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Oscurati i nostri padri: gli Etruschi, giunti dall’Anatolia
Vi hanno raccontato della necessità assoluta di inocularvi non si sa bene cosa, per poter continuare a vivere liberi e sereni? Se è per questo, vi avranno anche detto che i misteriosi Etruschi erano di origine italiana. E’ normale, dice Nicola Bizzi: l’archeologia ufficiale si comporta sempre così, quando si imbatte in verità scomode. Negazionismo accademico? Fate voi. Però sappiate – avverte Bizzi, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti (di seguito, il testo integrale) – che i nostri antenati etruschi venivano dall’Anatolia, cioè dal mare. Arrivarono via nave dalle coste meridionali della Turchia: Lidia, Misia. In altre parole, dalle parti di Troia: infatti, Roma accettava che il suo mitico fondatore (Enea) fosse un profugo troiano. La migrazione dalle coste dell’attuale Turchia la confermano storici come Erodoto ed Ellanico. In Italia, si tace sulla Cultura di Rinaldone fiorita sul Lago di Bolsena (con scheletri anatolici spariti nel nulla) e sugli imponenti palazzi “cretesi” emersi a Luni sul Mignone, tra Roma e Viterbo. Silenzio anche sulle scoperte dei genetisti: in Toscana e Lazio, il 30% degli abitanti ha un corredo genico anatolico. Viene dall’oltremare anche la più famosa razza bovina toscana, la Chianina. Perché fanno così paura, gli Etruschi? Perché avevano una società matriarcale che introdusse in Italia una civiltà già evolutissima a partire dal 2500 avanti Cristo?Un fitto silenzio circonda il popolo etrusco, di cui l’ufficialità accademica parla il meno possibile, condizionata com’è dal paradigma che ingessa l’archeologia, in modo poco scientifico, rifiutando le fonti scomode e le scoperti recenti. Resiste ancora una vecchia convenzione, quella della presunta italianità degli Etruschi: italianità poi rafforzata dal mito fascista di Roma. Eppure, per i Romani stessi, la civiltà del Tevere era stata fondata da Enea, che era presentato come proveniente da Troia, in Anatolia. Ma chi erano, davvero, gli Etruschi? I Greci li chiamavano Tirreni, mentre i Romani li definivano Tusci. Gli stessi Etruschi chiamavano se stessi con un altro npme: Raslak, o anche Rasena. In Italia, la denominazione più diffusa era quella adottata dai latini: Tirreni. Ora, Tirra è l’antico nome di una regione costiera anatolica, affacciata sull’Egeo, che Omero chiama Meonia, e che poi si chiamerà Lidia ai tempi della grecia classica.La Lidia è situata nel nord-ovest dell’Anatolia (come la Misia), fra Troia e i Dardanelli. Si tratta di zone anticamente popolate da genti affini all’antica civiltà minoico-cretese. Avevano leggi avanzatissime, società fondate sul matriarcato e sul culto delle antiche divinità titaniche. Nel primo libro delle sue “Storie”, il sommo storiografo Erodoto scrive che i Lidi avrebbero colonizzato la Tirrenide, cioè l’Etruria. A spingerli lontano da casa sarebbe stata una gravissima carestia. Di qui l’emigrazione, fino alla terra degli Umbri. Ai Greci dava fastidio la libertà dei costumi etruschi: a differenza di quella greca, la donna etrusca poteva sedere a tavola col marito. Aveva prerogative sacrali e poteva anche dare il proprio nome alla stirpe. Dal X secolo avanti Cristo, queste popolazioni anatoliche riuscirono a colonizzare buona parte della penisola italiana: Lombardia e Veneto, zone della Liguria, l’intera Toscana e l’intero Lazio, parte di Umbria e Marche, parte della Campania: Napoli era stata un approdo etrusco, prima che una colonia della Magna Grecia.Gli Etruschi erano tipicamente orientali: per arte, stile architettonico, cultura. E che venissero dall’Oriente lo conferma un altro autore: Ellanico di Mitilene, storico vissuto dal 490 al 405, contemporaneo di Platone. Nella sua “Foronide”, descrive più migrazioni dall’Anatolia: spiega quante migrazioni sono avvenute, chi le guidava (quali sovrani), dove arrivarono in Italia e quali città italiane avrebbero fondato. Piena conferma, di questo, ci giunge da reperti archeologici e dalla toponomastica dei luoghi: i nomi di decine di località (anche di rilievo, come Ancona e Lucca) corrispondono a quelli di siti presenti sulle coste anatoliche. Sull’isola di Lemnos, patria della metallurgia nell’Egeo – colonizzata già dal 12.000 avanti Cristo, come rilevato da recenti scavi archeologici – sono state rinvenute molte iscrizioni in lingua etrusca: la stessa lingua che troviamo a Tarquinia, a Cere, a Vulci, a Fiesole, nelle città etrusche della Campania e nella Mantova di Virgilio (che discendeva da antenati etruschi).Ci sono squillanti evidenze anche scientifiche: alla fine degli anni ‘90, alcuni docenti universitari spagnoli si sono avvalsi degli studi di genetisti delle università di Madrid e Salamanca. Avevano condotto esami sulla popolazione della Toscana e dell’alto Lazio, confrontando il loro Dna con quello dei popoli anatolici. Ebbene: in oltre il 30% degli attuali abitanti del territorio corrispondente all’antica Etruria, fra l’Arno e il Tevere, i geni corrispondono pienamente con quelli delle popolazioni autoctone dell’Anatolia. E la corrispondenza non interessa solo gli umani: viene dall’Anatolia anche una razza bovina come la Chianina, quella della mitica bistecca fiorentina. Discende cioè da una razza anatolica, portata in Italia circa 4.000 anni fa. Ora, ci volevano i genetisti spagnoli, per capire che gli abitanti dell’Etruria venivano dall’Oriente? Evidentemente sì. Però non basta: perché gli archeologi, quando una scoperta infrange i loro paradigmi, molto spesso la ignorano.Gli archeologi accademici rifiutano ancora la scoperta (geologica) della verà età della Sfinge. E rigettano pure le rivelazioni dell’archeoastronomia, cioè la disposizione di certi siti secondo criteri astronomici. Così hanno rifiutato anche le scoperte della genetica, perché sono scomode per la vecchia tesi dell’autoctonia del popolo etrusco, la cui origine è convenzionalmente italica (per non parlare delle ultime ipotesi, decisamente deliranti e campate per aria, che lo vorrebbero disceso dalle Alpi o addirittura dalla Germania). E questo, nonostante vengano smentiti dagli autori antichi. Sempre Ellanico di Mitilene, ad esempio, parla di un certo Nana, mitico re dei Pelasgi (popoli del mare: grandi navigatori, mercanti e pirati). Attorno al 2500 avanti Cristo, quindi 4.500 anni fa, questo Nana – cacciato dai suoi sudditi – avrebbe risalito l’Adriatico con una sua flotta, per poi fondare importanti nuclei urbani lungo la penisola italiana.Uno studioso “eleusino” come Guido Maria Stelvio Mariani di Costa Sancti Severi, in un articolo uscito quattro anni fa sulla rivista “Archeomisteri” (da me citato nel saggio “I Minoici in America e le memorie di una civiltà perduta”) conferma che il termine Nana lo si ritrova nelle culture lelegiche della Caria, un’altra regione costiera anatolica. Probabilmente, Nana non era un nome proprio di persona, ma una sorta di nome sacrale: un po’ come il Faraone in Egitto, o il Minosse a Creta. Un termine che potrebbe essere assimilabile a quello di “condottiero”, o di Vanax nella civiltà micenea. Ebbene: Ellanico dice che questo Nana avrebbe creato vari scali adriatici, fondando diversi insediamenti. Nelle Marche avrebbe sbarcato un robusto contingente, gettando le basi per la nascita di una città che ancora oggi si chiama Pedaso, nell’attuale provincia di Fermo. E Pedasa è una importante città costiera anatolica: era l’antica capitale dei Lelegi della Caria, davanti all’isola di Rodi.Risalendo la costa marchigiana verso nord, il condottiero Nana avrebbe fondato una città molto importante: Ancona, nientemeno. Il capoluogo marchigiano deriva infatti il suo nome da Ankh e Uni: l’Ankh è la croce della vita per gli egizi, un simbolo molto noto anche alle popolazioni dell’Anatolia, mentre Uni è una dea, parte integrante del pantheon etrusco. Poi, sempre nel 2500 avanti Cristo, Nana avrebbe proseguito il suo viaggio fino a fondare un’altra importante città: Arimna, cioè l’odierna Rimini. E Arimna – guardacaso – è il nome di un altro centro urbano rilevante, nel sud della Licia, sempre sulle coste anatoliche. Nana avrebbe fondato anche Spina, alle foci del Po: importantissimo porto commerciale già dal VII secolo avanti Cristo, gestito “in condominio” da Etruschi e Veneti, sul confine tra le due aree d’influenza. Poi Nana si sarebbe spinto nell’entroterra, verso sud, fondando Curiti: l’odierna Cortona. Quindi avrebbe fondato Ar-Tinia: Arezzo. In etrusco, Ar significa insediamento, mentre Tinia è una delle principali divinità etrusche, un “dio degli elementi” equiparabile a Zeus.Finendo per realizzare un’ulteriore fondazione (Fruntac, corrispondente a Ferento), lo stesso Nana avrebbe seguito un percorso preciso, tracciato sulla base della geografia sacra: evidentemente aveva una meta prestabilita, cioè il Lago di Bolsena. Doveva certo conoscerne l’esistenza: era un posto già considerato sacro, per millenni, da altre popolazioni. Quel lago, poi, sarebbe diventato il luogo sacro d’eccellenza, per il popolo etrusco. Sempre secondo Ellanico, quindi, Nana sarebbe arrivato sul Lago di Bolsena, fondando la città di Vels Nani, poi Volsini Veteres, destinata a diventare la vera capitale sacrale degli Etruschi. Capitale sacra, perché lì convergevano gli ordinamenti di tutte le Lucumonie. Gli Etruschi non hanno mai avuto un regno unitario, erano pòliadi: ogni comunità faceva capo a una Lucumonia, unità amministrativa estesa su una o più città. A volte, queste Lucumonie erano anche in guerra fra loro.Purtroppo, non si allearono mai – tutte insieme – se non quando ormai era troppo tardi. Ed è per questo che poi Roma riuscì ad averne ragione, conquistandole tutte, una dopo l’altra. Però queste Lucumonie facevano tutte capo a Volsini Veteres sul Lago di Bolsena, dove c’era il fanoso Fanus Voltumnae, cioè il tempo di Vultumna, grande dea della civiltà etrusca. Nel tempio venivano stabiliti i conteggi delle epoche: chiodi infissi, di bronzo, scandivano lo scorrere sacro del tempo. Tornando a Nana, avrebbe infine fondato anche Orvieto e Viterbo. Tutte città antichissime, risalenti a 4.500 anni fa: e i riscontri archeologici non mancano. Quella di Nana, però, secondo Ellanico fu solo una prima migrazione. Si ritiene che queste spedizioni fossero intraprese da marinai molto esperti, che a mio parere avevano un fine esplorativo e di colonizzazione. E l’Italia, crocevia del Mediterraneo e piena di risorse minerarie, ha sempre fatto gola: soprattutto ai popoli dell’Oriente. E’ naturale, quindi, che vi siano state queste progressive ondate di colonizzazione.Sempre secondo Ellanico, una seconda grande ondata si sarebbe verificata cinque secoli dopo, attorno al 2000 avanti Cristo. Sarebbe da mettere in relazione con la cosiddetta Cultura di Rinaldone, un villaggio della provincia di Viterbo sulla costa meridionale del Lago di Bolsena. Nel 1903, proprio a Rinaldone venne scoperta una necropoli con scheletri sorprendentemente alti. Non erano giganti, sia chiaro; ma mentre i popoli italiani dell’epoca superavano raramente il metro e sessanta di statura, gli scheletri di Rinaldone oltrepassavano i due metri: e risultavano appartenenti a popolazioni provenienti dall’Anatolia. Ufficialmente, questi resti umani sarebbero stati portati al Museo Archeologico di Firenze. Eppure, dopo un’inchiesta svolta da diversi studiosi, in passato, oggi nessuno sa più dire dove siano. Probabilmente sono nascosti in qualche scantinato, o sono addirittura stati distrutti. Non me ne stupirei: con la loro stessa esistenza, infatti, quegli scheletri provavano la provenienza anatolica di quelle genti finite in Italia. E anche questo la dice lunga su come vengano continuamente occultati certi indizi, certe testimonianze: le prove vengono fatte sparire, soprattutto se sono scomode.Le altre ondate migratorie di cui ci parla Ellanico, poi, sarebbero provenute dalla Misia e dalla Caria, sempre regioni costiere dell’Anatolia affacciate sull’Egeo. Proprio le stirpi arrivate con la seconda ondata avrebbero fondato città fondamentali, per la successiva cultura etrusca: Vulci, Sovana, Sorano (da Sur, “il Sole” in lingua etrusca). Poi Pitigliano, Misa, Tuscania, Poggio Buco, Saturnia, Marsiliana sull’Albenia. Tutti siti importantissimi dell’Etruria vera e propria. Sempre secondo Ellanico, un secolo dopo sarebbe giunta (dalla Licia) una terza ondata migratoria: un’ondata molto importante, guidata da un discendente del primo Nana. Anche in quella occasione, alla spedizione avrebbero preso parte diversi popoli del mare. Per Ellanico, il vero nome dei Lici sarebbe stato Luccu o Lucca. E infatti troviamo la città toscana di Lucca, sulle rive del Serchio, fondata proprio durante questa seconda ondata, insieme a Luni (in Lunigiana) e a diversi altri centri della zona delle Alpi Apuane.Più tardi, attorno al 1800 avanti Cristo, avrebbe avuto luogo quella che possiamo considerare una quarta ondata migratoria: un certo Kuriti (o Corito) avrebbe ampliato, regnandovi, uno dei centri fondati dal precedente Nana nel 2500 avanti Cristo, cioè l’odierna Cortona. E suo figlio, Dardano, disceso verso sud, avrebbe fondato la città di Cori. Secondo la tradizione, poi, Dardano avrebbe intrapreso un viaggio verso Creta, fondando la particolare stirpe dei Teucri Dardani (ma quest’ultimo, sottolineo, è un aspetto mitologico). In seguito ci sarebbero state ulteriori, successive ondate migratorie: ed è proprio grazie a questi arrivi se poi si formò in Italia quello che conosciamo come il popolo etrusco. Ci fu una sesta ondata migratoria, poi un’altra (dal 1800 al 1500 avanti Cristo) che secondo diverse interpretazioni – mitologiche, anche in questo caso – sarebbe stata all’origine di tutte quelle importantissime città del basso Lazio, in particolare della Ciociaria, che vengono chiamate Città Saturnie. Costruite con imponenti mura megalitiche (come Alatri, Ferentino, la stessa Cassino), eppure ignorate per decenni dagli archeologi, che fino agli anni ‘30-40 ne attribuivano l’origine ai Romani.Solo adesso, timidamente, si comincia ad ammettere che quelle città risalirebbero almeno al 1200-1300 avanti Cristo; ma pare vi siano elementi per collocarle anche nel 1500 avanti Cristo. A quella data risalirebbe Luni sul Mignone, a cavallo tra le province di Viterbo e Roma, in una zona oggi inaccessibile: l’hanno proprio esclusa dagli itinerari turistici. Luni sul Mignone venne scavata da una missione archeologica svedese: negli anni ‘60, su una collina costeggiata dal fiume Mignone trovarono un insediamento imponente, con edifici palaziali (di tipo minoico, oserei dire) costruiti in solida pietra, con stanze anche di 10 metri di lunghezza. Ma poi, tutto è stato incredibilmente ricoperto. Finita la missione (finanziata dal re di Svezia, grande appassionato di archeologia), uno dei siti archeologi più straordinari d’Europa è stato nuovamente sepolto dalla terra. Attualmente, il sito è in stato di abbandono: si trova tra il fiume Mignone e la stazione abbandonata di San Romano lungo l’ex ferrovia Orte-Civitavecchia, oggi dismessa. L’accesso è quasi proibitivo: si devono percorrere chilometri a piedi, itinerari scomodi e anche pericolosi.Questo sito l’hanno voluto cancellare dalle