono il settore pharma (+8%) e quello alimentare (+18%). I consumi di carburante e i ristoranti, che sono settori indicativi di un ritorno alla mobilità della popolazione e quindi dei consumi, sono -20% il primo e -57% il secondo.

  • Draghi: soldi pubblici a tutti, e subito. Ogni ritardo è fatale

    Scritto il 24/4/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    La pandemia di coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molti oggi vivono nella paura della propria vita o in lutto per i propri cari. Le azioni intraprese dai governi per evitare che i nostri sistemi sanitari vengano travolti sono coraggiose e necessarie. Devono essere supportati. Ma queste azioni comportano anche un costo economico enorme e inevitabile. Mentre molti affrontano una perdita di vite umane, molti altri affrontano una perdita di sostentamento. Giorno dopo giorno, le notizie economiche stanno peggiorando. Le aziende affrontano una perdita di reddito nell’intera economia. Molti stanno già ridimensionando e licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile. La sfida che affrontiamo è come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di valori predefiniti che lasciano danni irreversibili. È già chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici.
    Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato. È il ruolo corretto dello Stato distribuire il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire. Gli Stati l’hanno sempre fatto di fronte alle emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più rilevante – sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e Germania tra il 6 e il 15% delle spese di guerra in termini reali fu finanziato dalle tasse. In Austria-Ungheria, Russia e Francia, nessuno dei costi continui della guerra furono pagati con le tasse. Ovunque, la base imponibile è stata erosa dai danni di guerra e dalla coscrizione. Oggi è a causa dell’angoscia umana della pandemia e della chiusura. La domanda chiave non è se, ma come lo Stato dovrebbe mettere a frutto il proprio bilancio. La priorità non deve essere solo quella di fornire reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro. In caso contrario, emergeremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità permanentemente inferiori, poiché le famiglie e le aziende lottano per riparare i propri bilanci e ricostruire le attività nette.
    I sussidi per l’occupazione e la disoccupazione e il rinvio delle tasse sono passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità. Ciò è essenziale per tutte le imprese per coprire le proprie spese operative durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancora di più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto misure di benvenuto per incanalare la liquidità verso le imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più completo. Mentre diversi paesi europei hanno diverse strutture finanziarie e industriali, l’unico modo efficace per entrare immediatamente in ogni falla dell’economia è di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari: mercati obbligazionari, principalmente per grandi società, sistemi bancari e in alcuni paesi anche le Poste. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici. Le banche in particolare si estendono in tutta l’economia e possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito.
    Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. Poiché in questo modo stanno diventando un veicolo per le politiche pubbliche, il capitale necessario per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli ulteriori scoperti o prestiti. Né la regolamentazione né le regole di garanzia dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette. Le aziende, tuttavia, non attingeranno al supporto di liquidità semplicemente perché il credito è economico. In alcuni casi, ad esempio le aziende con un portafoglio ordini, le loro perdite possono essere recuperabili e quindi ripagheranno il debito. In altri settori, probabilmente non sarà così.
    Queste società potrebbero essere ancora in grado di assorbire questa crisi per un breve periodo di tempo e aumentare il debito per mantenere il proprio personale al lavoro. Ma le loro perdite accumulate rischiano di compromettere la loro capacità di investire in seguito. E, se l’epidemia di virus e i blocchi associati dovessero durare, potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito raccolto per mantenere le persone impiegate in quel periodo fosse infine cancellato. O i governi compensano i mutuatari per le loro spese, o quei mutuatari falliranno e la garanzia sarà resa valida dal governo. Se il rischio morale può essere contenuto, il primo è migliore per l’economia. Il secondo percorso sarà probabilmente meno costoso per il budget. Entrambi i casi porteranno i governi ad assorbire una grande parte della perdita di reddito causata dalla chiusura, se si vogliono proteggere posti di lavoro e capacità. I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e infine per il credito pubblico. Dobbiamo anche ricordare che, visti i livelli attuali e probabili futuri dei tassi di interesse, un tale aumento del debito pubblico non aumenterà i suoi costi di servizio.
    Per alcuni aspetti, l’Europa è ben equipaggiata per affrontare questo straordinario shock. Ha una struttura finanziaria granulare in grado di incanalare i fondi verso ogni parte dell’economia che ne ha bisogno. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta politica rapida. La velocità è assolutamente essenziale per l’efficacia. Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono. Il costo dell’esitazione può essere irreversibile. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni ‘20 è abbastanza una storia di ammonimento. La velocità del deterioramento dei bilanci privati ​​- causata da una chiusura economica che è sia inevitabile che desiderabile – deve essere soddisfatta della stessa velocità nello schierare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nella ricerca di evidentemente una causa comune.
    (Mario Draghi, “Quella che affrontiamo contro il coronavirus è una guerra, e dobbiamo mobilitarci di conseguenza”, dal “Financial Times” del 25 maezo 2020).

    La pandemia di coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molti oggi vivono nella paura della propria vita o in lutto per i propri cari. Le azioni intraprese dai governi per evitare che i nostri sistemi sanitari vengano travolti sono coraggiose e necessarie. Devono essere supportati. Ma queste azioni comportano anche un costo economico enorme e inevitabile. Mentre molti affrontano una perdita di vite umane, molti altri affrontano una perdita di sostentamento. Giorno dopo giorno, le notizie economiche stanno peggiorando. Le aziende affrontano una perdita di reddito nell’intera economia. Molti stanno già ridimensionando e licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile. La sfida che affrontiamo è come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di valori predefiniti che lasciano danni irreversibili. È già chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici.

