Archivio del Tag ‘socializzazione’
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Marella Agnelli: c’era una volta la Fiat, oggi non più italiana
Fiat fuit. Con la morte dell’ultima imperatrice, Marella Caracciolo-Agnelli, finisce la dinastia Fiat, tragicamente decimata dal destino. Nella sua figura regale si sintetizzava l’incontro della dinastia imperiale delle Auto e del Capitalismo nostrano con la dinastia principesca-editoriale dei Caracciolo, già proprietari de “La Repubblica-l’Espresso”. Per il mondo radical che l’ha salutata, la Signora era la sintesi perfetta dell’Impero Fiat e del mondo progressista-liberal. Così l’hanno ricordata Gianni Riotta, Nicola Caracciolo, Ezio Mauro ed altri. Marella Agnelli simboleggiava, con classe e sensibilità, va detto, l’incontro tra la saga padronale e il mondo della sinistra venuto dal comunismo, dalle lotte operaie contro i “padroni”. Fiat e Martello, auto, aiuti di Stato e stampa progressista. Poi, magari la signora aveva altre sensibilità, amava l’Oriente, Jung e Hillman, pativa con ammirevole self control alcune intemperanze di suo Marito, il Re Gianni. Ma viene celebrata nel suo ruolo di cerniera tra il mondo dei ricchi e la sinistra, tra il piccolo mondo snob e la sinistra a mezzo stampa. Con Marchionne era già finito l’ultimo residuo di mezza italianità della Fiat. Manca l’Italia nella nuova Fiat. Resta il marchio della Ferrari, del Cavallino rosso, ma non più l’Azienda-Regime.La Fiat manca come sede, manca come leadership, manca come orizzonte di riferimento, manca l’I d’Italia nel nuovo nome, Fca, anche per evitare sigle oscene, almeno da noi. Come è noto, l’ex Fiat è ora un’azienda italo-statunitense con domicilio fiscale legale in Olanda e sede centrale a Londra, guidata da un inglese e presieduta da John Elkann che avremmo difficoltà a definire italiano, per nome, origine e visione. Resta come sottomarca la Fiat, piccolo gadget per il vintage e per gli acquirenti nostalgici; quel marchietto antico che sa tanto di miracolo economico, anni Cinquanta, famiglie italiane, film in bianco e nero. Una dopo l’altra le aziende italiane se ne vanno all’estero. Il paradigma resta la Fiat che lasciò l’Italia cinque anni fa. Ricordo cosa dissero i nostri media quando la Fiat s’imparentò a Chrysler. Gran Torino, caput mundi; che trionfo, la Fiat si è pappata la Chrysler, Obama assunto come maggiordomo di colore da Marchionne, gli Stati Uniti aspettano trepidanti che l’azienda torinese porti la modernità nel loro paesone e risolva la crisi economica mondiale.È il giorno dell’orgoglio italiano, titolavano perturbati e commossi i grandi giornali italiani, tutti o quasi partecipati Fiat, in un modo o nell’altro. Gli Usa andranno in 500, profetizzavano euforici gli editoriali e le tv, l’Italia ricolonizza l’America, come ai tempi di Colombo e di Vespucci. Momento storico, ripetevano solenni i Tg, gli italiani della Fiat portano l’auto ecologica in America. Ma la Fiat non era in un mare di guai, non l’aiutava lo Stato, incluso il governo Berlusconi? Ma non si erano dimezzate le vendite delle auto? E che fine avevano fatto i giudizi sulla qualità delle auto Fiat? Poi, come è noto, andò diversamente. Oggi a malapena la Fiat è la nonnina di paese della Fca global. Ma guardiamo il diritto e il rovescio. A centoventi anni dalla nascita nel 1899, il diritto dice che la Fiat è parte notevole della storia d’Italia del Novecento e la sua Famiglia Reale è stata l’altra dinastia torinese che ha dominato l’Italia dopo i Savoia.La Fiat è stata il simbolo, la metafora e il veicolo italiano dell’industrializzazione e della modernizzazione, dell’immigrazione da sud a nord e dell’immaginario collettivo e privato, fino a colonizzare lo sport, tramite l’egemonia della Juve, ancora perdurante, arrivando a disegnare l’assetto dei trasporti su gomma del nostro paese. La Fiat non è mai stata solo una grande azienda privata ma ha sempre agito all’ombra della pubblica protezione: anche ai tempi del fascismo godette del sostegno del regime e del duce in persona; poi in guerra le tresche bilaterali con nazisti e partigiani, ad esempio, per boicottare la socializzazione delle aziende promossa dalla Rsi che non piaceva né ai comunisti né ai “padroni”. Poi, l’aiuto governativo ai tempi della cassa integrazione, dalle agevolazioni in ogni campo ai grandi ammortizzatori delle sue perdite. E’ proverbiale il detto che la Fiat socializzava le perdite e privatizzava i profitti.(Marcello Veneziani, “C’era una volta la Fiat”, da “La Verità” del 26 febbraio 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Fiat fuit. Con la morte dell’ultima imperatrice, Marella Caracciolo-Agnelli, finisce la dinastia Fiat, tragicamente decimata dal destino. Nella sua figura regale si sintetizzava l’incontro della dinastia imperiale delle Auto e del Capitalismo nostrano con la dinastia principesca-editoriale dei Caracciolo, già proprietari de “La Repubblica-l’Espresso”. Per il mondo radical che l’ha salutata, la Signora era la sintesi perfetta dell’Impero Fiat e del mondo progressista-liberal. Così l’hanno ricordata Gianni Riotta, Nicola Caracciolo, Ezio Mauro ed altri. Marella Agnelli simboleggiava, con classe e sensibilità, va detto, l’incontro tra la saga padronale e il mondo della sinistra venuto dal comunismo, dalle lotte operaie contro i “padroni”. Fiat e Martello, auto, aiuti di Stato e stampa progressista. Poi, magari la signora aveva altre sensibilità, amava l’Oriente, Jung e Hillman, pativa con ammirevole self control alcune intemperanze di suo Marito, il Re Gianni. Ma viene celebrata nel suo ruolo di cerniera tra il mondo dei ricchi e la sinistra, tra il piccolo mondo snob e la sinistra a mezzo stampa. Con Marchionne era già finito l’ultimo residuo di mezza italianità della Fiat. Manca l’Italia nella nuova Fiat. Resta il marchio della Ferrari, del Cavallino rosso, ma non più l’Azienda-Regime.
