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Chi ha ucciso Olof Palme? Un atto di guerra, contro tutti noi
«Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta». Curioso: in Svezia non crescono palmizi. Di che “palma” si trattasse, il mondo lo scoprì tre giorni dopo, il 27 febbraio 1986, quando un killer freddò il premier svedese Olof Palme, considerato il padre spirituale del welfare europeo, il sistema di diritti estesi su cui la sinistra moderata e riformista ha costruito il benessere dell’Europa nel dopoguerra, cioè quel sistema contro cui si batte, strenuamente, l’Unione Europea del rigore e dell’austerity. Ma attenzione: se non bastano la super-tassazione e l’euro, i tagli alla spesa e il pareggio di bilancio, può intervenire anche il terrorismo: Charlie Hebdo, Bruxelles, Bataclan, Nizza, Berlino. E’ la tesi dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, studioso di simbologia, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. L’accusa: l’élite mondialista reazionaria si avvale di settori dei servizi segreti per fabbricare una nuova strategia della tensione, impiegando manovalanza presentata oggi come islamista. Obiettivo: seminare il caos, la paura, perché nulla cambi e il sistema resti com’è, fondato sul dominio della finanza a spese della democrazia.Ieri, prima di Al-Qaeda e dell’Isis, c’erano altre sigle in circolazione: Gladio, Stay Behind. Accusate di aver organizzato attentati come quello costato la vita all’uomo simbolo dell’Europa democratica e ostile alla guerra, Olof Palme. «Tell our friend the Swedish palm will be felled». Firmato: Licio Gelli. Messaggio ricevuto il 25 febbraio 1986 da Philip Guarino, esponente repubblicano Usa vicinissimo a George Bush senior e stretto collaboratore di Michael Ledeen, «storico e giornalista le cui vicende sono torbidamente intrecciate con l’intelligence americana», scrive Carpeoro. «Legatissimo alla Cia e appartenente alle logge massoniche di stretta emanazione Nato», negli anni ‘80 Ledeen è stato consulente strategico per i servizi statunitensi sotto Reagan e Bush. «Su posizioni neoconservatrici e reazionarie da sempre», Ledeen è stato consulente del Sismi quando il servizio era diretto dal generale Giuseppe Santovito, affiliato alla P2.Fu sponsor di Craxi e consulente di Cossiga, «per tutelare la Gladio», anche come “esperto” durante il sequestro Moro. Il faccendiere Francesco Pazienza ne indicò il ruolo anche nel depistaggio delle indagini sull’attentato a Wojtyla: fu lui, disse Pazienza, a “inventare” la fantomatica “pista bulgara”. Il nome di Ledeen, sostiene Carpeoro, è collegabile – tramite Licio Gelli – anche al giallo, tuttora irrisolto, della morte di Olof Palme, che segnò l’inizio della fine della grande stagione del benessere europeo. Nel profetico romanzo “Nel nome di Ishmael”, lo scrittore italiano Giuseppe Genna include l’assassinio di Palme tra gli oscuri misfatti della “Rete Ishmael”, dove gli omicidi eccellenti vengono sempre fatti precedere dalla raccapricciante uccisione – rituale – di un bambino, a scopro propriziatorio. E’ un mondo, quello di “Ishmael”, che ricorda sinistramente quello degli attentati di oggi, intrisi di simbologie: la data-cardine dell’epopea dei Templari ricorre nella strage del Bataclan, come il 14 luglio – la Presa della Bastiglia, cara alla massoneria illuminista – nella mattanza di Nizza.Olof Palme viene “abbattuto” il 27 febbraio: nell’anno 380 coincide con l’Editto di Tessalonica, in cui l’Impero Romano proclama religione di Stato il cristianesimo, gettando così le basi per un altro “impero”, il più longevo della storia. E sempre il 27 febbraio, ma del 1933, i