  • Gli eroi di Stalingrado: vinsero la Seconda Guerra Mondiale

    Scritto il 07/2/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Il 2 febbraio di quest’anno è stato il 75° anniversario della fine della più grande, più lunga e sanguinosa battaglia della storia del genere umano: uno scontro che aveva distrutto la punta di lancia di quella invincibile macchina da guerra nazista che aveva conquistato tutta l’Europa in soli tre anni e che sembrava in procinto di conquistare il mondo intero: eppure, incredibilmente, tutti i media occidentali, specialmente negli Stati Uniti, lo hanno fino ad ora completamente ignorato. La battaglia di Stalingrado era stata la svolta definitiva del destino: aveva deciso il risultato della Seconda Guerra Mondiale. La scala colossale di quello straordinario scontro, all’epoca, era ben nota agli americani e ai britannici, ma da allora è stata completamente dimenticata. Le nazioni occidentali l’hanno seppellita in fondo al buco nero dei ricordi proibiti, che George Orwell riconoscerebbe fin troppo bene. Nonostante ciò, Stalingrado ha fatto passare in secondo piano tutte le altre battaglie di quella guerra. Era iniziata nell’agosto del 1942 come ultima, disperata difesa di quella che sembrava essere un’Armata Rossa condannata alla sconfitta da una invincibile Wehrmacht che, in meno di tre anni, aveva conquistato l’intero continente europeo, dalla punta settentrionale della Norvegia a Creta e il deserto del Sahara libico. Ma a Stalingrado era cambiato tutto.
    “Al di là del Volga non c’è niente!”, era il grido di battaglia sovietico, e non c’era veramente nulla. Ancora oggi, guardando ad est dall’alto della collina di Mamayev Kurgan, è inquietante vedere che, dall’altra parte del grande Volga, l’incarnazione dell’anima russa, non c’è letteralmente niente. Mamayev Kurgan è un monumento ai caduti come nessun altro sulla Terra, perchè è dominato da una dea irata. La statua più gigantesca, impressionante ed inquietante del mondo, Rodina-Mat, la dea madre della Russia, si eleva per quasi 50 metri senza piedistallo, 6 metri più in alto della Statua della Libertà. Pesa 1.000 tonnellate, oltre 15 volte la Statua della Libertà. Ma questo è il meno. A New York, Lady Liberty è tranquilla e serena, ma Rodina-Mat è dinamica e furiosa. Il suo viso bellissimo e sorprendentemente giovanile trasmette shock, rabbia e una furia da incubo. Il braccio di Rodina-Mat non è rilassato e disteso e non porta una torcia come quello di Lady Liberty. È sollevato e regge una spada lunga più di 20 metri, e la alza così in alto nel cielo che sulla punta hanno dovuto installare una luce di navigazione rossa per allertare gli aerei che volano a bassa quota.
    Visto da lontano, lo spettacolo è ancora più impressionante, persino terrificante. Perché Rodina-Mat è nel punto più alto delle alture che dominano la città, il luogo dove si era combattuto con più accanimento. La si può vedere da qualunque parte lungo le principali arterie nord-sud che costeggiano il Volga. Sembra sempre in movimento, viva, pronta a calare sugli invasori la sua incredibile spada. È come se Atena o Afrodite fossero uscite dalle pagine dell’Iliade di Omero e, attraverso il tempo, dai campi di battaglia di Troia, o come se un gigantesco dio-astronauta idealizzato da Erich von Daniken fosse nuovamente giunto sulla Terra. Nei 200 giorni della Battaglia di Stalingrado, a Mamayev Kurgan si era combattuto per 130. Oggi è il luogo dove riposano 35.000 soldati sovietici. Gli storici militari occidentali riconoscono che nella battaglia di Stalingrado erano morti 1,1 milioni di soldati sovietici, e questo calcolo non include almeno 100.000 civili (e forse il triplo) massacrati dai bombardamenti aerei indiscriminati della Luftwaffe.
    Nella prima settimana di incursioni aeree a Stalingrado erano morti il doppio dei civili rispetto ai bombardamenti alleati di Dresda. Quando gli interrogatori sovietici avevano chiesto al maresciallo di campo Friedrich Paulus, il comandante catturato della Sesta Armata, perché avesse autorizzato un massacro così inutile, aveva risposto che stava solo eseguendo gli ordini. Anche le perdite naziste erano state colossali. Secondo le stime russe, 1,5 milioni di soldati tedeschi e dell’Asse avevano perso la vita durante l’intera campagna, più di cinque volte i morti in combattimento degli Stati Uniti durante tutta la guerra, e più del doppio dei morti combinati dell’Unione e dei Confederati nella Guerra Civile Americana. Neanche uno dei resti dei soldati dell’Asse, trovati e identificati, sono sepolti all’interno della città. È terreno sacro per il popolo russo. Solo gli eroici difensori di Stalingrado e della patria, o Rodina, hanno il massimo onore di riposarvi.
    L’intera Sesta Armata tedesca, 300.000 uomini, all’epoca considerata la forza militare più invincibile della Terra, era stata distrutta a Stalingrado. Solo 90.000 di loro erano sopravvissuti ed erano stati fatti prigionieri quando Paulus si era arreso. Il quartier generale di Paulus, nel seminterrato dell’Univermag, il grande magazzino nel centro della città, è stato trasformato in museo, uno dei più strani al mondo e in sorprendente contrasto con l’imponenza primordiale, eroica, epica della statua e dei monumenti di Mamayev Kurgan. Nel 2005, quando l’avevo visitato l’ultima volta, Univermag era ancora un grande magazzino, molto simile a quelli che si trovano nel cuore degli Stati Uniti, in luoghi come Sioux City o Iowa City, costruiti negli anni ’20 e che avevano prosperato fino a quando Wal-Mart non li aveva inghiottiti tutti. Si entra nell’Univermag di Volgograd attraverso l’ingresso principale, si passa accanto ai giocattoli per bambini, si gira a sinistra, oltre i pigiami per signora e gli oggetti in vetro e, senza alcun preavviso, si è lì.
    Il seminterrato è pieno di ricostruzioni dell’ultima resistenza della Sesta Armata. Dietro una porta, i manichini di due soldati tedeschi morenti giacciono in quella che sembra veramente una sala operatoria di emergenza. Dietro un’altra porta, un robotico Paulus continua ad alzarsi dalla sua scrivania per ascoltare da un altro ufficiale le ultime notizie della catastrofe. Dappertutto, il lamento dell’impietoso vento invernale della steppa e lo spietato sibilo delle Katyushe sovietiche, i lanciarazzi “Caterina,” fanno da accompagnamento. Ilya Ehrenburg, il più grande di tutti i corrispondenti di guerra, aveva scritto che i soldati arroccati nei seminterrati e fra le macerie e che resistevano sulle rive del Volga a pochi metri dall’acqua, adoravano quei lanciarazzi. Ed era ancora vero nel 2005: i volti dei veterani ottantenni e superdecorati si erano illuminati di entusiasmo e di gioia fanciullesca quando avevo chiesto loro quale fosse stata la loro arma preferita dell’intera guerra. “Katyusha!” avevano gridato quei meravigliosi vecchietti, saltando su e giù, mentre gli anni sparivano come per magia. “Katyusha!”.
    Settantacinque anni dopo la resa di Paulus e dopo più di settant’anni dalla sconfitta del Terzo Reich, i ricordi e le cicatrici di quella lotta fanno ancora parte della Russia moderna. Il comunismo è morto. Ma il patriottismo russo no. Ed è per questo che, in questa era di crescenti differenze e alienazione tra la Russia e l’Occidente, lo straordinario eroismo e il sacrificio di tutti quei soldati dell’Armata Rossa e il prezzo terribile che avevano pagato per salvare il mondo devono essere ricordati dai vecchi alleati della Russia. Le emozioni selvagge, feroci ma assolutamente autentiche che appaiono sullo straordinario volto di Rodina-Mat testimoniano gli incredibili sacrifici che si erano consumati sulle rive del Volga per distruggere il male estremo. I leader e i popoli occidentali devono ricordare, ancora una volta, coloro avevano distrutto quel male, il prezzo terribile che avevano pagato e la gratitudine che ancora dobbiamo loro.
    (Martin Sieff, “Gli eroi di Stalingrado e il debito che abbiamo con loro”, da “Strategic Culture” del 31 gennaio 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”. Analista geopolitico e reporter per testate come “Washington Times” e “The Globalist”, Sieff è stato dirigente della United Press International e tre volte candidato al Premio Pulitzer).