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Pornografia e feticismo, la postmodernità delle anime morte
La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.Schiavitù economica contrabbandata come libertà per i singoli, ma fino a un certo punto, perché si mina alla base il concetto di uguaglianza (perché dovremmo essere uguali? L’individuo non deve essere uguale a nessun altro) per favorire l’individualismo thatcheriano. Negli ultimi 10 anni si sono diffuse in Europa vari tipi di forze politiche, che sono state definite dal potere “populismi”: Indignados, Sovranisti, Podemos, M5S. Ma secondo l’ordine simbolico e linguistico imposto dal potere, con il solo obiettivo di rinsaldare il proprio dominio sui dominati, è necessario controllare la popolazione, e mantenere la massa schiavizzata in una condizione di subalternità, in modo tale che la neolingua possa diventare veicolo di potenziamento dei valori del neoliberismo. Dal 1989 il capitale ha adottato una nuova neolingua, e chiunque metta in discussione il potere oligarchico viene demonizzato come disfattista, complottista, o populista. La categoria di populista serve esattamente a diffamare ogni prospettiva che assuma la parte del Servo e non del Signore (“Fenomenologia dello spirito”, W. Friedrich Hegel).Oggi viene diffamato chiunque prenda la difesa dei lavoratori precarizzati e schiavizzati, perché ciò contraddice il potere, che vuol contrabbandare i propri dogmi ideologici come fossero interessi universali: concorrenza, competitività, globalizzazione, delocalizzazione, cancellazione dell’articolo 18, licenziabilità senza giusta causa, flessibilità. Chiunque abbia il coraggio di svelare il vero significato oscurato della neolingua viene silenziato come populista e complottista, incapace di accettare la mera ricostruzione dei fatti e degli eventi prospettata dalla mediatizzazione della realtà, che il potere ci mostra quotidianamente sugli schermi televisivi. Il termine “populismo” o “antipolitica”, viene quindi usato dal potere con toni spregiativi e diffamatori, è diventato una specie di parolaccia. E i media ci presentano una realtà confusa e distorta, Grillo come Trump, Raggi come Obama, l’imperatore buono, Premio Nobel per la pace, in realtà ha sostenuto 7 guerre in contemporanea (Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria).Modernità e Postmodernità. Termini che indicano lo spirito di una civiltà, nel suo divenire storico, antropologico e culturale. La distinzione va ricercata secondo un’analisi marxista, l’aforisma di Marx, per cui «la cultura dominante coincide perfettamente con la cultura della classe dominante» (Karl Marx, “Ideologia tedesca”). Le realtà virtuali, l’iperrealtà, sono la matrice della Postmodernità, strettamente correlate all’uso di macchine creatrici di virtualità: Pc, Tablet, iPhone… Se la “produzione” è la cifra della Modernità, la “simulazione” è quella della Postmodernità. La Postmodernità ridimensiona la produzione per favorire la simulazione, sposta ingenti masse di salariati dalle fabbriche al terziario o oltre, azzera quella middle class che era il volano dell’economia dei consumi, chiude impianti produttivi. La disoccupazione di massa è la vera piaga della postmodernità: felicità virtuale e disperazione reale.L’Illuminismo aveva concentrato l’attenzione sull’impatto politico della nuova mentalità scientifica, che inneggiava all’“Homo faber fortunae suae”, e aveva indotto i nuovi uomini a sostenere le prime grandi rivoluzioni della storia, Rivoluzione Americana 1776, Rivoluzione Francese 1789. Il background filosofico culturale entro cui nasce il populismo è dunque l’età postmoderna, che propone una narrazione sempre più inquieta e socialmente devastante, dove le solide narrazioni della modernità si sono frantumate contro il nonsense di un sistema sociale globalizzato, sfilatosi verso una remota periferia a-ideologica. Diversi autori hanno percepito in anticipo l’avvento del postmoderno, e lo hanno interpretato attraverso la loro acuta sensibilità, a partire dagli anni ’70: Jean-François Lyotard, Guy Debord, Jean Baudrillard, Marc Augé, Zygmunt Bauman. Al popolo postmoderno non interessa la “verità” dei fatti né il senso degli eventi, perché vuole ascoltare solo le narrazioni, favole illusionistiche, simulacri evanescenti, emersi direttamente dal nuovo oscuro inconscio collettivo, e dalla società dello spettacolo.Le nuove minacce metropolitane sono: migranti e clandestini che invadono il paese, offrendo manodopera a basso costo, ingrossando le file della microcriminalità e minando così la serenità sociale; grottesche crociate contro l’Islam; politiche di austerity che massacrano l’economia dell’Italia, divenuta il Sud Europa. La “notizia” della postmodernità è una fake news, consiste nella negazione stessa dell’informazione, perché non mira a informare sulla “verità” dei fatti, ma li reinterpreta deformandoli, proprio per oscurarli completamente (Marco Travaglio, “La scomparsa dei fatti”). Jean-François Lyotard, nel suo testo “La condizione postmoderna” (1979), conia il nuovo termine di “postmoderno” per definire l’epoca attuale. Il termine designa uno sviluppo tecnologico e scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. Lo sviluppo tecnologico diventa sempre più invasivo per il benessere neurovegetativo umano (“Psyche e Techne”, Umberto Galimberti). La pornografia dei media produce la molteplicità dei linguaggi, la contaminazione degli stili, un citazionismo ossessivo (film di Quentin Tarantino), tipico di un’epoca che non ha più nulla da dire, se non ripetere all’infinito, in modalità sempre diverse, le stesse tematiche.Ne è derivata la perdita di centralizzazione nell’organizzazione dello Stato (federalismo), la perdita di sovranità (euro, Ue), un aumento dei “processi di disgregazione dello Stato Nazione”. L’Occidente sta vivendo una stagione sconcertante, attraversata dalle rapidissime trasformazioni scientifico-tecnologiche. Con grande lucidità, Lyotard propone una partizione storiografica tra l’epoca moderna (secoli XVII e XX) e l’epoca post-moderna, che si è affermata compiutamente nel tardo Novecento. I moderni e i postmoderni professano una visione dell’uomo, della società e in genere della realtà, antitetiche nei loro aspetti più essenziali. L’idea forte dei moderni è il progresso umano, essi concepiscono la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo realizza e arricchisce le proprie facoltà. L’idea forte della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Ciò che definisce l’essenza della condizione post-moderna, invece, è proprio la negazione della capacità umana di produrre il progresso, una sorta di nichilismo dei valori. Ne segue la negazione della scuola e dell’università come agenti di socializzazione e orientamento di valori. La perdita di potere e di funzione sociale dell’intellettuale, che a partire dall’età dei Lumi era stato la coscienza della modernità. Tutto molto strano per quella che viene definita la «società della conoscenza».Guy Debord, di formazione hegeliana e marxista, è stato uno dei critici più importanti delle società occidentali avanzate. L’incipit della “Società dello Spettacolo” (1967) riprende a un secolo di distanza quello del “Capitale” (1867) di Marx: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci». L’incipit dell’opera di Debord è: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (“La Società dello Spettacolo”). Secondo Debord, La caratteristica principale del capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale, nell’espansione delle tecnologie della comunicazione, e nel «feticismo delle merci». Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente «la sua manifestazione sociale più opprimente» («Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini»). Tuttavia lo spettacolo è necessariamente falso ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una parte della società.«Per il fatto stesso che lo spettacolo è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza». Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. E poi, giacché la comunicazione dei media è unilaterale, il Potere giustifica se stesso attraverso un incessante discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte. «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere». Lo spettacolo del capitalismo presuppone quindi l’assenza di dialogo, poiché è solo il potere a parlare. «Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento». Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il quale ha esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. In questo modo lo spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato.È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini l’alienazione del consumatore: «Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio». In una società mercificata, sostiene Debord, è la merce ad avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.Questo modello impregna di sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo il prototipo di ogni competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce, e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”. Alle regionali siciliane Vittorio Sgarbi si presenta con un movimento, “Rinascimento siciliano”, insieme a Morgan e Giulio Tremonti, proponendo un trinomio decisamente bizzarro, composto da vecchi arnesi della politica spettacolo, camuffati da nuova proposta rinascimentale. La società è completamente dominata da immagini falsificate che sostituiscono la realtà, facendo scomparire qualsiasi verità al di là della falsificazione continua. Ciò determina una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo e quindi anche della democrazia. La finzione di democrazia è mantenuta in vita solo attraverso la costruzione di un nemico comune, il quale consente una falsa unità che ricopre la realtà della separazione gerarchica tra dirigenti ed esecutori. È questo il ruolo del terrorismo. «Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati».La mondializzazione dell’economia è l’apogeo di questo processo che si distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo elemento, ma d’importanza decisiva. «Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza». Si può quindi affermare che «l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo». Nella comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato dovrebbe riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto che l’economia è il vero motore della storia. A questa presa di coscienza si oppone lo spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia.Jean Baudrillard poi, altro acuto osservatore del postmoderno, ha illustrato la frammentazione dell’identità e l’immagine frammentata del mondo e dell’uomo, confezionata dai mass media contemporanei, i quali trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare. Per lo spettatore dei media tutto si riduce ad apprezzare l’intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di proiezione nei confronti di personaggi e caratteri. Baudrillard inizia con la critica polemica verso il capitalismo. Smantellate le grandi teorie che guardavano alla realtà come un sistema complesso ma ordinato e descrivibile (“Idealismo o Positivismo”), il presente diventa ora un insieme di segni. Oggi predomina una iperrealtà virtuale, fatta di segni e simulacri (“Simulacri e simulazioni”, 1981). Ad essere messo in discussione è il concetto di realtà, non di verità, come spesso era accaduto in passato. Lo sguardo di Baudrillard che si proietta sul quotidiano è pessimistico, per non dire tragico e drammatico. La cultura produce qualcosa senza significato, e la sola branca del reale che è in grado di tenere in mano le sorti dell’uomo è l’industria, la società dei consumi.I nuovi media hanno giocato un ruolo cruciale nella fabbricazione del significato o finto valore della realtà. Nel suo libro “Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?” (1996), Baudrillard ha spiegato come la televisione abbia sostituito la realtà. Tutto ciò che vediamo attraverso lo schermo è una comunicazione artificiale, un reale contraffatto, che diventa la vera realtà. Consideriamo Disneyland, Las Vegas, dove tutto è incastrato in un meccanismo di funzionamento invidiabilmente impeccabile, un mondo finto che però funziona alla perfezione. Ci rechiamo volontariamente in tali luoghi perché attratti dalla spettacolarità magnetica della ri-creazione, della meraviglia, del simulacro. Siamo assorbiti dalla manipolazione dei media, dei programmi informatici e delle psicologie commerciali. Qual è l’originale realtà per noi? Viviamo di segni e simulacri realtà virtuali o siamo in grado di coglierne la differenza con criticità? Viviamo nei non-luoghi, definiti così da Marc Augé nel libro “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”. Gli spazi privi di identità, relazioni e storia: autostrade, svincoli e aeroporti, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, sale d’aspetto, ascensori… ecc ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione, senza entrare in contatto, senza discutere, parlare, guardarsi, dialogare… l’esatto contrario dell’agorà di Atene, culla della democrazia. Sospinti solo dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare viaggi e percorsi.I nonluoghi sono prodotti della società della postmodernità, dove i luoghi della memoria sono confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Le differenze culturali sono massificate, in ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto racchiuso lì. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente, caratterizzato dalla precarietà assoluta dalla provvisorietà, dal viaggio, dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. Nel film “The Terminal” di Steven Spielberg, il protagonista, Tom Hanks, un cittadino di un immaginario Stato dell’Europa orientale, atterra a New York e dopo aver scoperto che nel suo paese è avvenuto un colpo di Stato, diviene improvvisamente un uomo senza nazionalità, e perciò impossibilitato sia a uscire nella tanto agognata New York, sia a fare ritorno a casa, quindi resta prigioniero e si integra perfettamente nel nonluogo. I nonluoghi sono presenti anche sulla moneta Euro, con l’effigie di edifici e monumenti privi di identità e di storia, a differenza delle immagini presenti sulla Lira di Caravaggio, Verdi, Montessori, Galileo, Marconi, Colombo…Gli utenti si accontentano della sicurezza di poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Da qui un paradosso: il viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri nonluoghi (“Villaggio globale”, Marshall McLuhan). Il rapporto fra i nonluoghi e i suoi abitanti avviene solitamente tramite simboli, parole o voci preregistrate. L’esempio lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non superare la linea bianca davanti agli sportelli. L’individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche di cittadino e i suoi ruoli personali per continuare a esistere solo ed esclusivamente come cliente o utente. Non vi è un riconoscimento delle classi sociali, come siamo abituati a pensare nel luogo antropologico. Si è socializzati, identificati e localizzati solo in occasione dell’entrata o dell’uscita dal nonluogo; per il resto del tempo si è soli e simili a tutti gli altri utenti/ passeggeri/ clienti/ consumatori che si ritrovano a recitare una parte che implica il rispetto delle regole.La società che si vuole democratica non pone limiti all’accesso ai nonluoghi. Farsi identificare come consumatori solvibili, attendere il proprio turno, seguire le istruzioni, fruire del prodotto e pagare. Anche il concetto di “viaggio” è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: i grandi “nonluoghi” posseggono ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici. Il più grande centro commerciale degli Stati Uniti d’America, il “Mall of America”, richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno. Scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: «Si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland». Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L’identità storica delle città è stata ridotta a stereotipo di richiamo turistico. Nell’Europa che tenta di fermare l’ingresso dei migranti, si crea un’ambivalenza dei nonluoghi: quelli dell’abbondanza, e quelli della miseria, come campi profughi, centri di detenzione dei migranti et similia. In essi però l’identità è pericolosa per chi ci si trova, poiché espone al rischio di espulsione o incarcerazione.Zigmunt Bauman è stato forse il pensatore, che ha meglio interpretato il disorientamento contemporaneo. Molti saggi di grande successo, a partire da “Dentro la globalizzazione” del 1998, o “Modernità liquida” del 2000, lo hanno decretato il guru del pensiero della postmodernità. La modernità liquida, concetto fra i più noti del sociologo, ci dice che con la fine delle grandi narrazioni del secolo scorso sono finite anche le certezze del passato in ogni ambito, dal welfare al lavoro fisso, dalla sanità pubblica alle pensioni, la postmodernità le ha smontate tutte, dissacrandole e mescolandole a pulsioni nichilistiche. L’unica comunità dell’individuo è diventata il consumo, la sua unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui nuotiamo tutti noi senza più una missione comune (“Amore liquido”, 2003 o “Vita liquida”, 2005). La fase che viviamo è propizia alla nascita dei populismi, che nascono dall’indignazione. Dagli Indignados ad Occupy Wall Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito viene fortemente contestato, con istanze naturalmente diverse ma sempre antisistema. La modernità poggiava sull’etica del lavoro, perché il capitalismo produttivo aveva bisogno di quadri dirigenziali, che facessero funzionare le industrie, fonte del proprio profitto, quindi c’era necessità di welfare, scuola pubblica, benessere per la collettività destinata a gestire le fabbriche.Al contrario, la postmodernità esalta l’estetica del consumo, che trasforma il mondo in un “immenso campo di sensazioni sempre più intense”. Un mondo spesso investito dalla pubblicità o dal venditore di turno. L’esasperazione della soggettività, trova anche incredibili attuazioni tecnologiche come la realtà virtuale (“La solitudine del cittadino globale”, 1999). Bauman in particolare nel libro “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida” del 2014, parla di un approccio del tutto diverso rispetto alle strutture di potere. Jeremy Bentham e Michel Foucault avevano parlato di Panopticon, inteso come carcere centralizzato che controlla migliaia di detenuti, e in cui bastano pochi agenti di sicurezza per la custodia, metafora evidente del potere centralizzato della modernità e del suo controllo sulla società moderna. Bauman invece parla di un modello di società in cui le forme di controllo assumono le fattezze dell’intrattenimento e dunque del consumo, in cui sotto l’attenzione delle organizzazioni transnazionali finiscono i dati e le persone, o meglio le loro emanazioni digitali, i cui rischi più elevati sono la privacy, la libertà di azione e di scelta. La novità postmoderna è che questo spazio del controllo ha perso i muri, e a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto che le “vittime” contribuiscono a collaborare al loro stesso controllo. Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti per individuare l’aspetto oscuro nascosto sotto a quello seduttivo.La globalizzazione è dunque un processo intimamente legato alle forze di mercato che ha ripercussioni su molti altri settori della vita, in pratica è una nuova forma d’imperialismo finanziario, impadronirsi dell’economia degli Stati, della loro moneta e della loro sovranità. Le forze economiche, infatti, hanno trasceso la dimensione nazionale, hanno perso ogni legame col territorio, dettano legge e non si prefigurano più come sistema produttivo dell’uomo per l’uomo, ma come sistema auto-referenziale, fine a se stesso. Le corporation trasnazionali muovono in uno spazio extraterritoriale, volano sopra i confini dello Stato nazionale, fino ad oggi strumento di rappresentazione delle identità sociali, eludendo ogni sorta di controllo politico e collettivo, ignorando le differenze economiche, politiche, culturali, etniche e religiose delle singole nazioni. Il potere della globalizzazione economica è ormai senza volto e senza luogo, introduce la flessibilità come dogma e preannuncia l’incertezza delle esistenze, vissute nell’affannosa rincorsa per rimanere nella società dei consumi. Il potere ci tiene in scacco lasciandoci soli, levandoci qualsiasi capacità di autodeterminazione e programmazione futura.Nascere in Italia 40 anni fa significava avere buone probabilità di vivere la propria vita in quegli stessi luoghi, avere la speranza di trovare un lavoro vicino a casa, di conoscere i propri concittadini, la possibilità di fare previsioni verosimili sul proprio futuro. Oggi, si nasce in luoghi che mediamente vengono lasciati nella prima adolescenza, i giovani seguono opportunità di lavoro fugaci, sempre più volatili ed evanescenti, i lavoratori vengono assunti in aziende che da un momento all’altro potrebbero delocalizzare. Le spinte all’individualismo e alla competizione determinano questo stile di vita veloce che porta con sé nuova alienazione: quella dell’uomo e dei suoi rapporti. Per il cittadino globale la leggerezza e la velocità di spostamento sono caratteristiche fondamentali, meno vincoli si hanno e più si è pronti alla sopravvivenza nella selva-mondo virtuale, senza barriere né confini. Anche le relazioni umane, dice Bauman, si adeguano e si plasmano sulla base di un consumo ipertrofico, sono sempre più numerose ma sempre più brevi e superficiali. E così, la nostra situazione affonda in un mare di indifferenza, che è l’unica arma di difesa valida a breve termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno.Nella postmodernità è nata una nuova immagine di società, come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più divisi e soli nelle proprie vite. Aumenta poi costantemente il divario tra la condizione dei poveri e quello dei ricchi. Il populismo, in modo particolare il M5S, per quanto riguarda la situazione italiana, è quindi la reazione culturale e politica rispetto alle condizioni sociali drasticamente mutate nel tempo della postmodernità, dopo il golpe messo in atto dalla nuova classe sociale dominante, quell’aristocrazia finanziaria che mira a distruggere i diritti del lavoro, a proletarizzare la middle class, a desovranizzare gli Stati, ad americanizzare l’Europa. Data la potenza propagandistica dei media, riuscirà veramente a vincere le prossime elezioni politiche e a prendere il potere? Oppure sarà costretto inevitabilmente ad abbandonare istanze essenziali delle proprie battaglie, soggiogato dalla potenza della restaurazione liberista?(Rosanna Spadini, “Populismi e postmodernità”, da “Come Don Chisciotte” del 28 settembre 2017).La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.
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Brancaccio: il liberismo razzia lo Stato e la sinistra applaude
Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite. I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all’inizio di una nuova fase storica. Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni.Potremmo dire che in questa fase, più che in passato, lo Stato è “ancella” del capitale privato, nel senso che asseconda i movimenti speculativi dei grandi proprietari, li soccorre quando necessario e ne assorbe le perdite. Questo ruolo dell’apparato pubblico è ormai apertamente riconosciuto ai massimi livelli del capitalismo mondiale, proprio per garantire la ripresa e la stabilizzazione dei profitti dopo la “grande recessione” del 2008. Nella grande maggioranza dei casi l’intervento dello Stato a favore dei capitali privati implica aumenti significativi del debito pubblico. In prospettiva si tratterà di capire se tali aumenti saranno fronteggiati tramite nuovi tagli al welfare oppure attraverso una stagione di “repressione finanziaria”, in cui il debito viene ridotto a colpi di controlli sui capitali e crescita dei redditi monetari e dell’inflazione rispetto ai tassi d’interesse. La scelta tra l’una e l’altra opzione sarà un bivio politico decisivo per i prossimi anni.Gli economisti liberisti continuano a sostenere che lo Stato rappresenta una zavorra, per il capitale privato? Poi però si affrettano a invocare il salvataggio pubblico quando qualche banca privata fallisce, e a ben guardare non si scandalizzano nemmeno quando lo Stato compra a prezzi alti e poi rivende a prezzi bassi qualche spezzone di capitale industriale. Il divario fra le loro teorie e le loro ricette si fa sempre più ampio. L’impresa pubblica può perseguire obiettivi di carattere sistemico, che sfuggono alla ristretta logica capitalistica del profitto. Inoltre, anche adottando criteri di valutazione puramente capitalistici, l’impresa pubblica si rivela più efficiente di quanto si immagini. Da una recente ricerca dell’Ocse effettuata sulle prime 2.000 aziende della classifica mondiale di “Forbes”, si evince che le imprese a partecipazione statale presentano un rapporto tra utili e ricavi significativamente maggiore rispetto alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale pressoché uguale. L’Italia non si discosta molto da queste medie internazionali.Bisognerebbe ricordare che al momento della privatizzazione dell’Iri, molti settori della holding pubblica segnavano ampi attivi, e che nel 1992 le perdite aggregate non si discostavano molto dalle perdite che all’epoca registrava la maggior parte dei gruppi privati italiani.Sono ancora molti i miti liberisti da sfatare, specialmente in Italia. Corbyn in Gran Bretagna e Mélenchon in Francia? Tra le macerie del vecchio socialismo filo-liberista qualcosa lentamente si muove. Ma la nuova concezione dell’intervento pubblico che queste forze emergenti propongono richiederebbe cambiamenti macroeconomici imponenti, tra cui una messa in discussione della centralità del mercato azionario e della connessa libertà dei movimenti di capitale. Mi sembrano propositi molto ambiziosi per movimenti politici ancora incerti, fragili, ai primissimi vagiti. Certo, sono trainati da una nuova generazione di elettori, costituita da giovani lavoratori e studenti. Questa è una delle novità più promettenti della fase attuale. I giovani elettori che istintivamente muovono verso sinistra non esprimono un mero voto d’opinione. La loro scelta sembra piuttosto la risultante di un profondo mutamento dei rapporti di produzione, fatto di deregolamentazioni e precarietà, che negli ultimi anni ha inasprito le disuguaglianze di classe.Questi giovani sperimentano presto lo sfruttamento, crescono già disillusi e sembrano quindi vaccinati contro le vecchie favole dell’individualismo liberista. Tuttavia, organizzare una tale massa di disincantati intorno a un progetto di progresso e di emancipazione sociale non è un’impresa facile. Nell’attuale deserto politico e culturale, la loro rabbia può sfociare facilmente a destra. Che fa la sinistra in Italia? Sembra immobile. Una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici che ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo. E poi, quando provi ad aprire quelle scatole ti ritrovi in un limbo, un oscuro mondo in cui nulla è chiaro. Nel Pd ho sentito esponenti politici di vertice affrettarsi a dichiarare la loro appartenenza alla famiglia liberale e la loro distanza dalle “sirene neo-stataliste” provenienti dalla Gran Bretagna. Ne ho sentiti altri sostenere che le elezioni vanno il più possibile rinviate per evitare che i mercati si “innervosiscano” e lo spread aumenti di nuovo.Soprattutto, ho assistito a un maldestro balletto sui temi cruciali del diritto del lavoro, che dovrebbero situarsi al vertice di qualsiasi proposta politica di sinistra e intorno ai quali, invece, prevalgono la confusione e i miopi tatticismi. A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi.(Emiliano Brancaccio, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il capitalismo cambia, la sinistra è in ritardo”, pubblicata su “Micromega” il 3 luglio 2017).Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite. I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all’inizio di una nuova fase storica. Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni.