nazisti incendiano il Reichstag per dare inizio al Terzo Reich. E se l’esoterismo (deviato) ha a che fare con Palme, vale ricordare che ancora un 27 febbraio, quello del 1593, viene incarcerato Giordano Bruno. Un caso, quella data, per la fine di Olof Palme? Era pur sempre il capo della P2 l’italiano Licio Gelli che, dal Sudamerica, recapitò quell’enigmatico messaggio a Washington, all’indirizzo di Guarino, sua vecchia conoscenza: «Alcuni anni prima – scrive Enrico Fedrighini sul “Fatto Quotidiano” – avevano entrambi sottoscritto un affidavit a favore di un finanziere, Michele Sindona». Era pericoloso, Olof Palme? Assolutamente sì: lo dice l’elenco dei suoi potentissimi nemici. Al premier svedese guardavano le sinistre europee: dopo aver «spogliato la monarchia svedese degli ultimi poteri formali di cui godeva», Palme aveva varato clamorose riforme sociali che avevano portato a un aumento del potere dei sindacati all’interno delle aziende, ricorda “Il Post”. «Ma fu grazie alla politica estera che Palme divenne famoso in tutto il mondo». Si scagliò contro la guerra Usa in Vietnam, «paragonando i massicci bombardamenti sul Vietnam del Nord ai massacri dei nazisti», dichiarazione che «spinse il governo degli Stati Uniti a ritirare il suo ambasciatore in Svezia».Olof Palme, continua il “Post”, fu ugualmente critico nei confronti dell’Unione Sovietica: attaccò la repressione della Primavera di Praga nel 1968 e poi l’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Criticò il regime di Augusto Pinochet in Cile, l’apartheid in Sudafrica, la dittatura di Francisco Franco in Spagna, la corsa agli armamenti nucleari e le disuguaglianze globali. L’Onu aveva affidato a Olof Palme il delicato incarico di arbitrato internazionale fra Iraq e Iran, in guerra da sei anni. «Una guerra sanguinosa, sporca, un crocevia di traffico d’armi e operazioni coperte: l’Iran stava ricevendo segretamente forniture di armi attraverso una rete formata da pezzi dell’apparato politico-militare Usa; i proventi servivano anche a finanziare l’opposizione dei Contras in Nicaragua», ricorda Fedrighini sul “Fatto”. Palme scoprì «qualcosa di ancora più grave, di più spaventoso». Ovvero: la rete che forniva armi all’Iran sembrava agire con strutture operative ramificate all’interno di diversi paesi dell’Europa occidentale, anche nella civilissima Scandinavia. Scoperte che Palme avrebbe fatto il giorno stesso della sua morte, a colloquio con l’ambasciatore iracheno.La sera andò al cinema, con la moglie, dopo aver licenziato la scorta. Fu colpito mentre si allontanava a piedi dopo la proiezione. Dal buio sbucò «un uomo con un soprabito scuro», armato di Smith & Wesson 357 Magnum. Due colpi, alla schiena. Le indagini delle autorità svedesi non portarono a nulla. Lo scrittore svedese Stieg Larsson, autore di “Uomini che odiano le donne”, aveva condotto indagini riservate sul caso, accumulando 15 scatoloni di dossier, inutilmente consegnati alla polizia e alla Säpo, il servizio segreto reale, «nella vana speranza che facessero luce sulla tragedia», scrive “Repubblica”. «Larsson lanciò un’accusa precisa: i colpevoli erano i servizi segreti del Sudafrica razzista. Ma non fu ascoltato». Lo ha rivelato lo “Svenska Dagbladet”, il primo quotidiano svedese, poco dopo la morte del romanziere, deceduto nel 2004 per un infarto. Secondo l’avvocato Paolo Franceschetti, anche Stieg Larsson «è stato probabilmente giustiziato». Lo suggeriscono troppe “coincidenze”, a partire dalla data della morte, 9.11.2004, il cui «valore numerico-rituale» è 8, cioè “giustizia”. Lo scrittore «muore come il personaggio del suo terzo libro, “La ragazza che