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Archivio del Tag ‘Sicilia’

  • Il giovane Renzi e l’idea (geniale) del Ponte sullo Stretto

    Scritto il 24/11/15 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.
    «Tre anni fa il futuro premier bocciava il Ponte sullo Stretto, auspicando che quella montagna di denaro pubblico necessaria – 8 miliardi di euro – fosse indirizzata piuttosto a realizzare nuove scuole e a migliorare quelle esistenti», ricordano Fabio Granata, Anna Donati e Annalisa Corrado, esponenti di “Green Italia”, che in un post ripreso da “Il Cambiamento” condannano questa «spericolata inversione a U», augurandosi che l’uscita di Renzi sia solo «la sua ennesima promessa non mantenuta». Gli italiani, del resto, «credevano che quello del Ponte fosse un capitolo chiuso, perché di fronte ad un paese costantemente piegato dal dissesto idrogeologico, con infrastrutture che collassano per il maltempo e situazioni come quelle di Messina senz’acqua potabile, indegne di un paese civile, anche solo parlare di Ponte sullo Stretto è uno schiaffo alla realtà». Già, la realtà: «E’ quella dei cittadini dell’Aquila ancora sfollati, quelli della Liguria che passano da un’alluvione con smottamenti e morti a un piano-casa tutto cemento, o il popolo inquinato di Taranto e di Crotone». Allegria: «Dopo le trivelle, gli inceneritori, le autostrade, mancava solo il Ponte assurto a ‘nuovo simbolo per l’Italia’ per dimostrare che il premier crede che le ricette da boom economico degli anni ‘60 siano ancora attuali, mentre c’è un mondo che va in un’altra direzione».
    «Di straordinario – ricorda Leandro Janni, presidente siciliano di Italia Nostra – il ponte sullo Stretto di Messina ha solo il tempo e i soldi sprecati per un’opera insostenibile dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico». Il progetto definitivo, elaborato da Eurolink SpA, è considerato talmente lacunoso dalla Commissione di valutazione di impatto ambientale da far avanzare la richiesta, il 10 novembre 2011, di ben 223 integrazioni su tutti gli aspetti nodali (strutturali, trasportistici, economico-finanziari, geologici, idrogeologici, naturalistici, paesaggistici, relativi alle emissioni atmosferiche, ai rumori e alle vibrazioni), a cui Eurolink non è ancora riuscita rispondere esaurientemente. Sconcertante, se si pensa che da oltre 10 anni la cattiva politica – cui ora si associa il “giovane” Renzi – vorrebbe costruire, «in una delle aree a più alto elevato rischio sismico del Mediterraneo, un ponte sospeso, ad unica campata di 3,3 km di lunghezza, sorretto da torri di circa 400 metri di altezza, a doppio impalcato stradale e ferroviario». Oggi il ponte più lungo al mondo, il Minami Bisan-Seto in Giappone, è lungo un terzo di quello progettato per Messina.
    Si tratta di un’opera che ad oggi verrebbe a costare 8,5 miliardi di euro, continua il “Cambiamento”: oltre mezzo punto di Pil, e senza un piano economico-finanziario che ne dimostri la redditività e l’utilità. Impietoso il dossier dei prestigiosi tecnici italiani ingaggiati dagli ambientalisti per “smontare” il disastroso progetto di Eurolink. Primo problema, il terremoto: viene garantita l’invulnerabilità del manufatto solo per eventi sismici fino a 7,1 Richter, escludendo quindi «in maniera ascientifica» che ci possa essere un sisma di maggiore energia in una zona di rischio molto elevato. Inoltre, nel calcolo dei materiali da scavo viene dimenticato il conteggio di 3,5 milioni di metri cubi di terreno estratto o movimentato. Sos ambiente: non è stata ancora elaborata una valutazione di incidenza credibile sullo Stretto di Messina, area di pregio naturalistico teoricamente a tutela europea. L’ultimo progetto, poi, considera “trascurabili” le modifiche apportate: un incremento di 17 metri dell’altezza delle torri, che arriverebbero a quota 400 metri, per sollevare l’impalcato sino ad 80 metri sul livello del mare. Poi lo spostamento della torre sul lato della Calabria, la variazione del tipo d’acciaio e quindi il peso delle funi e delle strutture portanti, e infine il cambiamento dell’altezza dell’impalcato del viadotto Pantano, lato Sicilia.
    Non è tutto. «Sono state presentate analisi trasportistiche insufficienti ed elaborati progettuali incompleti – aggiungono gli ambientalisti – da cui emerge che a 25 anni dalla realizzazione dell’opera ponte si registrerebbe un traffico pari a 11,6 milioni di auto all’anno per un’infrastruttura dimensionata per 105 milioni di auto l’anno, con un grado di utilizzo, quindi, dell’11% circa». Mostruoso, super-costoso e super-inutile: bravo Renzi. Non fa che aggiungere malinconia e desolazione l’esame dell’équipe tecnica che ha “fatto le pulci” all’improbabile progetto Eurolink. Tra gli oltre 30 esperti che hanno lavorato con le associazioni ambientaliste, scrive il “Cambiamento”, fra gli specialisti dell’università di Messina troviamo Emilio Di Domenico (oceanografia biologica), Gaetano Gargiulo (botanica), Lucrezia Genovese (Cnr), Salvatore Giacobbe (ecologia). Poi Domenico Gattuso (ingegneria, Reggio Calabria), i geologi Giuseppe Gisotti, Alessandro Guerricchio e Gioacchino Lena.
    Ci sono tecnici come Piero Polimeni, ingegnere pianificatore, esperto di cooperazione e sviluppo locale; Guido Signorino, professore ordinario del dipartimento economia, statistica e sociologia dell’Università di Messina. E poi Stefano Sylos Labini, ricercatore dell’Enea e geologo come Carlo Tansi (Università della Calabria). Non manca il geologo più famoso d’Italia, il conduttore televisivo Mario Tozzi. E ci sono specialisti come il professor Vincenzo Vacante (agraria, Reggio), l’ingegner Claudio Villari, un urbanista come il professor Alberto Ziparo dell’ateneo di Firenze. «Serve altro?», si domanda “Il Cambiamento”. Sì, certo: tanto per cominciare servirebbe un altro premier, magari regolarmente eletto. E poi un’altra Italia, in cui a nessuno verrebbe in mente di proporre opere demenziali e succulente per il sistema mafioso degli appalti, dalla linea Tav Torino-Lione al suo gemello mediterraneo, l’inaffondabile Ponte sullo Stretto.

    Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.

  • Battiato rivelato: nei suoi testi, precisi messaggi esoterici

    Scritto il 11/10/15 • nella Categoria: Recensioni • (2)