    Il 2 febbraio di quest’anno sarà il 75° anniversario della fine della più grande, più lunga e sanguinosa battaglia della storia del genere umano: uno scontro che aveva distrutto la punta di lancia di quella invincibile macchina da guerra nazista che aveva conquistato tutta l’Europa in soli tre anni e che sembrava in procinto di conquistare il mondo intero: eppure, incredibilmente, tutti i media occidentali, specialmente negli Stati Uniti, lo hanno fino ad ora completamente ignorato. La battaglia di Stalingrado era stata la svolta definitiva del destino: aveva deciso il risultato della Seconda Guerra Mondiale. La scala colossale di quello straordinario scontro, all’epoca, era ben nota agli americani e ai britannici, ma da allora è stata completamente dimenticata. Le nazioni occidentali l’hanno seppellita in fondo al buco nero dei ricordi proibiti, che George Orwell riconoscerebbe fin troppo bene. Nonostante ciò, Stalingrado ha fatto passare in secondo piano tutte le altre battaglie di quella guerra. Era iniziata nell’agosto del 1942 come ultima, disperata difesa di quella che sembrava essere un’Armata Rossa condannata alla sconfitta da una invincibile Wehrmacht che, in meno di tre anni, aveva conquistato l’intero continente europeo, dalla punta settentrionale della Norvegia a Creta e il deserto del Sahara libico. Ma a Stalingrado era cambiato tutto.

