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Archivio del Tag ‘spirito’

  • Pornografia e feticismo, la postmodernità delle anime morte

    Scritto il 18/11/17 • nella Categoria: idee • (3)

    La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.
    Schiavitù economica contrabbandata come libertà per i singoli, ma fino a un certo punto, perché si mina alla base il concetto di uguaglianza (perché dovremmo essere uguali? L’individuo non deve essere uguale a nessun altro) per favorire l’individualismo thatcheriano. Negli ultimi 10 anni si sono diffuse in Europa vari tipi di forze politiche, che sono state definite dal potere “populismi”: Indignados, Sovranisti, Podemos, M5S. Ma secondo l’ordine simbolico e linguistico imposto dal potere, con il solo obiettivo di rinsaldare il proprio dominio sui dominati, è necessario controllare la popolazione, e mantenere la massa schiavizzata in una condizione di subalternità, in modo tale che la neolingua possa diventare veicolo di potenziamento dei valori del neoliberismo. Dal 1989 il capitale ha adottato una nuova neolingua, e chiunque metta in discussione il potere oligarchico viene demonizzato come disfattista, complottista, o populista. La categoria di populista serve esattamente a diffamare ogni prospettiva che assuma la parte del Servo e non del Signore (“Fenomenologia dello spirito”, W. Friedrich Hegel).
    Oggi viene diffamato chiunque prenda la difesa dei lavoratori precarizzati e schiavizzati, perché ciò contraddice il potere, che vuol contrabbandare i propri dogmi ideologici come fossero interessi universali: concorrenza, competitività, globalizzazione, delocalizzazione, cancellazione dell’articolo 18, licenziabilità senza giusta causa, flessibilità. Chiunque abbia il coraggio di svelare il vero significato oscurato della neolingua viene silenziato come populista e complottista, incapace di accettare la mera ricostruzione dei fatti e degli eventi prospettata dalla mediatizzazione della realtà, che il potere ci mostra quotidianamente sugli schermi televisivi. Il termine “populismo” o “antipolitica”, viene quindi usato dal potere con toni spregiativi e diffamatori, è diventato una specie di  parolaccia. E i media ci presentano una realtà confusa e distorta, Grillo come Trump, Raggi come Obama, l’imperatore buono, Premio Nobel per la pace, in realtà ha sostenuto 7 guerre in contemporanea (Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria).
    Modernità e Postmodernità. Termini che indicano lo spirito di una civiltà, nel suo divenire storico, antropologico e culturale. La distinzione va ricercata secondo un’analisi marxista, l’aforisma di Marx, per cui «la cultura dominante coincide perfettamente con la cultura della classe dominante» (Karl Marx, “Ideologia tedesca”). Le realtà virtuali, l’iperrealtà, sono la matrice della Postmodernità, strettamente correlate all’uso di macchine creatrici di virtualità: Pc, Tablet, iPhone… Se la “produzione” è la cifra della Modernità, la “simulazione” è quella della Postmodernità. La Postmodernità ridimensiona la produzione per favorire la simulazione, sposta ingenti masse di salariati dalle fabbriche al terziario o oltre, azzera quella middle class che era il volano dell’economia dei consumi, chiude impianti produttivi. La disoccupazione di massa è la vera piaga della postmodernità: felicità virtuale e disperazione reale.
    L’Illuminismo aveva concentrato l’attenzione sull’impatto politico della nuova mentalità scientifica, che inneggiava all’“Homo faber fortunae suae”, e aveva indotto i nuovi uomini a sostenere le prime grandi rivoluzioni della storia, Rivoluzione Americana 1776, Rivoluzione Francese 1789. Il background filosofico culturale entro cui nasce il populismo è dunque l’età postmoderna, che propone una narrazione sempre più inquieta e socialmente devastante, dove le solide narrazioni della modernità si sono frantumate contro il nonsense di un sistema sociale globalizzato, sfilatosi verso una remota periferia a-ideologica. Diversi autori hanno percepito in anticipo l’avvento del postmoderno, e lo hanno interpretato attraverso la loro acuta sensibilità, a partire dagli anni ’70: Jean-François Lyotard, Guy Debord, Jean Baudrillard, Marc Augé, Zygmunt Bauman. Al popolo postmoderno non interessa la “verità” dei fatti né il senso degli eventi, perché vuole ascoltare solo le narrazioni, favole illusionistiche, simulacri evanescenti, emersi direttamente dal nuovo oscuro inconscio collettivo, e dalla società dello spettacolo.
    Le nuove minacce metropolitane sono: migranti e clandestini che invadono il paese, offrendo manodopera a basso costo, ingrossando le file della microcriminalità e minando così la serenità sociale; grottesche crociate contro l’Islam; politiche di austerity che massacrano l’economia dell’Italia, divenuta il Sud Europa. La “notizia” della postmodernità è una fake news, consiste nella negazione stessa dell’informazione, perché non mira a informare sulla “verità” dei fatti, ma li reinterpreta deformandoli, proprio per oscurarli completamente (Marco Travaglio, “La scomparsa dei fatti”). Jean-François Lyotard, nel suo testo “La condizione postmoderna” (1979), conia il nuovo termine di “postmoderno” per definire l’epoca attuale. Il termine designa uno sviluppo tecnologico e scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. Lo sviluppo tecnologico diventa sempre più invasivo per il benessere neurovegetativo umano (“Psyche e Techne”, Umberto Galimberti). La pornografia dei media produce la molteplicità dei linguaggi, la contaminazione degli stili, un citazionismo ossessivo (film di Quentin Tarantino), tipico di un’epoca che non ha più nulla da dire, se non ripetere all’infinito, in modalità sempre diverse, le stesse tematiche.
    Ne è derivata la perdita di centralizzazione nell’organizzazione dello Stato (federalismo), la perdita di sovranità (euro, Ue), un aumento dei “processi di disgregazione dello Stato Nazione”. L’Occidente sta vivendo una stagione sconcertante, attraversata dalle rapidissime trasformazioni scientifico-tecnologiche. Con grande lucidità, Lyotard propone una partizione storiografica tra l’epoca moderna (secoli XVII e XX) e l’epoca post-moderna, che si è affermata compiutamente nel tardo Novecento. I moderni e i postmoderni professano una visione dell’uomo, della società e in genere della realtà, antitetiche nei loro aspetti più essenziali. L’idea forte dei moderni è il progresso umano, essi concepiscono la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo realizza e arricchisce le proprie facoltà. L’idea forte della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Ciò che definisce l’essenza della condizione post-moderna, invece, è proprio la negazione della capacità umana di produrre il progresso, una sorta di nichilismo dei valori. Ne segue la negazione della scuola e dell’università come agenti di socializzazione e orientamento di valori. La perdita di potere e di funzione sociale dell’intellettuale, che a partire dall’età dei Lumi era stato la coscienza della modernità. Tutto molto strano per quella che viene definita la «società della conoscenza».
    Guy Debord, di formazione hegeliana e marxista, è stato uno dei critici più importanti delle società occidentali avanzate. L’incipit della “Società dello Spettacolo” (1967) riprende a un secolo di distanza quello del “Capitale” (1867) di Marx: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci». L’incipit dell’opera di Debord è: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (“La Società dello Spettacolo”). Secondo Debord, La caratteristica principale del capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale, nell’espansione delle tecnologie della comunicazione, e nel «feticismo delle merci». Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente «la sua manifestazione sociale più opprimente» («Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini»). Tuttavia lo spettacolo è necessariamente falso ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una parte della società.
    «Per il fatto stesso che lo spettacolo è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza». Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. E poi, giacché la comunicazione dei media è unilaterale, il Potere giustifica se stesso attraverso un incessante discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte. «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere». Lo spettacolo del capitalismo presuppone quindi l’assenza di dialogo, poiché è solo il potere a parlare. «Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento». Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il quale ha esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. In questo modo lo spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato.
    È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini l’alienazione del consumatore: «Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio». In una società mercificata, sostiene Debord, è la merce ad avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.
    Questo modello impregna di sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo il prototipo di ogni competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce, e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”. Alle regionali siciliane Vittorio Sgarbi si presenta con un movimento, “Rinascimento siciliano”, insieme a Morgan e Giulio Tremonti, proponendo un trinomio decisamente bizzarro, composto da vecchi arnesi della politica spettacolo, camuffati da nuova proposta rinascimentale. La società è completamente dominata da immagini falsificate che sostituiscono la realtà, facendo scomparire qualsiasi verità al di là della falsificazione continua. Ciò determina una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo e quindi anche della democrazia. La finzione di democrazia è mantenuta in vita solo attraverso la costruzione di un nemico comune, il quale consente una falsa unità che ricopre la realtà della separazione gerarchica tra dirigenti ed esecutori. È questo il ruolo del terrorismo. «Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati».
    La mondializzazione dell’economia è l’apogeo di questo processo che si distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo elemento, ma d’importanza decisiva. «Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza». Si può quindi affermare che «l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo». Nella comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato dovrebbe riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto che l’economia è il vero motore della storia. A questa presa di coscienza si oppone lo spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia.
    Jean Baudrillard  poi, altro acuto osservatore del postmoderno, ha illustrato la frammentazione dell’identità e l’immagine frammentata del mondo e dell’uomo, confezionata dai mass media contemporanei, i quali trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare. Per lo spettatore dei media tutto si riduce ad apprezzare l’intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di proiezione nei confronti di personaggi e caratteri. Baudrillard inizia con la critica polemica verso il capitalismo. Smantellate le grandi teorie che guardavano alla realtà come un sistema complesso ma ordinato e descrivibile (“Idealismo o Positivismo”), il presente diventa ora un insieme di segni. Oggi predomina una iperrealtà virtuale, fatta di segni e simulacri (“Simulacri e simulazioni”, 1981). Ad essere messo in discussione è il concetto di realtà, non di verità, come spesso era accaduto in passato. Lo sguardo di Baudrillard che si proietta sul quotidiano è pessimistico, per non dire tragico e drammatico. La cultura produce qualcosa senza significato, e la sola branca del reale che è in grado di tenere in mano le sorti dell’uomo è l’industria, la società dei consumi.