mappe archeologiche: perché è scomodo. L’abbiamo visto: per gli autori antichi, gli Etruschi venivano da Oriente. Eppure, è stato fatto di tutto per mettere in discussione questa origine (ormai confermata dalla stessa genetica). Quanto ai Greci, è noto che non amassero gli Etruschi, a cui – attraverso le colonie elleniche della Magna Grecia – hanno sempre conteso i porti e le risorse minerarie della penisola italiana. Spesso e volentieri, gli Etruschi si sono alleati con i Cartaginesi per arginare la colonizzazione ellenica dell’Italia meridionale. Questa rivalità era anche fondata su motivazioni religiose. Una parte della popolazione della Grecia classica continuava a praticare ancestrali forme di religiosità ancora legate all’antico pantheon titanico, ma la maggior parte della dirigenza politica delle poleis greche praticava il nuovo culto delle divinità olimpiche, che gli Etruschi vedevano come fumo negli occhi. Soprattutto, gli Etruschi non digerivano la caratterizzazione patriarcale della civiltà greca, alla quale anteponevano con orgoglio la forma matriarcale della loro società.Tornando al tema archeologico, si parla spesso in maniera impropria della Civiltà Villanoviana, oscurando invece la Cultura di Rinaldone. Ebbene: sono entrambe forme della stessa cultura. Quella che viene definita Civiltà Villanoviana, in realtà, è un falso scientifico, un po’ come le varianti Covid o certi ominidi “inventati” dalla palentologia, che in realtà non sono mai esistiti. Infatti, da alcuni reperti trovati nel sito di Villanova, sull’Appennino bolognese – un po’ come hanno fatto in America con la Cultura Clovis, altro falso clamoroso – hanno voluto creare una cultura a sé stante, dichiarandola prettamente italica e separandola dalla cultura etrusca vera e propria, con il pretesto che la Villanoviana poteva essere identificata come precedente, rispetto a quella propriamente etrusca. Con schematismi a mio parere del tutto fuori luogo, la cultura etrusca la si fa iniziare ufficialmente nell’XVIII secolo avanti Cristo; tutto quello che è le preesistente, riconducibile alla stessa matrice culturale, viene etichettato come “villanoviano”.Da qui l’invenzione della presunta matrice culturale autoctona, per giustificare l’autoctonia del successivo popolo etrusco. E al tempo stesso, si evita di riconoscere la Cultura di Rinaldone, non certo limitata a Rinaldone: era una cultura pre-etrusca, di fatto riconducibile alle migrazioni dall’Anatolia, e aveva caratterizzato almeno metà del territorio italiano. Quindi: vengono ignorati 2.000 anni (1.500, a essere stretti) di ininterrotta civilizzazione della nostra penisola, da parte di una cultura avanzata, proveniente dall’Oriente, che avrebbe portato qui l’agricoltura, la metallurgia, forme evolute di urbanizzazione e di ingegneria (dighe, canali irrigui). Sembra incredibile, ma è così: tutto questo viene ignorato, ripeto, per non ammettere l’origine orientale della matrice etrusca. Eppure fu proprio questa Cultura Rinaldoniana ad arrivare in Italia: già formatasi, già pronta. Fu questa, gradualmente, a fondersi poi e a integrarsi gradualmente con popolazioni locali come quelle dei Piceni delle Marche e degli Umbri veri e propri (quelli dell’Umbria), che avevano un’origine – loro sì – prettamente italica.Gli Etruschi entrarono in contatto con gli stessi Latini, con i Sabini. La stessa Roma è stata etrusca per secoli, assimilando dagli Etruschi gli ordinamenti, la divisione in centurie, molte simbologie (come lo stesso fascio littorio, che è di origine etrusca). Con il pretesto che la lingua etrusca non sia stata correttamente tradotta e interpretata, si continua a ricamare – sugli Etruschi – tutto quello che si vuole, a completa discrezione dei paradigmi di certi studiosi, di certi baroni universari. E non è nemmeno vero che l’etrusco non sia stato tradotto. E’ una lingua di matrice assolutamente non indoeuropea (come invece il latino e alcune lingue di origine celtica). La lingua etrusca è la stessa che veniva parlata in Anatolia e sull’isola di Lemnos, scritta con i medesimi caratteri. E’ stata tradotta; solo, non disponiamo di testi abbastanza estesi da poter ampliare il vocabolario. Il testo più lungo che conosciamo è quello della cosiddetta Mummia di Zagabria: una mummia tardo-egizia, di epoca tolemaica, conservata nel Museo Archeologico della capitale croata.Quella mummia è stata bendata con strisce di lino “riciclate”; erano etrusche, e su quelle gli Etruschi avevano scritto lunghi testi sacri, di natura religiosa, che probabilmente sarebbero andati perduti se non fossero stati utilizzati per fasciare quel corpo. Esistono poi vari testi scritti su tavole di bronzo, di natura giuridica o commerciale: il loro vocabolario è quindi limitato. Poi la lingua etrusca è andata arenandosi, purtroppo, già all’inizio dell’epoca dell’Impero Romano. Sono sopravvissute a livello religioso varie confraternite etrusche, alcune delle quali ancora attive ai tempi di Costantino, che però mantenevano l’uso della lingua solo per competenze strettamente inizitiche e cerimoniali, riservate esclusivamente agli adepti. Poi, con la soppressione di queste confraternite, si è perso l’ultimo uso effettivo della lingua etrusca. E’ pur vero però che il grande imperatore romano Claudio, vissuto nel I secolo dopo Cristo, aveva una moglie etrusca, Tanaquilla: una sacerdotessa, una donna di elevatissima cultura.Claudio si appassionò alla storia degli Etruschi, e raccolse tutte le documentazioni ancora disponibili, al suo tempo. Tant’è che l’imperatore fu probabilmente l’ultimo romano a saper parlare e leggere in maniera corretta la lingua etrusca. Poi, con l’assimilazione delle ultime Lucumonie (tra cui quella di Vulci), gli Etruschi entrarono completamente nella romanizzazione. Le loro città divennero municipalità romane, e iniziarono forzatamente a utilizzare la lingua latina: nel giro di 3-4 generazioni, gli Etruschi persero completamente l’uso della loro lingua. E lo avevano anche previsto: sapevano che la loro civiltà di sarebbe conclusa nel corso di quello che per noi è il I secolo dopo Cristo. Eppure, tantissimo è rimasto, di loro. Erano uno dei popoli più religiosi dell’antichità, oltre che uno dei più evoluti sul piano sociale e culturale. Avevano espressioni artistiche uniche, incredibili.A volte imitavano l’arte greca, tendevano a prendere il meglio delle culture altrui. Erano in grado di realizzare ceramiche di tipo attico, “made in Etruria”, addirittura superiori alle originali: e le esportavano, anche per dare fastidio al commercio dei greci. Ci hanno lasciato testimonianze straordinarie: scultoree, di fusione del bronzo. Per non parlare delle opere idrauliche: anche nei pressi di Firenze hanno trovato antichi acquedotti etruschi, potenzialmente ancora funzionanti. E nonostante questo, le Sorvintendenze continuano a ignorare certi ritrovamenti. Ci sono tantissimi siti etruschi in rovina, coperti dalle erbacce. Tombe meravigliose, le cui pitture stanno scomparendo: mai state oggetto di una adeguata conservazione. Quello etrusco – ripeto – è un popolo volutamente dimenticato, perché dà fastidio. Gli Etruschi fondavano ogni istante della loro vita sul confronto con le divinità. La Disciplina Etrusca era fondata su determinati libri, andati perduti (almeno, ufficialmente). Ne è rimasto ben poco, anche se nell’800, in Inghilterra, pare sia spuntata una trascrizione dei Libri Sibillini, o ciò che ne resterebbe (impossibile verificare, dato che non disponiamo più degli originali).Sappiamo comunque che gli Etruschi dividevano il territorio secondo una geografia sacra incredibilmente