giocava con il fuoco”: muore cioè di infarto, nella redazione del suo giornale».Per Franceschetti, sono circostanze che richiamano «la legge del contrappasso, utilizzata dall’organizzazione che si chiama Rosa Rossa», e che – sempre secondo Franceschetti – adotta, per le sue esecuzioni “eccellenti”, proprio la procedura in base alla quale Dante Alighieri organizza l’Inferno nella Divina Commedia: punizioni simboliche, commisurate alle azioni compiute durante la vita. Nulla che, in ogni caso, abbia potuto contribuire a far luce sull’omicidio Palme, per il quale venne condannato in primo grado nel 1988 un pregiudicato, Christer Patterson, prosciolto poi in appello del 1989 per mancanza di prove. Ma anche Patterson, come Stieg Larsson, non sopravivisse: «Il 15 settembre 2004, Patterson contatta Marten Palme», il figlio dello statista ucciso. «Desidera incontrarlo, ha qualcosa di importante da confidargli sulla morte del padre», racconta sempre Fedrighini sul “Fatto”. «Il giorno dopo, Patterson viene ricoverato in coma al Karolinska University Hospital con gravi ematomi alla testa. Muore il 29 settembre per emorragia cerebrale, senza mai aver ripreso conoscenza».Chi tocca muore: non era rimasta senza spiacevoli conseguenze neppure la divulgazione, nell’aprile 1990, ad opera del quotidiano svedese “Dagens Nyheter”, del telegramma inviato da Licio Gelli a Guarino nel 1986, tre giorni prima dell’omicidio Palme. Contattando i colleghi svedesi, ricorda Fedrighini, un giornalista del Tg1, Ennio Remondino, rintracciò e intervistò le fonti, due agenti della Cia, che confermarono la notizia del telegramma, «rivelando anche l’esistenza di una struttura segreta operante in diversi paesi dell’Europa occidentale, denominata Stay Behind (nella versione italiana, Gladio), coinvolta da decenni in traffici d’armi ed azioni finalizzate a “stabilizzare per destabilizzare”». L’intervista con uno dei due, Dick Brenneke, venne trasmessa dal Tg1 nell’estate del 1990, provocando «la reazione furibonda di Cossiga, il licenziamento in tronco del direttore del Tg1 Nuccio Fava e il trasferimento di Remondino all’estero come inviato sui principali fronti di guerra».Dopo oltre un quarto di secolo, il buio è sempre fitto: «L’arma del delitto non è mai stata trovata, e l’omicidio di Olof Palme è un caso ancora aperto». Per Gianfranco Carpeoro, il killer politico di Palme è già noto, si chiama “sovragestione” ed è tuttora in azione, in Europa, fra attentati e stragi. Carpeoro si sofferma in particolare sul possibile ruolo di Michael Ledeen, deus ex machina di tante operazioni coperte che hanno segnato la nostra storia recente, al punto che a metà degli anni ‘80 l’ammiraglio Fulvio Martini, allora capo del Sismi, lo fece allontanare dall’Italia come “persona non grata”. «Ledeen è membro dell’American Enterprise Institute», organismo che, «dopo l’11 Settembre, si è reso leader di un’enorme operazione di lobbismo per dirigere la politica estera Usa verso l’attuale e rovinosa “guerra al terrorismo globale”, sponsorizzando intensamente l’invasione dell’Afghanistan, l’occupazione dell’Iraq, e tentando ripetutamente di provocare l’aggressione dell’Iran». Fonti americane lo segnalano oggi nel team-ombra di Trump, impegnato a sabotare gli accordi sul nucleare con Teheran.Consulente di vari ministri israeliani, continua Carpeoro, «Ledeen è stato anche tra i capi del Jewish Institute for National Security Affairs (Jinsa), al cupola semi-segreta collegata al B’nai Brith, la superloggia massonica ebraica che sovragestisce le relazioni inconfessabili tra l’esercito israeliano, alcuni settori del Pentagono e l’apparato militare