    I nuovi media hanno giocato un ruolo cruciale nella fabbricazione del significato o finto valore della realtà. Nel suo libro “Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?” (1996), Baudrillard ha spiegato come la televisione abbia sostituito la realtà. Tutto ciò che vediamo attraverso lo schermo è una comunicazione artificiale, un reale contraffatto, che diventa la vera realtà. Consideriamo Disneyland, Las Vegas, dove tutto è incastrato in un meccanismo di funzionamento invidiabilmente impeccabile, un mondo finto che però funziona alla perfezione.  Ci rechiamo volontariamente in tali luoghi perché attratti dalla spettacolarità magnetica della ri-creazione, della meraviglia, del simulacro. Siamo assorbiti dalla manipolazione dei media, dei programmi informatici e delle psicologie commerciali. Qual è l’originale realtà per noi? Viviamo di segni e simulacri realtà virtuali o siamo in grado di coglierne la differenza con criticità? Viviamo nei non-luoghi, definiti così da Marc Augé nel libro “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”. Gli spazi privi di identità, relazioni e storia: autostrade, svincoli e aeroporti, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, sale d’aspetto, ascensori… ecc ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione, senza entrare in contatto, senza discutere, parlare, guardarsi, dialogare… l’esatto contrario dell’agorà di Atene, culla della democrazia. Sospinti solo dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare viaggi e percorsi.
    I nonluoghi sono prodotti della società della postmodernità, dove i luoghi della memoria sono confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Le differenze culturali sono massificate, in ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto racchiuso lì. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente, caratterizzato dalla precarietà assoluta dalla provvisorietà, dal viaggio, dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. Nel film “The Terminal” di Steven Spielberg, il protagonista, Tom Hanks, un cittadino di un immaginario Stato dell’Europa orientale, atterra a New York e dopo aver scoperto che nel suo paese è avvenuto un colpo di Stato, diviene improvvisamente un uomo senza nazionalità, e perciò impossibilitato sia a uscire nella tanto agognata New York, sia a fare ritorno a casa, quindi resta prigioniero e si integra perfettamente nel nonluogo. I nonluoghi  sono presenti anche sulla moneta Euro, con l’effigie di edifici e monumenti privi di identità e di storia, a differenza delle immagini presenti sulla Lira di Caravaggio, Verdi, Montessori, Galileo, Marconi, Colombo…
    Gli utenti si accontentano della sicurezza di poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Da qui un paradosso: il viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri nonluoghi (“Villaggio globale”, Marshall McLuhan). Il rapporto fra i nonluoghi e i suoi abitanti avviene solitamente tramite simboli, parole o voci preregistrate. L’esempio lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non superare la linea bianca davanti agli sportelli. L’individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche di cittadino e i suoi ruoli personali per continuare a esistere solo ed esclusivamente come cliente o utente. Non vi è un riconoscimento delle classi sociali, come siamo abituati a pensare nel luogo antropologico. Si è socializzati, identificati e localizzati solo in occasione dell’entrata o dell’uscita dal nonluogo; per il resto del tempo si è soli e simili a tutti gli altri utenti/ passeggeri/ clienti/ consumatori che si ritrovano a recitare una parte che implica il rispetto delle regole.
    La società che si vuole democratica non pone limiti all’accesso ai nonluoghi. Farsi identificare come consumatori solvibili, attendere il proprio turno, seguire le istruzioni, fruire del prodotto e pagare. Anche il concetto di “viaggio” è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: i grandi “nonluoghi” posseggono ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici. Il più grande centro commerciale degli Stati Uniti d’America, il “Mall of America”, richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno. Scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: «Si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland». Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L’identità storica delle città è stata ridotta a stereotipo di richiamo turistico. Nell’Europa che tenta di fermare l’ingresso dei migranti, si crea un’ambivalenza dei nonluoghi: quelli dell’abbondanza, e quelli della miseria, come campi profughi, centri di detenzione dei migranti et similia. In essi però l’identità è pericolosa per chi ci si trova, poiché espone al rischio di espulsione o incarcerazione.
    Zigmunt Bauman è stato forse il pensatore, che ha meglio interpretato il disorientamento contemporaneo. Molti saggi di grande successo, a partire da “Dentro la globalizzazione” del 1998, o “Modernità liquida” del 2000, lo hanno decretato il guru del pensiero della postmodernità. La modernità liquida, concetto fra i più noti del sociologo, ci dice che con la fine delle grandi narrazioni del secolo scorso sono finite anche le certezze del passato in ogni ambito, dal welfare al lavoro fisso, dalla sanità pubblica alle pensioni, la postmodernità le ha smontate tutte, dissacrandole e mescolandole a pulsioni nichilistiche. L’unica comunità dell’individuo è diventata il consumo, la sua unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui nuotiamo tutti noi senza più una missione comune (“Amore liquido”, 2003 o “Vita liquida”, 2005). La fase che viviamo è propizia alla nascita dei populismi, che nascono dall’indignazione. Dagli Indignados ad Occupy Wall Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito viene fortemente contestato, con istanze naturalmente diverse ma sempre antisistema. La modernità poggiava sull’etica del lavoro, perché il capitalismo produttivo aveva bisogno di quadri dirigenziali, che facessero funzionare le industrie, fonte del proprio profitto, quindi c’era necessità di welfare, scuola pubblica, benessere per la collettività destinata a gestire le fabbriche.
    Al contrario, la postmodernità esalta l’estetica del consumo, che trasforma il mondo in un “immenso campo di sensazioni sempre più intense”. Un mondo  spesso investito dalla pubblicità o dal venditore di turno. L’esasperazione della soggettività, trova anche  incredibili attuazioni tecnologiche come la realtà virtuale (“La solitudine del cittadino globale”, 1999). Bauman in particolare nel libro “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida” del 2014, parla di un approccio del tutto diverso rispetto alle strutture di potere. Jeremy Bentham e Michel Foucault avevano parlato di Panopticon, inteso come carcere centralizzato che controlla migliaia di detenuti, e in cui bastano pochi agenti di sicurezza per la custodia, metafora evidente del potere centralizzato della modernità e del suo controllo sulla società  moderna. Bauman invece parla di un modello di società in cui le forme di controllo assumono le fattezze dell’intrattenimento e dunque del consumo, in cui sotto l’attenzione delle organizzazioni transnazionali finiscono i dati e  le persone, o meglio le loro emanazioni digitali, i cui rischi più elevati sono la privacy, la libertà di azione e di scelta. La novità postmoderna è che questo spazio del controllo ha perso i muri, e a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto che le “vittime” contribuiscono a collaborare al loro stesso controllo. Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti per individuare l’aspetto oscuro nascosto sotto a quello seduttivo.
    La globalizzazione è dunque un processo intimamente legato alle forze di mercato che ha ripercussioni su molti altri settori della vita, in pratica è una nuova forma d’imperialismo finanziario, impadronirsi dell’economia degli Stati, della loro moneta e della loro sovranità. Le forze economiche, infatti, hanno trasceso la dimensione nazionale, hanno perso ogni legame col territorio, dettano legge e non si prefigurano più come sistema produttivo dell’uomo per l’uomo, ma come sistema auto-referenziale, fine a se stesso. Le corporation trasnazionali muovono in uno spazio extraterritoriale, volano sopra i confini dello Stato nazionale, fino ad oggi strumento di rappresentazione delle identità sociali, eludendo ogni sorta di controllo politico e collettivo, ignorando le differenze economiche, politiche, culturali, etniche e religiose delle singole nazioni. Il potere della globalizzazione economica è ormai senza volto e senza luogo, introduce la flessibilità come dogma e preannuncia l’incertezza delle esistenze, vissute nell’affannosa rincorsa per rimanere nella società dei consumi. Il potere ci tiene in scacco lasciandoci soli, levandoci qualsiasi capacità di autodeterminazione e programmazione futura.
    Nascere in Italia 40 anni fa significava avere buone probabilità di vivere la propria vita in quegli stessi luoghi, avere la speranza di trovare un lavoro vicino a casa, di conoscere i propri concittadini, la possibilità di fare previsioni verosimili sul proprio futuro. Oggi, si nasce in luoghi che mediamente vengono lasciati nella prima adolescenza, i giovani seguono opportunità di lavoro fugaci, sempre più volatili ed evanescenti, i lavoratori vengono assunti in aziende che da un momento all’altro potrebbero delocalizzare. Le spinte all’individualismo e alla competizione determinano questo stile di vita veloce che porta con sé nuova alienazione: quella dell’uomo e dei suoi rapporti. Per il cittadino globale la leggerezza e la velocità di spostamento sono caratteristiche fondamentali, meno vincoli si hanno e più si è pronti alla sopravvivenza nella selva-mondo virtuale, senza barriere né confini. Anche le relazioni umane, dice Bauman, si adeguano e si plasmano sulla base di un consumo ipertrofico, sono sempre più numerose ma sempre più brevi e superficiali. E così, la nostra situazione affonda in un mare di indifferenza, che è l’unica arma di difesa valida a breve termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno.
    Nella postmodernità è nata una nuova immagine di società, come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più divisi e soli nelle proprie vite. Aumenta poi costantemente il divario tra la condizione dei poveri e quello dei ricchi. Il populismo, in modo particolare il M5S, per quanto riguarda la situazione italiana, è quindi la reazione culturale e politica rispetto alle condizioni sociali drasticamente mutate nel tempo della postmodernità, dopo il golpe messo in atto dalla nuova classe sociale dominante, quell’aristocrazia finanziaria che mira a distruggere i diritti del lavoro, a proletarizzare la middle class, a desovranizzare gli Stati, ad americanizzare l’Europa. Data la potenza propagandistica dei media, riuscirà veramente a vincere le prossime elezioni politiche e a prendere il potere? Oppure sarà costretto inevitabilmente ad abbandonare istanze essenziali delle proprie battaglie, soggiogato dalla potenza della restaurazione liberista?
    (Rosanna Spadini, “Populismi e postmodernità”, da “Come Don Chisciotte” del 28 settembre 2017).