strutturata. Non solo conoscevano la precessione degli equinozi e le dinamiche dei solstizi, ma costruivano ogni loro sito secondo precisi schemi di geografia sacra. Nulla era mai costruito a caso, neppure la singola abitazione privata: tutto andava realizzato su determinati punti del terreno, che erano sacralizzati dal lucumone o dal sacerdote. Quei luoghi dovevano emanare determinate energie ctonie, telluriche, in sintonia con gli dèi. Costruire un edificio in un luogo non propizio, considerato funesto dalle regole della Disciplina Etrusca, sarebbe stato un sacrilegio. Piuttosto che far passare una strada in un’area inadatta, cioè fuori dalle direttrici delle “porte solstiziali”, erano capaci di spianare una collina, affrontando un lavoro di mesi.Un grande ricercatore come Giovanni Feo, appena scomparso, è stato forse tra i pochissimi a capire davvero l’anima del popolo etrusco. Ci ha lasciato libri bellissimi, che ci spiegano l’origine della religiosità fondata sulla Disciplina Etrusca e il rapporto costante che avevano con gli dèi. Interrogavano le forze della natura in ogni cicostanza, per le azioni più importanti: e attendevano i responsi, che poi ottenevano (così almeno interpretavano la caduta di un fulmine, il volo di alcuni uccelli). Il loro era un rapporto di simbiosi – forte, irrinunciabile – con le forze della natura, sia quelle del sottosuolo che quelle degli dèi celesti. E’ un popolo fondamentale, per le nostre origini: e tuttora se ne parla il meno possibile, e non certo in modo corretto. La reticenza sugli Etruschi, in sostanza, non fa che confermare l’inattendibilità spesso tendenziosa di una archeologia cattedratica che stenta a riconoscere alcune tra le più importanti scoperte sulla nostra vera origine, proprio perché la costringerebbero ad archiviare il suo paradigma convenzionale, ormai superato.(Nicola Bizzi, dalla trasmissione “Etruschi: origine e storia di una civiltà scomoda”, in diretta streaming il 1° agosto 2021 nella rubrica “Il Sentiero di Atlantide”, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti. Nel libro “I Minoici in America”, Bizzi svela come l’archeologia stenti ancora a riconoscere come i Popoli del Mare, di origine titanico-atlantidea secondo la tradizione eleusina, abbiano dominato il Mediterraneo e l’Atlantico ben prima dell’affermarsi delle civiltà successive – mesopotamica, egizia, greco-romana).Vi hanno raccontato della necessità assoluta di inocularvi non si sa bene cosa, per poter continuare a vivere liberi e sereni? Se è per questo, vi avranno anche detto che i misteriosi Etruschi erano di origine italiana. E’ normale, dice Nicola Bizzi: l’archeologia ufficiale si comporta sempre così, quando si imbatte in verità scomode. Negazionismo accademico? Fate voi. Però sappiate – avverte Bizzi, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti (di seguito, il testo integrale) – che i nostri antenati etruschi venivano dall’Anatolia, cioè dal mare. Arrivarono via nave dalle coste meridionali della Turchia: Lidia, Misia. In altre parole, dalle parti di Troia: infatti, Roma accettava che il suo mitico fondatore (Enea) fosse un profugo troiano. La migrazione dalle coste dell’attuale Turchia la confermano storici come Erodoto ed Ellanico. In Italia, si tace sulla Cultura di Rinaldone fiorita sul Lago di Bolsena (con scheletri anatolici spariti nel nulla) e sugli imponenti palazzi “cretesi” emersi a Luni sul Mignone, tra Roma e Viterbo. Silenzio anche sulle scoperte dei genetisti: in Toscana e Lazio, il 30% degli abitanti ha un corredo genico anatolico. Viene dall’oltremare anche la più famosa razza bovina toscana, la Chianina. Perché fanno così paura, gli Etruschi? Forse perché avevano una società matriarcale “titanica” che introdusse in Italia una civiltà “inspiegabilmente” evoluta già nel 2500 avanti Cristo?
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Krishna, Horus, Mithra: era già Natale, ben prima di Cristo
L’etimologia del termine “Natale”, come sostantivo maschile, deriva dal latino “Natalis (nascita); “dies Natalis” significa “il giorno della nascita”. Il termine “nascere” proviene dal latino “noscere”, che significa “cominciare a conoscere” e ha le sue radici in altre lingue; è un termine collegato ai termini: notizia, nobile, celebre, konig, king. Il significato etimologico di Natale è quindi legato sia alla nascita, sia alla conoscenza. Per i Popoli del Nord, le notti dal 25 dicembre al 6 gennaio erano particolarmente sacre. Nei paesi scandinavi venivano celebrati i natali di Frey, figlio di Wodan (Wuotan: Odino), dio della natura, e di Berchta (Frigga: Holda) sua sposa, con la festa scandinava di Yule. Riservati al culto solare erano in epoca megalitica il monumento di Stonehenge (Inghilterra) e i Menhir di Carnac (Bretagna), orientati verso Est (il Sole levante). Fra i popoli celti si accendevano e si accendono tutt’ora il 25 dicembre dei sacri fuochi al dio Lug (luminoso) detto Griamainech (Viso del Sole), corrispondente al greco Hermes e al latino Mercurius. Questi fuochi sono ancor oggi conosciuti fra gli irlandesi e i montanari della Scozia, e vengono accesi in onore di Cristo.La festa del solstizio d’inverno è sempre stata associata alla celebrazione della Rinascita della Luce e dell’attesa di un “parto” miracoloso della “Vergine celeste”, “Regina del Mondo”, con la nascita del suo divino “Infante”. Il Rito della Natività del Sole, celebrato in Siria e in Egitto, era molto solenne. Al solstizio d’inverno i celebranti si riunivano in particolari santuari sotterranei (hipógei), da cui uscivano a mezzanotte esultando: «La Vergine ha partorito! La Luce cresce!». Gli antichi egiziani rappresentavano il Sole appena nato, Horus, con una “Imagine” di un Infante in cera o argilla, che mostravano ai fedeli di Iside e Osiride. La figura di Iside col bimbo Horo somiglia talmente alla Madonna col Bambin Gesù che a volte ricevette l’adorazione inconsapevole dei primi cristiani (dal “Libro dei Morti” egiziano). Iside d’Egitto, come Maria di Nazareth era la Nostra Signora Immacolata, la Stella del Mare (Stella Maris), la Regina del Cielo e Madre di Dio, ed era rappresentata in piedi sulla falce della Luna e coronata di stelle. La figura della “Vergine” dello zodiaco (Virgo) nelle antiche immagini appare come una donna che allatta un bambino, archètipo di tutte le future madonne col divino fanciullo.In India, l’antichissima religione dei primi Brahmani vedici, nei più antichi inni del “Rig-Veda”, chiama Sûrya (il Sole) e Aghni (il Fuoco) il Regolatore dell’Universo, Signore degli Uomini e il Re Saggio,e la Madre Devakî è similmente raffigurata col divino Krishna tra le braccia. Per i babilonesi, la Madre Mylitta o Istar di Babilonia era raffigurata con la consueta corona di stelle e con il divino figlio Tammuz, la cui nascita veniva commemorata nelle rituali Sacee babilonesi, feste della nascita analoghe al nostro Natale. Il periodo del solstizio al 25 dicembre ricorre anche per la nascita verginale del principe Siddharta, che fu adombrato da Buddha (l’Illuminato) allo stesso modo in cui Gesù fu adombrato da Cristo. Per la storia dell’antica Cina, Buddha nasce dalla vergine Mâyâdevi. Per i persiani, al solstizio d’inverno nacque Mithra, divinità solare di origine indo-iranica, anch’egli “nato” in una grotta, da una vergine. Fra i suoi sacerdoti si ricordano i Magi citati nel Vangelo di Matteo, sapienti astrologi e discepoli di Zarathustra-Zoroastro, che attendevano da tempo il ritorno di Mithra-Maitreia, secondo antiche profezie.Per i nabatei, popolazione araba che nel I secolo a.C. dominò la Giordania Orientale, la divinità