    Cosa vogliono dire i testi delle canzoni di Franco Battiato? «Negli anni, nei decenni, in moltissimi si sono posti questa domanda, spesso però senza venirne a capo». Sul “Fatto Quotidiano”, Fabrizio Basciano svela, a puntate, alcuni dei riferimenti filosofico-letterari fondamentali per comprendere frasi o interi periodi di alcuni brani, altrimenti indecifrabili del grande cantautore siciliano. La ricerca parte da “L’era del Cinghiale Bianco”, disco del 1979. Nel brano che dà il nome all’album, «si fa riferimento a un periodo storico leggendario, a un’età dell’oro degli antichi popoli celti di periodo pre-romano: l’era della conoscenza spirituale incarnata dal suo stesso simbolo, il cinghiale bianco». Nello stesso disco, nel brano “Magic shop”, ascoltiamo le parole “una signora vende corpi astrali”. Di che si tratta? «Non senza una certa ironia e denunciando al contempo un consumismo irto di contraddizioni, Battiato tira in ballo il corpo astrale», ossia, secondo Georges Ivanovic Gurdjieff, un corpo “composto da elementi del mondo planetario” che “può sopravvivere alla morte del corpo fisico”. «Insomma, una sorta di secondo corpo (l’anima) in una scala che contempla il corpo fisico, quello astrale, quello mentale e, infine, il corpo causale».
    Andando ancora oltre, è il brano numero cinque de “L’Era del Cinghiale Bianco” a celare, dietro al suo stesso titolo, un intero mondo letterario: quello di René Guénon e del suo libro “Il Re del Mondo”, che dà il titolo al brano in questione. Chi è questo fantomatico ‘Re del Mondo’ che nel brano di Battiato “ci tiene prigioniero il cuore”? Come leggiamo nell’omonimo libro dell’esoterista francese, scrive Basciano, il titolo di ‘Re del Mondo’ serve a “designare il capo della gerarchia iniziatica”, ruolo attribuito propriamente a Manu, “il legislatore primordiale e universale il cui nome si ritrova, sotto forme diverse, presso numerosi popoli antichi, per esempio il Mina o Menes degli Egizi, il Menew dei Celti e il Minosse dei Greci”. Nel disco seguente, “Patriots”, uscito nel 1980, i messaggi in codice si infittiscono «facendosi tuttavia più sottili, meno espliciti», osserva Basciano. Il brano “Prospettiva Nevski” si chiude con la frase: “E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”. Per chi, come Battiato, crede nella reincarnazione, «potrebbe indicare la possibilità di una nuova vita oltre la morte, una nuova esistenza a cui solo la morte, se e solo se adeguatamente preparata, può traghettare».
    Nel brano “Arabian song”, il cantautore siciliano intona una sorta di frase in codice: “La mia parte assente si identificava con l’umidità”. Quello a cui Battiato si riferisce, spiega Basciano, è il concetto di “identificazione”, colonna portante di tutta la psicologia e l’insegnamento gurdieffiani: “L’uomo – come si legge nel libro “Frammenti di un insegnamento sconosciuto” di Piotr Demianovic Ouspensky – è sempre in stato di identificazione, ciò che cambia è solo l’oggetto della sua identificazione. L’uomo si identifica con un piccolo problema che trova sul suo cammino e dimentica completamente i grandi scopi che si proponeva. Si identifica con una emozione, con un rumore, e dimentica gli altri suoi sentimenti più profondi”. Del brano “Frammenti” è invece la frase “che gran comodità le segretarie che parlano più lingue”. La segretaria, annota Basciano, è una delle figure-chiave degli insegnamenti della “Quarta Via” di Gurdjieff. «La segretaria, o anche dattilografa, è quella figura che Gurdjieff utilizza per descrivere l’“apparato formatore”, una parte dell’essere umano che il filosofo armeno paragona a un ufficio».
    «L’ufficio è il nostro apparato formatore, mentre la segretaria è la nostra educazione, con le sue concezioni automatiche, le sue formule ristrette, con le teorie e le opinioni che si sono formate in noi», scrive Gurdjieff. «Da questa ristrettezza di formule e opinioni, la necessità di una segretaria che parli più lingue, in grado cioè di recepire e codificare meglio e più velocemente tutti gli stimoli e le sollecitazioni provenienti tanto dall’esterno quanto dal nostro mondo interiore», sintetizza Basciano, che nella sua indagine su Battiato prosegue con l’analisi dei due album successivi, “La voce del padrone” (1981) e “L’Arca di Noé” (1982). Già a partire dal titolo, scrive il blogger del “Fatto”, “La voce del padrone” cela un significato esoterico: «Secondo un insegnamento antico – afferma Ouspensky in “Frammenti di un insegnamento sconosciuto” – un uomo nel pieno senso della parola è composto di quattro corpi. Nel linguaggio figurato di certi insegnamenti orientali, il primo è la carrozza (corpo), il secondo è il cavallo (sentimenti, desideri), il terzo è il cocchiere (pensiero) e il quarto è il padrone (Io, coscienza, volontà). La carrozza è attaccata al cavallo per mezzo delle stanghe, il cavallo al cocchiere per mezzo delle redini, il cocchiere al suo padrone per mezzo della voce di lui».
    Annino La Posta, nel volume “Franco Battiato, soprattutto il silenzio” (Giunti), commenta così il passo di Ouspensky: «Eccola, più probabilmente, la voce del padrone: quella della coscienza, che il pensiero dell’uomo sveglio, teorizzato da Gurdjieff, deve saper ascoltare. E pensare che c’è chi parla di nonsense!». Andando oltre, sempre in questo disco del 1981, nel brano “Segnali di vita”, Basciano rileva ben due periodi che fanno riferimento a precisi concetti della filosofia gurdjieffiana. Il primo è questo: “Si sente il bisogno di una propria evoluzione, sganciata dalle regole comuni, da questa falsa personalità”. Battiato, ai tempi frequentatore dei gruppi gurdjieffiani, si riferisce qui al binomio essenza e personalità, che Ouspensky tratta diffusamente nel libro “L’evoluzione interiore dell’uomo” (Mediterranee): «È impossibile studiare l’uomo come un tutto, perché è diviso in due parti. Nel sistema che noi studiamo queste due parti sono chiamate essenza e personalità. L’essenza è un bene che gli è proprio; è ciò che gli appartiene. La personalità è ciò che non gli appartiene. Di regola l’essenza dovrebbe dominare la personalità. Il dominio della personalità sull’essenza produce i risultati peggiori».
    L’altro messaggio criptato del brano “Segnali di vita” è il seguente: “Ti accorgi di come vola bassa la mia mente? È colpa dei pensieri associativi se non riesco a stare adesso qui”. L’idea del pensiero automatico, o appunto associativo, pregna tutta la psicologia gurdjieffiana, collegandosi direttamente al concetto di presenza: la possibilità di essere qui e ora, liberi dalla prigionia del pensiero associativo e automatico. Ma il brano che più di ogni altro rivela la “filiazione gurdjieffiana” di Battiato, aggiunge Basciano, è “Centro di gravità permanente”. «Questo insegnamento – spiega sempre Ouspensky – suddivide l’uomo in sette categorie. L’uomo n. 4 differisce dall’uomo n. 1, 2 e 3 per la conoscenza di se stesso, per la comprensione della propria situazione e per il fatto di aver acquisito un centro di gravità permanente». Sorprendente pensare che proprio “La voce del padrone”, un album così profondamente ermetico, fu il primo in Italia a superare il milione di copie vendute, osserva Basciano.
    Quanto all’album immediatamente successivo, “L’Arca di Noè”, nel brano “Clamori” si ascolta il seguente verso: “Il mondo è piccolo, il mondo è grande, e avrei bisogno di tonnellate d’idrogeno”. Sempre in seno all’insegnamento gurdjieffiano, l’idrogeno è uno degli elementi più importanti per l’evoluzione interiore dell’uomo: «Se prendiamo il Raggio di Creazione – si legge nel libro “La Quarta Via” (Astrolabio, 1974) – diviso in quattro triadi e teniamo presente che la somma totale di ciascuna triade è un idrogeno preciso, otterremo quattro idrogeni e quattro precise densità di materia». Gli idrogeni, secondo Gurdjieff, sono quelle sostanze che servono da nutrimento per la coscienza dell’essere umano, e il cui accumulo (da qui le tonnellate d’idrogeno auspicate da Battiato) consentirebbe lo sviluppo, la realizzazione, dei cosiddetti centri superiori. Superfluo, a questo punto, soffermarsi sul periodo contenuto nel brano “New frontiers”: “L’evoluzione sociale non serve al popolo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero”.
    La produzione pop di Franco Battiato, sottolinea Basciano, è interamente attraversata da continui richiami a culture e tradizioni religiose, mistiche ed esoteriche. «Il cantautore e compositore siciliano ha sistematicamente disseminato i suoi testi di sollecitazioni letterarie e sapienziali senza mai tuttavia uscire troppo allo scoperto, tanto da presupporre una certa conoscenza delle materie di volta in volta oggetto del suo interesse». Vale anche per due dischi usciti sempre negli anni ‘80, “Orizzonti perduti” (1983) e “Mondi lontanissimi” (1985). Nel brano “Un’altra vita”, quarto in scaletta dell’album “Orizzonti perduti”, il riferimento (esplicito) è alla pratica della meditazione quando, ad apertura di brano, l’autore de “La Cura” intona: “Certe notti per dormire mi metto a leggere, e invece avrei bisogno di attimi di silenzio”. «Come ha infatti più volte dichiarato pubblicamente – scrive Basciano – la sua giornata, da diverse decadi a questa parte, è sempre scandita da ben due meditazioni, una al mattino e l’altra all’imbrunire: una ricerca del silenzio senza la quale Battiato afferma che non riuscirebbe più a vivere».
    Sempre in “Orizzonti perduti”, nel brano “La musica è stanca”, ascoltiamo: “In quest’epoca di scarsa intelligenza ed alta involuzione qualche scemo crede ancora che veniamo dalle scimmie”. Qui l’autore fa riferimento a un approccio decisamente alternativo al tema delle origini e della possibile evoluzione dell’umanità, che trova sempre in Ouspensky, e dunque in Gurdjieff, il proprio mentore: «Devo dire subito – recita Ouspensky in “L’Evoluzione interiore dell’uomo” – che le concezioni moderne sull’origine dell’uomo e sulla sua evoluzione passata non possono essere accettate». Considerando l’umanità “storica”, ossia quella degli ultimi dieci o quindicimila anni, «possiamo trovare tracce incontestabili di un tipo di uomo superiore, la cui presenza può essere dimostrata da molteplici testimonianze». Il viaggio cifrato continua in “Mondi lontanissimi”. Nel primo brano, “Via Lattea”, ascoltiamo le parole: “Seguimmo certe rotte in diagonale dentro la Via Lattea”. «Questo delle rotte in diagonale è tema tanto caro a Battiato (che infatti lo riprenderà anche diversi anni dopo nel brano “Running against the grain” dell’album “Ferro Battuto”) quanto a tutto il mondo esoterico, e ha a che fare con le cosiddette griglie rappresentazionali, una sorta di tessuto sperimentale formato dall’interconnessione d’idee, valori e obiettivi, una “scacchiera” che può essere percorsa sia per vie orizzontali e verticali (espressioni di un pensiero lineare e metodico), che per vie, appunto, diagonali, seguendo le quali si manifesta lo spazio creativo».
    Nel brano “Chan-son egocentrique”, Battiato canta: “Dalla pupilla viziosa delle nuvole la luna scende i gradini di grattacieli per prendermi la vita”. Come mai la luna vuol prendersi la vita di Battiato? Sia secondo Gurdjieff che secondo miriadi di culture e tradizioni varie, spiega Basciano, la luna eserciterebbe un influsso negativo. In un’intervista, lo stesso Battiato la definisce «nefasto satellite, che non vedo l’ora si allontani definitivamente dalla terra». Per Ouspensky è «un pianeta allo stato nascente, al suo primissimo stadio di sviluppo», ma è anche un satellite che «dalla terra riceve l’energia necessaria alla sua crescita». Tradotto: «La vita organica alimenta la Luna. Tutto ciò che vive sulla superficie della terra, uomini, animali, piante, serve di nutrimento alla luna. Tutti gli esseri viventi liberano, nell’istante della loro morte, una certa quantità dell’energia che li ha animati. Questa energia viene attirata verso la luna come da una colossale elettrocalamita».

    Cosa vogliono dire i testi delle canzoni di Franco Battiato? «Negli anni, nei decenni, in moltissimi si sono posti questa domanda, spesso però senza venirne a capo». Sul “Fatto Quotidiano”, Fabrizio Basciano svela, a puntate, alcuni dei riferimenti filosofico-letterari fondamentali per comprendere frasi o interi periodi di alcuni brani, altrimenti indecifrabili del grande cantautore siciliano. La ricerca parte da “L’era del Cinghiale Bianco”, disco del 1979. Nel brano che dà il nome all’album, «si fa riferimento a un periodo storico leggendario, a un’età dell’oro degli antichi popoli celti di periodo pre-romano: l’era della conoscenza spirituale incarnata dal suo stesso simbolo, il cinghiale bianco». Nello stesso disco, nel brano “Magic shop”, ascoltiamo le parole “una signora vende corpi astrali”. Di che si tratta? «Non senza una certa ironia e denunciando al contempo un consumismo irto di contraddizioni, Battiato tira in ballo il corpo astrale», ossia, secondo Georges Ivanovic Gurdjieff, un corpo “composto da elementi del mondo planetario” che “può sopravvivere alla morte del corpo fisico”. «Insomma, una sorta di secondo corpo (l’anima) in una scala che contempla il corpo fisico, quello astrale, quello mentale e, infine, il corpo causale».