    La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.

  • Lavoro a tutti, per legge: e se lo garantisse la Costituzione?

    Scritto il 01/11/17 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Tutti al lavoro: per legge. Lo garantisce la Costituzione. Quale? Quella del 1948, largamente inattuata, o – meglio ancora – quella che andrebbe in parte riscritta e aggiornata al 2017, per trasformarla in uno strumento capace di fronteggiare la vera piaga dei nostri tempi? Il mostro ha le sembianze della disoccupazione di massa, alimentata dal neoliberismo sfrenato della globalizzazione più selvaggia e predatoria, privatizzatrice. E’ la peste che ha delocalizzato il lavoro e importato “neo-schiavi” migranti, mettendo ancora più in crisi i lavoratori europei, costretti a salari al ribasso, nell’eclissi generale dei diritti conquistati nei decenni ruggenti del welfare e del benessere. Vogliamo finirla con le chiacchiere e cominciare a fare sul serio? Allora bisogna ripartire proprio da lì, dalla Carta costituzionale. Deve diventare la norma fondamentale attorno a cui rifondare, dalle radici, la comunità nazionale: «Si tratta di costituzionalizzare il diritto al lavoro: cioè fare in modo che la piena occupazione sia garantita, e che quindi nessuno abbia più, costituzionalmente, la possibilità di rimanere senza lavoro, senza reddito e senza dignità».
    E’ la sfida che lancia il Movimento Roosevelt, impegnato a Roma con un convegno su come rimettere in moto l’anima progressista della Costituzione italiana, sempre celebrata con vuote formule rituali ma di fatto largamente inattuata, ingessata come un totem intoccabile o magari «surrettiziamente insidiata da riforme involutive come quelle proposte da Renzi», e bocciate dal referendum del 2016. «Dobbiamo ragionare in termini di Costituzione come del fulcro della vita civile e politica di un paese», dice Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. E non vale solo per l’Italia: «Se noi avessimo avuto una Costituzione Europea passata attraverso il vaglio dei cittadini, quindi non imposta dall’alto ma condivisa, se cioè avessimo una Costituzione politica, l’Europa non sarebbe quella che è: non sarebbe questa cosa matrigna e tecnocratica di pochi burocrati al servizio di interessi privati, con cancellerie europee altrettanto asservite e un Parlamento Europeo che non conta nulla, incapace di farsi carico degli ideali di giustizia sociale e di diffusione della properità e della piena occupazione, nonché della rigenerazione dei territori».
    La riflessione sulla Costituzione, aggiunge Magaldi, «deve farci capire che in Italia, senza Costituzione democratica pienamente attuata o perfezionata per adempiere a certi bisogni, non si va da nessuna parte». L’affronto più grave alla Costituzione antifascista? L’avervi inserito l’obbligo del pareggio di bilancio – governo Monti, appoggiato da Berlusconi e Bersani. Pareggio di bilancio? Una bestemmia, per un economista come Nino Galloni, dirigente del Movimento Roosevelt, di scuola keynesiana: il debito pubblico (deficit positivo) è esattamente lo strumento-chiave attraverso il quale rilanciare l’economia privata, come dimostra la storia italiana dei decenni del boom, sorretti da un sistema economico misto, pubblico-privato, e dalla sovranità monetaria, quindi con capacità di fare investimenti strategici – quelli che oggi mancano, sanguinosamente, a causa del divieto imposto da Bruxelles. Risultato: il declino evidente del paese, nell’ultimo quarto di secolo. Agitare retoricamente la Costituzione? Così com’è, «in questi 25 anni la Costituzione non è stata capace di garantire l’arresto del declino dell’Italia sul piano economico, civile e politico», dice Magaldi. «E quindi serve una scossa».
    «Già il solo parlare di riforme, in senso opposto a quello renziano, significa magari galvanizzare la possibile attuazione di quelle parti della Costituzione che sono state sin qui dimenticate», aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, che auspica di poterne discutere con personaggi come Paolo Maddalena e Gustavo Zagrebelsky, ma anche Giorgio Cremaschi e Alfredo D’Attorre, Antonio Ingroia e Ferdinando Imposimato. «Pensiamo che la Costituzione del 2018 possa essere più adatta a calare nel nuovo secolo lo spirito originario di quella del 1948, che a sua volta riprendeva lo spirito di quella della Repubblica Romana». Correva l’anno 1849: sulle barricate c’era un certo Garibaldi, primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, alla testa di un’avanguardia di massoni progressisti. Obiettivo, oggi: recuperare quello spirito originario, di cui abbiamo un bisogno estremo. Soprattutto di questi tempi, con una politica completamente allo sbando e un Parlamento che, grazie al Rosatellum, dopo le elezioni del 2018 sarà letteralmente ingovernabile, preda di larghe intese e governi di bassissimo profilo.
    Inutile sperare in quel che resta della sinistra ufficiale, avverte Magaldi, ridotta a «piccolo circolo di nostalgici di una sinistra che non c’è più e che non ci sarà mai più». Le spoglie di Sel, Mdp e Articolo 1, il gruppo del Teatro Brancaccio, Sinistra Italiana, Campo Progressista di Pisapia? «Consiglierei loro di ragionare in termini di rigenerazione della democrazia, non della sinistra – dice Magaldi – perché la democrazia e il progresso non sono né di destra né di sinistra». Vero, alcuni partiti di sinistra hanno fatto grandi battaglie in questo senso, «ma è anche vero che, per sinistra, in Italia si intende tutto quel mondo comunista e post-comunista che nella versione comunista avversava la democrazia e propugnava ideologicamente un mondo post-democratico, mentre nella versione Pds-Ds-Pd è diventata asservita a quella stessa ideologia neoliberista declinata da tutti i partiti di centrodestra», come nel caso del famigerato inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. Destra e sinistra? Conviene «superare questa tassonomia obsoleta». Contrastare il Jobs Act renziano? «Va bene difendere l’articolo 18, ma ancora meglio sarebbe liberare gli imprenditori da lacci e laccioli, e al tempo stesso garantire, per legge, la piena occupazione». Onestamente: «L’Italia è cambiata, servono categorie diverse. E il popolo è afflitto da una decadenza che il ceto politico non è in grado di arrestare».

    Tutti al lavoro: per legge. Lo garantisce la Costituzione. Quale? Quella del 1948, largamente inattuata, o – meglio ancora – quella che andrebbe in parte riscritta e aggiornata al 2017, per trasformarla in uno strumento capace di fronteggiare la vera piaga dei nostri tempi? Il mostro ha le sembianze della disoccupazione di massa, alimentata dal neoliberismo sfrenato della globalizzazione più selvaggia e predatoria, privatizzatrice. E’ la peste che ha delocalizzato il lavoro e importato “neo-schiavi” migranti, mettendo ancora più in crisi i lavoratori europei, costretti a salari al ribasso, nell’eclissi generale dei diritti conquistati nei decenni ruggenti del welfare e del benessere. Vogliamo finirla con le chiacchiere e cominciare a fare sul serio? Allora bisogna ripartire proprio da lì, dalla Carta costituzionale. Deve diventare la norma fondamentale attorno a cui rifondare, dalle radici, la comunità nazionale: «Si tratta di costituzionalizzare il diritto al lavoro: cioè fare in modo che la piena occupazione sia garantita, e che quindi nessuno abbia più, costituzionalmente, la possibilità di rimanere senza lavoro, senza reddito e senza dignità».

  • Crisi e terrore, ma il Nuovo Ordine Mondiale lo farà la Cina

    Scritto il 28/10/17 • nella Categoria: idee • (12)

    Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.
    «Il destino profetizzato dai consulenti del Club di Roma è stato previsto anche da altri ricercatori, che hanno puntato in particolare sulla forza economica e finanziaria della Cina che negli ultimi anni si sta accaparrando le risorse naturali, dall’energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole, insidiando così le zone d’influenza che appartenevano all’Occidente», afferma Enrica Perucchietti in un’intervista su “Letture.org” in occasione dell’uscita dell’edizione aggiornata dal saggio “Governo globale, la storia segreta del nuovo ordine mondiale” (Arianna), scritto insime a Gianluca Marletta. «Credo che nonostante gli sforzi dell’imperialismo mondialista di portare avanti i propri progetti, nel giro di qualche anno lo scettro passerà di mano e probabilmente il centro del potere si sposterà in Cina», ribadisce la Perucchietti, pur ammettendo che le variabili imprevedibili sono comunque molte, «così come sono da prendere in considerazione delle anomalie che si sono registrate come l’elezione Trump e la Brexit, che sono state evidentemente sottostimate». Tuttavia, come segnala lo stesso Paolo Barnard, colpisce l’arma segreta di Pechino: il suo “capitalismo di Stato” con moneta sovrana mette il governo al riparo dallo strapotere della finanza mondialista non allineata agli oligarchi del partito unico.
    La riflessione sul futuro “cinese” del mondo conclude un’analisi che la giornalista affronta partendo dallo studio del Nwo, inizialmente liquidato come fiaba cospirazionista. «Oggi la sensazione che sia in atto un progetto di mondialismo (seguente alla globalizzazione delle merci) è comunemente accettato: pensiamo per esempio a Henry Kissinger che ha dato un’opera dal titolo altisonante come “World Order”». Sempre più politici, ministri, capi di Stato e pontefici, aggiunge Perucchietti, negli ultimi decenni hanno parlato pubblicamente dell’esigenza di costituire un “nuovo ordine mondiale”. Lei e Marletta, nel libro, ricostruiscono la storia (documentata) di questo progetto, e le tappe che arrivano fino a noi. «Al di là delle confusioni generate dalla cultura web, lungi dall’essere il delirio di una manciata di paranoici, il nuovo ordine mondiale è al contrario un argomento serissimo, che merita di essere indagato». L’elezione di Trump? «Ha illuso alcuni di poter condurre a una battuta d’arresto del progetto mondialista, ma nei mesi abbiamo assistito a una “normalizzazione” del neo-presidente e l’anacronistico ritorno alla guerra fredda, che ha portato anche alla comparsa di un nuovo nemico sullo scacchiere geopolitico, la Corea del Nord».
    Se Pyongyang è solo l’ultimo apparente “nemico pubblico” da gettare in pasto alla società per distrarla dalla crisi e «compattarla rispetto a una emergenza esterna», visto che ormai «la Russia non poteva più rispecchiare quel ruolo, dato che la figura di Putin desta sempre maggior consenso o comunque meno diffidenza», posto che un conflitto contro la Corea del Nord «sarebbe non solo inutile, ma svantaggioso e pericoloso», dato che «non apporterebbe nemmeno benefici da un punto di vista geopolitico», vale la pena inquadrare anche questo capitolo («solo teatrale», anche secondo Gioele Magaldi) come parte dello stesso copione mondialista che sta tenendo in scacco il pianeta da ormai moltissimo tempo. Per comprendere che cosa sia il nuovo ordine mondiale, secondo Enrica Perucchietti, è necessario ricostruire le tappe storiche che hanno portato, attraverso i secoli, allo sviluppo dell’ideologia globalista, riscoprendone le radici e i presupposti filosofici, spirituali e teologici. «L’ideologia del Nwo, infatti, attinge la sua linfa vitale da un preciso contesto storico, identificabile con il mondo protestante dei secoli XVII e XVIII. È a partire dall’Inghilterra protestante che l’idea di una Nuova Era di “trasformazione del mondo”, di un progetto prima utopistico e poi politico di “rinnovamento” dell’umanità trova adesione, sostegno e suoi primi “profeti”».
    Un progetto, rileva la giornalista, che è nato inizialmente come contraltare all’universalismo della nemica Chiesa cattolica e dell’Impero Asburgico e fusosi, successivamente, con analoghe correnti fiorite nello stesso periodo in Nord Europa. L’ideologia mondialista ha recepito e rielaborato nei secoli anche altri tipi di influssi: sull’originario substrato protestante-anglosassone, infatti, si innestano successivamente almeno altre due correnti politico-spirituali: l’ideologia universalistica di matrice massonica (su cui si innestano alcune derive occultistiche) e un certo neo-messianismo di matrice sionista. «Queste correnti così diverse tra loro troveranno una convergenza fondata sull’elitismo di chi (gli Usa in primis) si sente in diritto e in dovere di promuovere anche con la forza il proprio imperialismo e assoggettare il resto del mondo ai propri interessi». L’autrice respinge la tesi del Grande Complotto Universale: è storicamente indimostrabile e serve solo a screditare chi indaga seriamente sul mondialismo. Però, «se è impossibile affermare l’esistenza di una “continuità programmatica” nello sviluppo del Nwo, è legittimo tuttavia parlare di un’evidente continuità ideale che lega, attraverso i decenni e persino i secoli, una serie di “forze” e “poteri” in una complicità di interessi e di azioni».
    Non esiste un Grande Complotto unico, monolitico? «Esiste però una dottrina di base e una “confluenza di interessi” che spingono verso la costituzione del mondialismo, così come esistono i suoi profeti e “architetti” che ne hanno scritto e parlato anche pubblicamente». Ovvero: «Dalla rete inestricabile dei poteri occulti, delle logge e delle sette, dei potentati economici e dei gruppi di pressione impegnati da tempo a promuovere il progetto del nuovo ordine mondiale, emergono con una frequenza non casuale, nomi, realtà e concreti gruppi di potere che nel nostro “Governo Globale” definivamo il “volto visibile del Nwo” di cui trattiamo ampiamente nella prima parte del saggio». Il progetto mondialista? «Nasce in ambito anglosassone ed è quindi naturale che esso abbia avuto, nella potenza degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il perno della sua potenza (a cui si è aggiunto, a partire dal secondo dopoguerra, il fattore geopolitico costituito dallo Stato di Israele). Quando parliamo del potere di queste nazioni, tuttavia, ci riferiamo a certe strutture di potere che rimangono invariate nel tempo». Nel suo saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi le chiama Ur-Lodges, superlogge: sarebbero la chiave segreta del back-office del potere mondiale, ormai esteso anche alla Cina nel disegno condiviso della globalizzazione autoritaria.
    Fatte salve le differenze che contraddistinguono le diverse correnti, osserva Perucchietti, esistono alcune costanti fondamentali alla base del progetto mondialista, e alcuni interessi specifici: per esempio, l’aspirazione a costituire una res-pubblica universale e sovranazionale controllata più o meno direttamente da un’autoselezionata élite. «Quindi la creazione di un governo elitario, di pochi». Inoltre, si registra «la diffusione o imposizione di un pensiero omologato, tendente a dissolvere le identità e le particolarità culturali, politiche e religiose in una sorta di pensiero unico globale». Il progetto di costituzione di un mondo nuovo, infatti, richiede anche «un uomo nuovo, che sia omologato e omologabile, facilmente controllabile», magari anche attraverso l’ideologia gender, di cui la Perucchietti ha parlato in libri come “La fabbrica della manipolazione” e “Unisex”. A cascata, pesano «la conseguente lotta contro le “identità forti” difficilmente omologabili alla cultura mondialista e l’abbattimento dei valori tradizionali». Non solo: ci sono anche «censura e psicoreato, ossia il controllo della comunicazione, dei mass media ma anche delle menti e dell’espressione dei cittadini, di cui la recente battaglia contro le “fake news” è un lampante esempio».
    E’ all’opera una strategia d’azione che privilegia «l’utilizzo strumentale della politica (una sorta di vera e propria criptopolitica basata su ricatti e complotti per lo più sotterranei)», di cui – come vetta dell’iceberg – abbiamo vaghe notizie, attraverso sigle come la Trilaterale o il Bilderberg, cenacoli «i cui membri si riuniscono a porte chiuse per discutere del destino dell’umanità». Alcuni aspetti ideologici restano imprescindibili, «come il neomalthusianesimo che considera l’eccesso delle nascite nelle classi povere come un problema per la qualità di vita». E infatti «gli architetti del Nwo sono ossessionati dal contenimento/riduzione della popolazione». Nell’immaginario collettivo, il Nwo «ha finito per identificarsi con il potere dei colossi bancari e delle multinazionali che ne sono, per certi versi, l’espressione più visibile». E non è tutto: c’è anche «una visione prometeica e luciferina che convoglia nel Transumanesimo e nelle sue applicazioni cibernetiche, virtuali e tecnologiche: l’idea di fondo è che l’uomo può farsi Dio e abbattere la natura, arrivando a derive post-umane finora impensabili». Nel frattempo, le masse occidentali (e mediorientali, manipolate anch’esse) possono “godersi” l’orrore del terrorismo, una macchina infernale che genera paura, «e la paura è un potente strumento di controllo».
    Riflette Enrica Perucchietti: «Manipolando le persone in fase di shock, sull’ondata emotiva degli eventi, è possibile introdurre misure liberticide fino a quel momento impensabili, lasciando credere ai cittadini che i provvedimenti scelti siano per il loro bene e la loro sicurezza». Terrorismo ed estremismo «vengono sfruttati abilmente, evocati quotidianamente, politicizzati per poterne sfruttare l’ondata d’urto emotiva». Citando Orwell, la sensazione è che la “guerra al terrore” sia stata concepita come perenne per «poter mantenere intatta la struttura della società» e introdurre uno Stato di polizia. «La guerra non deve cioè aver fine, ma deve servire per poter legittimare misure estreme». Per questo, aggiunge l’analista, «non si può distruggere Al-Qaeda senza pensare che spunti un altro pericolo, Isis o altra organizzazione terroristica che sia». E il terrore «doveva finire per divampare anche in Europa», perché «si stava affievolendo la tolleranza del popolo ad accettare sacrifici per “esportare” la democrazia in paesi lontani». Sicché, «l’unico modo per poterlo spingere a continuare a oliare la macchina da guerra era far assaggiare all’Occidente quel genere di “paura” che noi italiani conosciamo bene: gli anni di piombo».
    Gli artefici del mondialismo, conclude Perucchietti, «hanno sfruttato con cura occasioni tragiche e non si sono fatti problemi a inscenare od ordire attentati, o comunque a strumentalizzarli per creare i presupposti per poi poter raccogliere e sfruttare delle opportunità calcolate con cura». In questo contesto «rientrano anche le cosiddette “false flag”», ovvero le operazioni “sotto falsa bandiera” come quelle che hanno funestato la Francia con sinistra, cronometrica precisione. Lo rileva Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, secondo cui – nella Francia che ha imposto il silenzio alle indagini su Charlie Hebdo (segreto militare, dopo la scoperta del possibile ruolo dell’intelligence nell’armamento del commando), l’opaco neo-terrorismo ha colpito Nizza il 14 luglio, giorno “sacro” per i massoni progressisti anti-oligarchici, e Parigi il 13 novembre (Bataclan), nell’anniversario di una giornata infausta per i Templari perseguitati nel ‘300, a cui evidentemente i mandanti dell’Isis, mondialisti e atlantici, vorrebbero richiamarsi, firmando il loro sanguinoso delirio. Dove finiremo, di questo passo? A Pechino, risponde Enrica Perucchietti: sarà probabilmente a Cina a mandare in fumo i giochi “illuminati” dell’élite nera, insediando sul trono del pianeta – diversamente mondializzato, ma sempre senza democrazia – da una futura élite “gialla”.

    Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.

  • Un mondo di sole destre, finto-ribelli. La sinistra? E’ sparita

    Scritto il 07/10/17 • nella Categoria: idee • (1)