industriale americano». Ledeen, continua Carpeoro, riuscì anche a sabotare i rapporti fra Italia e Usa durante il sequestro dell’Achille Lauro, traducendo in diretta – in modo infedele – le parole che Ronald Reagan rivolse a Bettino Craxi. Il suo nome, poi, riaffiora durante lo scandalo Nigergate: come svelato dai giornalisti italiani Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, Ledeen avrebbe scelto il Sismi «per trasmettere alla Cia falsi documenti a riprova dell’importazione di uranio dal Niger da parte dell’Iraq di Saddam Hussein», poi utilizzati da Bush come “prova” dell’armamento “nucleare” di Saddam, alibi perfetto per scatenare la Seconda Guerra del Golfo, l’invasione dell’Iraq e l’uccisione dello stesso Saddam, in possesso di segreti troppo scomodi per la Casa Bianca.Nel film “L’avvocato del diavolo”, Al Pacino (il diavolo) rimprovera il suo allievo, Keanu Reeves: «Sei troppo appariscente», gli dice: «Guarda me, invece: nessuno mi nota, nessuno mi vede arrivare». A pochissimi, in Italia, il nome Michel Ledeen dice qualcosa, nonostante abbia avuto un ruolo in moltissime pagine della nostra storia, fino a Di Pietro (in contatto con Ledeen all’epoca di Mani Pulite) e ora «con Beppe Grillo» e con lo stesso Matteo Renzi, «attraverso Marco Carrai». Per Gioele Magaldi, Ledeen milita nella Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, fondata dal clan Bush, con al seguito personaggi come Blair, Sarkozy, Erdogan. La “Hathor” avrebbe avuto un ruolo nell’11 Settembre, nella creazione di Al-Qaeda e poi in quella dell’Isis, avendo affiliato lo stesso Abu Bakr Al-Baghdadi. Nuovo ordine mondiale, da mantenere ad ogni costo scatenando il caos attraverso la guerra e il terrorismo? Carpeoro la chiama, semplicemente, “sovragestione”. Spiga che le sue “menti” si richiamano alla teoria della “sinarchia” del marchese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre: l’élite illuminata ha il diritto divino di imporsi sul popolo, anche con la violenza, uccidendo i paladini dei diritti democratici. Come sarebbe, oggi, l’Europa, con uomini come Olof Palme? Quattro anni prima di essere trucidato, Palme aveva varato il rivoluzionario Piano Meidner: un nuovo modello di partecipazione, che coinvolgeva i lavoratori nella gestione delle imprese, condividendone anche gli utili. Olof Palme “doveva” morire. E con lui, noi europei.«Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta». Curioso: in Svezia non crescono palmizi. Di che “palma” si trattasse, il mondo lo scoprì tre giorni dopo, il 27 febbraio 1986, quando un killer freddò il premier svedese Olof Palme, considerato il padre spirituale del welfare europeo, il sistema di diritti estesi su cui la sinistra moderata e riformista ha costruito il benessere dell’Europa nel dopoguerra, cioè quel sistema contro cui si batte, strenuamente, l’Unione Europea del rigore e dell’austerity. Ma attenzione: se non bastano la super-tassazione e l’euro, i tagli alla spesa e il pareggio di bilancio, può intervenire anche il terrorismo: Charlie Hebdo, Bruxelles, Bataclan, Nizza, Berlino. E’ la tesi dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, studioso di simbologia, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. L’accusa: l’élite mondialista reazionaria si avvale di settori dei servizi segreti per fabbricare una nuova strategia della tensione, impiegando manovalanza presentata oggi come islamista. Obiettivo: seminare il caos, la paura, perché nulla cambi e il sistema resti com’è, fondato sul dominio della finanza a spese della democrazia.
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Quegli strani suicidi all’italiana, da Gardini a Pantani