Dusares era unita al Sole, portava l’attributo di “invincibile”, congiunto a Mithra, e il suo giorno natalizio cadeva sempre il 25 dicembre. Nel 274 d.C. Aureliano fece erigere a Roma un sontuoso tempio in onore di Mithra, e numerosi “mithrei” sorsero e si conservano tutt’ora in altre zone d’Italia, noti sotto il nome di “Hipógei”. Nell’antica Grecia veniva celebrata la festa della “Ghenesìa” (il giorno del Natalizio). Il mito di Hermes (Mercurio) presenta particolari analogie con la figura di Gesù. Nato in una grotta, figlio di Zeus (Iuppiter: Giove-Padre) e da Maia (la maggiore delle Pleiadi), Hermes è spesso rappresentato con un agnello sulle spalle, da cui deriva il suo nome di Crioforo (portatore dell’agnello). E’ anche ricordato come Guida delle Anime nella dimora dei morti (Ade-inferno). Da tale funzione deriva il nome di Ermes-Psicopompo, “accompagnatore delle anime”, e in tali vesti servì di immagine ai primi cristiani per figurare il Buon Pastore, al punto che queste identificazioni si fusero con la figura del Christo.La data del solstizio d’inverno fu ripresa dal cristianesimo per il Natale di Gesù, in coincidenza con altre feste confluite a Roma, come il “dies Natalis Solis Invicti” il Natale del Sole Invitto (il sole invincibile), il Natale di Mithra, la Nascita di Horus in Egitto e quella di Tammuz a Babilonia. Storicamente la più antica fonte conosciuta, che fissa al 25 dicembre la nascita di Gesù, è di Ippolito di Roma (170 circa- 235) che già nel 204 riferiva della celebrazione del Natale, nell’Urbe, proprio in quella data; e soprattutto Sesto Giulio Africano (211 d.C.) nella sua “Cronografia” del mondo. Inoltre ci sono anche le prove, indirette ma evidenti, contenute nei Rotoli di Qumran (“Cronaca dei Giubilei”) che confermano la tradizione apostolica secondo la quale vi erano la festività dell’Annuncio a Zaccaria il 23 settembre, la festa dell’Annuncio a Maria sei mesi dopo (25 marzo) e la nascita di Gesù nove mesi dopo (25 dicembre).Ufficialmente la festa del Natale cristiano fu fissata nel 335 d.C. dall’imperatore Costantino, che sostituì la festa natalizia di Mithra-Sole del 25 dicembre con il Natale di Cristo, chiamato dal profeta Malachia “Sole di Giustizia” e da Giovanni Evangelista “Luce del Mondo”. Da Roma la nuova festa del Natale cristiano si diffuse rapidamente in Oriente (seppure con qualche resistenza), come attestato da San Giovanni Crisostomo nell’omelia pronunciata nel 386, in cui asseriva che la festa era stata introdotta ad Antiochia una decina d’anni prima (circa nel 375) mentre non era in uso né a Gerusalemme, né ad Alessandria, né in Armenia, dove invece nelle chiese locali osservavano già la festa della “Manifestazione” al 6 gennaio, cioè la triplice epifania del Salvatore: la nascita di Gesù, l’adorazione dei Magi, il battesimo nel Giordano (Christòs). Risulta quindi che verso la fine del IV secolo s’era esteso a tutta la Chiesa l’uso di celebrare l’anniversario della nascita di Gesù-Cristo, in Oriente al 6 gennaio e in Occidente al 25 dicembre.La Novena di Natale è strettamente legata al culto ufficiale, ma va precisato che il Natale fa parte di un ciclo di dodici giorni, conosciuto col nome di “Calende”, di origine molto antica. Infatti il Natale segnava l’inizio del nuovo anno. Nelle case dei nostri antichi avi si accendeva a Natale un ceppo di quercia, dai poteri propiziatori, che doveva bruciare per 12 giorni consecutivi, e dal modo in cui bruciava si intuivano i presagi sul nuovo anno in arrivo. Il ceppo doveva essere preferibilmente di quercia, perché il suo legno simboleggia forza e solidità. Simbolicamente si bruciava il passato e si coglievano i segni del prossimo futuro; infatti le scintille che salivano nella cappa simboleggiavano il ritorno dei giorni lunghi, la cenere veniva raccolta e sparsa nei campi per sperare in abbondanti raccolti. Si tratta di un’usanza le cui radici risalgono alle popolazioni del Nord Europa. Abbiamo la testimonianza di Lucano, nel “Bellum civile” (III, 400) in cui ha descritto come gli alberi assumessero un ruolo fondamentale nel culto delle popolazioni celtiche che i romani si trovarono a fronteggiare: un culto in cui simbolismo e ritualità si fondevano in modo straordinariamente armonico.In particolare i Teutoni, nei giorni più bui dell’anno, piantavano davanti alle case un abete ornato di ghirlande e bruciavano un enorme ceppo nel camino. Questi simboli sono sopravvissuti nell’albero di Natale, che rimane verde tutto l’anno e non perde le foglie durante l’inverno come fanno gli altri alberi. L’albero rappresenta anche il simbolo del corpo umano e più precisamente il suo sistema nervoso compreso il cervello, nel quale deve brillare la luce, ovvero la conoscenza che viene dal “cielo” del pensiero e dalla coscienza universale, simboleggiata dalla stella di Natale, che indica l’illuminazione, la conoscenza e la consapevolezza dell’amore che mantiene vivente il creato. Quest’usanza si è oggi trasformata nelle luci che addobbano gli alberi, le case e le strade nel periodo natalizio. A tale tradizione si collega la celebrazione del Natale per indicare l’avvento della Luce del Mondo, che giunge a squarciare le pericolosità del Buio. È il Bambino, che venendo al mondo, inaugura una nuova vita, e porta la Luce a tutti gli uomini. Infatti le case e le abitazioni sono il simbolo della personalità che deve illuminarsi; per questo motivo in questo periodo le case e le città si riempiono di luci, perchè devono portare la conoscenza di sé stessi, l’amore e la giustizia tra gli uomini.E’ documentato che in Romagna, l’antica Romandìola, l’usanza di iniziare l’anno partendo dal 25 dicembre di ogni anno, durò fino ai tempi di Dante, come si riscontra dal “Codice di Lottieri della Tosa” – n. 217 – pubblicato a Faenza nel 1979 a cura di don Giovanni Lucchesi. Ogni anno al solstizio d’inverno accade qualcosa di magico e straordinario: nel giorno più corto dell’anno, il sole tocca a mezzogiorno il punto più basso dell’orizzonte, ovvero simbolicamente “muore”, per rinascere successivamente, dodici giorni dopo, al perigeo, quando il sole riprende il suo moto, perpetuando e rinnovando il ciclo infinito della vita. Per questo il solstizio d’inverno è considerato il giorno più sacro dell’anno e del bene che regna sul mondo. A partire dal solstizio d’inverno il nostro pianeta è permeato dalle potenti radiazioni della “Luce Cristica”, che continua a manifestarsi con forza fino all’Epifania.(Andrea Fontana, “Il Natale nella storia”, estratto da “Il presepio rivelato”, intervento pubblicato su “Scienze Astratte” il 25 dicembre 2011).L’etimologia del termine “Natale”, come sostantivo maschile, deriva dal latino “Natalis (nascita); “dies Natalis” significa “il giorno della nascita”. Il termine “nascere” proviene dal latino “noscere”, che significa “cominciare a conoscere” e ha le sue radici in altre lingue; è un termine collegato ai termini: notizia, nobile, celebre, konig, king. Il significato etimologico di Natale è quindi legato sia alla nascita, sia alla conoscenza. Per i Popoli del Nord, le notti dal 25 dicembre al 6 gennaio erano particolarmente sacre. Nei paesi scandinavi venivano celebrati i natali di Frey, figlio di Wodan (Wuotan: Odino), dio della natura, e di Berchta (Frigga: Holda) sua sposa, con la festa scandinava di Yule. Riservati al culto solare erano in epoca megalitica il monumento di Stonehenge (Inghilterra) e i Menhir di Carnac (Bretagna), orientati verso Est (il Sole levante). Fra i popoli celti si accendevano e si accendono tutt’ora il 25 dicembre dei sacri fuochi al dio Lug (luminoso) detto Griamainech (Viso del Sole), corrispondente al greco Hermes e al latino Mercurius. Questi fuochi sono ancor oggi conosciuti fra gli irlandesi e i montanari della Scozia, e vengono accesi in onore di Cristo.