    Alice Elisabeth Weidel è la vincitrice morale delle recenti elezioni tedesche e, con la sua terza posizione, diventa uno scomodo ma forte interlocutore politico. La Weidel è omosessuale e da anni convive con la produttrice di film Sarah Bossard, cittadina svizzera originaria dello Sri Lanka, con la quale ha due figli. Alice nel paese delle meraviglie, ex Goldman Sachs, lavorava negli stessi ambienti di Soros, tanto per capire come sia interna e complementare allo stesso sistema che a parole combatte. Il simbolo del partito è a metà strada tra il logo della Nike, un simbolo fallico e una saetta delle Ss rubata da una vecchia bandiera. Segno dei tempi, un po’ nazi, un po’ trendy e gayfriendly… Le destre radicali e i populismi rappresentano quell’aggiornamento di sistema che descrivo da tempo, ovvero il favorire le estreme come catalizzatore di voti, contenitori del dissenso che spostino il voto popolare a destra, e giustifichino la vittoria dei moderati, come l’Afd per la Cdu, la Le Pen per Macron, Grillo per il Pd. Stesso identico schema. A questo servono, sono il cane da guardia del capitale, le avanguardie del padronato.
    Nei prossimi decenni l’aggiornamento del sistema vedrà l’affermazione delle destre radicali, utilizzate come ultimo baluardo di un re nudo (leggi liberismo) per contenere una possibile e potenziale deriva antagonista progressista culturale e di piazza, soprattutto per tarparne il desiderio, spostando il dissenso a destra o in contenitori definiti reazionari. Questa è una strategia nuova ma al tempo stessa vecchia e già sperimentata, è quella che la grande borghesia mise in campo all’inizio del ventennio del secolo scorso contro le avanzate del bolscevismo e in vista di un potenziale risveglio dei popoli da sinistra. Fascismo e nazismo rispondevano a questo bisogno borghese di individuazione di un nemico e di tarpare le ali a qualsiasi rivoluzione popolare. Quando i cosiddetti moderati di ogni dove non potranno più essere votati, dopo l’ultimo ed ennesimo inganno, in un mondo dove le notizie circolano ed i tabù crollano, le sentinelle silenti di estrema destra, oggi ancora di nicchia, arriveranno e svolgeranno il ruolo per cui sono state create. La rete in questi anni è stata molto utile per ripulire certi mondi, l’estrema destra è stata spesso salutata come forza liberatrice, come novità, sfruttando la rabbia e l’astinenza da rogo dei popoli e l’ignoranza atavica che pervade l’uomo qualunque.
    Un certo revisionismo della storia è stato fatto circolare e accettare; questo tornerà comodo e sarà il medium preposto a stabilizzare il sistema, incarnando uno spauracchio anti-democratico, oppure, nel peggiore dei casi, a sostituirsi al sistema potenziandolo, ma pur sempre restando nell’alveo iper-liberista, con l’aggiunta di un certo sentimento nazionalista e xenofobo, magari con virate peroniste, ma sempre rispettando la matrice dello schema di base. L’unica vera assente a livello planetario da almeno 30 anni è lei, la tanto vituperata e obsoleta sinistra: ridicolizzata, schernita, derisa; eppure manca solo lei, nello scenario mondiale. Gli ultimi leader socialisti e progressisti di un tempo, declinati in diverse gradazioni e temperature politiche, sono stati fatti fuori, quelli attuali rispondo a logiche neo-liberiste e comunque non progressiste. Pensiamo ad Olof Palme ucciso in Svezia dall’estrema destra manovrata dai servizi, pensiamo ad Allende ucciso da Pinochet e dalla Cia, pensiamo a Sankara, a Gheddafi, a Chavez e tanti altri.
    Ragioniamo su quali schieramenti sono stati sconfitti nel tempo e conflitti dal sistema che ha usato servizi segreti, estrema destra, spezzoni di magistratura, per sbarazzarsi anche culturalmente di ogni progressismo. Pensiamo ai nazisti patrioti ucraini, appoggiati perfino dal Pd in versione anti-Putin, curiosa joint venture tra mondi diversi, ma uniti dal bisogno reciproco. Comunque ragioniamo sulle cause storiche degli ultimi 40 anni, che hanno materializzato l’attuale paradigma neo-aristocratico che ha pervaso entrambi gli schieramenti, come sul modello americano, dove destra e sinistra partitica sono chimere e fazioni quasi identiche e vengono percepiti lontani dalla gente. Il modello di pensiero unico ha bandito le ideologie: chiediamoci il perché. Ha cambiato il linguaggio, svuotando di significato due polarità necessarie alla dialettica democratica. Non è passatista ed errato parlare ancora di destra e sinistra, perché incarnano valori e ideali, senza i quali rimane solo la mera speculazione finanziaria senza idee e progettualità, la giungla più buia dove vince il più forte.
    Quando Michael Ledeen parla di fascismo universale, lui – sionista imperialista, vero grande burattinaio, al cui cospetto Gelli era un passacarte – dice una cosa precisa, e non è mia la definizione. Il fascismo non è stato solo un ventennio; il fascismo, come ci ricordano i grandi manovratori, certi iniziati, veri studiosi e liberi pensatori anarchici come Reich (che non a caso, da uomo libero quale era, parla di fascismo rosso), è un’attitudine, è un modello di pensiero che trasla gli schieramenti, è una forma-pensiero; possiamo anche chiamarla diversamente, ma questo è… Così la plasmarono gli iniziati neri, quando crearono il nazismo esoterico decenni prima dell’avvento del nazismo politico; sono egregore che servono a manipolare le masse e la psicologia di massa.
    (“Un mondo di sole destre è possibile, anzi è reale”, dal blog “Maestro di Dietrologia” del 1° ottobre 2017).

    Alice Elisabeth Weidel è la vincitrice morale delle recenti elezioni tedesche e, con la sua terza posizione, diventa uno scomodo ma forte interlocutore politico. La Weidel è omosessuale e da anni convive con la produttrice di film Sarah Bossard, cittadina svizzera originaria dello Sri Lanka, con la quale ha due figli. Alice nel paese delle meraviglie, ex Goldman Sachs, lavorava negli stessi ambienti di Soros, tanto per capire come sia interna e complementare allo stesso sistema che a parole combatte. Il simbolo del partito è a metà strada tra il logo della Nike, un simbolo fallico e una saetta delle Ss rubata da una vecchia bandiera. Segno dei tempi, un po’ nazi, un po’ trendy e gayfriendly… Le destre radicali e i populismi rappresentano quell’aggiornamento di sistema che descrivo da tempo, ovvero il favorire le estreme come catalizzatore di voti, contenitori del dissenso che spostino il voto popolare a destra, e giustifichino la vittoria dei moderati, come l’Afd per la Cdu, la Le Pen per Macron, Grillo per il Pd. Stesso identico schema. A questo servono, sono il cane da guardia del capitale, le avanguardie del padronato.

  • Quando Barcellona sfidò i carnefici, in nome della libertà

    Scritto il 01/10/17 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Fatale Catalogna: ci provò già nel medioevo, a smarcarsi dal potere centrale – che allora non sedeva a Madrid, ma a Roma. Era il 12 settembre del lontano 1213. La battaglia decisiva si svolse a Muret, alle porte di Tolosa, lungo le rive della Garonna. Quella, per Simone Weil, fu l’ultima vera occasione persa dall’Europa: si era reincarnato lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, patria di una civiltà devota alla bellezza della conoscenza. Finì nel peggiore dei modi, in un massacro spaventoso. Da allora, scrive la Weil nel saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, si impose – per secoli – l’altra legge, quella della forza: il modello delle legioni imperiali romane, replicato all’infinito fino alle SS di Hitler. Suggestioni intellettuali? Nella sua monumentale autobiografia, “Confesso che ho vissuto”, il comunista Pablo Neruda rievoca l’assedio di Barcellona sotto le artiglierie franchiste, sottolineando l’indomita vocazione libertaria della capitale catalana, visceralmente antifascista, da sempre ostile all’altrui dominio. Un pericolo, Barcellona, per il potere europeo? Se nel 1213 avesse vinto, ipotizzano storici e analisti, forse il volto dell’Europa sarebbe cambiato.
    All’inizio del ‘200, Barcellona era la capitale del vasto Regno d’Aragona: oltre alla Catalogna includeva la valle dell’Ebro, Saragozza, i Pirenei. Scese in campo per difendere la città alleata, Tolosa, che aveva osato sfidare l’autorità del Papa nell’ostinarsi a non perseguitare l’eresia dei Catari, diffusasi in Linguadoca. All’epoca, insieme alla Catalogna e all’Italia dei Comuni e delle Repubbliche Marinare, la Languedoc era fra i territori più avanzati d’Europa, sul piano economico e sociale. Fioriva nelle corti la rivoluzione letteraria dei trovatori provenzali, che per la prima volta cantavano la libertà dell’amore laico. La contea estendeva il suo controllo dal Mediterraneo all’Atlantico; tollerava i villaggi musulmani, faceva gestire i conti pubblici dagli ebrei sefarditi provenienti dall’Andalusia. Ma peggio: accettava che, nelle chiese, i predicatori catari disputassero apertamente di religione con i sacerdoti cattolici. La misura fu colma, per Roma, quando l’aristocrazia occitanica cominciò a prendere i voti, entrando a far parte della comunità dei “buoni cristiani”, bollati di eresia.
    Il conte di Tolosa, Raimondo VI, rifiutò di consegnare i religiosi eretici. E quando il pontefice Innocenzo III bandì contro di lui la Crociata Albigese, si preparò a resistere. Il giovane re aragonese Pietro II, celebrato campione della cristianità e sovrano di Barcellona, si decise a soccorrere Tolosa, marciando alla testa dell’armata iberica, dopo il massacro di Béziers, la cittadina rivierasca che si era rifiutata di tradire i Catari, cedendoli ai crociati che li avrebbero arsi vivi. «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi», è la celebre frase che si racconta sia stata pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo spirituale della guerra di religione, per esortare i crociati a sterminare gli abitanti di Béziers. Tanto bastò a Barcellona per rompere gli indugi e scendere in campo a Muret, al fianco di Tolosa. Ma persero, i catalani: “Combattevano uno a uno, come in un torneo”, racconta la Canzone della Crociata Albigese. Il poema cavalleresco, pur composto da cattolici, riconosce la nobiltà degli sconfitti, decisi a ingaggiare un combattimento leale, secondo l’antica regola del “paratge”, il codice d’onore dell’antica cavalleria occitano-catalana.
    Morì in battaglia anche Pietro II, eroicamente. Quella, dice la Weil, fu l’ultima apparizione del “paratge”, in Europa. Un caso? Forse no: Barcellona e Tolosa (cioè mezza Francia più mezza Spagna) avrebbero potuto dare vita allo Stato europeo di gran lunga più evoluto, liberale e avanzato, il più ricco e prospero, quello con più avvenire davanti a sé. E forse, si interrogano alcuni storici, non è un caso neppure la strana, rigidissima “damnatio memorie” imposta alla stessa eresia cristiano-dualistica del Catarismo, impugnata come pretesto per radere al suolo il Sud-Ovest della futura Francia: una devastazione catastrofica, nel corso di vent’anni di guerra, seguita da settant’anni di spietate persecuzioni a tappeto affidate all’Inquisizione. Faceva paura, l’aristocrazia pirenaica: aveva sposato, con mezzo millennio di anticipo, il motto “libera Chiesa in libero Stato”. L’incendio libertario era partito da Tolosa, ma si era estreso a Barcellona. E quando il conte tolosano fu ridotto al silenzio, e la sua contea declassata a succursale di Parigi mentre la popolazione inerme fuggiva atterrita di fronte ai roghi degli inquisitori, Barcellona ebbe la forza di imporre che, in Catalogna, il tribunale ecclesiastico non potesse emettere condanne a morte.

    Fatale Catalogna: ci provò già nel medioevo, a smarcarsi dal potere centrale – che allora non sedeva a Madrid, ma a Roma. Era il 12 settembre del lontano 1213. La battaglia decisiva si svolse a Muret, alle porte di Tolosa, lungo le rive della Garonna. Quella, per Simone Weil, fu l’ultima vera occasione persa dall’Europa: si era reincarnato lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, patria di una civiltà devota alla bellezza della conoscenza. Finì nel peggiore dei modi, in un massacro spaventoso. Da allora, scrive la Weil nel saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, si impose – per secoli – l’altra legge, quella della forza: il modello delle legioni imperiali romane, replicato all’infinito fino alle SS di Hitler. Suggestioni intellettuali? Nella sua monumentale autobiografia, “Confesso che ho vissuto”, il comunista Pablo Neruda rievoca l’assedio di Barcellona sotto le artiglierie franchiste, sottolineando l’indomita vocazione libertaria della capitale catalana, visceralmente antifascista, da sempre ostile all’altrui dominio. Un pericolo, Barcellona, per il potere europeo? Se nel 1213 avesse vinto, ipotizzano storici e analisti, forse il volto dell’Europa sarebbe cambiato.