Finalmente, dopo dieci anni s’è riaperto il caso Pantani, frettolosamente archiviato come suicidio anche se il campione quella mattina del 2004 aveva chiesto aiuto per due volte, invocando l’intervento dei carabinieri, prima che fosse ritrovato senza vita, in una stanza distrutta, con accanto un misterioso biglietto con scritto che “le rose sono contente e la rosa rossa è la più contata”. Indagini all’epoca così “distratte” da non registrare le troppe anomalie: tali e tante, che il giornalista francese Philippe Brunel ne ha scritto un libro-denuncia, “Gli ultimi giorni di Marco Pantani”, edito da Rizzoli-Bur. Il fatto è che nel nostro paese sono davvero parecchi i “casi Pantani”, osserva l’avvocato Solange Manfredi: «Casi da cui risulta evidente che qualcosa non funziona, o forse funziona sin troppo bene». Troppe indagini diffettose, troppi processi che poi a distanza di anni si rivelano completamente da rifare, perché «caratterizzati sempre dagli stessi errori, le stesse carenze e violazioni». Pantani, Gardini, Cagliari. E tutti gli altri suicidi apparenti di cui è lastricata la nostra storia recente.«Chi come me studia i fascicoli processuali – scrive Solange Manfredi nel blog di Paolo Franceschetti – si ritrova sempre davanti alle stesse situazioni: quasi come se esistesse un meccanismo che si mette in moto per impedire l’accertamento delle uniche cose che il procedimento penale ha lo scopo di accertare», ovvero «come si sono svolti i fatti e chi ne è responsabile». I suicidi anomali, avverte la Manfredi, sono molto frequenti, anche se sono veramente pochi quelli che balzano agli onori delle cronache. In tutti questi casi, «le indagini presentano sempre le stesse carenze». Delle stranezze sulla fine di Pantani, trovato morto a Rimini il 14 febbraio 2004 in una stanza del residence “Le Rose”, si sa ormai abbastanza. Il “suicida” Pantani aveva ingerito cocaina: nel corpo ne era stata rinvenuta una quantità sei volte superiore alla dose letale. «Eppure ci sono tante cose che non quadrano». Per due volte, poco prima di morire, aveva telefonato alla reception: «Per favore, chiamate i carabinieri, ci sono qui due persone che mi stanno dando fastidio».Nel cestino della camera vengono ritrovati i resti di del cibo cinese che Marco detestava: quel cibo non l’ha mai ordinato, né tantomeno mangiato. In camera vengono ritrovati indumenti che l’atleta, all’arrivo in albergo, non aveva. Il ciclista viene ritrovato in una pozza di sangue del diametro di un metro, sul suo corpo sono presenti ferite (conseguenza di calci e pugni) e la stanza è a soqquadro, come se ci fosse stata una lotta. Secondo l’ultima perizia, poi, i segni sul corpo del campione rivelano che Pantani è stato trascinato. Tutto molto strano. Come il “suicidio anomalo” del giovane Attilio Manca, avvenuto appena due giorni prima, a Viterbo, la mattina del 12 febbraio 2004. Il corpo viene ritrovato nel suo appartamento, e anche in questo caso per la Procura si è trattato di suicidio. Attilio ha nelle vene un mix letale di tre sostanze: eroina, sedativi e sostanza alcolica. Ma le modalità di assunzione sono assolutamente incredibili, prende nota Solange Manfredi.