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L’oro dei Sumeri: Sudafrica, una metropoli di 200.000 anni
Heine aveva un vantaggio unico: essersi reso conto del numero e della portata di quelle strane fondazioni di pietra. Il loro significato non era mai stato colto? «Quando Johan per primo mi ha fatto conoscere le antiche rovine di pietra dell’Africa Australe, non avevo idea delle incredibili scoperte che ne sarebbero seguite, in breve tempo», racconta Tellinger. «Le fotografie, i manufatti e le prove che abbiamo accumulato puntano senza dubbio ad una civiltà perduta e sconosciuta, visto che precede tutte le altre – non di poche centinaia d’anni, o di qualche migliaio d’anni… ma di molte migliaia d’anni». Queste scoperte, continua Tellinger, «sono così impressionanti che non saranno facilmente digerite dall’opinione ufficiale, dagli storici e dagli archeologi, come abbiamo già sperimentato». Secondo il ricercatore, «è necessario un completo mutamento di paradigmi, nel nostro modo di vedere la nostra storia umana». Autore, scienziato ed esploratore sudafricano, protagonista di campagne d’opinione contro le banche, Tellinger ha fondato un suo partito politico, Ubuntu, che sostiene la fornitura gratuita delle risorse a tutta la società. Ha presentato la sua scoperta, ribattezzata “Calendario di Adamo”, come un sito di straordinaria importanza archeologica, essendo al centro di una rete di cerchi di pietre presenti in tutta l’Africa meridionale, che presumibilmente «ha incanalato l’energia, in tempi antichi».L’area è importantissima, per un aspetto che colpisce subito: l’oro. «Le migliaia di antiche miniere d’oro, scoperte nel corso degli ultimi 500 anni, indicano una civiltà scomparsa che ha vissuto e scavato per l’oro in questa parte del mondo per migliaia d’anni», dice Tellinger. «E se questa è in realtà la culla del genere umano, forse stiamo osservando le attività della più antica civiltà sulla Terra». Se si compie una “ricognizione aerea” con Google Earth (secondo le coordinate fornite da Dan Eden) il risultato è stupefacente. Prima domanda: l’oro ha giocato un certo ruolo sulla densità di popolazione che un tempo viveva qui? Il sito si trova a circa 150 miglia da un ottimo porto, il cui commercio marittimo potrebbe avere contribuito a sostenere una popolazione così importante. Ma stiamo parlando di quasi 200.000 anni fa. Tanta attenzione per le miniere d’oro – di cui non ci risulta cha nostra civiltà conoscesse, in tempi così remoti, le tecniche estrattive – ricorda alcuni racconti dei Sumeri: narrano che gli Anunnaki (i signori della Terra, l’equivalente degli Elohim biblici) inizialmente fossero costretti a lavorare duramente. Ed è noto che proprio l’oro, in astronautica, è apprezzato per le sue proprietà isolanti: proteggerebbe anche dalle radiazioni nucleari. I lavoratori Anunnaki, narrano i Sumeri, a un certo punto si ribellarono al lavoro schiavistico. Da lì nacque l’idea di “fabbricare” geneticamente una specie intelligente, quella degli “Adamu”, che lavorasse nelle miniere al posto degli “dei”.Le singole rovine scoperte in Sudafrica sono in gran parte costituite da cerchi di pietre, per lo più sepolti sotto la sabbia e visibili soltanto dal satellite o dall’aereo. Alcuni, scrive Eden, sono riaffiorati di recente, quando il cambiamento climatico ha soffiato via la sabbia, rivelando le mura e le fondamenta. «Anche se mi vedo come una persona di mente aperta – dice Tellinger – devo ammettere che mi ci è voluto oltre un anno, per digerire la scoperta e per capire che abbiamo realmente a che fare con le strutture più antiche mai costruite dall’uomo sulla Terra». Tanto stupore deriva da un pregiudizio: «Ci hanno insegnato che nulla di significativo è mai venuto dal Sud Africa: ci è stato sempre detto che le civiltà più potenti sono apparse in Sumeria, in Egitto e in altri luoghi». Quanto all’Africa, la storia ufficiale sostiene che, fino all’insediamento del popolo Bantu, proveniente da nord a partire dal 1300 (medioevo europeo), questa parte del mondo era piena soltanto di cacciatori-raccoglitori, e che i cosiddetti Boscimani non hanno fornito alcun contributo importante alla tecnologia o alla civiltà. Quando i primi esploratori incontrarono queste rovine sudafricane, scrive Eden, davano per scontato che fossero recinti per il bestiame realizzati da tribù nomadi come quelle dei Bantu, si spostarono verso sud e si stabilirono in quei terrtitori intorno al XIII secolo dopo Cristo.«Non si conoscevano le testimonianze storiche di nessuna civiltà precedente, più antica, in grado di costituire una comunità così densamente popolata». Tuttavia, aggiunge Eden, ben pochi sforzi sono stati fatti per indagare il gigantesco sito ora emerso: la collocazione storica delle rovine non era ancora nota. «Negli ultimi 20 anni, persone come Cyril Hromnik, Richard Wade, Johan Heine e una manciata d’altri hanno scoperto che queste strutture in pietra non sono ciò che sembrano essere. In realtà questi sono ora ritenuti i resti di antichi templi e osservatori astronomici di antiche civiltà perdute, che risalgono a molte migliaia di anni fa». Le immense rovine circolari sono distribuite su una vasta area. Possono solo essere veramente apprezzate soltanto dal cielo, dall’aereo o attraverso immagini satellitari. «Molte di loro sono quasi completamente erose o sono state coperte dai movimenti del suolo fatti per l’agricoltura lungo il tempo. Alcune sono sopravvissute abbastanza bene da rivelare le loro grandi dimensioni, con alcuni muri originali in piedi, sino a quasi 2 metri d’altezza e oltre un metro di larghezza». Guardando la “metropoli” intera, diventa evidente che si trattava d’una comunità ben progettata, sviluppata da una civiltà evoluta. E poi, appunto, l’oro: il numero di antiche miniere suggerisce la ragione per cui la comunità si trovasse proprio in quella regione.E’ possibile rilevare anche l’esistenza di tracciati “stradali”, lunghi anche 100 miglia, che collegavano la comunità e l’agricoltura a terrazzamenti molto simili a quelli trovati negli insediamenti Inca in Perù. Ma, si domanda Eden, tutto questo come potrebbe esser stato realizzato dagli esseri umani 200.000 anni fa? «Trovare i resti di una grande comunità, con ben 200.000 persone che vivevano e lavoravano insieme, è stata una scoperta importante in sé. Ma la datazione del sito ha costituito un problema. La patina pesante sulle pareti di roccia – scrive Eden, citando il lavoro degli archeologi – suggeriva che le strutture dovessero essere molto vecchie, ma la scienza della datazione tramite la patina è solo in fase di sviluppo ed è ancora controversa». La datazione col carbonio 14, che rileva sostanze organiche come il legno bruciato, è alterata dalla possibilità che i reperti «possano aver subito incendi recenti dell’erba circostante, che sono comuni nella zona». La svolta è arrivata inaspettatamente, come spiega lo stesso Tellinger: è l’astronomia a rivelare la datazione del complesso, che riproduce una configurazione stellare visibile dalla Terra soltanto 200.000 anni fa.Johan Heine, racconta Tellinger, scoprì il “Calendario Adam” nel 2003, quasi per caso. Andava a cercare uno dei suoi piloti che si era schiantato con l’aereo sul bordo dell’altopiano. Accanto al luogo dello schianto, Johan notò un gruppo molto strano di grosse pietre, sporgenti dal terreno. Mentre portava in salvo il pilota ferito, Johan si rese conto che i monoliti erano allineati