  • Caos migranti, il piano Soros-Cia per destabilizzare l’Europa

    Scritto il 30/9/15 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Proprio come le forze oscure della miliardaria rete di organizzazioni non governative della Central Intelligence Agency degli Stati Uniti e di George Soros, che complottarono per destabilizzare Medio Oriente e Nord Africa attraverso l’uso dei social media, realizzando la cosiddetta “primavera araba”, tali forze hanno aperto un nuovo capitolo sulla disfunzionalità globale facilitando il flusso di rifugiati e migranti economici da Medio Oriente, Asia e Africa all’Europa. Nel marzo 2011, il leader libico Muhammar Gheddafi predisse cosa sarebbe accaduto all’Europa se la stabilità del suo paese veniva minata dalle potenze occidentali. In un’intervista a “France 24”, Gheddafi predisse correttamente: «Ci sono milioni di neri che potrebbero attraversare il Mediterraneo per la Francia e l’Italia, e la Libia svolge un ruolo nella sicurezza nel Mediterraneo». Il figlio di Gheddafi, Sayf al-Islam Gheddafi, condannato a morte dal regime radicale che governa Tripoli, fece eco ai commenti del padre nella stessa intervista al notiziario francese. Sayf disse: «La Libia può diventare la Somalia del Nord Africa, del Mediterraneo. Vedrete i pirati in Sicilia, a Creta, a Lampedusa. Vedrete milioni di immigrati clandestini. Il terrore sarà vicino».
    Come si è visto nei recenti avvenimenti, Sayf aveva proprio ragione. Infatti, per l’Europa, il terrore è letteralmente a fianco. Si stima che ben 4.000 jihadisti veterani degli olocausti terroristici in Siria, Iraq e Yemen, abbiano approfittato dell’assenza dei controlli sulle frontiere di Schengen dell’Unione europea per entrare o ritornare in Europa. Molti giovani “migranti” hanno iPhone, bancomat, diversi passaporti e molto contante, difficilmente ciò che ci si aspetta di trovare in possesso di veri profughi di guerra. Non solo gli africani hanno inondato l’Europa meridionale dopo aver attraversato in modo periglioso il Nord Africa, tra cui la Libia, ma i profughi siriani, per lo più creati dal trasferimento massiccio occidentale ai jihadisti siriani di armi catturate in Libia dopo il rovesciamento di Gheddafi, innescando la sanguinosa guerra civile siriana, fluiscono via mare e via terra nel cuore dell’Europa. Soros, che non è altro che un frontman miliardario dell’ancor più ricca famiglia di banchieri Rothschild dell’Europa occidentale, ha supervisionato la completa distruzione degli Stati nazionali nell’Europa sud-orientale, che oggi consentono l’accesso incondizionato dei migranti economici e dalla guerra civile da Siria, Iraq, Nord Africa, Africa sub-sahariana, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Birmania, Sri Lanka e altre nazioni del Terzo Mondo devastate da guerra e povertà.
    Risultato dei programmi di reingegnerizzazione delle nazioni, Soros prima ha contribuito a distruggere la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, con l’aiuto attivo dell’Unione Europea e della Nato. Le sette repubbliche indipendenti che una volta costituivano la Jugoslavia, ora sono le principali vie di transito per decine di migliaia e prossimi centinaia di migliaia di migranti non europei. La Grecia, che soffre per l’austerità degli “avvoltoi” dei banchieri centrali e privati europei, tra cui Soros e i suoi mandanti Rothschild, difficilmente può affrontare il massiccio flusso di rifugiati. I banchieri si sono assicurati che la Grecia non possa nemmeno fornire i servizi sociali di base al proprio popolo, lasciando soli i profughi da zone di guerra e nazioni che soffrono del crollo di governi ed economia. La Macedonia, che continua a subire il tentativo di “rivoluzione colorata” in stile ucraino su concessione dei neocon dell’amministrazione Obama, come l’assistente del segretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici Victoria Nuland, non può trattenere l’invasione della massa di rifugiati dalla Grecia. Molti rifugiati sono trattati al confine greco-macedone con fastidio, ammucchiandosi in Macedonia e poi in Serbia.
    I migranti hanno cercato ogni modo possibile per raggiungere le accoglienti Austria e Germania. I rifugiati a Budapest sommersero la stazione ferroviaria centrale, costringendo a chiuderla ai passeggeri, profughi che cercavano di raggiungere Austria e Germania, così come ungheresi e turisti. I rifugiati musulmani arrivati a Monaco di Baviera erano irritati dalla presenza per le strade di tedeschi e stranieri che celebrano l’annuale “Oktoberfest” bevendo birra. Già vi sono stati scontri per le strade tra celebranti l’Oktoberfest ubriachi e alcuni rifugiati musulmani che si oppongono alla presenza dell’alcol. I funzionari della città di Monaco di Baviera avevano detto che potevano ricevere solo 1000 nuovi rifugiati al giorno. La città ha visto il numero salire a 15.000 al giorno con circa il 90 per cento che non si registra presso le autorità locali, scomparendo per destinazioni sconosciute. Nelle città e nei paesi dell’Europa, i migranti appena arrivati dormono nei parchi e sui marciapiedi creando l’incubo della salute pubblica con feci umane nei parchi e puzza di urina permeare le pareti degli edifici.
    La situazione è aggravata dal recente arrivo dei rifugiati siriani nel nord della Germania, che scambiano il velenoso fungo selvaggio “tappo della morte” per una varietà commestibile che cresce nel Mediterraneo orientale. Nonostante le avvertenze in arabo e curdo distribuite ai rifugiati, i profughi hanno ingerito i funghi velenosi, subendo vomito e diarrea incontrollabile, aggiungendo altro dilemma alla salute pubblica in Europa. E’ solo questione di tempo prima che le malattie trasmesse dai rifiuti umani, come colera e tifo fanno, facciano il loro trionfale ritorno nelle città d’Europa dalle pandemie mortali dello scorso millennio. La cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente del Consiglio dell’Unione europea Donald Tusk e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker hanno la responsabilità diretta dell’afflusso di oltre un milione di rifugiati politici ed economici nel cuore dell’Europa. Merkel non ha fatto segreto del desiderio di aggiungerli alle file dei lavoratori ospiti, “Gastarbeiter”. Tuttavia, come mostrato da altri lavoratori ospiti in Germania arrivati negli ultimi decenni, questi lavoratori non si considerano “ospiti” ma residenti permanenti e cittadini.
    Nel frattempo, Tusk e Juncker, quest’ultimo originario del minuscolo Lussemburgo, hanno minacciato di multare i membri non comunitari Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda se non assorbono la loro quota di rifugiati, una percentuale dettata dagli “eurocrati” dell’Ue a Bruxelles. Anche se Tusk ha chiesto ai Paesi dell’Ue di aprire frontiere e tesorerie ai profughi, la sua nativa Polonia è reticente ad accettarne più di qualche centinaio. L’opposizione della Polonia si unisce a quella di Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia. Il successore di Juncker a primo ministro del Lussemburgo, Xavier Bettel, primo capo europeo ad avere un matrimonio gay, ha accolto centinaia di rifugiati. Bettel crede nell’Europa senza frontiere e, quindi, come Merkel, Tusk e Juncker, è un eroe delle Ong finanziate da Soros che fanno dell’Europa un esperimento d’ingegneria sociale mortale. Molti lussemburghesi cercano qualcuno come Marine Le Pen in Francia per fermare il carrozzone dell’accoglienza dei rifugiati che minaccia di cancellare il Granducato del Lussemburgo.
    I paesi che hanno radicalizzato gli eserciti jihadisti in Siria e Iraq, in particolare Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Quwayt, hanno ritenuto opportuno non prendere nessun rifugiato dai combattimenti in Siria e Iraq. L’Arabia Saudita ha avuto il coraggio assoluto di offrire alla Germania la costruzione di 200 moschee per i rifugiati, dove viene solo predicato e insegnato la versione wahabita dell’Islam. Nel frattempo, vi sono prove che la Turchia esorti i rifugiati dalla Siria sul suo suolo ad unirsi all’esodo su carrette del mare verso l’avversaria Grecia. Tale mossa ha provocato la morte di molti bambini e donne, servita solo a commuovere gli europei del nord che hanno invitato migliaia di profughi nei loro paradisi sociali. La Turchia ha anche distribuito manuali ai migranti per istruirli su dove andare una volta giunti in Germania, per avere dal governo l’assistenza sociale. Proprio come si è visto con le rivoluzioni colorate dirette da Soros e Cia nei paesi arabi e Ucraina, il flusso di migranti è stato istruito via Twitter su dove c’erano controlli alle frontiere e come aggirarli. Tale direzione “esterna” ha guidato i profughi da Grecia, Macedonia, Serbia a Croazia e Slovenia, instradandosi verso le frontiere austriache e tedesche, evitando in tal modo le sempre più ostili Ungheria e Serbia. C’è già stata una scaramuccia al confine tra polizia croata di scorta a un treno carico di profughi al confine ungherese e le guardie di frontiera ungheresi.
    Che siano neo-conservatrici e neo-liberisti, le politiche che hanno portato alla peggiore crisi dei rifugiati in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale hanno radice nei crogioli politici dei gruppi di facciata finanziati da George Soros e Cia in Europa e Stati Uniti. E’ solo questione di tempo prima che i loro ruoli in ciò che è avvenuto in Europa sia scoperto da nazionalisti di destra e di sinistra e che loro case editrici e siti web vadano in fiamme. Alla fine, gli europei si sveglieranno e scopriranno che la Russia s’è immunizzata dal flagello dei rifugiati evitando di frequentare l’Ue e le sue messinscene. Quando i migranti appena arrivati inizieranno a defecare, vomitare e urinare per le strade di Tallinn, Riga, Vilnius, Helsinki e Stoccolma, la Russia libra dalla crisi dei rifugiati non sembrerà così male, dopo tutto.
    (Wayne Madsen, “Il piano Soros-Cia per destabilizzare l’Europa”, da “Strategic Culture” del  24 settembre 2015, ripreso da “Aurora”).

    Proprio come le forze oscure della miliardaria rete di organizzazioni non governative della Central Intelligence Agency degli Stati Uniti e di George Soros, che complottarono per destabilizzare Medio Oriente e Nord Africa attraverso l’uso dei social media, realizzando la cosiddetta “primavera araba”, tali forze hanno aperto un nuovo capitolo sulla disfunzionalità globale facilitando il flusso di rifugiati e migranti economici da Medio Oriente, Asia e Africa all’Europa. Nel marzo 2011, il leader libico Muhammar Gheddafi predisse cosa sarebbe accaduto all’Europa se la stabilità del suo paese veniva minata dalle potenze occidentali. In un’intervista a “France 24”, Gheddafi predisse correttamente: «Ci sono milioni di neri che potrebbero attraversare il Mediterraneo per la Francia e l’Italia, e la Libia svolge un ruolo nella sicurezza nel Mediterraneo». Il figlio di Gheddafi, Sayf al-Islam Gheddafi, condannato a morte dal regime radicale che governa Tripoli, fece eco ai commenti del padre nella stessa intervista al notiziario francese. Sayf disse: «La Libia può diventare la Somalia del Nord Africa, del Mediterraneo. Vedrete i pirati in Sicilia, a Creta, a Lampedusa. Vedrete milioni di immigrati clandestini. Il terrore sarà vicino».