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Banchieri marci e oligarchi, la vera Bad Company è l’Ue
Nella Barcellona mercantile e marinara del 1300 un banchiere che avesse fatto fallimento compromettendo i risparmi di chi si fosse a lui affidato, sarebbe stato decapitato in piazza. Da quel feroce mondo medioevale, ove chi speculava sul danaro veniva considerato usuraio e tollerato solo se apportava grandi ricchezze alle comunità, molto progresso si è fatto. Oggi le banche falliscono, ma i banchieri, che godono di un disistima presso l’opinione pubblica superiore a quella medioevale, non pagano mai, in tutta Europa non uno di loro è in prigione. Il salvataggio delle due banche venete fallite con soldi pubblici che daranno profitti privati, benedetto dalle autorità della Unione Europea, è un esempio del regime finanziario che oggi ci comanda. Dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 negli Stati Uniti, che diede il via alla grande crisi mondiale che tra alti e bassi ancora continua, tutte le istituzioni politiche ed economiche, la Unione Europea in primo luogo, decisero che per fermare il contagio bisognava salvare ad ogni costo le banche dal fallimento.Secondo il precedente capo della Commissione Europea, Barroso, ben 4.000 miliardi di danaro pubblico in tutta Europa furono spesi per salvare le banche. Questa denuncia non ha avuto alcun seguito nella politica europea e neppure il suo estensore se ne é sentito toccato, visto che ora opera in Goldman Sachs. Una valanga di soldi dei cittadini europei ha difeso e rafforzato il potere dei banchieri, ma non un solo istituto di credito è stato assunto in mano pubblica per questo. La Germania, sempre ultra rigorista verso i paesi del Sud, ha speso 247 miliardi solo per salvare le sue banche locali. Alla fine la crisi bancaria globale nella Unione Europea fu scongiurata e come ringraziamento un finanziere britannico, prima della Brexit a cui ovviamente era contrario, affermò: l’economia è ripartita ed è ora che noi banchieri la si finisca di sentirci in colpa. Salvato il sistema coi soldi dei cittadini, cioè coi tagli allo stato sociale, alla sanità, alle pensioni, all’istruzione, l’Unione Europea decise che era giunto il momento di essere davvero per il libero mercato.È quindi stata varata l’Unione Bancaria, da noi ovviamente presentata come un altro passo verso i meravigliosi Stati Uniti d’Europa. L’unione bancaria, come il Fiscal Compact e altre sconcezze, in realtà era solo una ulteriore sottrazione di sovranità economica agli Stati, a favore delle banche, della burocrazia europea e naturalmente del potere del solo Stato diverso da tutti gli altri, la Germania. Ai governanti e ai politici italiani, da Monti, a Letta, a Renzi, che hanno gestito l’adesione dell’Italia alla unione bancaria, secondo me una causa per danni andrebbe fatta. Infatti quella decisione, invece che mettere in sicurezza il sistema bancario del nostro paese, lo ha esposto a tutte le tempeste. Il succo del nuovo trattato era proibire i salvataggi di stato delle banche, cui finora tutti i paesi più ricchi d’Europa erano ricorsi. Dal 2016, le banche in crisi avrebbero dovuto essere salvate con i soldi dei loro azionisti e dei loro correntisti, per deposti superiori a 100.000 euro. Non so come si traduca in tedesco “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”, ma il concetto è quello. In inglese, la lingua che si usa sempre per fregarci, invece tutto questo è stato definito: passare dal “bail out” al “bail in”.Ovviamente la chiusura dell’ombrello di Stato, usato in tutta Europa, ha accelerato le sofferenze delle banche gia in difficoltà, ed in Italia abbiamo avuto il crollo prima delle banche toscane, legate al Pd e poi di quelle venete legate storicamente al centrodestra. Un fallimento bipartizan. Il primo fallimento, quello toscano, è stato affrontato proprio con il bail in e ha provocato una catastrofe economica e sociale. Per questo, al crollo delle banche venete tutto il potere governativo italiano ed europeo ha deciso di reagire in altro modo. È il metodo europeo della cavia, usato brutalmente sulla Grecia e calibrato più prudentemente sugli altri paesi Piigs. Si sperimenta una misura brutale e poi si aggiusta la dose tenendo conto delle vittime e soprattutto delle ribellioni provocate. Così per le banche venete gli aiuti di Stato, fieramente avversati dalla Ue quando si tratti di chiudere fabbriche e tagliare servizi, sono stati subito approvati dai vertici europei. Lo strumento trovato per salvare l’ipocrisia e favorire gli affari è, anche qui c’è l’inglese, la “bad company”. Letteralmente la cattiva impresa, quella sulla quale vengon scaricati, debiti, costi, personale in esubero, in modo che la nuova impresa che rileva l’attività, la “new company”, parta solo con il miglior cuore del carciofo.L’uso della bad company in Italia non è nuovo. In Alitalia il governo Berlusconi la adoperò per permettere alla crema della imprenditoria italiana di salvare la compagnia aerea, con i risultati che abbiamo visto e pagato. Il top manager modello per Renzi, Marchionne, fece lo stesso alla Fiat di Pomigliano. Da un lato la bad company che aveva come unica ragione sociale la cassa integrazione per migliaia di operai, dall’altro la newco dove venivano selezionati uno per uno coloro che avrebbero ripreso a lavorare in condizioni durissime. La bad company è diventata il modello italiano di gestione di crisi e ristrutturazioni, da ultimo in Ilva, ed è quindi stato adottato anche per le banche venete. Non c’è strumento migliore per socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Lo Stato si è accollato tutti i costi e gli esuberi delle banche fallite, Banca Intesa ne ha rilevato le attività al prezzo di 1 euro, naturalmente a condizione di ricevere finanziamenti e garanzie adeguate. Che potrebbero arrivare fino a 17 miliardi, con un costo virtuale medio di 440 euro per ognuno dei 38 milioni e mezzi di contribuenti. Il titolo Intesa è volato in Borsa.La banca Santander di Spagna ha protestato per questo salvataggio, perché in condizioni analoghe essa aveva dovuto rilevare anche tutte le passività, senza scaricarle su una bad company, dell’istituto di credito che salvava, ma La Ue ha risposto che in Italia era tutto regolare. Sono diventati più buoni? No le ragioni del sì europeo all’intervento pubblico italiano sono tre. La prima è che lo Stato paga, ma il privato guadagna. Se le banche venete fossero state nazionalizzate, allora sì che la Unione Europea sarebbe insorta gridando alla violazione del libero mercato. L’importante è che lo Stato, coi soldi dei cittadini, non aiuti se stesso e i cittadini che pagano, poi si può fare tutto. In secondo luogo si può sospettare che Banca Intesa, che usufruisce del salvataggio, sia in tali buoni rapporti con la finanza internazionale, magari anche con quella tedesca, da far presagire nuovi più vasti affari europei.In terzo luogo c’è la certezza che il governo italiano, per ottenere il via libera al salvataggio delle banche, abbia promesso alla Ue un bel po’ di massacro sociale e privatizzazioni, da realizzare con la prossima finanziaria. Che dovrebbe procedere a tagli e svendite di servizi e beni pubblici per una cifra superiore ai 20 miliardi stanziati per le banche. Così i conti tornano e del resto la logica è sempre la stessa: si prendono in ostaggio i lavoratori, i risparmiatori, i cittadini colpiti dalle crisi e poi, per salvarli, si autorizzano le speculazioni più sfacciate. Nonostante ciò che urla la propaganda di regime, l’alternativa reale non è salvataggi pubblici o libero mercato. La scelta vera è tra spendere il danaro pubblico a favore del profitto privato e della finanza, oppure per la proprietà pubblica e i cittadini. A quest’ultima scelta si oppone oggi pesantemente l’Unione Europea, la più grande bad company di cui è necessario liberarsi.(Giorgio Cremaschi, “La bad company è l’Unione Europea”, da “Micromega” del 4 luglio 2017).Nella Barcellona mercantile e marinara del 1300 un banchiere che avesse fatto fallimento compromettendo i risparmi di chi si fosse a lui affidato, sarebbe stato decapitato in piazza. Da quel feroce mondo medioevale, ove chi speculava sul danaro veniva considerato usuraio e tollerato solo se apportava grandi ricchezze alle comunità, molto progresso si è fatto. Oggi le banche falliscono, ma i banchieri, che godono di un disistima presso l’opinione pubblica superiore a quella medioevale, non pagano mai, in tutta Europa non uno di loro è in prigione. Il salvataggio delle due banche venete fallite con soldi pubblici che daranno profitti privati, benedetto dalle autorità della Unione Europea, è un esempio del regime finanziario che oggi ci comanda. Dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 negli Stati Uniti, che diede il via alla grande crisi mondiale che tra alti e bassi ancora continua, tutte le istituzioni politiche ed economiche, la Unione Europea in primo luogo, decisero che per fermare il contagio bisognava salvare ad ogni costo le banche dal fallimento.