ai punti cardinali della Terra – nord, sud, est e ovest. «C’erano almeno tre monoliti allineati verso il sorgere del sole, ma sul lato ovest dei monoliti allineati c’era un misterioso buco nella terra – mancava qualcosa». Dopo mesi di misurazioni, Johan concluse che le rocce erano perfettamente allineate con il sorgere e il tramonto del sole: solstizi ed equinozi. E il misterioso buco nel terreno? Un giorno, l’esperto locale di piste a cavallo, Christo, spiegò a Johan che c’era una pietra dalla strana forma, che era stata rimossa dal luogo qualche tempo prima, e collocata vicino all’ingresso della riserva naturale. Dopo una lunga ricerca, Johan trovò la pietra (antropomorfica, di forma umanoide). «Era intatta e con orgoglio recava una targa, attaccata ad essa. Era stata utilizzata dalla Fondazione Blue Swallow per commemorare l’apertura della riserva Blue Swallow nel 1994. L’ironia è che era stata rimossa dal sito antico più importante trovato fino ad oggi, e misteriosamente era ritornata alla riserva».I primi calcoli dell’età del Calendario di Adamo sono stati effettuati in base al sorgere di Orione, costellazione conosciuta per le sue tre stelle luminose che formano la “cintura” del mitico cacciatore della Beozia. La Terra oscilla sul suo asse, e quindi le stelle e le costellazioni cambiano il loro angolo di presentazione nel cielo notturno, in base alla congiuntura. Questa rotazione, denominata “precessione degli equinozi”, completa il suo ciclo ogni 26.000 anni, all’incirca. «Se possiamo stabilire quando le tre stelle della Cintura di Orione erano posizionate in orizzontale contro l’orizzonte, possiamo stimare il momento in cui le tre pietre del Calendario erano in linea con queste stelle visibili». Il primo calcolo approssimativo fu di almeno 25.000 anni. Ma le nuove misurazioni, più precise, tendevano ad aumentare l’età del ritrovamento. Il calcolo successivo è stato compiuto da un esperto archeo-astronomo, «che vuole rimanere anonimo per paura», temendo di essete deriso dalla comunità accademica. Il suo calcolo, spuega Eden, si è basato sul sorgere di Orione e ha suggerito un’età di almeno 75.000 anni. Ma il conteggio più recente e più preciso, eseguito soltanto nel giugno del 2009, suggerisce un’età di almeno 160.000 anni, sulla base del sorgere apparente di Orione all’orizzonte – ma anche dell’erosione delle pietre costituite da un particolare minerale, la dolerite, trovare sul sito. Alcuni frammenti dei “marcatori” di pietra sono stati sbriciolati dall’erosione naturale: ricomposti, rivelano l’assenza di circa 3 centimetri di roccia (tanto basta, per calcolare – mediante sottrazione – la loro presunta età originaria).Chi ha edificato la metropoli? E perché? Sembrerebbe che gli esseri umani abbiano sempre apprezzato l’oro. È anche menzionato nella Bibbia, che descrive i fiumi del Gan, il “paradiso terrestre” situato nella regione geografica di Eden, tra la Mesopotamia e il Mar Caspio: «Il nome del primo [fiume] è Pishon; scorre intorno a tutto il paese di Havilah, dove c’è l’oro», si legge in Genesi 2:11. Il Sudafrica è conosciuto come il più grande paese produttore di oro al mondo. L’epicentro estrattivo è il Witwatersrand, cioè la stessa regione dove l’antica metropoli si trova. Nelle vicinanze di Johannesburg c’è poi un luogo chiamato “Egoli”, che significa “la città d’oro”. Sembra molto probabile, quindi, che l’antica metropoli sorgesse a causa della sua vicinanza con l’offerta d’oro più grande del pianeta. Ma perché gli antichi lavoravano così alacremente nelle miniere d’oro? Il prezioso metallo non si può mangiare, è troppo tenero da utilizzare per la produzione di utensili e non ha alcuna utilità pratica, se non per ricavarne ornamenti, anche se la sua qualità estetica non è superiore a quella di altri metalli pregiati, come il rame o l’argento. Perché mai l’oro divenne così prezioso, dunque? Perché proprio l’oro diventò così importante per i primi Homo Sapiens?Per cercare la risposta, scrive Dan Eden, dobbiamo esaminare il periodo preistorico in questione: com’erano, gli esseri umani, 160.000 anni fa? Come fece, il Sapiens, a distinguersi dai suoi antenati ominidi assai meno evoluti, come l’Homo Habilis e l’Homo Erectus? Gli scienziati, scrive Eden, non hanno ancora capito perché apparve, improvvisamente, quel nuovo tipo umano. Non sanno in che modo quel cambiamento avvenne. Attualmente, infatti, siamo soltanto in grado di rintracciare i nostri geni risalendo fino ad un’unica donna, che paleontologi e genetisti chiamano Eva Mitocondriale. Quell’Eva primigenia, denominata “mt-Mrca”, è definita come il nostro antenato “matrilineare” più recente. Tramandato da madre a figlio, tutto il Dna mitocondriale (“mt-Dna”) in ogni persona vivente è derivato da quell’individuo di sesso femminile. L’Eva Mitocondriale è la controparte femminile di “Adamo Y-cromosomico”, l’antenato comune “patrilineare” più recente. Gli studiosi ritengono che la Eva Mitocondriale sia vissuta tra 150.000 a 250.000 anni fa, probabilmente in Africa Orientale, attorno alla Tanzania. Si ipotizza che vivesse in una popolazione di 4-5.000 esemplari, tutte femmine, in grado di produrre prole in un dato momento.«Se altre femmine avevano prole con cambiamenti evolutivi del loro Dna, non abbiamo alcuna registrazione della loro sopravvivenza», scrive Eden. «Sembra che siamo tutti discendenti di questa femmina umana». Lei, Eva Mitocondriale, sarebbe stata «pressoché contemporanea degli esseri umani i cui fossili sono stati rinvenuti in Etiopia, nei pressi del fiume Omo e di Hertho». Si pensa che l’Eva Mitocondriale sia vissuta «molto prima dell’emigrazione dall’Africa, che potrebbe essersi verificata tra 60.000 e 95.000 anni fa». La regione africana dove si può trovare il massimo livello di diversità mitocondriale, aggiunge Eden, è la stessa in cui gli antropologi ipotizzano che la divisione più antica della popolazione umana abbia iniziato a verificarsi. E l’antica metropoli sudafricana si trova proprio in quest’ultima regione, «che corrisponde anche al periodo stimato in cui le mutazioni genetiche improvvisamente accaddero», per dare origine al Sapiens. Coincidenze? La stessa storia dei Sumeri descrive l’antica metropoli e i suoi abitanti. «Sarò onesto con voi», premette Eden: «Questa parte successiva della storia è difficile da scrivere. È così sconvolgente che la persona media non ci vuole credere. Se siete come me, vi consiglio di fare la ricerca voi stessi, e di prendervi del tempo per permettere ai fatti di stabilirsi nella vostra mente».Riassume Eden: ci hanno spesso fatto credere che la nostra storia conosciuta cominci con gli egizi, le piramidi e i faraoni, le cui dinastie più antiche risalgono a poco più che 5.000 anni fa, precisamente nel 3.200 avanti Cristo. Ma la civiltà mesopotamica dei Sumeri, considerata la prima a costruire città, risale ad almeno mille anni prima. «Abbiamo tradotto molte delle loro tavolette, scritte in caratteri cuneiformi e in scritture precedenti, in modo da sapere parecchio sulla loro storia e sulle loro leggende». Viene da lì il primo sigillo che raffigura la narrazione del “Grande Diluvio”, che annienta l’umanità. Molte leggende sumere, riconosce Eden, sembrano aver ispirato la stessa Genesi, assai più recente. Come la Genesi, la narrazione sumerica contenuta nell’Atrahasis racconta la comparsa degli esseri umani moderni, originati «non da un “Dio d’amore”, ma da esseri provenienti da un altro pianeta, che avevano bisogno di “lavoratori schiavi”, per aiutarli a lavorare nelle miniere d’oro». Quel metallo, sempre secondo i Sumeri, era indispensabile per le «spedizioni