  • L’overdose da Fentanyl stermina 91 americani ogni giorno

    Scritto il 22/9/17 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    E’ ormai la prima causa di morte per gli americani sotto i 50 anni, quindi in età produttiva: 91 americani muoiono ogni giorno per overdose da Fentanyl, un oppioide sintetico, antidolorifico, che crea forte dipendenza. La chiamano “opioid epidemic”: 52.000 morti nel 2015, 59.000 nel 2016 (più 19%), già oltre 60.000 ad agosto 2017; saranno almeno 65.000 a fine anno. Aumenti spaventosi. Gli Stati Uniti sono il paese con più morti per overdose del mondo per milione di abitante e lo sono per un differenziale enorme: 245,8 morti ogni milione all’anno contro i 26,4 per milione in Europa, dati del 2015, quindi 10 volte di più. A morire per overdose non sono tanto i neri o gli ispanici, sono soprattutto i bianchi, e soprattutto i maschi bianchi. Un coroner della Pennsylvania occidentale lamenta: ogni notte mi arrivano anche 13 corpi, non so più dove metterli; è come una peste. In vari Stati i poliziotti sono stati forniti di Naloxone, un farmaco d’emergenza: se trovano un morente per overdose, l’iniezione può salvarlo, ma ovviamente non fa nulla per ridurre il tasso di dipendenza. Lo Stato dell’Ohio ha querelato cinque farmaceutiche che fabbricano e producono il Fentanyl, per “favoreggiamento dell’epidemia”.
    Incredibilmente, il Fentanyl viene prescritto dai medici, appunto come antidolorifico – almeno all’inizio. Poi i pazienti cominciano a comprarlo illegalmente. Ci sarebbe anzitutto da chiedere: per quali mai dolori gli americani si rivolgono al medico, se il medico trova normale prescrivere un “antidolorifico” oppioide sintetico «che è 50 volte più forte dell’eroina e 100 volte più potente della morfina»? Quali dolori – se non quelli incoercibili del cancro terminale – richiedono un tale palliativo? Oppure si tratta della necessità di “funzionare” sul lavoro anche se si soffre per un qualunque dolore perché non ci si può assentare? E poi: sono dolori fisici, quelli che gli americani maschi bianchi vogliono soffocare con la prescrizione, o dolori spirituali a cui non sanno dare un nome? Anche il male sociale è stato privatizzato. Te lo curi da te. Il sito “Governing.com”, notiziario di tutti gli enti locali, osa un’altra diagnosi: «Non è come le passate crisi per droga, come quelle del crack o delle meta-anfetamine, non è la comparsa di una nuova classe di droghe che creano dipendenza a far morire ogni giorno 91 americani. Questa crisi degli oppiacei è una crisi del lavoro; è una crisi di affitti accessibili per le case. Le stesse forze che hanno rimodellato l’economia nel decennio scorso, hanno lasciato il vuoto riempito, in certe zone, dagli oppioidi».
    E aggiunge: «Uno studio dell’Università di Pennsylvania dopo le elezioni presidenziali dello scorso novembre ha scoperto che il presidente Trump ha preso enormemente più voti del previsto in quelle province (contee) che registrano il più alto tasso di “morti da disperazione”, ossia suicidi, overdosi di droga o da alcolismo. Ciò mostra che molti americani si sentono lasciati indietro dall’economia che cambia, e non credono più che il quadro politico attuale li sta aiutando». Dunque sono i bianchi maschi, in età da lavoro, che devono “funzionare” anche se malati per non essere licenziati; gente che votava democratico, spesso, che invece ha votato l’uomo nuovo che ha promesso, o anche solo dato l’impressione, di avere a cuore la loro tragedia? Forse i dolori che accusano questi bianchi non vengono dal corpo, né propriamente dallo spirito – ma vengono da una malattia sociale cui non sono più abituati a dare il senso giusto: ossia politico e collettivo, e che reinterpretano come un dolore privato, da “superare” e da “ingoiare”?
    Ho già accennato – troppo in breve – a un altro studio di due università, la Boston University – Department of Political Science – e la University of Minnesota Law School, sul rovesciamento del voto in circoscrizioni tradizionalmente democratiche, che hanno rifiutato Hillary Clinton e votato invece per Trump: sono quelle dove un numero maggiore di soldati, giovani che avevano “servito la patria” nei 15 anni di guerre americane, sono tornati nelle bare, o vivi e mutilati, o invalidi psichici. Per lo studio, tre Stati chiave per la vittoria di Donald (Pennsylvania, Michigan e Wisconsin) avrebbero dato la vittoria a Hillary se i vicini non avessero visto tante famiglie in lutto o con un invalido di guerra in casa. «Trump ha parlato a questa parte dimenticata dell’America». L’America dimenticata che sta elevando una silenziosa protesta per il costo umano che sta subendo per sostenere i 15 anni di guerre insensate non solo politicamente, ma eticamente (sono infatti, sappiamo, “guerre per Israele”). Il tasso immane di suicidi fra i soldati americani, da otto anni in crescita, è leggibile come l’estrema protesta silenziosa e impotente di un popolo per quello che lo costringono a fare?
    Nella fanteria, la più colpita, si toccano 29,9 suicidi per 100.000 persone, oltre il doppio della popolazione generale (12,6 per 100.000). Punte di un suicidio ogni 2,2 giorni. Si uccidono molto gli appena arruolati, anche prima di essere dispiegati in territorio nemico; ma moltissimo i congedati: «Venti reduci ogni giorno muoiono per suicidio», dice un rapporto ufficiale della Veteran Authority del 2016. Sulle cause, silenzio. Jason Roncoroni, un tenente colonnello che ha fondato una associazione di prevenzione del suicidio, tocca l’argomento tabù: «Attribuisce il tasso fra i militari al sentimento, fra loro, che le guerre americane non finiranno mai, e l’aspettativa di missioni future senza fine. Abbiamo sfumato la linea tra il tempo di guerra e il tempo di pace». Già: il tasso di suicidi s’è alzato dai primi anni 2000, inizio delle guerre “al terrorismo” (11 Settembre 2001), e non è mai calato. Anche, qui, sono i maschi bianchi a suicidarsi di più: i bianchi compongono poco più della metà dei soldati in servizio, ma i suicidi fra loro sono 7 su 10.
    Si piega sotto il fardello dell’uomo bianco, l’americano qualunque; l’uomo bianco che deve “funzionare”, e proprio per questo l’hanno caricato con un fardello che ormai lo schiaccia. E lui, sotto, incapace di sollevarlo, ci si uccide. Fatto istruttivo, solo l’armata israeliana ha tassi di suicidi paragonabili. Aggiungiamoci i 500 omicidi l’anno nella sola città di Chicago, in cui sono coinvolti soprattutto negri, quasi due al giorno, e in continuo aumento. Nell’insieme è l’immagine di una popolazione che si autodistrugge, che si devasta. O che viene devastata dalla “economia che cambia” e “li lascia indietro”, con paghe sempre minori ed affitti da pagare, e la coscienza della propria inutilità. E’ il capitalismo terminale, quello che fa profitti non più producendo merci ma producendo bolle finanziarie, che nella sua perfezione ideologica applicata persegue la massima efficienza come la intende: pagare il meno possibile il lavoro, precarizzarlo, sostituirlo con robot a tappe forzate, per retribuire al massimo il capitale finanziario.
    Tale “efficienza” porta l’effetto paradossale e opposto, che le imprese industriali rimaste in Usa fanno fatica a trovare lavoratori qualificati che non siano resi inservibili dall’oppioide. L’allarme è stato lanciato non da organizzazioni sociali, ma dalla stessa Federal Reserve. Le Fed di St. Louis ha denunciato l’introvabilità di lavoratori non drogati, e quindi improduttivi, in un “Libro Beige” diffuso il 12 luglio. La stessa Janet Yellen, la governatrice della Federal Reserve, ha spiegato in un’audizione al Senato che «gli oppioidi erano una delle cause del crollo della forza-lavoro», insieme beninteso ai robot e alle delocalizzazioni. Un crollo inaudito dalla «partecipazione alla forza lavoro», ossia delle persone che si offrono di lavorare. «Oggi, il 15% degli uomini fra i 25 e i 54 sono inspiegabilmente spariti dalla forza-lavoro – ossia uno ogni sette – nonostante il tasso di disoccupazione sia calato». Sono drogati che non riescono più a “funzionare”. La Yellen ha aggiunto di non capire e non sapere se «un così diffuso abuso di oppiacei sia la causa, o invece il sintomo di “malattie di lunga durata” di questi lavoratori».
    (Maurizio Blondet, estratto dal post “Usa, la nuova peste stermina l’uomo bianco, ormai superfluo”, pubblicato sul blog di Blondet il 16 agosto 2017).

    E’ ormai la prima causa di morte per gli americani sotto i 50 anni, quindi in età produttiva: 91 americani muoiono ogni giorno per overdose da Fentanyl, un oppioide sintetico, antidolorifico, che crea forte dipendenza. La chiamano “opioid epidemic”: 52.000 morti nel 2015, 59.000 nel 2016 (più 19%), già oltre 60.000 ad agosto 2017; saranno almeno 65.000 a fine anno. Aumenti spaventosi. Gli Stati Uniti sono il paese con più morti per overdose del mondo per milione di abitante e lo sono per un differenziale enorme: 245,8 morti ogni milione all’anno contro i 26,4 per milione in Europa, dati del 2015, quindi 10 volte di più. A morire per overdose non sono tanto i neri o gli ispanici, sono soprattutto i bianchi, e soprattutto i maschi bianchi. Un coroner della Pennsylvania occidentale lamenta: ogni notte mi arrivano anche 13 corpi, non so più dove metterli; è come una peste. In vari Stati i poliziotti sono stati forniti di Naloxone, un farmaco d’emergenza: se trovano un morente per overdose, l’iniezione può salvarlo, ma ovviamente non fa nulla per ridurre il tasso di dipendenza. Lo Stato dell’Ohio ha querelato cinque farmaceutiche che fabbricano e producono il Fentanyl, per “favoreggiamento dell’epidemia”.