  • Cinismo e paura nel “profughismo” della Fortezza Europa

    Scritto il 23/9/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «Una delle novità di questa estate segnata dalle migrazioni è stata il dispiegarsi di una nuova ideologia dell’accoglienza selettiva: il profughismo». Secondo questa rappresentazione, scrive “InfoAut”, i flussi migratori andrebbero classificati dietro criteri di legittimità che distinguano i migranti “bellici” o “politici” da quelli meramente economici, assicurando soltanto ai primi timbri e firme necessari per restare. Un’impostazione «del tutto in linea con la storia recente delle politiche migratorie, fondate sul principio secondo cui viaggiare costituisce un’attività da sottoporre a prescrizioni selettive, con particolare riguardo alla funzionalità dei migranti nei processi di estrazione del valore». Ma la categoria giuridica di profugo, o rifugiato politico, «non nasce con la retorica di queste settimane», anche se proprio adesso diventa centrale nel discorso politico. Le istituzioni europee? Hanno sempre cercato di ignorare i migranti “non economici”, perché «individui scomodi da amministrare», donne e uomini la cui “accoglienza” era «imposta dal diritto internazionale anche là dove non sussistesse l’accesso a una borsa di studio o l’invito per un posto di lavoro».
    Meglio quindi «distinguere il presunto viaggiatore disciplinato da quello allo sbando, potenzialmente foriero di problemi per l’ordine pubblico». I flussi degli ultimi mesi, osserva “InfoAut”, hanno reso necessaria una nuova impostazione, di cui il governo tedesco ha tentato di promuoversi capofila. «Le migrazioni odierne sono il prodotto degli sconvolgimenti politici del Nord Africa e dell’Asia occidentale. Pesano le guerre civili in Libia e in Siria: la prima per aver da tempo aperto falle nella gestione draconiana dei flussi subsahariani che Gheddafi aveva, a suo tempo, concordato con Berlusconi; la seconda per aver condotto milioni di persone dalle regioni siriane verso paesi a loro volta instabili come l’Iraq, il Libano o la Turchia, e aver quindi prodotto il desiderio di proseguire il viaggio verso paesi più ricchi – quelli dell’Europa settentrionale». I numeri dei migranti sono notevolmente aumentati, insieme alla loro determinazione a passare le frontiere, «anche a costo della resistenza all’identificazione e alle violenze delle polizie». I capitali europei hanno sempre «bisogno di mano d’opera a basso costo», ma al tempo stesso non possono rinunciare «a trarre beneficio dall’astio (preesistente o indotto) di gran parte delle popolazioni provate dall’austerity verso le masse dei nuovi arriva(n)ti».
    Secondo “InfoAut”, il rinato interesse per la categoria del “profugo” «è il nuovo criterio per amministrare l’esclusione là dove il ricorso alle ordinarie procedure non appare possibile». Certo, il governo Merkel, per conto dell’imprenditoria tedesca (ma in contrasto con talune tensioni della Germania profonda), guarda sempre con interesse all’ingresso dei migranti siriani attualmente in viaggio dalla Turchia: «Appartenenti spesso a ceti istruiti, provenienti da un paese dove il sistema educativo è piuttosto avanzato, non di rado importatori di una forza lavoro specializzata o di tendenza cognitiva (al contrario di migranti in gran parte orientati a occupazioni generiche provenienti da altri paesi) essi sembrano rappresentare una merce umana potenzialmente fruttifera per le aziende tedesche». Ma un simile piano di assorbimento selettivo rende necessaria un’efficiente burocrazia dell’immigrazione: per questo i paesi di frontiera, come l’Italia e la Grecia, «sono in queste ore spronati a istituire con celerità e rigore centri d’identificazione, classificazione e deportazione (gli “hotspots”) che permettano un ingresso ordinato verso i confini settentrionali (presupposto necessario per l’ingresso dispiegato alla fase fattuale della “solidarietà” tedesca)».
    Non è tutto. Notoriamente, la Siria rappresenta un obiettivo militare per gli Stati Uniti e la Francia, come a suo tempo la Libia, che fu gettata nel caos dai bombardamenti (anche italiani) del 2011. «Incentrare l’attenzione sulla tragedia umanitaria siriana può anche avere, per le potenze europee, un tornaconto propagandistico-militare, preparando le proprie popolazioni all’evenienza di un intervento armato», avverte sempre “InfoAut”, anche perché il fattore politico-militare è prepotentemente all’opera in tutta la fase attuale: «La svolta nord-irachena del 2014 ha aperto una fase di instabilità che ha liberato, secondo linee-forza contrastanti, energie e spazi per numerose contraddizioni sopite, latenti o pregresse nell’Asia occidentale: dalla crisi dei regimi arabi e dei governi-fantoccio all’eredità politico-militare delle resistenze afghana e irachena, fino all’approfondirsi della contrapposizione sunnita-sciita e alle irrisolte questioni kurda, libanese, palestinese». Ciò che accade, dunque, «non è che uno degli effetti collaterali di questo multiforme incendio, e i migranti odierni, come quelli di tutti i tempi, portano con sé questo bagaglio di tensione politica e sociale».
    Non a caso, continua il newsmagazine, assistiamo a dinamiche migratorie che, da Ventimiglia a Calais, passando per Gevgelija e Rozske, assumono i caratteri di vere e proprie ribellioni. «Sarebbe allora miope ignorare le contraddizioni che muovono lungo il pianeta assieme agli esseri umani, così come quelle che abitano gli esseri umani che si aggirano per il pianeta». Del resto, «l’universo migrante non è uno spazio evanescente ed etereo», ma un mondo materiale lacerato, frastagliato, stratificato. «Possiamo dimenticare i barconi giunti in Sicilia con libici, siriani e maghrebini autorizzati a respirare, e bengalesi e pakistani assassinati nella stiva, assieme a subsahariani schiacciati a morire sul fondo del fondo, sotto a poppa, in una terribile gerarchizzazione razziale dell’accesso alla speranza o alla morte degli esseri umani?». E’ proprio «questa procedura di selezione, filtraggio e gerarchizzazione – tanto nella forma selvaggia del mercato illegale, quanto in quella giuridica del mercato istituzionale – che dobbiamo, oggi, rifiutare con estrema chiarezza».
    Il richiamo diffuso a una solidarietà caratterizzata dalla retorica “profughista” può allora, in questo momento, assumere un significato pericoloso e ambiguo, conclude “InfoAut”. «Occorre smontare l’idea secondo cui le condizioni economiche non costituiscono un fondamento legittimo per la decisione di partire, considerato non soltanto che il benessere e il malessere economico delle diverse aree geografiche e classi sociali sono interconnessi, ma anche che le dinamiche di guerra e persecuzione politica hanno origini economiche di volta in volta individuabili». Così, «la critica delle politiche di morte e subordinazione portate avanti nel Mediterraneo» non può appiattire le nozioni di libertà, oppressione o guerra secondo una rappresentazione del diritto internazionale «parziale, storicamente situata e politicamente insufficiente». Se i benefici del diritto acquisito vanno sempre rivendicati, «là dove conquiste storiche affiorano nelle sedimentazioni giuridiche in seguito alle lotte e agli sconvolgimenti passati», bisogna «costruire la contrapposizione viva per il cambiamento, dentro gli sconvolgimenti odierni». Attenzione: una contrapposizione che si nutra di una solidarietà «diversa da quella (ipocrita) delle istituzioni», preoccupate solo di «amministrare, gestire e controllare nuove e temibili contraddizioni sociali».

    «Una delle novità di questa estate segnata dalle migrazioni è stata il dispiegarsi di una nuova ideologia dell’accoglienza selettiva: il profughismo». Secondo questa rappresentazione, scrive “InfoAut”, i flussi migratori andrebbero classificati dietro criteri di legittimità che distinguano i migranti “bellici” o “politici” da quelli meramente economici, assicurando soltanto ai primi timbri e firme necessari per restare. Un’impostazione «del tutto in linea con la storia recente delle politiche migratorie, fondate sul principio secondo cui viaggiare costituisce un’attività da sottoporre a prescrizioni selettive, con particolare riguardo alla funzionalità dei migranti nei processi di estrazione del valore». Ma la categoria giuridica di profugo, o rifugiato politico, «non nasce con la retorica di queste settimane», anche se proprio adesso diventa centrale nel discorso politico. Le istituzioni europee? Hanno sempre cercato di ignorare i migranti “non economici”, perché «individui scomodi da amministrare», donne e uomini la cui “accoglienza” era «imposta dal diritto internazionale anche là dove non sussistesse l’accesso a una borsa di studio o l’invito per un posto di lavoro».

  • Della Luna: con politici servi, non basterà uscire dall’euro

    Scritto il 15/7/15 • nella Categoria: idee • (3)

    E’ fallita nei fatti l’idea che si possa indurre il miglioramento qualitativo della spesa pubblica dei paesi inefficienti imponendo a questa spesa vincoli quantitativi nonché il falso dogma della scarsità monetaria. Coloro che prendono le decisioni finanziarie generali sanno che, in un mondo che usa simboli come moneta, la scarsità monetaria è irreale, è un’illusione (cioè sanno che non ha senso logico dire che manchi e non si possa produrre la moneta necessaria per investimenti utili, che essa prima vada risparmiata e accumulata e solo dopo si possa investire, che sia utile o necessario rispettare il pareggio di bilancio, che vi siano limiti oggettivi e logici alla quantità di debito pubblico sostenibile: non ha senso dire tali cose, perché la moneta che si usa è appunto un mero simbolo senza costo di produzione, senza valore intrinseco, e la moneta legale non costituisce nemmeno un titolo di debito). Quindi, nella misura in cui serve, la moneta può essere prodotta sempre e nella quantità richiesta. Il difficile non è produrne quanta ne serve, ma usarla bene, decidere bene come spenderla: un problema politico, ossia di fare scelte tecnicamente valide nell’interesse generale di medio-lungo termine, e che tali siano percepite, anziché scelte di spesa di interesse personale, clientelare, mafioso, tecnicamente inefficienti, miopi, clientelari, demagogiche.
    Probabilmente la parte in buona fede, cioè la meno intelligente, di quelle persone, pur consapevole che la scarsità monetaria è un’illusione, ha collaborato ad affermarla come principio, ad introdurre i vincoli dell’austerità, la frusta dei mercati, il pungolo del rating e la minaccia dello spread, credendo che attraverso questi vincoli quantitativi sia possibile indurre i sistemi politici scadenti a usare bene la moneta, cioè a spendere in modo efficiente, produttivo, a fare riforme, ad ammodernarsi, a sopprimere gli sprechi e la corruzione. La prova dei fatti ha dimostrato che questa credenza era erronea, e che anzi i limiti quantitativi dell’austerità in diversi casi hanno prodotto un peggioramento qualitativo della spesa pubblica, oltre che a un peggioramento quantitativo del deficit, del debito, del Pil, del rating, dell’occupazione (i governi italiani del rigore, per esempio, hanno mantenuto e ampliato la spesa improduttiva destinata ai privilegi della casta, tagliando quella utile alla collettività, perché la casta, per conservare i suoi consensi e i suoi redditi mentre fa tagli della spesa sociale e aumenti di tasse, deve fare più clientelismo e più ruberie).
    Dire, con Tsipras e altri sedicenti di sinistra, che di fronte a questo fallimento dell’austerità, la soluzione sarebbe semplicemente più solidarietà, fare più spesa a deficit e comunitarizzare i debiti, significa voler restare entro il paradigma della scarsità monetaria. Specularmente, l’altro fronte del pensiero monetario sostiene che la soluzione del problema del rilancio economico sia l’approccio opposto, ossia smetterla coi mendaci dogmi della scarsità monetaria e con le relative, fallimentari ricette, e fare invece investimenti statali diretti mediante spesa pubblica a debito (che tanto lo Stato riesce sempre a sostenere, come dice la Modern Money Theory di Warren Mosler, stante che la moneta è un mero simbolo) oppure, meglio ancora, mediante una spesa sganciata dall’indebitamento (come raccomanda Antonino Galloni) attraverso l’emissione diretta di moneta da parte dello Stato. Ciò darebbe più benessere alla gente e slancio allo sviluppo, ma non migliorerebbe, anzi probabilmente peggiorerebbe, la qualità e l’efficienza della spesa, della produttività e della stessa società, incentivando atteggiamenti improduttivi, assistenzialisti e ristagnanti. Soprattutto nei paesi come l’Italia in cui la classe dominante è parassitaria e retriva, e la mentalità popolare è molto ideologica, e ampia parte della popolazione vive di redditi presi ad altra parte della popolazione. La storia insegna.
    La lezione da imparare e che la qualità e l’efficienza della spesa, cioè delle decisioni di spesa pubblica e privata, dipendono da fattori sociologici e politici inerenti ai differenti popoli, o ai differenti insiemi di popoli, e derivano dalle loro diverse storie. Lo dimostra il fatto che alcune nazioni vanno bene e altre male pur applicando o subendo tutte i medesimi erronei principi di economia monetaria. Cioè l’efficienza dipende dai fattori storici, sociologici, culturali; dai mores, dai meccanismi di produzione del consenso e della coesione di questo o quel popolo. I vincoli quantitativi esogeni non “correggono” questi fattori – semmai li accentuano. La Germania, il Veneto, la Lombardia hanno una spesa pubblica abbastanza efficiente; la Grecia, l’Italia, Roma, la Sicilia e la Campania no, perché hanno prassi, mores, mentalità diversi, che non correggi imponendo vincoli esterni di bilancio. I popoli efficienti non dovrebbero avere una moneta comune con i popoli inefficienti, né pagare per sostenerli. L’esperienza dell’euro mostra che imporre una moneta comune (anzi, un cambio fisso) a popoli con diverse efficienze non alza quella dei meno efficienti, ma li impoverisce; e l’esperienza dell’Italia unitaria, della Jugoslavia e di altri paesi simili mostra che non la alza nemmeno l’imporre l’unione di bilancio e la solidarietà.
    Tutti questi fattori, però, vengono oggi superati, sconvolti e travolti dal fatto che il grosso della spesa, dei movimenti monetari, cioè del business, avviene in mercati finanziari, apolidi, e secondo logiche aliene dalla produzione di beni e servizi e dal soddisfacimento dei bisogni reali. Se il 90% delle transazioni monetarie avviene in mercati speculativi liberalizzati, perlopiù opachi e non controllabili, il ruolo delle società, della politica e delle istituzioni nelle scelte di spesa, quindi lo stesso grado di efficienza specifica dei vari organismi nazionali, viene drasticamente ridotto. Le dinamiche e le richieste dei mercati speculativi cambiano continuamente le carte sui tavoli politici e schiacciano le decisioni degli attori del residuo 10% delle transazioni economiche, cioè dei popoli e dell’economia reale, pubblica e privata. Tendono a imporre loro i propri bisogni e le proprie decisioni, a fare di essi una loro colonia, una sorte di appendice, che serve essenzialmente ad assicurare al business speculativo riferimenti contabili stabili e un quadro legislativo-giudiziario di supporto. I bisogni della gente non devono interferire. Perciò lo Stato è divenuto rappresentante di interessi esterni e in conflitto con quelli del popolo, quindi ha perso la legittimazione rispetto a questo.
    (Marco Della Luna, “Dopo la scarsità monetaria”, dal blog di Della Luna del 5 luglio 2015).