«Attilio viene ritrovato in camera da letto riverso sul letto seminudo, dal naso e dalla bocca è fuoriuscita una ingente quantità di sangue che ha provocato una pozzanghera sul pavimento. I suoi pantaloni sono appoggiati sulla sedia, ma nella casa non si ritrovano né i suoi boxer né la camicia. Il volto presenta una vistosa deviazione del setto nasale e sugli arti sono presenti numerose ecchimosi». Sul corpo di Attilio, poi, sono visibili i segni di due distinte iniezioni: una al polso e una all’avambraccio. In effetti, «nell’appartamento vengono ritrovate due siringhe da insulina usate, una in bagno e una nella pattumiera della cucina». La la cosa strana è che «ad entrambe è stato riapposto il tappo salva-ago». E attenzione: «I segni delle iniezioni letali sono sull’avambraccio sinistro, ma Attilio era un mancino puro: con la destra non sapeva fare praticamente nulla. Eppure, quando decide di suicidarsi, usa proprio la destra».Dunque, conclude la Manfredi, sia Marco che Attilio si sarebbero suicidati con una overdose: Marco ingerendo cocaina contenuta all’interno di palline fatte di mollica di pane, e Attilio praticandosi due iniezioni – una sull’avambraccio e una sul polso – con la mano destra, lui che era mancino puro. Overdose volontaria? E allora perché entrambi i corpi presentano ferite da colluttazione? «Attilio ha addirittura il setto nasale deviato, mentre Marco risulta essere stato trascinato». Ma per gli inquirenti si è trattato di suicidio, in entrambi i casi. Accadde la stessa cosa con altri tre suicidi eccellenti, maturati in piena Tangentopoli: quelli di Sergio Castellari, Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Castellari, direttore generale degli affari economici del ministero delle Partecipazioni Statali, poi consulente Eni, scompare il 18 febbraio 1993. Il corpo senza vita viene ritrovato il 25. Per la Procura è suicidio. O meglio, il più incredibile dei suicidi.Castellari si sarebbe sparato alla testa e la morte sarebbe avvenuta il 18 febbraio. «Eppure, il cadavere – rinvenuto 7 giorni dopo – non presenta processi putrefattivi». In più, «entrambe le mani presentano amputazioni di alcune dita». Le dita sono state certamente amputate, non mangiate da qualche animale. Inoltre, «la pistola Smith & Wesson calibro 9 con cui si sarebbe sparato è infilata nella cintura dei pantaloni», addirittura. Dettaglio ulteirore: «Il cane dell’arma è alzato». E poi il proiettile con cui si sarebbe suicidato: sparito, dissoltosi nel nulla. Infine, «sull’arma non vengono ritrovate impronte», men che meno quelle della vittima. «Dunque, secondo la Procura, Castellari prima si amputa qualche dito (che non verrà ritrovato) da entrambe le mani, quindi si suicida sparandosi alla testa con una calibro 9 – che gli porta via mezza calotta cranica – e, dopo, compie queste attività: riarma il cane della pistola, la pulisce dalle impronte digitali, se la infila nei pantaloni, fa sparire il bossolo del proiettile con cui si è sparato e solo dopo, finalmente, muore».Il 20 luglio 1993 tocca a Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, arrestato l’8 marzo di quell’anno. Viene ritrovato nel bagno della sua cella con una busta di plastica legata al collo. Altro suicidio, per gli inquirenti. Cagliari si sarebbe suicidato chiudendosi nel bagno: prima di farla finita, avrebbe bloccato la porta della toilette con un paletto inserito nella maniglia. «Eppure il pezzo rotto e mancante del paletto che sarebbe servito a Cagliari per chiudersi dentro il bagno non si trova», ricorda Solange Manfredi. Inoltre, secondo le testimonianze, «nei primi soccorsi a Cagliari sarebbe stato strappato il sacchetto dal viso per permettergli di respirare: eppure quel sacchetto viene ritrovato integro». Al momento dell’autopsia vengono poi riscontrate sul corpo di Cagliari diverse lesioni agli zigomi, al cuoio capelluto, allo sterno e alle costole, con ecchimosi e infiltrazioni emorragiche. «Ma se al momento del ritrovamento Cagliari era morto, come se le è prodotte quelle lesioni? Gli ematomi si possono formare solo se vi è circolazione sanguigna. Questo vuol