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Crisi banche venete, la Germania vuol mangiarsi il Nord-Est
«In caso di una crisi non risolta delle due banche venete che si sono recentemente trovate a navigare in cattive acque, gli effetti non sarebbero molto inferiori a quelli generati dal default della Grecia». Queste le parole che Fabrizio Viola, ad della Banca Popolare di Vicenza, ha rilasciato al “Corriere della Sera” il 2 giugno e poi riportate anche da “Business Insider Italia”. Se consideriamo, infatti, che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno concesso prestiti “buoni” (ovvero al netto di sofferenze e incagli) per circa 30 miliardi di euro concentrati in gran parte nel nord-est Italia, cioè il territorio più importante per l’economia nazionale, è facile intuire quale sia lo sconquasso che si verrebbe a creare tramite la procedura del bail-in, che impone il rientro forzoso degli impegni a tutela dei depositi. Il debito è il motore dell’economia e intervenire in questo modo sarebbe come togliere ossigeno a tutti quegli imprenditori che fanno affidamento sui prestiti ricevuti dalle due banche; da qui, si innescherebbe la chiusura di un numero importantissimo di piccole e medie aziende, ovvero quelle che caratterizzano il tessuto industriale del nord-est ma anche italiano (le piccolissime, piccole e medie imprese costituiscono circa il 95% del tessuto indistriale italiano).La lente di ingrandimento, secondo opinioni del settore, è stata posta volutamente sulle banche operanti in questo territorio sotto la spinta della Germania; le aziende tedesche hanno un forte interscambio con quelle operanti nel nord-est Italia e potrebbero sostituirsi ad esse o comprarle a basso prezzo in caso di fallimento. Chiudere il motore dell’economia italiana significherebbe per la Germania avere il controllo del mercato e rafforzare sempre più la propria posizione di leader in tutta Europa. Il processo sarebbe quello di usare la medesima strategia usata con la Grecia, ovvero sollecitare da una parte tramite le autorità europee dei piani di risanamento improntati su manovre “lacrime e sangue” e, dall’altro, acquisire le aziende in totale crisi per una manciata di euro (l’aeroporto di Atene è stato acquisito dalla tedesca AviAllance per 600 milioni, così come altri 14 aeroporti, per lo più turistici, erano stati acquisiti in precedenza sempre dai tedeschi per un totale di 1,2 miliardi).Il fondato sospetto prende forma studiando a ritroso le strategie messe in pratiche dalla Germania: prima ha salvato le proprie banche impiegando più di 200 miliardi tenendo impegnata l’Italia a recuperare lo spread (2011/2012), poi ha creato la procedura del bail-il (2015) che vincola l’intervento pubblico ad ultima spiaggia facendo ricorrere gli istituti bancari a salvarsi con i soldi dei correntisti, infine sta cercando di accelerare la chiusura dei due istituti bancari tramite le pressioni fatte in sede europea da Jens Weidmann (presidente della Bundesbank e candidato alla successione di Mario Draghi al vertice della Bce nell’autunno del 2018) visto il rischio di elezioni anticipate, che sotto l’effetto dell’onda populista potrebbe mettere i bastoni tra le ruote al progetto tedesco tramite un cambio di governo italiano.I tedeschi non intendono l’Europa come un processo di progressiva integrazione tra economie tra loro diverse sotto un’ottica di socializzazione, avendone invece una concezione egemonica espressa tramite le misure di austerity fiscale che finora non ha fornito esempi di successo tra gli Stati dell’Unione Europea, se non a favore della Germania stessa. Tutto questo, insieme al colpevole ritardo con cui le autorità italiane hanno compreso il fine del bail-in, potrebbe mettere in serio rischio l’economia italiana dando il definitivo via libera alla Germania per il controllo dell’Europa.(Francesco Puppato, “Dietro il dissesto delle banche venete spunta l’ombra della Germania”, da “Wall Street Italia” dell’11 giugno 2017).«In caso di una crisi non risolta delle due banche venete che si sono recentemente trovate a navigare in cattive acque, gli effetti non sarebbero molto inferiori a quelli generati dal default della Grecia». Queste le parole che Fabrizio Viola, ad della Banca Popolare di Vicenza, ha rilasciato al “Corriere della Sera” il 2 giugno e poi riportate anche da “Business Insider Italia”. Se consideriamo, infatti, che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno concesso prestiti “buoni” (ovvero al netto di sofferenze e incagli) per circa 30 miliardi di euro concentrati in gran parte nel nord-est Italia, cioè il territorio più importante per l’economia nazionale, è facile intuire quale sia lo sconquasso che si verrebbe a creare tramite la procedura del bail-in, che impone il rientro forzoso degli impegni a tutela dei depositi. Il debito è il motore dell’economia e intervenire in questo modo sarebbe come togliere ossigeno a tutti quegli imprenditori che fanno affidamento sui prestiti ricevuti dalle due banche; da qui, si innescherebbe la chiusura di un numero importantissimo di piccole e medie aziende, ovvero quelle che caratterizzano il tessuto industriale del nord-est ma anche italiano (le piccolissime, piccole e medie imprese costituiscono circa il 95% del tessuto industriale italiano).