    E’ fallita nei fatti l’idea che si possa indurre il miglioramento qualitativo della spesa pubblica dei paesi inefficienti imponendo a questa spesa vincoli quantitativi nonché il falso dogma della scarsità monetaria. Coloro che prendono le decisioni finanziarie generali sanno che, in un mondo che usa simboli come moneta, la scarsità monetaria è irreale, è un’illusione (cioè sanno che non ha senso logico dire che manchi e non si possa produrre la moneta necessaria per investimenti utili, che essa prima vada risparmiata e accumulata e solo dopo si possa investire, che sia utile o necessario rispettare il pareggio di bilancio, che vi siano limiti oggettivi e logici alla quantità di debito pubblico sostenibile: non ha senso dire tali cose, perché la moneta che si usa è appunto un mero simbolo senza costo di produzione, senza valore intrinseco, e la moneta legale non costituisce nemmeno un titolo di debito). Quindi, nella misura in cui serve, la moneta può essere prodotta sempre e nella quantità richiesta. Il difficile non è produrne quanta ne serve, ma usarla bene, decidere bene come spenderla: un problema politico, ossia di fare scelte tecnicamente valide nell’interesse generale di medio-lungo termine, e che tali siano percepite, anziché scelte di spesa di interesse personale, clientelare, mafioso, tecnicamente inefficienti, miopi, clientelari, demagogiche.

  • “Migranti parassiti, peccato ne crepino ancora troppo pochi”

    Scritto il 22/4/15 • nella Categoria: segnalazioni • (113)

    Laura: «Sai a che punto mi hanno portato questo governo, l’invasione e lo schifo di gente che arriva? Che quando sento notizie come 700 morti penso: meno male, 700 delinquenti parassiti in meno. Esasperazione ai limiti». E Diego: «Stiamo a pensare a 700 migranti che affogano in mare quando ci sono 50 milioni di italiani che affogano nella merda. Coglioni!». Chiosa Salvatore: «Sempre troppo pochi, spiace dirlo, ma si stessero in Africa a coltivarsi la terra così evitano di crepare annegati, ed evitassero di sfornare a livello industriale tutti ’sti marmocchi e cui non sono in grado di dare un tozzo di pane! Questa gente invece non vuole cambiare le brutte abitudini di vita. Noi con Salvini». A esprimersi così sono italiani, per lo più giovani: quello che “Mazzetta” ha messo insieme, esplorando Twitter, è «un campionario dei commenti più disgustosi alla grande carneficina del Canale di Sicilia», scrive Claudio Martini. Una catastrofe morale e sociale che rivela il vero motivo per cui, semplicemente, lo spettacolo della carneficina non avrà fine: sui migranti si scarica la paura della crisi, senza pietà. E nessun politico oserà cercare vere soluzioni.
    «Non mi interessa se affondano, basta che non entrino», scrive Marco. «Sempre troppo pochi», sintetizza Giorgio. Crepino pure in fondo al mare, non sono che «700 terroristi in pastura», ovvero «pappa per gli squali», «mangime per i pesci», chiariscono Lorenzo, Giulio e Sergio. «Peccato… così pochi», scrive Silvia. «Peccato che ci sono dei superstiti», dice Moreno. In fondo, sono «700 parassiti in meno da mantenere», aggiunge Franco: «Affondasse anche il Parlamento con tutto il governo e avremmo fatto bingo». Più ne muoiono e meglio è, sostiene Luca. Che aggiunge: «Questi crepano e io bevo felicemente un costoso vino per festeggiare. Olè!». Maria si preoccupa della religione dei migranti annegati: «Speriamo siano tutti musulmani». E comunque, chiosa Claudio: «Pochi, sempre troppo pochi». Che dire, di fronte a questo? «In un mondo più giusto – scrive Martini, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – queste persone andrebbero messe su un apposito barcone e lasciate alla deriva. Nel mondo in cui realmente viviamo, queste persone votano. Ed è proprio questa la ragione principale dell’impossibilità di risolvere il problema dell’immigrazione». L’apartheid, il segregazionismo Usa e i vari fascismi conobbero un sostegno di massa: «Così è anche per la mattanza dei migranti africani».
    Per risolvere il problema, avverte Martini, ci sono due vie, alternative tra loro. La prima è quella del blocco navale, «naturalmente sponsorizzata dai Nazisti dell’Illinois, ma anche da Renzi, il quale, ricordiamolo, è responsabile del passaggio da “Mare Nostrum” a “Triton”, ovvero del taglio dei due terzi delle risorse destinate al soccorso in mare dei migranti». Questa proposta, ovviamente, «non può aver alcun riflesso pratico finché non si è disposti a sparare sulle imbarcazioni dei migranti, per la banale ragione che quelli non si fermano». Occorrerebbe pertanto un pattugliamento costante (e costoso) delle coste libiche e tunisine, composto da unità pronte ad annientare le imbarcazioni che tentano di forzare il blocco. «Al decimo affondamento è presumibile che i migranti si scoraggino, e che smettano di tentare la fortuna sui barconi». Naturalmente, aggiunge Martini, questa via è del tutto impercorribile: «Nessun politico, militare o funzionario si assumerebbe mai la responsabilità di simili crimini contro l’umanità. Tali crimini sono però l’elemento che darebbe effettività al blocco navale. In ultima analisi, non ci sarà alcun blocco navale: chi ve ne parla spacciandolo per soluzione è un cialtrone e/o un ipocrita».
    L’altra soluzione è quella di approntare una linea di traghetti tra le coste libiche e un qualche porto siciliano. Questa proposta, «assai meno paradossale di quel che appare», è stata avanzata da alcuni studiosi seri del fenomeno, e implicherebbe numerosi vantaggi: impedirebbe le stragi, stroncherebbe le organizzazioni criminali (i migranti pagherebbero alla linea di traghetti il biglietto che ora pagano agli scafisti), farebbe risparmiare fior di quattrini alla marina militare, e permetterebbe un controllo preventivo, anche sotto il profilo sanitario, delle persone che intendono migrare in Italia. «In una battuta: se la Tirrenia avesse cominciato a fare questo tipo di operazioni dieci anni fa, oggi non avrebbe i conti in rosso, e si sarebbero salvate molte migliaia di vite umane». Questa soluzione, tuttavia, implica altre iniziative, di notevolissima portata. L’afflusso di immigrati andrebbe regolato, gestito, organizzato. Al netto dei richiedenti asilo, andrebbe preparato un programma di avviamento al lavoro, vincolato al buon comportamento del soggetto e dotato di un termine: ad esempio, si potrebbe prevedere di concedere all’immigrato una permanenza, e un impiego, della durata di 5 o 10 anni. Si tratterebbe pertanto di un programma di lavoro garantito. Il programma, tuttavia, non potrebbe includere solo gli immigrati, ma anche i cittadini italiani, pena un’intollerabile disparità di trattamento.
    Anche così facendo, comunque, occorrerebbe cercare di limitare i numeri degli arrivi. «Per farlo, sarebbe necessario prendere sul serio il leit-motiv di tutti gli xenofobi, aiutare gli stranieri a casa loro». Ma cosa può significare questa espressione? «Se vogliamo darvi un senso – scrive Martini – gli Stati europei dovrebbero investire alcune decine di miliardi di euro l’anno nell’indutrializzazione (possibilmente compatibile con l’ecosistema) dei paesi dell’Africa sub-sahariana. Gli impieghi sarebbero innumerevoli: dall’introduzione di metodi moderni e meccanizzati per l’irrigazione dei suoli, all’introduzione di reti di servizi efficienti negli agglomerati urbani, all’installazione di centrali di produzione di energia rinnovabile (si pensi al solare); il tutto realizzabile da una forza lavoro retribuibile in misura trascurabile (per gli standard occidentali, non per quelli sub-sahariani: si pensi a stipendi da 100 euro al mese in Mali)». Come è evidente, le soluzioni sarebbero molteplici, ma «il problema è che non sono praticabili». Chi mai potrebbe varare un piano così giusto e intelligente?
    «La Lega Nord, e tutti i partiti consimili, sarebbero favorevoli a che l’Europa investisse alcuni decimali del suo Pil nei paesi da cui provengono gli immigrati? La risposta è prevedibile: un rotondo no. “Aiutarli a casa loro” va bene come slogan per evitare di affrontare il problema, non come soluzione pratica». La verità, conclude Martini, è che possiamo inventarci tutte le soluzioni più variopinte, ma «verranno tutte invariabilmente affondate dal feroce egoismo dei commentatori di cui sopra, che sono massa elettorale per soddisfare la quale si prodigano Salvini e Renzi, Berlusconi e Grillo (e Sarkozy, Merkel, Farage, Le Pen, Cameron, Rutte)». Non è una questione che si possa «pensare di affrontare gratis, senza concedere qualcosa, senza fare alcun sacrificio (ampiamente ripagato nel lungo termine)». Impossibile risolvere nulla, senza «mettere tra le premesse del problema la necessità di rispettare la dignità dei migranti, anche a costo di togliervi il principio della conservazione del quattrino con ogni mezzo». E quindi tanti saluti e arrivederci, «al prossimo affondamento».

    Laura: «Sai a che punto mi hanno portato questo governo, l’invasione e lo schifo di gente che arriva? Che quando sento notizie come 700 morti penso: meno male, 700 delinquenti parassiti in meno. Esasperazione ai limiti». E Diego: «Stiamo a pensare a 700 migranti che affogano in mare quando ci sono 50 milioni di italiani che affogano nella merda. Coglioni!». Chiosa Salvatore: «Sempre troppo pochi, spiace dirlo, ma si stessero in Africa a coltivarsi la terra così evitano di crepare annegati, ed evitassero di sfornare a livello industriale tutti ’sti marmocchi a cui non sono in grado di dare un tozzo di pane! Questa gente invece non vuole cambiare le brutte abitudini di vita. Noi con Salvini». A esprimersi così sono italiani, per lo più giovani: quello che “Mazzetta” ha messo insieme, esplorando Twitter, è «un campionario dei commenti più disgustosi alla grande carneficina del Canale di Sicilia», scrive Claudio Martini. Una catastrofe morale e sociale che rivela il vero motivo per cui, semplicemente, lo spettacolo della carneficina non avrà fine: sui migranti si scarica la paura della crisi, senza pietà. E nessun politico oserà cercare vere soluzioni.