  • Sankara: basta rapinare l’Africa, col debito. E lo uccisero

    Scritto il 10/9/17 • nella Categoria: idee • (11)

    Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.
    Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore. Abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia, intervenuta qui. Ha detto, lei che è un’europea, che il debito non può essere rimborsato tutto. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri. Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri. Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò. Finché guadagnavano non c’era nessun problema; ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No, signor presidente. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco. E la vita continua.
    Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. E’ il nostro sangue che è stato versato. Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica. Ma non si parla mai del Piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate. Chi ha salvato l’Europa? E’ stata l’Africa. Se ne parla molto poco. Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato. Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, noi abbiamo almeno il dovere di dire che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.
    Il debito è anche conseguenza degli scontri. Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individi. C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali, che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassifondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.
    Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio. Equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario. Equilibrio a scapito delle nostre masse popolari. No! Non possiamo essere complici. Non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue dei nostri popoli e vivono del sudore dei nostri popoli nelle loro azioni assassine. Signor presidente, sentiamo parlare di club – Club di Roma, Club di Parigi, Club di dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei Cinque, dei Sette, del Gruppo dei Dieci, forse del Gruppo dei Cento o che so io. E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’ solo così che potremo dire, oggi, che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma, al contrario, intenzioni fraterne.
    Del resto, le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano, e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare. Noi dobbiamo dire, al contrario, che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi.
    Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo. Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe, qui, che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da “giovani”, senza maturità ed esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto. E posso citare, tra quelli che dicono di non pagare il debito, dei rivoluzionari e non, dei giovani e degli anziani. Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare. Non ha la mia età, anche se è un rivoluzionario. Ma posso citare anche François Mitterrand, che ha detto che i paesi africani non possono pagare, i paesi poveri non possono pagare. Posso citare la signora primo ministro di Norvegia. Non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo, è solo un esempio.
    Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny. Non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che, quanto al suo paese, la Costa d’Avorio, non può pagare. Ma la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio in Africa, almeno nell’Africa francofona. E per questo, d’altronde, è normale che paghi un contributo maggiore, qui. Signor presidente, la mia non è quindi una provocazione. Vorrei che molto saggiamente lei ci offrisse delle soluzioni. Vorrei che la nostra conferenza adottasse la risoluzione di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, bellico. Questo per evitare di farci assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, io non sarò qui alla prossima conferenza! Invece, col sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, col sostegno di tutti potremo evitare di pagare. Ed evitando di pagare potremo consacrare le nostre magre risorse al nostro sviluppo.
    E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma, è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. E’ contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono militare e porto un’arma. Ma, signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra. Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano.
    Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che, a partire da Addis Abeba, decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri. I manganelli e i machete che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo. Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonella, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. La mia delegazione e io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America. Non faccio una sfilata di moda, ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E’ il solo modo di vivere liberi e degni.
    (Thomas Sankara, estratto dal “discorso sul debito” pronunciato al vertice panafricano di Addis Abeba, Etiopia, il 29 luglio 1987. Un anno dopo, il 28 ottobre, Sankara verrà assassinato a Ouagadougu, capitale del Burkina Faso, che quattro anni prima aveva liberato, con la sua rivoluzione, dal colonialismo francese. Il presidente dell’Organizzazione per l’Unità Africana, cui Sankara si rivolge nel discorso, è il congolese Denis Sassou-Nguesso, mentre la citata premier norvegese è Gro Harlem Brundtland, progressista e ambientalista. Riletto oggi, il celebre discorso di Sankara – martire socialista della sovranità democratica dell’Africa – è particolarmente illuminante, di fronte alla tragedia quotidiana dell’esodo dei migranti africani).

    Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.

  • Guénon e l’aria condizionata, l’inizio della fine (del mondo)

    Scritto il 29/8/17 • nella Categoria: idee • (2)

    Nel suo libro “Oriente e occidente”, René Guénon credeva fosse ancora possibile recuperare spiritualmente l’Occidente e porlo entro una prospettiva più serena, meno materialista e meno neospiritualista, oserei dire. Sono trascorsi quasi cent’anni da allora. Ciò che vedeva era un Oriente ancora tradizionale, nemmeno troppo logorato dalle conquiste coloniali, capace ancora di opporsi alla supremazia materialista e scientista occidentale. Si deve notare che se da un lato siamo andati ben oltre il declino dell’Occidente (come dice un amico, professore di informatica in una facoltà euroamericana, l’Occidente ha toccato il fondo, ma continua a scavare – pensate ai debiti), dall’altro l’Oriente ha smesso da tempo di interessarci spiritualmente e di farci sognare. Il tempo dei guru per i Beatles e degli hippies (sic) è passato. Il Dalai Lama festeggia il suo compleanno con George Bush e si aspetta la scelta del suo successore. Da più di cinquant’anni anche l’Oriente si è gettato a testa bassa e voracemente nel capitalismo, nella corruzione, nell’inquinamento, nella distruzione-recupero del suo patrimonio spirituale e culturale (a quando una grande muraglia contro il turismo, una grande muraglia della quale Guénon intravedeva le crepe nella sua ultima e fondamentale opera, “Il regno della quantità e i segni dei tempi”?). L’Oriente è diventato come noi, stanco, materialista, inquinato e civilizzato.
    Il demiurgo di questa umanità luciferina resta l’America e ciò che essa rappresenta. Sono i messicani (povero Antonin Artaud), gli indiani e i cinesi che fanno incrementare il mercato immobiliare statunitense (“Zerohedge.com” e “Nbc”). E ciò dimostra che il sogno americano, per quanto malridotto, continui ad affascinare gli infelici che nel giro di una o due generazioni sono passati dalla loro società tradizionale alle periferie degradate, agli alti e bassi della Borsa, ai deliri immobiliari, alla competizione dei mercati – che necessitano di rinchiudere cento o duecento milioni di contadini e bambini sottopagati in ripugnanti fabbriche tessili, il tutto per soddisfare un gruppetto di grossi azionisti. Mille uomini (entità?) sono diventati più ricchi del resto dell’umanità, che tra l’altro sognano di rimpiazzare. Come si è arrivati a ciò? Una breve spiegazione. Noi tutti conosciamo il nome di un qualsiasi scrittore di seconda categoria, di un cantante bidone, di un pittore di terzo livello, di un attore televisivo, di un politico cretino, di uno stupido sapientone. Ma non conosciamo il nome di coloro che hanno realmente cambiato il mondo – e bypassato le idee guenoniane e soprattutto le ultime società tradizionali.
    Tra questi Willis Haviland Carrier. Io non sono un ingegnere né un erudito, pertanto consultate direttamente Wikipedia e poi i manuali professionali. Carrier è l’inventore dell’aria condizionata. Proprio lei ha liquidato René Guénon, il sud, l’Oriente, le terre spirituali e cavalleresche che avevano preservato la loro identità spirituale e religiosa. E’ stata messa ovunque, sul posto di lavoro, nelle fabbriche, negli uffici, ovunque vogliate. Wikipedia ci informa che lo sfruttamento e lo sviluppo (dunque la distruzione delle autoctone strutture antropologiche e culturali, questa brutta espressione ereditata dalle scienze umane offre suggerimenti poco guenoniani) della Sunbelt è stata resa possibile grazie all’aria condizionata. L’aria condizionata ha posto fine a ciò che restava del vecchio sud e poi al resto del mondo. Pensateci e vedrete che non mi sbaglio di molto. L’aria condizionata ha condizionato, accelerato e accompagnato la degenerazione (chi osa parlare ancora di decadenza?) irreversibile del nostro mondo. Willis Haviland Carrier. L’uomo che ha vinto Guénon e le tradizioni. Non è un caso che la Russia sia il solo paese spirituale rimasto.
    (Nicolas Bonnal, “L’aria condizionata e la fine del mondo”, dal blog “Dedefensa.org” del 23 luglio 2017, tradotto per “Come Don Chisciotte”).

    Nel suo libro “Oriente e occidente”, René Guénon credeva fosse ancora possibile recuperare spiritualmente l’Occidente e porlo entro una prospettiva più serena, meno materialista e meno neospiritualista, oserei dire. Sono trascorsi quasi cent’anni da allora. Ciò che vedeva era un Oriente ancora tradizionale, nemmeno troppo logorato dalle conquiste coloniali, capace ancora di opporsi alla supremazia materialista e scientista occidentale. Si deve notare che se da un lato siamo andati ben oltre il declino dell’Occidente (come dice un amico, professore di informatica in una facoltà euroamericana, l’Occidente ha toccato il fondo, ma continua a scavare – pensate ai debiti), dall’altro l’Oriente ha smesso da tempo di interessarci spiritualmente e di farci sognare. Il tempo dei guru per i Beatles e degli hippies (sic) è passato. Il Dalai Lama festeggia il suo compleanno con George Bush e si aspetta la scelta del suo successore. Da più di cinquant’anni anche l’Oriente si è gettato a testa bassa e voracemente nel capitalismo, nella corruzione, nell’inquinamento, nella distruzione-recupero del suo patrimonio spirituale e culturale (a quando una grande muraglia contro il turismo, una grande muraglia della quale Guénon intravedeva le crepe nella sua ultima e fondamentale opera, “Il regno della quantità e i segni dei tempi”?). L’Oriente è diventato come noi, stanco, materialista, inquinato e civilizzato.