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Carpeoro: ucciso il socialismo, era l’antidoto all’orrore Ue
Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.Alla tragedia del leader socialdemocratico svedese, ucciso a Stoccolma nel 1986 da un killer mai identificato, Carpeoro ha dedicato lunghe pagine del suo lavoro sui legami occulti tra massoneria, servizi segreti e terroristi (il sistema della “sovragestione”). Ed è tornato sul tema a margine del simposio “Le forme della democrazia”, promosso dal Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Cos’è stato, il socialismo? Cos’è oggi, e cosa potrebbe essere domani? «Non è stato un pensiero statico, ha avuto un’evoluzione storica, politica», e ora è stato letteralmente rimosso. «Da dov’era partito, il socialismo? Da molto lontano», esordisce Carpeoro: da un periodo di grande riflessione spirituale. «Senza scomodare i Rosacroce», già nel ‘600 si trovano svariate opere proto-socialiste: “Utopia” di Tommaso Moro, “La città del sole” di Tommaso Campanella, “La nuova Atlantide” di Francesco Bacone. Fino ad arrivare a opere meno conosciute, come quelle di Johann Valentin Andreae, presunto autore dei manifesti rosacrociani dell’epoca, che chiude la sua esistenza scrivendo “Christianopolis”, dove racconta il naufragio in un’isola (Caphar Salama) che viene governata in maniera socialista.«Perché la chiamo socialista? Perché una serie di capisaldi di queste opere caratterizzeranno la fase che Marx, con intento quasi spregiatorio, chiamerà “socialismo utopistico”». Ma la parola “utopia”, ricorda Carpeoro, non esisteva nemmeno, prima di Tommaso Moro. «L’ha inventata lui. E’ un neologismo di origine greca, significa “non luogo”. Lo stesso Marx, dunque, citando il “socialismo utopistico”, si richiama a Tommaso Moro». E come nasce, il socialismo utopistico? Ha varie declinazioni: è anarchica quella di Pierre-Joseph Proudhon, quasi mistica quella di Henri de Saint-Simon. Ci sono interpretazioni più pragmatiche, e c’è una declinazione, «forse la più illuminata», che è quella di Auguste Blanqui. «Ma in tutte queste declinazioni ci sono i capisaldi di quello che, secondo gli utopisti del ‘600, doveva essere lo Stato perfetto, la comunità perfetta, con l’abolizione della proprietà privata». In sostanza, «si cominciava a riconoscere il diritto delle persone a vivere secondo dignità e aspettative». Perché questi diritti vengano finalmente riconosciuti in modo istituzionale ci vorrà Eleanor Roosevelt, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alle Nazioni Unite nel 1948. «Ma queste idee erano state in qualche modo anticipate già quattro secoli prima». Giustizia e libertà. Tradotto: una società che riconosca il giusto a ognuno, dando a ciascuno la possibilità di scegliere. «Sembra una cosa semplice, no? Eppure, noi ancora non l’abbiamo creata, una società così».Nella sua storia, aggiunge Carpeoro, il movimento socialista si è continuamente frammentato. Lo dimostra la stessa storia del Psi italiano, fondato a Genova nel 1892 da Filippo Turati, «che sarà forse il socialista più coerente», fedele all’impostazione iniziale del progetto ottocentesco, rivoluzionario. Obiettivo: la “guerra” alla società classista del sistema capitalistico, che sottomette e sfrutta contadini e operai. Due mosse: prima la rivoluzione, per abbattere il sistema padronale, e poi l’abolizione delle classi sociali. Come? “Socializzando” i mezzi di produzione, l’economia, le industrie, e distribuendo le terre ai contadini. Poi irrompe Marx, che «istituzionalizza questa sorta di diagnosi», e pensa a come realizzare il disegno rivoluzionario e la fase successiva. «Marx chiama tutto questo “socialismo scientifico”, da contrapporre a quello che lui, disprezzandolo un po’, chiamava “socialismo utopistico”». Ma l’obiettivo, aggiunge Carpeoro, non era forse arrivare comunque all’utopia? «L’eliminazione delle classi cos’è, se non la realizzazione di “Utopia”, della “Nuova Atlantide”, della “Città del Sole”?». In ogni caso, poteva il “fiume” socialista restare interamente ancorato a questo schema? No, ovviamente. E così cominciano le divisioni.«La prima scissione, nel mondo socialista, è quella degli anarchici», ricorda Carpeoro. «Per loro non esiste la fase intermedia, si annulla tutto: nella loro visione, la dissoluzione dello Stato capitalistico è una fase contestuale all’impulso rivoluzionario». Poco dopo, vanno per la loro strada anche i comunisti: «Hanno una visione schematica, per la quale bisogna arrivare con quei passaggi, alla soluzione», che è sempre rivoluzionaria. Rimane il nucleo socialista, che – in Italia come in Europa – si divide a sua volta: nascono i “riformisti”, che restano anti-capitalisti e combattono per la giustizia sociale, ma rinunciano alla rivoluzione come mezzo per ottenerla. Poi ci sono quelli che, successivamente, si chiameranno “socialdemocratici”, come Leonida Bissolati, «i quali aboliscono anche il passaggio finale, l’abbattimento del capitalismo», e quando poi si radicheranno anche nel Pci prenderanno il nome di “miglioristi”. Secondo loro è irrealistica la rinuncia al sistema liberale. Semmai, il capitalismo va corretto con continue migliorie, per guarirne le distorsioni. Nell’800 c’era stato anche il filone dei “socialisti libertari”, che «declineranno il socialismo esclusivamente all’interno dei diritti civili e delle libertà, senza più occuparsi di strategie di governo».Il socialismo libertario, spiega Carperoro, era ciò che era rimasto di un’ulteriore scissione, quella di Mazzini: litigando con Garibaldi, l’ideologo del Risorgimento si era portato via «quel nucleo che poi diventerà l’area laica», repubblicani e Partito d’Azione). Ma, superata la tragedia della Prima Guerra Mondiale – intervisti, neutralisti – e poi il blackout planetario del nazifascismo, nel dopoguerra «dagli anni ‘70 in poi, l’unica direttiva che lentamente si afferma, nel socialismo, è quella socialdemocratica», alimentata anche dalla guerra fredda: nel fatidico 1956 il leader sovietico Khrushev alimenta grandi speranze con la denuncia dei crimini di Stalin, ma nello stesso anno non riesce a evitare la sanguinosa repressione della rivolta popolare scoppiata in Unghieria, replicata nel ‘68 con il soffocamento della “Primavera di Praga”. «In realtà – prosegue Carpeoro – si avvia quella che nel ‘70 si chiamerà “terza via”, cioè la possibilità di trovare una composizione della società, correggendone le deviazioni, verso una maggiore giustizia sociale: cosa che la socialdemocrazia europea considerava assolutamente irrinunciabile».E questa linea, particolarmente efficace perché moderata nelle forme quanto incisiva nei contenuti, «trova un eroe assolutamente straordinario», anche se è «un personaggio di cui non parla mai nessuno». Straordinario «da tutti i punti di vista (anche dal mio, perché era massone come me)», ammette Carpeoro, parlando di Olof Palme. «E’ stato uno dei personaggi più fulgidi del ‘900. Vi invito a leggere i suoi scritti, e soprattutto a rimetterlo sulle bandiere». Il leader svedese, intanto, «è la prima vittima di una congiura contro il socialismo». Attenzione: «Nell’arco di vent’anni, i grandi leader socialisti europei vengono tutti cancellati, in circostanze ambigue. Olof Palme viene ucciso mentre è presidente del Consiglio, in Svezia. E non è che ne sia parlato molto in Europa. Ancora oggi si parla di Che Guevara, non di Olof Palme. Ma è un eroe». E viene ucciso da killer rispetto ai quali «emergono connessioni con ambienti dell’estrema destra e anche, purtroppo, della massoneria: in un telegramma piuttosto equivoco, alla vigilia dell’attentato, Licio Gelli scrive a un parlamentare americano, Philip Guarino, che nel giro di pochi giorni “la palma svedese” sarebbe “caduta”, come la Svezia pullulasse di palme».Lo stesso Craxi, ricorda Carperoro, vinse