  • Massoni e Opus Dei, la strana cupola della finanza italiana

    Scritto il 06/3/15 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Sono massone dal 1981. Ho fatto tutti i gradini del rito scozzese, che sono 33. Nel 1999 sono diventato “sovrano gran maestro” della “legittima e storica comunione di Piazza del Gesù”, che era la storica obbedienza del rito scozzese in Italia. Era un’obbedienza di ottantenni, sempre gli stessi dal dopoguerra: si erano resi conto che la gente voleva entrare in massoneria solo per fare carriera, per opportunismo, e quindi non facevano entrare nessuno. Il più giovane ero io. Una volta divenuto “sovrano gran maestro”, mantenni la stessa linea. Di questo passo, però, si andava all’estinzione. Finché nel 2005 ho deciso di scioglierla, di dimettermi, indicando ai confratelli la strada di un’altra obbedienza italiana di rito scozzese, quella di Palazzo Vitelleschi, perché sapevo che il suo “sovrano gran maestro” è una persona seria e loro avrebbero potuto continuare a fare massoneria tranquillamente lì. Io invece non ho continuato, per motivi a me presenti fin dall’inizio: solo che, avendo cercato di cambiare determinate cose e non essendoci riuscito, ho capito che dovevo dedicare il mio tempo ad altro, pur rimanendo massone – io sono massone a tutti gli effetti e sono convinto della dottrina massonica; quello che non mi convince sono alcune contraddizioni strutturali.
    Da questo osservatorio, che è stato per me essere “sovrano gran maestro” della massoneria, ho potuto fare delle ricostruzioni storiche, anzi meta-storiche, perché a volte gli storici non usano il buon senso. Presentando un mio libro a Cosenza, mia città natale, discussi coi due ordinari di storia di quell’ateneo. Si parlava di Alarico, il re dei Goti, che avrebbe nascosto il tesoro di Roma alla confluenza di due fiumi. Pretendevano che Alarico fosse un furfante. Dico: ma quell’oro, i romani a loro volta a chi l’avevano preso? Lo so che noi abbiamo una strana logica. Il principe di Montecarlo, Grimaldi, era un pirata – non un corsaro, di quelli al servizio degli Stati e quindi, tra virgolette, legittimati: no, era proprio un pirata, di quelli con la bandiera col teschio. Poi è diventato Grimaldi. Col passare delle generazioni, c’è stata una sorta di nobilitazione. Non pretendo che i figli paghino le colpe dei bisnonni, ma non è accettabile che debbano essere considerati superiori solo perché oggi si trovano in una posizione privilegiata. Mi infastidisce: tu parti in vantaggio rispetto a me perché qualche tuo antenato era un mascalzone.
    Questo per farvi capire quanto noi procediamo per stereotipi. E il luogo comune ci frega, perché non lo mettiamo mai in discussione. I gesuiti, per esempio: erano il braccio armato della Chiesa e divennero i tutori spirituali e gli educatori dei principi, ma poi furono addirittura disciolti. Perché, incontrando i popoli del Sud America, scoprirono quello che in Europa sosteneva Rousseu: che il “buon selvaggio” è spesso migliore di noi. Per questo i gesuiti dell’America Latina si impegnarono così a fondo al fianco dei movimenti di liberazione. Oggi, a capo del Vaticano, in un momento tanto difficile per la Chiesa, è stato eletto un gesuita proveniente dal Sudamerica. Al di là di quello che riuscirà a fare – lo vedremo – si tratta di un messaggio chiarissimo.
    La rottura coi gesuiti risale al 1928, quando la Chiesa capisce che i gesuiti non le possono più servire, e nasce l’Opus Dei. L’Opus Dei nasce perché la Chiesa non si fida più dei gesuiti. Ha bisogno di qualcosa di più “hard”, di più avanzato: ha bisogno di fare una sorta di massoneria cristiana, perché l’Opus Dei ha esattamente lo stesso schema funzionale della massoneria così come si è configurata con i Grandi Orienti. Con una differenza: che ogni tre mesi escono liste di massoni sputtanati su tutti i giornali italiani. Avete mai visto un elenco dell’Opus Dei? Se volete ve lo dico io, il nome di qualche appartenente: Gianni Letta, il nipote di Gianni Letta, Dell’Utri. Tutti quanti attribuiscono questi personaggi alla massoneria, e invece sono dell’Opus Dei. Li attribuiscono alla massoneria perché la massoneria e l’Opus Dei hanno fatto l’incesto, si sono sposati. Ma non si sono sposati sul piano filosofico, dottrinale: si sono sposati sui soldi. E qui dobbiamo scrivere la storia delle banche e dell’economia italiana.
    L’economia italia del dopoguerra innanzitutto eredita una realtà importante, l’Iri, fondato da Mussolini nel 1926 con a capo un grande economista, Beneduce. Nel dopoguerra, in seno all’Iri, avviene la prima alleanza tra laici e cattolici. E siccome i laici erano soprattutto massoni, indirettamente è una prima alleanza tra finanza massonica e finanza cattolica, tramite le banche di riferimento. La banca di riferimento della finanza massonica era la Banca Commerciale Italiana, mentre le banche di riferimento della finanza cattolica erano il Credito Italiano e le banche legate alle casse di risparmio. Questi organismi, a loro volta, danno origine a due grandi gruppi, che litigano tra loro solo in apparenza: per la finanza laica c’è Mediobanca, che nasce per volere di Mattioli, il massone a capo della Banca Commerciale Italiana (e Mediobanca viene comandata per tanti anni da un altro massone, Enrico Cuccia), e per la finanza cattolica c’è il gruppo SanPaolo, più il Banco Ambrosiano, una realtà minore, limitata alla Lombardia. Tutto questo va avanti finché, in qualche modo, sul Banco Ambrosiano non cerca di entrare la finanza massonica con un capo che si chiama Calvi, che era un massone.
    L’Opus Dei e la massoneria si mettono alla fine d’accordo e fondano una banca. Lo Ior nasce perché durante il papato di Pio XII vengono decise alcune cose, deliberate nel 1942 e poi eseguite nel 1950. La Chiesa e la massoneria decidono di avere un organo, che pochi conoscono, di gestione comune. Decidono quindi di far affluire personaggi dell’Opus Dei in una specie di ordine di cavalieri, che si chiamava Ordine di San Maurizio e Lazzaro. Ne sono stato anch’io priore, in quanto “gran maestro”, ma solo fino a quando il responsabile di quest’ordine era un galantuomo, il cardinale Oddi, di Genova; poi, non appena hanno deciso che con lo Ior dovevano fare un po’ di porcherie (il cavalierato era collegato con lo Ior, la banca vaticana), hanno fatto fuori Oddi e nominato Marcinkus, così io ho smesso di andare alle riunioni. Marcinkus è un personaggio che fino a pochi mesi fa giocava a golf nel suo campo personale, annesso alla sua casa di New York. Marcinkus non era massone, era dell’Opus Dei. Il suo Ior ha cominciato a operare come una banca normale: non ha fatto niente di più grave di quello che fanno tutte le banche del mondo.
    Sappiate che una delle prime cose su cui ha messo le mani il potere mafioso è il potere bancario: negli anni ‘70 e ‘80, il capo della mafia di allora, Stefano Bontade, veniva ricevuto in pompa magna dalle principali banche d’affari europee, come Crédit Monégasque, Lazard, la stessa Goldman Sachs per cui lavorò anche Prodi. Le banche, Bontade lo ricevevano come fosse Onassis. Tutti i principali enti pubblici di questo Stato hanno fatto affari con la mafia. Anche nella Rai c’era il rappresentante della mafia, si chiamava Vanni Calvello. Era una specie di principe, di barone palermitano, e curava i rapporti della mafia con la Rai. Non a caso Andreotti, per farsi assolvere, ha citato come testimoni tutti gli ambasciatori americani a partire dal dopoguerra: tu non puoi andare a processare una persona per mafia quando sai benissimo che gli americani, sbarcati in Sicilia, hanno fatto sindaco di Mazara del Vallo Vito Genovese, che era il numero due di Cosa Nostra. Se ti metti a processare il passato, non ne esci più. Devi metterti a processare il presente.
    A volte, comunque, accade che nel potere si litighi. Quando il mondo veniva nominato finanziariamente da 7 realtà, e Agnelli era una di queste 7 realtà, successe che litigarono Agnelli e i Rothschild. E un minuto dopo Agnelli vendette le quote della Fiat a Gheddafi – un bel segnale, no? Al capo del gruppo bancario di riferimento dei Rothschild chiesero un commento, e lui disse una parola francese che equivale alla nostra “conturbante”, e pregò che venisse scritta separando “con” da “turbante”, per dire che stavano cercando di coinvolgere quelli che portano il turbante. Fare entrare Gheddafi nella Fiat era uno sfregio non solo ai Rothschild, ma anche al fronte economico sionista (che non significa ebreo: identificare il popolo ebreo col sionismo è una grossissima ingiustizia dei nostri tempi). La bellezza delle cose del potere – che è la nostra fortuna, per cui continuiamo a mantenere dei margini di libertà – è che questi litigano. Perché non nascerà mai il Nuovo Ordine Mondiale? Perché poi si devono mettere d’accordo su chi si piglia la fetta più grossa. Quindi, sotto questo profilo non sono molto pessimista, sento che gli spazi di sopravvivenza sono garantiti.
    (Gianfranco Carperoro, estratti delle dichiarazioni rese il 13 maggio 2014 alla conferenza pubblica dell’associazione “Salusbellatrix” a Vittorio Veneto, ripresa integralmente su YouTube. Studioso di simbologia, esoterista, già avvocato e magistrato tributario, giornalista e pubblicitario, Carpeoro è autore di svariati romanzi ed è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù).

    Sono massone dal 1981. Ho fatto tutti i gradini del rito scozzese, che sono 33. Nel 1999 sono diventato “sovrano gran maestro” della “legittima e storica comunione di Piazza del Gesù”, che era la storica obbedienza del rito scozzese in Italia. Era un’obbedienza di ottantenni, sempre gli stessi dal dopoguerra: si erano resi conto che la gente voleva entrare in massoneria solo per fare carriera, per opportunismo, e quindi non facevano entrare nessuno. Il più giovane ero io. Una volta divenuto “sovrano gran maestro”, mantenni la stessa linea. Di questo passo, però, si andava all’estinzione. Finché nel 2005 ho deciso di scioglierla, di dimettermi, indicando ai confratelli la strada di un’altra obbedienza italiana di rito scozzese, quella di Palazzo Vitelleschi, perché sapevo che il suo “sovrano gran maestro” è una persona seria e loro avrebbero potuto continuare a fare massoneria tranquillamente lì. Io invece non ho continuato, per motivi a me presenti fin dall’inizio: solo che, avendo cercato di cambiare determinate cose e non essendoci riuscito, ho capito che dovevo dedicare il mio tempo ad altro, pur rimanendo massone – io sono massone a tutti gli effetti e sono convinto della dottrina massonica; quello che non mi convince sono alcune contraddizioni strutturali.