  • Barnard: Julian Assange verso la morte. E voi codardi, zitti

    Scritto il 14/1/19 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.
    Dopo aver fatto da sentinella per 11 giorni sotto la finestra dove il giornalista australiano è sostanzialmente detenuto, Paolo Barnard getta la spugna. La denuncia che affida al suo blog è tale da coprire di vergogna l’intera opinione pubblica mondiale, a cominciare da attivisti per molti aspetti valorosi – come lo stesso John Pilger – che, dopo aver santificato Assange, oggi (nel momento del bisogno) lo hanno di fatto abbandonato al suo destino. Nessuna seria mobilitazione è in corso – in nessun paese – per premere sui governi in modo da scongiurare il peggio, ovvero: evitare che sia sottoposto a un processo “medievale”, negli Stati Uniti, l’uomo che sperava di migliorare il mondo (per la maggior libertà di tutti noi) rischiando in prima persona pur di rendere pubblico il lato oscuro del potere. Dal 2007, WikiLeaks ha pubblicato oltre un milione e 200.000 documenti riservati: dalla guerra in Afghanistan fino alle rivelazioni sulla corruzione in Kenya. Grazie a WikiLeaks il mondo ha scoperto come vengono torturati i prigionieri catturati dagli Usa e detenuti a Guantanamo.
    Nel 2010, il network di Assange ha svelato alla grande stampa (“New York Times”, “The Guardian”, “Der Spiegel”) il contenuto di alcuni documenti riservati, dai quali emergono aspetti nascosti della guerra in Afghanistan: l’uccisione di civili, l’occultamento dei cadaveri, l’esistenza di un’unità segreta americana dedita a «fermare o uccidere» i Talebani anche senza un regolare processo. Inevitabile che Julian Assange venisse perseguitato con il più ovvio dei pretesti, come l’accusa di “stupro” spiccata contro di lui nel 2010 dal tribunale di Stoccolma. Strano stupro: avrebbe avuto rapporti sessuali “non protetti”, ma con donne consenzienti. Il 7 dicembre 2010, Assange si presentò spontaneamente a Scotland Yard, dove venne arrestato (su mandato di cattura europeo). Dopo nove giorni di carcere venne rilasciato su cauzione. Il vero pericolo, fin da allora, è la possibile richiesta di estrazione negli Usa, una volta che Assange fosse trasferito in Svezia: l’accusa per spionaggio, negli Stati Uniti, può costare l’ergastolo e anche la pena di morte.
    Il fondatore di WikiLeaks è segregato dal giugno del 2012 nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, paese a cui aveva chiesto asilo politico. Lo status di rifugiato gli è stato concesso il 16 agosto 2012 dal governo di Rafael Correa, temendo che la Gran Bretagna lo arrestasse per estradarlo a Stoccolma. Nel gennaio 2016, il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria ha decretato che la permanenza forzata di Assange nell’ambasciata è configurabile come “detenzione arbitraria e illegale” da parte di Gran Bretagna e Svezia. Anche per questo, l’11 gennaio 2018 l’Ecuador ha confermato di aver concesso ad Assange la propria cittadinanza. Ricapitolando: l’uomo che rappreasenta la miglior fonte giornalistica del mondo è costretto a vivere in una stanzetta, da sei anni, per sottrarsi al pericolo di subire un processo sommario e magari di essere condannato a morte, una volta estradato negli Usa dopo il trasferimento in Svezia. E intanto sta franando anche il fragile diaframma che finora lo ha protetto. Il problema? Non c’è più Rafael Correa, alla guida dell’Ecuador.
    Il nuovo governo del paese centramericano è oggi totalmente pro-Usa, ricorda Paolo Barnard: e il neo-eletto presidente Lenìn Moreno ha definito il direttore di WikiLeaks «un sasso che mi sono ritrovato nella scarpa», e gli è totalmente ostile. Ormai la vita di Assange, nei pochi metri quadri in cui è ospitato, è diventata «un vero inferno di proibizioni e limiti». Assange è isolato dal mondo, senza cure, vessato dagli agenti interni. «Lo stanno demolendo nella psiche e nel corpo per costringerlo ad arrendersi e a uscire». L’autorevole “British Medical Journal” ha mandato uno specialista a visitarlo e ha denunciato come «drammatiche» le sue condizioni di salute, fisiche e mentali, dopo 6 anni di questo tipo di prigionia. E la situazione sta precipitando, avverte Barnard: «Da poche settimane si è venuto a sapere che ora esiste ufficialmente in America un’imputazione (cosiddetta segreta), cioè un capo d’accusa, contro Assange, cosa che prima mai era stata rivelata, ma che tutti temevano».
    Ciò significa che ora «la Gran Bretagna è sotto un’enorme pressione per estradarlo», appena uscisse dall’ambasciata. Peggio: potrebbe essere addirittura «prelevato di forza, col permesso dell’Ecuador». Il timore dell’esistenza di questa imputazione tenuta nascosta aggiunge Barnard, è stato precisamente il motivo per cui Julian Assange da 6 anni è costretto a vivere segregato nell’unica ambasciata che gli ha dato asilo, ma che ora gli è nemica. Ce ne sarebbe abbastanza per mobilitare almeno l’opinione pubblica, attraverso la stampa. E invece, scrive Barnard, arriva un’altra amara sopresa: i giornali non parlano più di Assange, perché sono stati minacciati. «Il prestigiosissimo inglese “The Guardian” – scrive Barbard – è il quotidiano che sotto la direzione di Alan Rusbridger lanciò gli scoop di WikiLeaks nel mondo, vendendo oceani di copie e sventolando Assange come un eroe del giornalismo». Ma ora, aggiunge, accade qualcosa d’incredibile. «Dal 2013, il quotidiano adotta un altro “whistleblower” di fama mondiale, Edward Snowden, e inizia a mollare Assange».
    In altre parole: si rischia di meno a parlare di Snowden, l’uomo che ha smascherato lo spionaggio di massa della Nsa, e che ora vive comunque al sicuro, a Mosca, protetto dalla Russia di Putin. È probabilissimo che, senza l’esempio di Assange, Snowden non avrebbe mai trovato il coraggio di uscire allo scoperto. Ma il “Guardian” sembra averlo dimenticato. E c’è di peggio: Barnard cita un editorialista del quotidiano inglese, Luke Harding, che si era lanciato in una crociata per tentare di dimostrare la presunta collusione di Putin con Trump nelle presidenziali 2016. Harding, che era già stato screditato per non aver prodotto praticamente una singola prova (ma solo illazioni), ora pubblica ora uno “scoop” proprio sul “Guardian”: Paul Manafort, il gran manager elettorale di Trump, secondo Harding avrebbe visitato Assange all’ambasciata diverse volte, e questo proverebbe che in realtà WikiLeaks ha davvero subdolamente pubblicato le nefandezze della Clinton per aiutare Donald, sotto ordini di Mosca. «La stampa mondiale riprende il cosiddetto scoop di Harding, e questo sembra essere il colpo di grazia per Julian. Ma in meno di 48 ore il tutto cade a pezzi», scrive Barnard. «In una settimana Harding viene demolito, al punto che il “Washington Post” scrive che il suo scoop sembra sempre più “una bufala”».
    Il 1° gennaio, lo stesso Barnard ha piantonato la sede del “Guardian” con un cartello appeso al collo. Il testo: “Sono un giornalusta. Assange era l’eroe del Guardian. Ora lo hanno degradato a falsario. Perché?”. Il sit-in di Barnard, a tre metri dall’ingresso della redazione del giornale, non passa inosservato: reporter, segretarie e tecnici rallentano, per leggere il suo cartello. Il secondo giorno, scrive, le cose si mettono male: «La security diviene ostile (“abbiamo ordini”), i colleghi che entrano ed escono evitano il contatto visivo, vengo fotografato da una guardia “sotto richiesta della direzione”». Nonostante ciò, alcuni giornalisti inglesi si fermano a parlare con il collega italiano, co-fondatore di “Report” con Milena Gabanelli. Le loro ammissioni sono penose: «Sì, dicono, c’è un ordine di squadra di mollare e screditare Assange; è una questione decisa dal gruppo editoriale, al top; si parla di pressioni insostenibili da parte del ministero degli esteri britannico e degli Usa; c’è addirittura shock, fra i giornalisti del “Guardian”, per questa decisione».
    Questo gli dicono, i cronisti inglesi. Uno di loro, Damien Gayle, addirittura rilancia su Twitter l’appello di Barnard per Assange, e giorni dopo gli confesserà: «Sono stato in ansia a twittarti, ma dovevo farlo perché la libertà di dissenso dovrebbe essere l’anima stessa del mio giornale. Spero non mi licenzino». È amaro, Barnard, dopo la sua generosa missione londinese: unico giornalista italiano (senza più giornali che lo pubblichino) a interessarsi della sorte del “prigioniero” più famoso del mondo. Osserva: «Sono convinto che tentare d’incriminare un direttore di testata, Julian Assange e WikiLeaks, per aver rivelato al mondo documenti riservati o dei servizi segreti su alcune nefandezze e crimini contro l’umanità di vari poteri attraverso l’uso delle “soffiate” (i “whistleblowers”), per poi punirlo con pene devastanti, può essere la fine del giornalismo». Infatti, aggiunge, «nessun “whistleblower” mai più avrà il coraggio di farsi avanti per svelare le porcherie segrete dei governi o delle corporations, e senza di loro il giornalista diviene al meglio un testimone di fatti, ma mai sarà in grado di rivelare la vere e profonde fonti degli eventi».
    La verità sul motivo per cui oggi praticamente tutti i governi del mondo appoggiano l’estradizione di Assange negli Usa – dopo le rivelazioni di WikiLeaks sulle porcherie elettorali della Clinton, sulle stragi americane in Iraq e Afghanistan o sulle reti di spionaggio della Cia su civili e aziende – non è assolutamente quella che ci raccontano, cioè che WikiLeaks avrebbe irresponsabilmente pubblicato segreti di Stato e di fatto aiutato Trump o l’Isis. Macché: il vero motivo, sottolinea Barnard, è questo: «Il potere rimane forte quando resta nell’oscurità. Una volta esposto alla luce del sole, comincia a evaporare». La frase non è di Barnard, ma dall’insigne politologo americano Samuel Huntington, co-autore del famigerato saggio “La crisi della democrazia” con cui il committente, la Commissione Trilaterale, a metà degli anni Settanta detterà le regole per lo svuotamento delle nostre democrazie. La frase sul potere, che diventa fragile se viene fatto uscire allo scoperto, Huntington l’ha scritta nel libro “American Politics. The promise of disharmony”, uscito nel 1983. «E’ questo il peccato mortale per cui oggi stanno distruggendo Julian Assange», sottolinea Barnard. «E’ solo per questo».
    Nonostante le imprecisioni di cui è responsabile, infatti, «WikiLeaks è l’unica pubblicazione al mondo che davvero ha devastato questo principio di dominio dei poteri, pubblicandone alla luce del sole le azioni più inconfessabili. E lo ha fatto grazie ai “whistleblowers”, e solo grazie a loro». Quindi, insiste Barnard, «se Assange sarà estradato negli Usa – il paese che nel nome della Sicurezza Nazionale (sotto cui sarebbe processato Assange) tortura, stermina innocenti coi “drones”, nega ogni diritto di legge ai detenuti e straccia ogni singola convenzione Onu sui diritti umani – questo direttore di testata sarà macellato come nessun giornalista prima, secondo l’infame principio del “ne ammazzi uno per avvisarne cento”. Impossibile che riceva un giusto processo in America, oggi».
    Inutilmente, Barnard ha fatto appello a tutti gli attivisti fino a ieri schierati con Assange, suggerendo loro di battere due strade di enorme peso, riguardo all’esilio coatto (e precario) del fondatore di Wikileaks. Primo atto d’accusa: la violazione, da parte della Gran Bretagna, dei princìpi della Magna Carta e dell’Habeas Corpus, cioè «i due pilastri della giurisprudenza mondiale, nati 800 anni fa proprio in Inghilterra». Seconda strada: la possibilità di accusare Londra in base alla Convenzione dell’Onu contro la Tortura, ratificata dagli inglesi nel 1987. Il trattato dice esplicitamente dice che tortura è “estrema sofferenza, sia fisica che mentale, inflitta di proposito a un individuo”. Il che è esattamente «ciò che i governi britannici stanno facendo ad Assange da 6 anni, confinato in semi-isolamento, privato di cure mediche, senza luce naturale e sorvegliato con ferocia a ogni mossa». Risposte? Nessuna. Salvo l’onesta e penosa ammissione di Damien Gayle, del “Guardian”: abbiamo paura di essere licenziati, se solo proviamo a riparlare di Assange.
    Era il 2011 quando un parlamentare socialista norvegese, Snorre Valen, osò candidare Julian Assange al Premio Nobel per la Pace: «Wilikeaks – disse – è il paladino della libertà di espressione e della trasparenza nel XXI secolo». Parole oggi improponibili, impensabili. Lo conferma la costernazione di Paolo Barnard, dopo 11 giorni spesi a Londra nella solitaria difesa del “prigioniero”. «Torno a casa – scrive – con la conferma di ciò che ho sempre pensato: ha vinto la Commissione Trilaterale, quando nel 1975 decise che il popolo andava reso “apatico” con l’esplosione dei mass media sia ortodossi che “alternativi” (oggi i social), dove infuriano epiche leggende mentre nessuno davvero fa un cazzo nelle strade perché è fatica e rischio, dove si creano i miti Vip per il palcoscenico, e dove i veri eroi rimangono soli come cani». Ha vinto Huntington, ha perso Assange? Peggio: abbiamo perso tutti, in partenza, se non siamo capaci di muovere un dito per tutelare un campione dell’informazione. Ad Assange, peraltro, lo stesso Barnard non ha mai fatto sconti: certi “leak” possono davvero aver messo in pericolo alcuni esponenti dell’intelligence, violandone la segretezza. In cambio, però, il mondo ha potuto aprire gli occhi su realtà sconvolgenti. Non è strano che l’establishment tenti di soffocare Assange, in modo che la sua punizione sia d’esempio per chiunque altro volesse imitarlo. Lo scandalo vero è il silenzio assordante dell’opinione pubblica, per la quale Assage ha messo in gioco la sua vita.

    Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.

  • Gilet Gialli di tutto l’Occidente, impoveriti dal neoliberismo

    Scritto il 08/12/18 • nella Categoria: idee • (15)

    Dagli anni ’80 in poi è risultato chiaro che c’era un prezzo che le società occidentali avrebbero dovuto pagare per adattarsi a un nuovo modello economico e che tale prezzo consisteva nel sacrificio della classe lavoratrice. Nessuno ha pensato che la ricaduta avrebbe colpito anche il grosso della classe medio-bassa. Ora è ovvio, comunque, che il nuovo modello non ha indebolito solo le fasce proletarie ma la società nel suo insieme. Il paradosso è che questo non è il risultato del fallimento del modello economico globalizzato ma del suo successo. Nelle ultime decadi l’economia francese, come quella dell’Europa e degli Stati Uniti, ha continuato a creare ricchezza. Così siamo mediamente più ricchi. Il problema è che contemporaneamente sono aumentate anche la disoccupazione, l’insicurezza e la povertà. La questione centrale, dunque, non è se un’economia globalizzata sia efficiente ma cosa fare quando questo modello non riesce a creare e sviluppare una società coerente. In Francia, come in tutti i paesi occidentali, si è passati nel giro di poche decadi da un sistema che economicamente, politicamente e culturalmente integrava la maggioranza a una società disomogenea che, pur creando sempre più ricchezza, avvantaggia solo quelli che sono già ricchi.
    Il cambiamento non è dovuto a una cospirazione, a una scelta deliberata di far fuori i poveri, ma a un modello in cui l’occupazione è sempre più polarizzata. Questo si verifica insieme a una nuova geografia: l’occupazione e la ricchezza sono sempre più concentrate nelle grandi città. Le regioni deindustrializzate, le aree rurali, le città di medie e piccole dimensioni sono sempre meno dinamiche. Ma è in questi luoghi – nella Francia periferica (come pure in un’America periferica e in un’Inghilterra periferica) – che vive la maggior parte della classe lavoratrice. Così, per la prima volta, i “lavoratori” non vivono più nelle aree dove si crea l’occupazione, generando uno shock sia sociale che culturale. I “lavoratori” non vivono più nelle aree dove si crea l’occupazione, generando uno shock sia sociale che culturale. E’ in questa Francia periferica che è nato il movimento dei Gilets Jaunes. Come è in queste regioni periferiche che è nato il movimento populista occidentale. L’America periferica ha portato Trump alla Casa Bianca. L’Italia periferica – il Mezzogiorno, le aree rurali e le piccole città industriali del nord – hanno generato l’ondata populista. Questa protesta è condotta dalle classi che nei tempi passati erano il punto di riferimento fondamentale del mondo politico e intellettuale che le ha dimenticate.
    Così se l’aumento del costo del carburante è stata l’occasione per la nascita del movimento dei giubbotti gialli, non ne è stata la causa determinante. La rabbia ha radici più profonde, è il risultato di una recessione economica e culturale che ha avuto inizio negli anni ’80. Nello stesso tempo logiche economiche e territoriali hanno fatto sì che il mondo delle élites si chiudesse in se stesso. Questo isolamento non è solo geografico ma anche intellettuale. Le metropoli globalizzate sono le nuove cittadelle del 21° secolo – ricche e disuguali, dove anche per la vecchia classe media non c’è più posto. Invece, le grandi città globali funzionano su una doppia dinamica: invecchiamento e immigrazione. E’ questo il paradosso: la società aperta si risolve in un mondo sempre più chiuso alla maggioranza dei lavoratori. Il divario economico tra la Francia periferica e le metropoli corrisponde alla separazione fra una élite e il suo entroterra popolare. Le élites occidentali hanno gradualmente dimenticato un popolo che non vedono più. L’impatto dei Gilets Jaunes, e il supporto che trovano nell’opinione pubblica (otto su dieci francesi approvano le loro iniziative), hanno sorpreso i politici, i sindacati e gli intellettuali, come se avessero scoperto una nuova tribù amazzonica.
    La funzione del giubbotto giallo, si rammenti, è quella di rendere visibile sulla strada chi lo indossa. E qualunque sia l’esito del conflitto, i Gilets Jaunes lo hanno vinto sul piano di quello che veramente conta: la guerra della rappresentanza culturale. Gli individui appartenenti alla classe lavoratrice e alla classe medio-bassa sono di nuovo visibili e, accanto a loro, i luoghi in cui vivono. Il loro bisogno è in primo luogo quello di essere rispettati, di non essere più considerati “deplorable”. Michel Sandel è nel giusto quando sottolinea l’incapacità delle élites di prendere in seria considerazione le aspirazioni dei più poveri. Queste aspirazioni in fondo sono semplici: salvaguardia del loro capitale culturale e sociale e salvaguardia del loro lavoro. Perché questo abbia successo bisogna porre fine alla “secessione” delle élites e adattare l’offerta politica della destra e della sinistra alle loro richieste. Questa rivoluzione culturale è un imperativo democratico e sociale – nessun sistema può sopravvivere se non integra la maggioranza dei suoi cittadini più poveri.
    (Christophe Guilluy, “La Francia è profondamente spaccata. I Gilet Gialli sono solo un sintomo”, dal “Guardian” del 2 dicembre 2018; articolo tradotto da Maria Grazia Cappugi per “Come Don Chisciotte”. Guilluy è l’autore di “Twilight of the Elites: Prosperity, Periphery and the Future of France”).