dire che quelle ecchimosi se l’era prodotte prima della morte. Come?».Infine, Raul Gardini. Il capo del gruppo Ferruzzi, coinvolto nel caso Enimont, muore il 23 luglio del 1993. Ufficialmente, «sparandosi un colpo di pistola alla tempia nella sua camera da letto». Peccato che «sul letto, sull’orologio, sui cuscini e sul lenzuolo» non siano stati ritrovati residui di polvere da sparo. Inoltre, «nessuno dei collaboratori domestici presenti in casa ha sentito lo sparo», benché l’arma non fosse dotata di silenziatore. Strana pistola: «Viene ritrovata appoggiata sulla scrivania a diversi metri dal letto». E persino il bossolo «viene rinvenuto sul pavimento a tre metri di distanza da dove avrebbe dovuto trovarsi se Gardini si fosse suicidato». Anche in questo caso sull’arma non vengono rilevate impronte, neanche quelle della vittima. Sulle cartucce, invece, «vengono trovate impronte non appartenenti a Raul Gardini». All’esame autoptico, per contro, «il corpo presenta una frattura alla base cranica e una ecchimosi sotto l’occhio». Per l’avvocato Manfredi sono lesioni compatibili con ben altra dinamica: qualcuno ha afferrato la testa di Gardini e gliel’ha sbattuta contro un corpo solido.«Anche in questo caso – scrive Solange Manfredi, sarcastica – Gardini si è prima procurato una lesione alla base cranica, quindi si è sparato alla testa sul letto, quindi si è alzato, ha pulito la pistola dalle impronte digitali, l’ha riposta con cura sullo scrittoio, ha spostato il bossolo (forse perché dov’era faceva disordine), quindi è ritornato a letto, e poi è morto». Storie semplicemente incredibili. «Tutti i corpi presentano lesioni immediatamente precedenti il suicidio». Lesioni «difficilmente spiegabili con la dinamica suicidaria». Più verosimilmente, quelle ferite sono «compatibili con una colluttazione». In tutti i luoghi del ritrovamento, poi, alcuni oggetti mancano, insipegabilmente. E, altrettanto misteriosamente, altri oggetti – non collegabili al “suicida” – vengono rinvenuti sulla scena del crimine. «E le attività investigative sono carenti e contraddittorie». Tutti suicidi anomali. Così numerosi e macroscopici da indurre un magistrato come Mario Almerighi, amico di Giovanni Falcone, a indagare a fondo, nel libro “Suicidi? Castellari, Cagliari, Gardini”, editito dall’Università La Sapienza. «Ancora una volta il meccanismo si è messo in moto, e ancora una volta con tragico successo», si è portati a pensare. Perché «anche il sistema uccide». Per la precisione, «uccide chi diventa inaffidabile».Finalmente, dopo dieci anni s’è riaperto il caso Pantani, frettolosamente archiviato come suicidio anche se il campione quella mattina del 2004 aveva chiesto aiuto per due volte, invocando l’intervento dei carabinieri, prima che fosse ritrovato senza vita, in una stanza distrutta, con accanto un misterioso biglietto con scritto che “le rose sono contente e la rosa rossa è la più contata”. Indagini all’epoca così “distratte” da non registrare le troppe anomalie: tali e tante, che il giornalista francese Philippe Brunel ne ha scritto un libro-denuncia, “Gli ultimi giorni di Marco Pantani”, edito da Rizzoli-Bur. Il fatto è che nel nostro paese sono davvero parecchi i “casi Pantani”, osserva l’avvocato Solange Manfredi: «Casi da cui risulta evidente che qualcosa non funziona, o forse funziona sin troppo bene». Troppe indagini diffettose, troppi processi che poi a distanza di anni si rivelano completamente da rifare, perché «caratterizzati sempre dagli stessi errori, le stesse carenze e violazioni». Pantani, Gardini, Cagliari. E tutti gli altri suicidi apparenti di cui è lastricata la nostra storia recente.