  • Aerei-fantasma, la Puglia capitale europea dei droni

    Scritto il 14/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Il governo italiano candida la base aerea di Amendola, Foggia, quale sede per la formazione dei militari di tutta Europa nella gestione degli aerei senza pilota. «L’Italia è pronta a rendere disponibili le esperienze maturate e le infrastrutture tecniche ed addestrative realizzate per costruire insieme una soluzione europea nel settore dei droni», spiega Roberta Pinotti, ministro della difesa. Obiettivo: «Costituire in Italia la prima scuola di volo europea per aeromobili a pilotaggio remoto». Nel campo dei droni, osserva Antonio Mazzeo, l’Italia si è conquistata una leadership in ambito continentale: a Sigonella, in Sicilia, operano da diversi anni i grandi velivoli senza pilota “Global Hawk” della marina Usa, mentre entro il 2016 sarà pienamente operativo l’Ags, il nuovo sistema di sorveglianza terrestre della Nato basato sull’ultima generazione di droni di produzione statunitense. Inoltre, le forze armate italiane sono state le prime in Europa ad acquisire i velivoli “Predator” per schierarli nei maggiori teatri di guerra internazionale: Afghanistan, Iraq, Libia e Corno d’Africa.
    Proprio ad Amendola, continua Mazzeo, già nel 2002 fu costituito il 28° Gruppo Velivoli Teleguidati (poi battezzato “Le Streghe”) per condurre operazioni aeree con i droni “Predator” acquistati dalla General Atomics Aeronautical Systems di San Diego, California. Il gruppo, con personale addestrato negli Usa, fu assegnato al 32° stormo dell’aeronautica di Amendola. «La missione fondamentale del reparto – spiegano i militari – ruota oggi intorno al supporto alla capacità d’intelligence, sorveglianza e ricognizione (Isr) alle componenti nazionali e delle forze alleate per la riuscita in sicurezza delle operazioni a terra in qualunque contesto operativo», incluse attività come «antiterrorismo e sorveglianza del fenomeno dell’immigrazione clandestina». Il battesimo del fuoco della prima batteria di “Predator”, ricorda Mazzeo, avvenne in Iraq nel gennaio 2005: dalla base di Tallil, i droni “italiani” iniziarono a operare in supporto del contingente terrestre nell’ambito della missione “Antica Babilonia”. Nel maggio 2007 i droni furono poi trasferiti anche nella base di Herat, sede del comando regionale interforze per le operazioni in Afghanistan, dove hanno continuato a operare sino ad oggi.
    Nel corso della campagna scatenata in Libia per rovesciare Gheddafi nella primavera-estate 2011, «i velivoli a pilotaggio remoto schierati ad Amendola ebbero un ruolo chiave nelle operazioni “Isr” dell’aeronautica italiana e dei partner della coalizione internazionale a guida Usa, volando in missione per un totale di 360 ore», riferisce Mazzeo. Le ultime missioni all’estero dei “Predator” risalgono invece a quest’anno: a metà agosto, due velivoli-spia sono stati schierati a Gibuti, piccolo stato del Corno d’Africa, nell’ambito della missione antipirateria dell’Unione Europea “Atalanta”, ma opererebbero anche «a favore delle forze governative somale in lotta contro le milizie di Al Shabab». Nello scalo aereo di Kuwait City è invece stato avviato l’allestimento delle infrastrutture logistiche che consentiranno all’aeronautica militare italiana di schierare due velivoli a pilotaggio remoto appositamente riconfigurati per operare a favore della coalizione internazionale anti-Isis in Iraq e Siria.
    Inoltre, nel 2008 il Parlamento italiano ha autorizzato l’acquisto di altri quattro ricognitori Rq-9 “Predator B”, noti anche come “Reaper”, con una spesa di 80 milioni di euro. Il “Reaper” può volare anche per 24-40 ore, a 15.000 metri dal suolo, può essere trasportato a bordo di un aereo C-130 ed essere reso operativo in meno di dodici ore. Può trasportare carichi sino a 1.800 chili (sensori, radar, telecamere), e soprattutto può essere armato con missili “Hellfire” e bombe a guida laser. Costo dell’armamento dei “Reaper” italiani, 14 milioni di euro. «Attualmente – aggiunge Mazzeo – i droni di Amendola sono operativi pure per la ricognizione aerea in Kosovo, a sostegno delle attività della forza militare internazionale a guida Nato (Kfor)», e sono stati impiegati anche nell’operazione “Mare Nostrum”. Esclusivi corridoi di volo per i “Predator” sono stati predisposti dall’aeronautica militare tra la Puglia e le basi aeree siciliane di Sigonella, Trapani Birgi e Pantelleria e il poligono sperimentale di Salto di Quirra e lo scalo di Decimomannu in Sardegna.
    La base di Amendola collabora con militari francesi e olandesi, ha ospitato addestramenti congiunti con forze armate di paesi come Egitto e Giordania e funziona anche come centro sperimentale i nuovi “dimostratori senza pilota” di Alenia Aeronautica (Finmeccanica) con compiti di osservazione, sorveglianza e ricognizione strategica del territorio. Lo scalo pugliese è stato usato nel ‘97 per la guerra in Bosnia e due anni dopo per sferrare raid contro obiettivi civili e militari in Serbia e Kosovo, nella guerra contro Milosevic. Dal 2009 gli Amx di Amendola alimentano a rotazione il “task group” di Herat, per il supporto del contingente italiano e alleato in Afghanistan. Di recente, i piloti hanno partecipato a importanti esercitazioni militari in Canada, Stati Uniti, Francia, Germania, Spagna, Egitto e Israele. «All’orizzonte – conclude Mazzeo – c’è l’entrata in funzione del più costoso velivolo da guerra mai prodotto, il famigerato cacciabombardiere Lockheed Martin F-35: oltre a prepararsi a fare da scuola volo europea dei droni, Amendola sarà infatti la prima base aera italiana destinata ad ospitare gli F-35 che sostituiranno prima gli Amx e poi i Tornado».

    Il governo italiano candida la base aerea di Amendola, Foggia, quale sede per la formazione dei militari di tutta Europa nella gestione degli aerei senza pilota. «L’Italia è pronta a rendere disponibili le esperienze maturate e le infrastrutture tecniche ed addestrative realizzate per costruire insieme una soluzione europea nel settore dei droni», spiega Roberta Pinotti, ministro della difesa. Obiettivo: «Costituire in Italia la prima scuola di volo europea per aeromobili a pilotaggio remoto». Nel campo dei droni, osserva Antonio Mazzeo, l’Italia si è conquistata una leadership in ambito continentale: a Sigonella, in Sicilia, operano da diversi anni i grandi velivoli senza pilota “Global Hawk” della marina Usa, mentre entro il 2016 sarà pienamente operativo l’Ags, il nuovo sistema di sorveglianza terrestre della Nato basato sull’ultima generazione di droni di produzione statunitense. Inoltre, le forze armate italiane sono state le prime in Europa ad acquisire i velivoli “Predator” per schierarli nei maggiori teatri di guerra internazionale: Afghanistan, Iraq, Libia e Corno d’Africa.

  • Il terrorismo dei fantasmi che organizza funerali e ipocrisia

    Scritto il 11/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    L’odio è un film di tanti anni fa, che finisce in un bagno di sangue proprio a Parigi, la città cosmopolita della grande scommessa integrazionista pensata ai tempi della decolonizzazione, quando gli orchi europei facevano ancora ammazzare i ribelli, i patrioti sovranisti non allineati, i Lumbumba, i Sankara, ma a presidiare la democrazia c’erano fior di partiti e sindacati, editori e intellettuali, università e società civile che volevano farla finita con l’ideologia e la pratica della sopraffazione, con l’abominio genocida, parassitario e schiavistico del terzo mondo. Erano già al lavoro le menti raffinatissime della barbarie, ma agivano nell’ombra delle officine bancarie, dell’alchimia finanziaria, per sottrarre alle masse il controllo dello Stato e della moneta. Presto avrebbero avuto bisogno di politici, e ne avrebbero reclutati a migliaia. L’odio, però, ufficialmente era ancora fuori dalla porta. Era il fantasma di Auschwitz, l’ecatombe di Hiroshima, lo spettro nucleare della guerra fredda. Allevati dai vincitori atlantici della Seconda Guerra Mondiale, gli europei coltivavano una loro relativa sovranità di benessere e privilegi grazie al primo welfare del mondo, fondato sul sacro principio in base al quale nessuno deve soffrire, perché non soffra il sistema.
    L’odio incandescente è quello che preme il grilletto a colpo sicuro e fa fuori il vignettista e il banchiere eretico, ma il suo mandante è l’odio freddo di chi progetta stragi e concepisce il mondo come un teatro da insanguinare costantemente, in modo che non si spenga la paura dei molti e la fiamma dell’odio non si estingua mai. L’odio è una promessa, una minaccia. Una punizione. Esemplare, a Parigi, la punizione degli irriverenti. Una lezione valida per tutti, musulmani e cristiani, mediorientali e occidentali: nessuno può ritenersi al sicuro, specie se ostenta idee spericolate e sciorina sberleffi, se pensa davvero di potersi prendere gioco del potere. La punizione prima o poi arriva, ed è un missile a testata multipla. Terrorizza la cosiddetta opinione pubblica, minaccia una nazione come la Francia e la ricatta, temendo la conversione sovranista del grande paese su cui si fonda l’Unione Europea. Minaccia e ricatta qualunque cittadino occidentale si creda libero. Minaccia e ricatta gli europei, trascinati loro malgrado nell’oscuro braccio di ferro autolesionistico con la Russia del gas. Il terrorismo spegne la democrazia, la ricaccia nella paura. Ed è sempre sporco, opaco e bugiardo, prima ancora che mostruoso e sanguinario.
    L’odio ha riempito un cimitero mondiale di oppositori, caduti sotto il fuoco dei golpisti, sotto le bombe, sotto il velo di strani incidenti. L’odio parla sempre con una sola voce: dobbiamo tutti avere paura, molta paura. Perché i primi a cadere sono sempre stati quelli che si erano battuti senza risparmio per insegnare all’umanità a non avere paura. Perché il potere ha davvero paura soltanto di chi non lo teme, di chi osa sfidarlo, di chi dimostra che l’oligarchia non è invincibile, sapendo che la storia dell’uomo è millenaria e nessun potere è eterno. Per questo l’odio teme la verità e predilige la menzogna, sfornando narrazioni mancine, fuorivianti, suggestive. I terroristi grotteschi, cavernicoli e deliranti, sono comparsi sulla scena soltanto negli anni ‘90, quando l’equilibrio della guerra fredda si era rotto per sempre. Prima, c’era stato soprattutto il terrorismo irredentista delle lotte di liberazione, sempre rivendicato, collegato a precise cause geopolitiche, l’Ira in Irlanda, l’Eta in Spagna, l’Olp in Palestina. Eserciti clandestini e irregolari, ma non fantasmi come quelli che misero le bombe nelle piazze italiane, sui treni, sugli aerei. L’altro terrorismo, quello dei fantasmi, è diventato improvvisamente internazionale solo dopo la fine dell’Urss, quando il teatro d’azione non era più solo l’Occidente, ma anche e soprattutto il resto del mondo.
    Oggi, il terrorismo fantasma torna invece nel cortile di casa. E’ comparso negli Stati Uniti, poi si è esteso all’Europa per mani di stragisti isolati, fanatici, pazzi, di cui però poi sono emersi imbarazzanti collegamenti con apparati di polizia e spezzoni di intelligence. Tutto questo, mentre il grande terrorismo – il più estremo e feroce – si è scatenato senza tregua contro le popolazioni civili della Cecenia, della Jugoslavia, dell’Iraq, dell’Afghanistan, contro gli inermi della Siria, i bambini di Gaza, gli abitanti del Donbass persi a cannonate. Chi piange le vittime di “Charlie Hebdo” macellate senza pietà dovrebbe domandarsi da dove viene la barbarie, chi l’ha coltivata. Chi è ben deciso probabilmente ad impiegarla ancora, e sempre di più, nel timore che il mondo si risvegli, che si risvegli la Francia, che si risvegli l’Europa. In Sicilia, ai tempi, si diceva che era sempre del killer la prima corona di fiori sulla bara dell’ucciso, sfregio definitivo alla memoria dell’assassinato e terribile monito per la comunità in lutto: siamo stati noi, e siamo invincibili. Rinunciare all’odio comporta prima di tutto un tributo supremo di verità, di ripudio dell’ipocrisia. Viceversa, si rischia di partecipare al funerale a braccetto coi camerieri dei veri mandanti del delitto, i “ministri dei temporali” pronti a tuonare comodamente contro una barbarie lontana e straniera. In un giallo, il commissario scoprirebbe che quei signori non hanno un alibi: alcuni di loro, la sera prima, erano a cena con l’assassino.

    L’odio è un film di tanti anni fa, che finisce in un bagno di sangue proprio a Parigi, la città cosmopolita della grande scommessa integrazionista pensata ai tempi della decolonizzazione, quando gli orchi europei facevano ancora ammazzare i ribelli, i patrioti sovranisti non allineati, i Lumbumba, i Sankara, ma a presidiare la democrazia c’erano fior di partiti e sindacati, editori e intellettuali, università e società civile che volevano farla finita con l’ideologia e la pratica della sopraffazione, con l’abominio genocida, parassitario e schiavistico del terzo mondo. Erano già al lavoro le menti raffinatissime della barbarie, ma agivano nell’ombra delle officine bancarie, dell’alchimia finanziaria, per sottrarre alle masse il controllo dello Stato e della moneta. Presto avrebbero avuto bisogno di politici, e ne avrebbero reclutati a migliaia. L’odio, però, ufficialmente era ancora fuori dalla porta. Era il fantasma di Auschwitz, l’ecatombe di Hiroshima, lo spettro nucleare della guerra fredda. Allevati dai vincitori atlantici della Seconda Guerra Mondiale, gli europei coltivavano una loro relativa sovranità di benessere e privilegi grazie al primo welfare del mondo, fondato sul sacro principio in base al quale nessuno deve soffrire, perché non soffra il sistema.