    Dagli anni ’80 in poi è risultato chiaro che c’era un prezzo che le società occidentali avrebbero dovuto pagare per adattarsi a un nuovo modello economico e che tale prezzo consisteva nel sacrificio della classe lavoratrice. Nessuno ha pensato che la ricaduta avrebbe colpito anche il grosso della classe medio-bassa. Ora è ovvio, comunque, che il nuovo modello non ha indebolito solo le fasce proletarie ma la società nel suo insieme. Il paradosso è che questo non è il risultato del fallimento del modello economico globalizzato ma del suo successo. Nelle ultime decadi l’economia francese, come quella dell’Europa e degli Stati Uniti, ha continuato a creare ricchezza. Così siamo mediamente più ricchi. Il problema è che contemporaneamente sono aumentate anche la disoccupazione, l’insicurezza e la povertà. La questione centrale, dunque, non è se un’economia globalizzata sia efficiente ma cosa fare quando questo modello non riesce a creare e sviluppare una società coerente. In Francia, come in tutti i paesi occidentali, si è passati nel giro di poche decadi da un sistema che economicamente, politicamente e culturalmente integrava la maggioranza a una società disomogenea che, pur creando sempre più ricchezza, avvantaggia solo quelli che sono già ricchi.

  • Popolo, non people: democratizzare il globalismo di Davos

    Scritto il 15/11/18 • nella Categoria: idee • (16)

    Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».
    Migliorare la comprensione per pianificare il cambiamento. I risultati della ricerca sociale di orientamento costruttivista e psicoanalitico evidenziano come il comportamento umano sia guidato dai significati condivisi dell’esperienza sociale soggettiva (Blumer 1969, Mead 1934, Berger and Luckmann 1966, Moscovici 1961, Matte Blanco 1975, Carli 1993). Questa prospettiva di analisi dei fenomeni sociali può essere utilizzata per comprendere i fattori culturali alla base dell’azione politica ed economica delle élites globali, che ci ha portato all’attuale stato di crisi sociale, economica ed ambientale. La comprensione di questi significati, infatti, può consentire di identificare possibili efficaci strategie di intervento per indurre un cambiamento mirato dello status quo, orientato a sviluppare una maggiore democrazia nei processi di governance globale, una maggiore giustizia economico-sociale e qualità della vita, volte a rafforzare i processi di convivenza civile a livello globale. Questo tipo di conoscenza orientata all’intervento per il cambiamento, come evidenziato dalla recente letteratura di matrice psicosociologica (Carli e Paniccia 2002), può essere ottenuta attraverso l’analisi dei discorsi socialmente prodotti intorno a temi di rilevanza collettiva, come in questo caso quello della globalizzazione, considerabile come il comune orizzonte di senso (weltanschauung) che guida l’azione sociale nel mondo di oggi. Sulla base di questi presupposti, ho condotto un’analisi del discorso sulla globalizzazione del World Economic Forum.
    L’immagine della globalizzazione. La rappresentazione della globalizzazione nell’élite di Davos che emerge da questa ricerca non appare univoca e monolitica, ma piuttosto composta da quattro differenti dimensioni culturali corrispondenti ai raggruppamenti (cluster) di parole dense ottenuti attraverso l’analisi statistica dei testi in esame. La prima dimensione è caratterizzata dai seguenti elementi: una rappresentazione negativa dell’altro da sé come una massa anonima di persone che agisce esclusivamente sulla base di fattori emotivi, invece che razionali, sulla base di parole dense quali people e believe; la proposizione di tre principali frame simbolici per l’attribuzione di significato alle esperienze di vita nell’era della globalizzazione, espressi dalle parole dense world, time e growth; l’impatto concreto che la globalizzazione ha sulla vita delle persone e soprattutto su quella dei giovani (in relazione a parole dense quali impact e young people); una forma di pensiero basata sul determinismo genetico e una conoscenza pragmatica orientata a prendere possesso della realtà attraverso la tecnologia (sulla base di parole dense quali engineer, think, history, ready, accelerate, life, industry).
    La seconda dimensione ruota attorno ai seguenti tre aspetti: la speranza messianica nella dimensione della grandezza o grandiosità, espresse dalle parole dense big e hope, in relazione ad istituzioni finanziarie internazionali quali l’African Development Bank e l’International Monetary Fund); la dinamica di dipendenza che queste istituzioni istituiscono con i loro interlocutori, in funzione di un obbligo a pagare (in termini di “condizionalità” ed interessi per restituire i prestiti ricevuti) che appare quasi come un dono riparatore volto a placarne le possibili ritorsioni, rappresentate dalla minaccia dell’inflazione e dell’imposizione di condizioni di vita al limite della sopravvivenza (l’austerity), che tengono costantemente sotto pressione i paesi europei (in relazione a parole dense quali stress, European countries, inflation, growth, strong, pay, price, Greece, shock); il predominio del fattore economico nella definizione delle politiche pubbliche, secondo i dogmi del libero mercato e del vantaggio personale (relativi a parole dense come policy, interest, Gdp, economy).
    La terza dimensione è focalizzata sui seguenti cinque punti: il perseguimento del rafforzamento della capacità di fornire, investire e gestire budget e fondi (relativo a parole dense come strengthen, invest, budget, fund, manage, provide); una visione distorta della competizione, basata sulla ricerca di condizioni di privilegio per battere i propri concorrenti attraverso l’eliminazione di ogni costrizione alla propria espansione, quali ad esempio le tasse, vissute come un’imposizione autoritaria che limita la soddisfazione dei propri bisogni (legata alle parole dense competition, advantage, need, tax); la conseguente esigenza di sviluppare un ordine sociale basato su un’idea di libertà concepita come assenza di restrizioni alla continua espansione e sviluppo di potere delle élites, ai danni però dei suoi interlocutori, rappresentati ad esempio da lavoratori posti in condizioni di sempre maggiore precariato (espressa dalle parole dense freedom, forecast, rule, boost, employee); l’importanza chiave degli strumenti cognitivi riguardo a capacità come percepire, riconoscere, distinguere, scegliere e stabilire, nel perseguimento di questo ideale di successo (relativi alle parole dense know, crisis, solve).
    La quarta dimensione comprende i seguenti elementi fondamentali: il ruolo delle istituzioni finanziarie sovranazionali (esemplificate in questo caso dall’InterAmerican Development Bank Group) nella creazione di un nuovo tipo di colonialismo attraverso la pratica degli aiuti allo sviluppo, che di fatto si traduce in uno scambio tra la condizione di sicurezza (psicologica, oltre che economica) fornita ai paesi beneficiari (qui esemplificati dalla parola densa Latin America & Caribbean) mediante i finanziamenti e la graduale espropriazione del potere politico ed economico di questi ultimi, che li pone in una condizione di dipendenza e sudditanza (sempre psicologica, oltre che economica) nei confronti dei propri finanziatori (in relazione alle parole dense sure, respect, establish, make decisions, benefit); gli effetti di schemi di finanziamento innovativi, come l’impact investment, che pur essendo mirati a generare benefici sociali (insieme ai rendimenti finanziari), diventano di fatto un modo per impossessarsi degli ultimi campi di intervento pubblico restanti quali il welfare, la salute, l’istruzione e l’energia (relativi alle parole dense impact-investors, tool, investor, finance, impact-investing); la necessità di integrare i paesi beneficiari degli aiuti allo sviluppo nel mito di fare soldi nelle loro regioni, che però potrebbe anche essere letto come fare soldi delle/o attraverso le loro regioni (rispetto alle parole dense making money e Region); la tendenza ad interfacciarsi esclusivamente con l’élite imprenditoriale di questi paesi, quale strategia efficace per perseguire i propri obiettivi e tenersi al riparo dal rischio di crisi (espressa dalle parole dense vis à vis, Ceo, seek, approve, full, completely).
    La cultura dell’élite di Davos: tra pretesa e adempimento. La caratteristica centrale della cultura della globalizzazione dell’élite di Davos emersa da questa analisi è la carenza di democrazia nei processi decisionali, sia a livello relazionale che organizzativo. A livello relazionale, questo è espresso da specifici modelli di dinamiche intersoggettive emozionali e motivazionali. Le prime si caratterizzano per i seguenti elementi: la provocazione rappresentata dalla pretesa di imporre una visione dogmatica della realtà, il controllo dell’adempimento degli obblighi che ne derivano, la sfiducia verso l’altro da sé (per la sua connotazione negativa ed il rischio di mancato rimborso dei finanziamenti ricevuti), la preoccupazione e la lamentela contro i limiti. Queste dinamiche emozionali rivelano un approccio alle relazioni sociali orientate al possesso dell’altro piuttosto che a uno scambio produttivo e creativo con lui, che può essere letto come espressione della paura nei confronti dell’altro e della sua ignota imprevedibilità, derivante dalla sua rappresentazione come nemico. Ciò porta alla tendenza di tentare di trasformare l’altro sconosciuto in un amico noto, dato per scontato e assimilato alle proprie categorie, nel tentativo di eliminare la sua imprevedibilità ed il rischio delle sue possibili manifestazioni di ostilità.