extra-planetarie» di quei misteriosi signori, gli Anunnaki. La versione a noi nota dell’Atrahasis, aggiunge Eden, proviene da una stesura babilonese più recente, che risale al 1.700 avanti Cristo. La storia inizia presentando gli “dèi”, esseri provenienti da un pianeta chiamato Nibiru, che scavano fossati e miniere per l’oro, come fossero una squadra minatori. L’Homo Sapiens non esistevano ancora, la Terra era abitata soltanto da ominidi primitivi.Sempre secondo la narrazione babilonese ispirata all’originario racconto dei Sumeri, c’erano due gruppi distinti di “divinità”: i lavoratori e la classe dirigente, i comandanti. Gli “dèi lavoratori”, fabbricanti di infrastrutture e impianti minerari, dopo migliaia d’anni si ribellarono, data l’eccessiva mole di lavoro. «Gli dèi dovevano scavare i canali», scrive l’Atrahasis. «Dovevano tenere puliti i canali, le arterie vitali della terra». Addirittura, «gli dèi scavarono il letto del fiume Tigri, e poi hanno fatto quello dell’Eufrate». Dopo 3.600 anni di questo lavoro, gli “dèi” finalmente cominciarono a lamentarsi. Decisero di scendere in sciopero, bruciando i loro strumenti e circondando la “dimora” del dio principale, Enlil (il suo “tempio”). Il ministro di Enlil, Nusku, scosse Enlil dal letto e l’avvisò che la folla inferocita stava là fuori. Enlil ne rimase spaventato. Il suo volto è descritto «olivastro come una tamerice». Il ministrò Nusku consigliò Enlil di chiamare gli altri grandi “dèi”, soprattutto Anu (“dio” del cielo) ed Enki (il “dio” intelligente delle acque dolci). Anu consigliò ad Enlil di scoprire chi fosse il capo della ribellione. Spedirono Nusku in avanscoperta per chiedere alla folla delle “divinità” chi fosse il loro leader. E la folla rispose: «Ciascuno di noi dèi vi ha dichiarato guerra!».Constatato che il lavoro degli “dèi” di classe inferiore «era troppo difficile», i capi decisero di sacrificare uno dei ribelli per il bene di tutti: avrebbero preso un solo “dio”, l’avrebbero ucciso e ne avrebbero ricavato il genere umano, mescolando la carne e il sangue del “dio” con l’argilla. Scrive sempre l’Atrahasis nella versione babilonese: «Belit-ili, la dea del grembo materno, è presente». Il nome ricorda – in modo impressionante – quello di Lilith, mitica femmina e “madre primigenia” un tempo presente nella stessa Bibbia, e poi rimossa. «Lasciate che la dea del grembo materno crei la sua prole – aggiunge l’Atrahasis – e lasciate che l’uomo sopporti il carico degli dei!». Dopo che Enki li istruì sui rituali di purificazione per il primo, settimo e quindicesimo giorno d’ogni mese, gli “dèi” uccisero Geshtu-e, «un dio che aveva l’intelligenza» (il suo nome significa “orecchio” o “saggezza”) e, di fatto, “fabbricarono” l’attuale l’umanità impastando il suo sangue con della creta. Dopo che la “dea della nascita” ebbe mescolato l’argilla, tutti gli “dèi” si raccolsero intorno e, letteralmente, sputarono sul nascituro. Poi Enki e la “dea dell’utero” presero l’argilla e la portarono nella “stanza del destino”, dove si riunirono tutte le “dee del grembo materno”. Continua l’Atrahasis: «Egli [Enki] calpestò l’argilla in presenza di lei; lei continuava a recitare un incantesimo, perché Enki, soggiornando in sua presenza, l’aveva obbligata a recitarlo. Quando ebbe finito il suo incantesimo, estrasse quattordici pezzi d’argilla e mise sette pezzi a destra, sette a sinistra. Tra di essi depose un mattone di fango».La “creazione dell’uomo”, scrive Dan Eden, sembra dunque descritta come una specie di clonazione, che ricorda l’odierna fecondazione in vitro. «Il risultato fu un ibrido, o “umano evoluto”, con maggiore intelligenza, che potesse svolgere le funzioni fisiche degli “dèi lavoratori” e anche prendersi cura delle esigenze di tutti gli “dèi”». In altri testi, poi, ci viene detto che la “spedizione” nella regione mineraria fu originata dalla necessità di estrarre grandi quantità di oro, destinate ad essere spedite “fuori del pianeta”. Quella comunità stanziatasi in Sud Africa aveva un nome proprio: era chiamata Abzu. Visto che questi “eventi” sembrano coincidere con le date della Eva Mitocondriale, vale a dire dal 150.000 al 250.000 avanti Cristo, alcuni ricercatori – conclude Eden – sospettano che i “miti dell’origine” della tradizione sumera possano essere basati su precisi avvenimenti storici. Consonanze, analogie: «Secondo gli stessi testi, una volta conclusa la spedizione mineraria, fu deciso che la popolazione umana dovrebbe essere lasciata perire in un diluvio che era stato previsto dal astronomi degli “dèi”. A quanto pare, il passaggio ciclico del pianeta natale degli “dèi”, Nibiru, stava per portarlo abbastanza vicino all’orbita della Terra», e la gravità dell’evento astronomico «avrebbe provocato una risalita (marea) degli oceani», fino a inondare completamente la Terra, mettendo fine alla specie – ibrida – dell’Homo Sapiens, “fabbricato” con sangue “divino”, sputi e creta.Sempre secondo la narrazione mesopotamica, uno degli “dèi” sumeri aveva simpatia per un essere umano particolare, Zuisudra, e lo avvertì del pericolo imminente: gli consigliò di costruire una imbarcazione capace di cavalcare l’onda del diluvio. Questo, osserva Eden, divenne poi la base narrativa per la successiva storia del Noè biblico. Il cataclisma del diluvio fu un fatto veramente accaduto? «L’unica altra spiegazione è immaginare che le leggende sumere, che parlano della vita su altri pianeti e della clonazione umana, fossero straordinarie creazioni di fantascienza. Questo sarebbe di per sé sorprendente». Oggi però abbiamo la prova che la “mitica” città mineraria, Abzu, è reale. Sarebbe stata popolata dai Sapiens “fabbricati” dagli “dei” per rimpiazzarli nelle miniere d’oro. Dall’alto, scrutandola sorvolando il Sudafrica, appare come una megalopoli di dimensioni impressionanti. E secondo la datazione ricostruita dall’équipe archeologica di Tellinger, quella gigantesca “colonia” «esisteva nella stessa epoca dell’improvvisa evoluzione degli ominidi a Homo Sapiens». E’ sufficiente, quello che è stato scoperto? E’ abbastanza, conclude Eden, per darci da pensare un bel po’, su come e quando sia davvero comparso, l’uomo, sulla faccia della Terra.Sono sempre stati lì. Qualcuno li aveva già notati prima, ma nessuno riusciva a ricordare chi li avesse fatti, e perché? Fino a poco tempo fa, nessuno sapeva nemmeno quanti fossero. Ora sono dappertutto, a migliaia, a centinaia di migliaia. «E la storia che raccontano è la storia più importante dell’umanità, ma c’è chi potrebbe non essere pronto ad ascoltarla», scrive Dan Eden, presentando «qualcosa di straordinario» che è stato scoperto in una zona del Sudafrica, a circa 280 chilometri dalla costa, ad ovest del porto di Maputo (capitale del Mozambico). «Sono i resti d’una grande metropoli che misurava, secondo stime prudenti, circa 5.000 chilometri quadrati. Faceva parte di una comunità ancora più ampia, di circa 35.000 chilometri quadrati, che sembra essere stata costruita – siete pronti? – dal 160.000 al 200.000 avanti Cristo». Il perimetro della megalopoli, scrive Eden in un post ripreso da “La Crepa nel Muro”, si lo può intravedere attraverso Google Earth. La regione è remota, ma i “cerchi” presenti sul terreno non erano sfuggiti, in passato, agli agricoltori indigeni. «Nessuno però s’era mai preso la briga di informarsi su chi potrebbe averli fatti o quale età potessero avere». La situazione è cambiata quando se n’è occupato il ricercatore Michael Tellinger, in collaborazione con Johan Heine, un vigile del fuoco locale, nonché pilota, che – dal suo aereo – aveva osservato quelle rovine per anni, sorvolando la regione.