  • Il Pd che scappa in Svizzera coi soldi, scortato da poliziotti

    Scritto il 29/11/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Il caso di Marco Di Stefano sta assumendo tratti quasi comici, se non fossero drammatici perchè rivelatori di un malcostume politico diffuso e radicato. I magistrati hanno ricostruito come il deputato del Partito Democratico, accusato di aver preso tangenti per circa 2 milioni di euro quando faceva l’assessore in Lazio, abbia aperto due conti in Svizzera presso una filiale dell’Ubs. Per andare a portare nella Confederazione Elvetica i soldi, intascati in modo illecito secondo i magistrati, Di Stefano sarebbe stato accompagnato dai suoi amici poliziotti. Il deputato Pd, prima di entrare in politica, lavorava nella polizia di Stato, e avrebbe sfruttato i suoi antichi contatti per trasferire ingenti quantità di denaro non coerenti con la sua condizione reddituale e patrimoniale. Per i magistrati della procura di Roma la ricostruzione dei movimenti di Di Stefano, effettuata grazie alla collaborazione con le autorità elvetiche, sarebbe la prova della corruzione, mentre il deputato del Partito Democratico sostiene la sua innocenza. Il caso mette però ancora una volta in evidenza quanto il Pd sia spesso protagonista di vicende di malaffare legate alla politica.
    L’inchiesta Expo così come quella sul Mose avevano sfiorato il centrosinistra, benché in Lombardia e Veneto governino da anni partiti di centrodestra. La vicenda di Filippo Penati, collaboratore molto stretto di Pierluigi Bersani, non è mai stata affrontata dal punto di vista politico, e sostanzialmente rimossa da una classe dirigente lombarda cresciuta sotto l’ala protettrice dell’ex presidente della Provincia di Milano, punto di riferimento degli ex Ds settentrionali dal 2001 al 2011. Senza contare il rilievo nazionale avuto da Penati durante la segreteria Bersani, che gli affidò il ruolo di coordinatore della sua segreteria politica. L’intera vicenda di Marco Di Stefano interroga il Pd. L’ex assessore del Lazio ha parlato, nelle intercettazioni telefoniche, di «brogli» alle primarie 2012, minacciando di far scoppiare «un casino, coinvolgendo tutti». La nomina dell’assessore Marta Leonori che ha permesso a Di Stefano di diventare parlamentare è legata a questa vicenda? Mentre il Pd romano discute delle multe di Ignazio Marino, forse dovrebbe aprire una riflessione su un caso che lo coinvolge in modo pesante.
    La vicenda Di Stefano riguarda anche l’attuale classe dirigente del Pd nazionale. L’ex assessore del Lazio era uno dei tanti parlamentari che hanno coordinato un tavolo sulla Leopolda, ironicamente sulla “moneta digitale”. La prova di renzismo fatta da Marco Di Stefano indica come il rafforzamento della nuova maggioranza del Pd sia avvenuto in modo quantomeno poco cauto, visto che avrebbe coinvolto personale politico con più di un comportamento da “rottamare”. Una riflessione che può essere estesa ad altri casi giudiziari come quello del deputato messinese Francatonio Genovese, e che deve interrogare i vertici del Partito Democratico. Il Pd è diventato la formazione politica di riferimento del nostro sistema istituzionale, e non può non porsi il problema di come evitare l’arrivo di personale interessato solo ad arricchirsi con l’eventuale fetta di potere da conquistare. Iniziative legislative sui temi della corruzione e della trasparenza sarebbero davvero benvenute, oltre allo sviluppo di una riflessione più approfondita e sincera su quale sia il rapporto tra poteri economici e politica nell’Italia del 2014.
    (Andrea Mollica, “Perché il Pd ha accolto e candidato un faccendiere come Di Stefano, che portava i soldi in Svizzera scortato dai poliziotti?”, dal blog di Gad Lerner del 21 novembre 2014).

    Il caso di Marco Di Stefano sta assumendo tratti quasi comici, se non fossero drammatici perchè rivelatori di un malcostume politico diffuso e radicato. I magistrati hanno ricostruito come il deputato del Partito Democratico, accusato di aver preso tangenti per circa 2 milioni di euro quando faceva l’assessore in Lazio, abbia aperto due conti in Svizzera presso una filiale dell’Ubs. Per andare a portare nella Confederazione Elvetica i soldi, intascati in modo illecito secondo i magistrati, Di Stefano sarebbe stato accompagnato dai suoi amici poliziotti. Il deputato Pd, prima di entrare in politica, lavorava nella polizia di Stato, e avrebbe sfruttato i suoi antichi contatti per trasferire ingenti quantità di denaro non coerenti con la sua condizione reddituale e patrimoniale. Per i magistrati della procura di Roma la ricostruzione dei movimenti di Di Stefano, effettuata grazie alla collaborazione con le autorità elvetiche, sarebbe la prova della corruzione, mentre il deputato del Partito Democratico sostiene la sua innocenza. Il caso mette però ancora una volta in evidenza quanto il Pd sia spesso protagonista di vicende di malaffare legate alla politica.

  • Ebola, i Marines si installano tra petrolio, oro e diamanti

    Scritto il 14/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Si scrive Ebola, ma si legge Business. Metalli preziosi, materie prime, terre rare. Grazie allo stato d’emergenza proclamato per la temutissima epidemia – in realtà assai meno letale delle altre patologie di massa che straziano l’Africa – gli Stati Uniti installano in Liberia, al crocevia delle maggiori ricchezze del continente nero, la nuova task force di Africom, il comando speciale delle forze armate statunitensi creato per contendere alla Cina il controllo sulle grandi risorse africane. Nulla di ciò, ovviamente, traspare dalla retorica di Obama, secondo cui i 3.000 soldati agli ordini del generale Darryl Williams, collegati con un centro logistico in Senegal e pronti a vigilare con funzioni di «comando e controllo» sugli ospedali da campo, dimostrano che solo l’America ha «la capacità e volontà di mobilitare il mondo contro i terroristi dell’Isis», di «chiamare a raccolta il mondo contro l’aggressione russa», oltre che di «contenere e debellare l’epidemia di Ebola», definita «senza precedenti», visto che «si sta diffondendo in maniera esponenziale in Africa occidentale».
    Anche se la possibilità che l’ebola si propaghi negli Stati Uniti è estremamente bassa, scrive Manlio Dinucci sul “Manifesto”, in un articolo ripreso da “Contropiano”, in Africa occidentale l’epidemia avrebbe già provocato la morte di «oltre 2.400 uomini, donne e bambini». Evento certamente tragico ma comunque limitato, osserva Dinucci, se lo si rapporta al fatto che l’Africa occidentale ha circa 350 milioni di abitanti e l’intera regione subsahariana quasi 950 milioni. «Ogni anno muore per l’Aids nella regione oltre un milione di adulti e bambini», senza contare che «la malaria provoca ogni anno oltre 600.000 morti, per la maggior parte tra i bambini africani», e inoltre «nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale la diarrea uccide ogni anno circa 600.000 bambini, oltre 1.600 al giorno, di età inferiore ai 5 anni». Sono “malattie della povertà”, dovute alla sottoalimentazione e alla malnutrizione, alla mancanza di acqua potabile, alle cattive condizioni igienico-sanitarie in cui vive la popolazione povera, che (secondo i dati della stessa Banca Mondiale) costituisce il 70% di quella totale, di cui il 49% si trova in condizioni di povertà estrema.
    «La campagna di Obama contro l’Ebola appare quindi strumentale», scrive Dinucci. «L’Africa occidentale, dove il Pentagono installa un proprio quartier generale con la motivazione ufficiale della lotta all’Ebola, è ricchissima di materie prime: petrolio in Nigeria e Benin, diamanti in Sierra Leone e Costa d’Avorio, fosfati in Senegal e Togo, caucciù, oro e diamanti in Liberia, oro e diamanti in Guinea e Ghana, bauxite in Guinea». Inoltre, «le terre più fertili sono riservate alle monocolture di cacao, ananas, arachidi e cotone, destinate all’esportazione», mentre «la Costa d’Avorio è il maggiore produttore mondiale di cacao». Beninteso: «Dallo sfruttamento di queste grandi risorse poco o nulla arriva alla popolazione, dato che i proventi vengono spartiti tra multinazionali ed élite locali, che si arricchiscono anche con l’esportazione di legname pregiato con gravi conseguenze ambientali dovute alla deforestazione».
    Gli interessi delle multinazionali statunitensi ed europee, continua Dinucci, sono però messi in pericolo dalle ribellioni popolari come quella nel delta del Niger, provocata dalle conseguenze ambientali e sociali dello sfruttamento petrolifero. Soprattutto, sul business euro-atlantico incombe la crescente concorrenza della Cina, «i cui investimenti sono per i paesi africani molto più utili e vantaggiosi». Così, proprio «per mantenere la propria influenza nel continente», gli Usa hanno costituito nel 2007 l’Africom: «Dietro il paravento delle operazioni umanitarie», l’African Command «recluta e forma nei paesi africani ufficiali e forze speciali locali, attraverso centinaia di attività militari». Importante base per queste operazioni è Sigonella, «dove è stata dispiegata una task force del corpo dei Marines». Dotata di convertiplani “Osprey”, la forza speciale «invia a rotazione squadre in Africa, in particolare in quella occidentale». Proprio dove inizia ora la campagna di Obama “contro l’Ebola”.

    Si scrive Ebola, ma si legge Business. Metalli preziosi, materie prime, terre rare. Grazie allo stato d’emergenza proclamato per la temutissima epidemia – in realtà assai meno letale delle altre patologie di massa che straziano l’Africa – gli Stati Uniti installano in Liberia, al crocevia delle maggiori ricchezze del continente nero, la nuova task force di Africom, il comando speciale delle forze armate statunitensi creato per contendere alla Cina il controllo sulle grandi risorse africane. Nulla di ciò, ovviamente, traspare dalla retorica di Obama, secondo cui i 3.000 soldati agli ordini del generale Darryl Williams, collegati con un centro logistico in Senegal e pronti a vigilare con funzioni di «comando e controllo» sugli ospedali da campo, dimostrano che solo l’America ha «la capacità e volontà di mobilitare il mondo contro i terroristi dell’Isis», di «chiamare a raccolta il mondo contro l’aggressione russa», oltre che di «contenere e debellare l’epidemia di Ebola», definita «senza precedenti», visto che «si sta diffondendo in maniera esponenziale in Africa occidentale».

  • Benetazzo: Morte Nera, se il virus Ebola arriva in Europa

    Scritto il 18/8/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Andiamo per gradi. Tra il 1346 ed il 1352 il Vecchio Continente venne colpito dalla Morte Nera, l’epidemia di peste bubbonica che falcidiò 1/3 della popolazione europea. Nei tre secoli precedenti la popolazione europea fece un salto quantico, sostanzialmente raddoppiò in numero, passando da 40 a 80 milioni (secondo le stime più autorevoli): questo venne reso possibile dall’assenza di grandi conflitti tra gli Stati e produzioni agricole negli anni più che abbondanti. Tuttavia durante i primi decenni del 1300 vi furono prolungati periodi di carestia a causa di un peggioramento delle condizioni climatiche in generale: gli storici fanno menzione di una piccola era glaciale. La peste bubbonica sembra abbia avuto origine negli altipiani dell’Asia Centrale, in prossimità della Mongolia, in cui a seguito della scarsità di derrate alimentari e irrigidimento climatico, vi fu una moria accentuata di topi e ratti.

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