    Ciò, tuttavia, implica inevitabilmente la negazione delle differenze e la perdita delle opportunità che esse offrono. Lo schema motivazionale risulta caratterizzato dalla prevalenza del bisogno di potere come motivazione sociale dominante, articolata in tre dimensioni: un modello gerarchico che contrappone l’élite ai suoi interlocutori, la dimensione di grandiosità a chi spera in essa, gli amministratori delegati ai lavoratori, i finanziatori ai beneficiari dei finanziamenti; una dinamica polarizzata di appartenenza/esclusione dal sistema di potere, basata sulla dipendenza affettiva verso l’altro (espressione del bisogno motivazionale di affiliazione nel modello di Mc Clelland), indotta dalla logica del sostegno finanziario ai programmi di sviluppo; ed una dinamica manipolativa basata sulla contrapposizione tra apparenza e realtà, come evidenziato dal contrasto tra l’immagine positiva delle politiche di assistenza allo sviluppo e l’espropriazione del potere politico ed economico locale prodotto dalla sua logica esclusivamente finanziaria.
    Per quanto riguarda il livello organizzativo, la carenza di democrazia è espressa da una concezione dogmatica e aprioristica delle istituzioni finanziarie internazionali, radicata in una dimensione mitica che le fa percepire come immutabili e poco inclini al cambiamento e al miglioramento. Il funzionamento di queste organizzazioni appare infatti basato quasi esclusivamente su un mandato sociale legato al rispetto di sistemi di valori socialmente fondati, conformi ai loro fini, e su una funzione sostitutiva nella fornitura dei loro servizi (aiuto allo sviluppo e gestione delle crisi del debito sovrano), legata alla dimensione fortemente tecnocratica che le caratterizza, in virtù della quale i tecnici (gli esperti) si sostituiscono agli utenti dei loro servizi, espropriandoli del loro potere decisionale. In tal modo, queste organizzazioni operano senza una vera committenza da parte dei loro beneficiari e quindi non rispondono né sembrano ritenersi responsabili delle esigenze, aspettative e obiettivi di questi ultimi, né dell’efficacia dei servizi ad essi forniti.
    Cosa è possibile fare per cambiare questo stato di cose? Sulla base di queste considerazioni, possono essere ipotizzate diverse strategie di intervento per mutare lo scenario sin qui evidenziato. L’implementazione di queste strategie richiede tuttavia un coinvolgimento attivo e responsabile di tutti gli interlocutori delle élites globali. L’obiettivo principale legato alla dimensione relazionale concerne la definizione e la messa in atto, in maniera partecipativa, di nuove regole di gioco per la convivenza sociale che consentano di contenere le possibili manifestazioni di ostilità entro la relazione tra sistemi di appartenenza e l’ignota alterità dell’estraneo. Questo richiede di configurare l’altro non più come nemico o amico noto, ma come amico sconosciuto, da conoscere in una relazione di scambio reciproco, producendo creativamente insieme per il bene comune. Questo modello di relazioni sociali permette di liberare il proprio potere creativo (potere del fare), evitando il rischio di trasformare la propria eventuale impotenza creativa e produttiva in forme di potere su qualcuno o qualcosa (inteso come una forma di possesso).
    Per quanto riguarda la motivazione al potere, il passaggio da un modello relazionale basato sul potere sull’altro a quello caratterizzato dallo scambio produttivo con lui, consente di aggirare il modello gerarchico di relazione, dirigendo l’attenzione su obiettivi e prodotti del rapporto con l’altro e sullo sviluppo delle competenze necessarie per perseguirli in modo efficace. Di conseguenza, anche la dinamica dell’appartenenza, radicata nelle emozioni del potere e dell’appartenenza, può cambiare, passando dal modello del possesso dell’altro a quello dello scambio con l’altro. In tal modo, superando il possesso dell’altro come espressione dominante del potere, si possono anche contrastare le forme manipolative del potere (come le attuali forme di assistenza allo sviluppo che portano all’esproprio del potere locale), poiché il potere viene indirizzato verso una più creativa costruzione del bene comune. A livello organizzativo, l’obiettivo principale del miglioramento riguarda il passaggio da una logica di azione basata sull’adempimento ad una orientata ad obiettivi e prodotti concordati, considerati come mezzi di verifica dell’efficacia dell’azione sociale. Ciò consentirebbe di passare da una modalità organizzativa interamente basata sulla legittimazione sociale ad una guidata dalla committenza di prodotti e servizi verificabili da parte dei loro destinatari, in base alle loro esigenze e ai loro obiettivi.
    Di conseguenza, i destinatari potrebbero aumentare il loro ruolo attivo nella relazione con la funzione tecnica, che quindi potrebbe essere orientata ad integrare il loro potere decisionale, facilitando lo sviluppo delle loro competenze nel raggiungimento autonomo dei propri obiettivi. Questo richiede la messa in discussione, in modo sempre più dialettico e argomentativo, del dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite e di lavorare sulla definizione e l’attuazione di ipotesi e modelli alternativi, ad esempio volti a re-inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto da Polanyi (1944) e Granovetter (1985). Per promuovere questo processo di cambiamento della cultura organizzativa dell’élite di Davos, è necessario, ad esempio, che i beneficiari delle istituzioni finanziarie internazionali cambino il loro atteggiamento nei confronti di queste organizzazioni, proponendosi come committenti che richiedono loro servizi, sulla base di specifiche esigenze, obiettivi e prodotti attesi. Questi ultimi rappresentano, infatti, i mezzi di verifica per valutare l’efficacia di queste organizzazioni nel realizzare gli obiettivi proposti e promuovere il cambiamento ed il miglioramento delle loro modalità di funzionamento.
    La precondizione per procedere efficacemente in questa direzione è il cambiamento dell’immagine sociale degli interlocutori dell’élite, superando la connotazione negativa ad essi attribuita dall’élite con la parola densa people, (etimologicamente riconducibile all’idea della classe infima della popolazione), attraverso il recupero del senso della parola greca démos, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici di governo (in termini sia di democrazia partecipativa che rappresentativa), in una prospettiva di costruzione collettiva e condivisa del futuro comune. Ciò comporta il recupero del senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa. Il perseguimento di questo processo di trasformazione culturale richiede lo sviluppo di competenze specifiche, orientate allo sviluppo di una cittadinanza attiva e consapevole; il che può diventare anche l’obiettivo e il prodotto su cui ricostruire il senso dello scopo sociale dell’educazione pubblica e della sua efficacia produttiva.
    (Mario D’Andreta, “L’immagine della globalizzazione dell’élite di Davos: conoscere per intervenire”, da “Libreidee” del ….. . Nel suo blog, D’Andreta propone alcune riflessioni intorno ai temi della convivenza sociale, dello sviluppo locale, della globalizzazione, del benessere psicosociale e di ecologia acustica. Può essere contattato alla mail mario.dandreta@libero.it).
    https://mariodandreta.net/
    Riferimenti bibliografici per lo studio su Davos:
    Berger, P. L. and T. Luckmann (1966), The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Garden City, NY: Anchor Books
    Blumer, Herbert. (1969), Symbolic Interactionism; Perspective and Method. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall Print.
    Carli, R. (1993) (a cura di), L’analisi della domanda in psicologia clinica, Giuffré, Milano
    Carli, R., & Paniccia, R. M. (2002). L’Analisi Emozionale del Testo. Milano: Franco Angeli.
    Granovetter, M. (1985). Economic Action and Social Structure: The Problem of Embeddedness. American Journal of Sociology. 91 (3): 481–510.
    Matte Blanco, I. (1975) The Unconscious as Infinite Sets. London: Karmac
    McClelland, D.C. (1987). Human motivation. New York: University of Cambridge
    Mead, George H. (1934). Mind, Self, and Society. The University of Chicago Press
    Moscovici, S. (1961). La psychanalyse, son image et son public. Paris: Presses Universitaires de France.
    Polanyi, K. (1944). The Great Transformation. New York: Farrar & Rinehart
    Transnational Institute (2015), Who are the Davos class? Disponibile all’indirizzo http://davosclass.tni.org, ultimo accesso dicembre 2015

    Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».

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