lo storico congresso del Psi al Midas, da cui nacque la sua leadership, «con un programma che al 50% era quello di Olof Palme, che era il padre nobile di tutti questi socialisti europei». Poi ovviamente «ognuno è libero di considerare i seguaci degni o non degni, ma resta il fatto che Palme aveva dato un programma socialista all’Europa». Dopo il drammatico “avvertimento” rappresentato dall’omicidio di Stoccolma, nessuno dei seguaci di Palme gli sopravviverà – politicamente, quantomeno. «Craxi, in circostanze che non riesco a considerare nitide (e con tutti i suoi errori, certo) viene comunque rimosso dalla vita politica italiana. Poi viene rimosso Mitterrand, in Francia. E viene rimosso Schmidt in Germania, con uno scandaletto. E pensate che, dopo tutte queste concatenazioni nel giro di pochi anni, poi la si faccia casualmente, l’Europa unita, nel modo in cui è stata fatta?». Per Carpeoro, c’è poco da cianciare di complottismo: «Sono stati eliminati i vertici di un movimento politico che aveva un capofila importante».Palme, già attivissimo come leader del suo partito, ha poi svolto due mandati come presidente del Consiglio, in Svezia, «e il secondo l’ha fatto coram populo». Disse: «Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli le unghie ogni tanto». E’ questo il ruolo del socialismo, sottolinea Carpeoro: «Per questo il socialismo è necessario, è indispensabile a questa società. Anche perché, senza socialismo (come, del resto, senza liberismo) questa società non può camminare. Deve avere due ruote, un polo conservatore e un polo progressista. E possibilmente, questi due poli devono essere talmente di qualità che il fatto che si possano alternare al potere deve dipendere solo dalle condizioni del momento». Il liberismo sfrenato? «Non ha fatto male, all’America, appena è stato introdotto da Reagan. Poi però ci si doveva fermare. Se qualcuno ti progetta un regime oligarchico ultraliberista e senza regole per vent’anni, ti vuoi meravigliare se poi il risultato sono le banche che saltano, i soldi che non viaggiano, l’economia che non gira? E’ una forma di staticità della società, e la società non può essere statica».Di fronte alla drastica possibilità di nazionalizzare le aziende, Olof Palme adottò una soluzione intermedia, ispirata alla teoria dell’economista Rudolf Meidner: una quota ai lavoratori, una quota di controllo allo Stato e una quota al privato. «Non per tutto: solo per le aziende in difficoltà. E ha funzionato, in Svezia. Il problema è che poi Palme l’hanno ammazzato». E in Italia? «Se avessero adottato lo schema Meidner, anche da noi, forse molte aziende in difficoltà sarebbero sopravvissute, e i sacrifici richiesti alle nostre maestranze sarebbero stati vissuti in maniera diversa». Non c’è bisogno di tornare all’antico, all’assistenzialismo dell’Iri, basterebbe la leva dei benefici fiscali, alla portata di uno Stato che possedesse quote di aziende. Perché nonè successo? «Perché noi non abbiamo avuto il coraggio di fare quello che Palme ha osato fare, in Svezia, dal ‘69 in poi». Rimettere mano, oggi, alla “contaminazione” socialista? Assolutamente sì, come stimolo ideologico: «Progetto e ideologia sono la stessa cosa: non puoi fare un progetto se non hai un’ideologia. E l’aver trasformato l’ideologia in un insulto è la riprova che a questo sistema, le cose che hanno idee, fanno paura. Il potere le teme, vuole cose senza idee. Vogliono un encefalogramma piatto come quello di Renzi, dove non ci sono onde».Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.
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E adesso si vendono anche la Cassa (Depositi e Prestiti)
Occorreranno studi approfonditi di psicologia per riuscire un giorno o l’altro finalmente a capire come mai, ogni volta che si parla di debito pubblico, al ministro dell’economia di turno brillino gli occhi, si guardi furtivamente intorno e con riflesso pavloviano decida di mettere sul mercato un altro pezzo di ricchezza sociale. Come fossimo agli albori della dottrina neoliberale, ci tocca ogni volta sentire la litania: «Servono le privatizzazioni per abbattere il debito pubblico». Nel frattempo, ci siamo venduti quasi tutto e il debito pubblico ha continuato allegramente la sua irresistibile ascesa. Poco importa. Ormai sappiamo che ogni volta che si “accende” lo “scontro” tra il nostro governo e l’Unione Europea, dobbiamo controllare le nostre tasche perché è quasi automatica la soluzione: la sottrazione di un bene comune. Per carità, questa volta siamo solo alla fase istruttoria, ma il fatto che sia già uscita sulla stampa appare una studiata strategia di sondaggio preventivo per vedere di nascosto l’effetto che fa.Il ministero dell’economia sta studiando un nuovo assetto della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), che prevede la cessione di una quota del 15%, che porterebbe la proprietà pubblica al 65% (essendo il 15,93% già in possesso delle fondazioni bancarie). Essendo il patrimonio complessivo pari a 33 miliardi, nelle casse dello Stato entrerebbero 5 miliardi che naturalmente sarebbero destinati all’abbattimento del debito pubblico. Inutile sottolineare come la parola “abbattimento” nel dizionario italiano ha un preciso significato: demolizione, distruzione, abolizione. Può chiamarsi abbattimento un’operazione che porterà il nostro debito pubblico dagli attuali 2.217,7 miliardi (dicembre 2016) ai futuri 2.212,7 miliardi? In compenso, se l’ultimo dividendo staccato da Cdp corrispondeva a 850 milioni di euro (dei quali, 680 milioni sono andati allo Stato), in futuro, su ogni dividendo simile, lo Stato ne incasserà solo 550. Non è neppure chiaro ad oggi a chi verrà ceduto il 15% se a investitori istituzionali, a fondi o banche estere.La svendita di un ulteriore pezzo di Cdp si incrocia anche con le grandi manovre intorno alla privatizzazione di Poste: l’idea del ministero dell’economia è quella di cedere entro l’anno il residuo 29,3% (dopo aver ceduto il 35% a Cdp e il 36,7% a investitori individuali e istituzionali). Grandi manovre finanziarie, fatte all’oscuro di tutti i detentori della ricchezza di Cassa Depositi e Prestiti, ovvero quelle oltre 20 milioni di persone che vi depositano i risparmi (oltre 250 miliardi) e che sapranno sempre meno intorno alla loro tutela e utilizzo. Forse è davvero giunto il momento di rilanciare una campagna di massa per la socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, per il suo decentramento territoriale e per la gestione partecipativa dell’utilizzo del risparmio postale. Hanno venduto tutti i beni comuni e ora scappano con la Cassa. È il momento di riprenderci la ricchezza sociale che rappresenta.(Marco Bersani, “Si vendono persino la Cassa”, dal “Manifesto” del 18 marzo 2017, articolo ripreso da “Attac Italia”).Occorreranno studi approfonditi di psicologia per riuscire un giorno o l’altro finalmente a capire come mai, ogni volta che si parla di debito pubblico, al ministro dell’economia di turno brillino gli occhi, si guardi furtivamente intorno e con riflesso pavloviano decida di mettere sul mercato un altro pezzo di ricchezza sociale. Come fossimo agli albori della dottrina neoliberale, ci tocca ogni volta sentire la litania: «Servono le privatizzazioni per abbattere il debito pubblico». Nel frattempo, ci siamo venduti quasi tutto e il debito pubblico ha continuato allegramente la sua irresistibile ascesa. Poco importa. Ormai sappiamo che ogni volta che si “accende” lo “scontro” tra il nostro governo e l’Unione Europea, dobbiamo controllare le nostre tasche perché è quasi automatica la soluzione: la sottrazione di un bene comune. Per carità, questa volta siamo solo alla fase istruttoria, ma il fatto che sia già uscita sulla stampa appare una studiata strategia di sondaggio preventivo per vedere di nascosto l’effetto che fa.