  • Rousseau: noi, schiavi del benessere indotto dalla scienza

    Scritto il 15/8/17 • nella Categoria: idee • (1)

    «Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini consociati, le scienze, le lettere e le arti, meno dispotiche e forse più potenti, stendono ghirlande di fiori sulle catene di ferro ond’essi son carichi, soffocano il loro sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravan nati, fan loro amare la loro schiavitù e ne formano i così detti ‘popoli civili’. Se le nostre scienze son vane nell’oggetto che si propongono, sono ancor più pericolose per gli effetti che producono. Quanti pericoli, quante false vie nella ricerca scientifica! Era antica tradizione, passata d’Egitto in Grecia, che un Dio nemico della quiete degli uomini fosse l’inventore delle scienze. Popoli, sappiate dunque una buona volta che la natura ha voluto preservarvi dalla scienza, come una madre strappa un’arma pericolosa dalle mani del figlio. Le apparenze di tutte le virtù, pur senza il possesso di alcuna… La preferenza degli ingegni piacevoli sugli utili… Hanno messo una gioventù frivola in grado di dare il tono alla vita. Che penseremo mai di quei compilatori di opere, che hanno indiscretamente infranta la porta delle scienze e introdotto nel loro santuario una plebaglia indegna d’accostarvisi… Socrate non aiuterebbe mai ad accrescere questa folla di libri che ci inonda d’ogni parte… I disordini orribili che la stampa ha già prodotto in Europa».
    «Da che i sapienti han cominciato ad apparir fra noi, dicevan i loro propri filosofi, le persone dabbene sono scomparse…S enza saper discernere l’errore dalla verità, possederanno l’arte di renderli irriconoscibili agli altri con argomenti speciosi…A sentirli non li si piglierebbe per un branco di ciarlatani, gridanti ognuno dal canto suo sopra una piazza pubblica: ‘Venite da me, io solo non inganno nessuno’?… Il falso è suscettibile d’una infinità di combinazioni; ma la verità non ha che un sol modo di essere. Oggi, che le ricerche più sottili e un gusto più fine hanno ridotto a princìpi l’arte di piacere, regna nei nostri costumi una vile e ingannevole uniformità, e tutti gli spiriti sembrano esser stati fusi in uno stesso stampo: senza posa la civiltà esige, la convenienza ordina; senza posa si seguono gli usi e mai il proprio genio».
    «Non si osa più apparire ciò che si è…Che se per caso, fra gli uomini straordinari per il loro ingegno, se ne trovi qualcuno che abbia fermezza nell’anima e che rifiuti di prestarsi al genio del suo secolo e di avvilirsi con produzioni puerili, guai a lui! Morrà nell’indigenza e nell’oblio. Gli antichi politici parlavano senza posa di costumi e di virtù: i nostri non parlano che di commercio e di danaro… un uomo non vale per lo Stato che il consumo che vi fa… i Principi sanno benissimo che tutti i bisogni che il popolo si dà, sono altrettante catene di cui si carica… qual giogo potrebbe imporsi ad uomini che non han bisogno di nulla?… L’anima si proporziona insensibilmente agli oggetti che l’occupano. O Dio onnipotente, tu che tieni nelle tue mani gli spiriti, liberaci dai lumi e dalle funeste arti e rendici l’ignoranza, l’innocenza e la povertà, i soli beni che possan fare la nostra felicità e che sian preziosi al tuo cospetto».
    Queste espressioni sono tratte dal “Discorso sulle scienze e sulle arti” di Rousseau del 1750. Rousseau è un illuminista – perché il “contratto sociale” è uno dei fondamenti della democrazia, peraltro intesa come democrazia diretta, in spazi limitati – ma è un illuminista molto, molto particolare. In questo straordinario “Discorso sulle scienze e sulle arti”, non a caso pochissimo richiamato ai giorni nostri, Rousseau anticipa alcune delle conseguenze più devastanti della democrazia. Si oppone alle scienze, “idola” che oggi dominano incontrastate, in quanto asserviscono a sé gli uomini e invece di renderli liberi li fa schiavi («soffocano il loro sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravan nati, fan loro amare la loro schiavitù»). Anticipa la società dello spettacolo con le sue futilità, il prevalere dell’apparire sull’essere («Le apparenze di tutte le virtù, pur senza il possesso di alcuna»). Sottolinea come l’eccesso di comunicazione e di divulgazione abbia dato spazio a ogni tipo di ciarlatani. E come la parola possa essere fonte di ogni falsità (del resto lo stesso Cristo ha affermato: «Il tuo dire sia sì, sì, no, no. Tutto il resto è farina del diavolo»).
    Quando Rousseau afferma «a sentirli non li si piglierebbe per un branco di ciarlatani, gridanti ognuno dal canto suo sopra una piazza pubblica: ‘Venite da me, io solo non inganno nessuno’», non sembra di sentir parlar Renzi o Berlusconi o qualsiasi altro leader politico, italiano e anche non italiano? E, in aggiunta, c’è anche un accenno alle “fake news” («Il falso è suscettibile d’una infinità di combinazioni; ma la verità non ha che un sol modo di essere»). Si scaglia contro l’omologazione – tema di scottante attualità, portato al suo apice dalla globalizzazione – che cancella il merito e annulla l’ingegno. Nell’ultima parte del “Discorso” c’è la considerazione che, forse, riguarda più da vicino la modernità. Dopo l’affermarsi della Rivoluzione Industriale sono stati introdotti bisogni di cui l’uomo non aveva mai sentito il bisogno. Si è affermata la pazzesca legge di Say, “l’offerta crea la domanda”, su cui si regge tutta la società di oggi. La stragrande maggioranza degli oggetti che oggi ci circondano e che, come osserva Rousseau contribuiscono a formare la nostra mentalità, sono del tutto superflui ma essenziali al meccanismo che ci domina e che ormai è uscito fuori dal nostro controllo: noi non produciamo più per consumare ma produciamo perché il meccanismo possa costantemente autoriprodursi e autorafforzarsi. Questa è la straordinaria modernità di Rousseau, l’antimoderno.
    (Massimo Fini, “Rousseau e la lotta al consumismo”, dal “Fatto Quotidiano” del 25 luglio 2017).

    «Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini consociati, le scienze, le lettere e le arti, meno dispotiche e forse più potenti, stendono ghirlande di fiori sulle catene di ferro ond’essi son carichi, soffocano il loro sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravan nati, fan loro amare la loro schiavitù e ne formano i così detti ‘popoli civili’. Se le nostre scienze son vane nell’oggetto che si propongono, sono ancor più pericolose per gli effetti che producono. Quanti pericoli, quante false vie nella ricerca scientifica! Era antica tradizione, passata d’Egitto in Grecia, che un Dio nemico della quiete degli uomini fosse l’inventore delle scienze. Popoli, sappiate dunque una buona volta che la natura ha voluto preservarvi dalla scienza, come una madre strappa un’arma pericolosa dalle mani del figlio. Le apparenze di tutte le virtù, pur senza il possesso di alcuna… La preferenza degli ingegni piacevoli sugli utili… Hanno messo una gioventù frivola in grado di dare il tono alla vita. Che penseremo mai di quei compilatori di opere, che hanno indiscretamente infranta la porta delle scienze e introdotto nel loro santuario una plebaglia indegna d’accostarvisi… Socrate non aiuterebbe mai ad accrescere questa folla di libri che ci inonda d’ogni parte… I disordini orribili che la stampa ha già prodotto in Europa».

  • L’ex banchiere del Papa: Italia spacciata, crocifissa dall’euro

    Scritto il 14/8/17 • nella Categoria: idee • (17)

    L’euro è stato utilizzato come scusa per ridimensionare il nostro paese da un punto di vista economico e morale. Le altre giustificazioni sono insostenibili da più punti di vista. Usano un modello irrazionale che confonde cause con effetti, è lo stesso usato per spiegare decisioni che provocano le condizioni per giustificarle, come è successo per l’immigrazione (gap di popolazione) o l’ambientalismo (neomalthusianesimo). Così le pressioni fatte al nostro paese per difendere l’euro (tedesco) sono state giustificate dall’alto debito pubblico italiano – che è un falso problema, perché è il debito complessivo di un paese che va misurato, come il caso Usa 2008-2010 ha ben dimostrato (in situazione di insolvenza, tutto il debito privato diventa debito pubblico). Ma dette pressioni ci hanno ridotto allo stremo economico, con rischio morale. La carta stampata ha ignorato la mia considerazione perché può avere indirizzi politici da rispettare: “No touch issues”, che sono tabù e vanno trattati in un certo modo. Per esempio appunto l’immigrazione, l’ambientalismo, l’Europa, l’euro, Bergoglio. L’Europa e l’euro non devono essere messi in discussione, a meno che non lo autorizzi la signora Merkel.
    Poiché l’economia non è una scienza, è piuttosto arduo prevedere con un minimo di certezza ciò che può succedere con l’uscita dalla moneta unica. Troppo spesso, politici ed economisti fanno prognosi senza aver fatto una corretta diagnosi. Ne consegue che, se non sono state intese le cause delle nostre difficoltà attuali nel sistema euro, difficilmente si potrà esser credibili nelle proposte di soluzione degli effetti. Oggi ci ricordiamo in che situazione economica era l’Italia prima dell’entrata nell’euro, quali condizioni le vennero imposte per entrare e come realizzò dette condizioni? Ci ricordiamo quanto pesava negli anni ’90 l’economia “di Stato” direttamente e indirettamente sul Pil? Quasi il 65%. E quanto pesavano le banche private sul sistema creditizio? Qualche percentuale minima. Ci ricordiamo come si realizzarono le privatizzazioni? Molto male. Il lettore ricorda il famoso algoritmo Prodi per passare da un deficit di 7 punti al deficit di 3 punti percentuali? Ho spiegato questo per far intendere che i problemi riferiti all’euro sono un po’ più complessi di quanto spesso vengano spiegati. Ma temo che la nostra capacità decisionale in proposito sia piuttosto bassa, e il rischio di pagar cara l’uscita piuttosto alto.
    Si deve riflettere su cosa significhi “pagar caro” la decisione di uscire, comparata con il costo di restare – costo che temo non sia solo economico, ma di libertà democratica di cui potremmo venir privati. Per giustificare l’economia, si potrà forzare la libertà. La moneta unica, per funzionare, necessita di un governo unico europeo, che dovrà coesistere con il governo del mondo globale. A questo si sta arrivando, in modo sempre più accelerato dopo la crisi globale scoppiata nel 2007, grazie agli organismi sovranazionali che impongono leggi, discipline, modelli democratici, governanti cooptati, e soprattutto visione morale omogenea. Il nostro destino è sottostare a questo “supergoverno mondiale”? Probabilmente sì. L’ attuale situazione mi fa pensare che dobbiamo riconoscere la nostra impotenza, che non possiamo più fare nulla. I giochi son fatti e noi non giochiamo più, siamo diventati un gioco in mano ad altri. Il nuovo mondo globale aspira ad un’omogeneità culturale, e pertanto morale, che significa relativizzare le norme morali. Tutto questo porta ad una forma di sincretismo religioso, che necessariamente tende ad arrivare a una religione globale panteista, ambientalista (animalista e vegana), neomalthusiana e orientata alla decrescita.
    Se questo è vero, e l’euro venisse usato come strumento per forzare chi non è d’accordo, si spiega la mia preoccupazione. Se fossi stato un governante nel nostro paese, negli ultimi 6-7 anni, avrei fatto il contrario di ciò che è stato invece fatto. Con la scusa di difendere l’euro dai problemi italiani, il nostro futuro non potrà che essere terrificante. Attenzione, però: il problema non è nell’euro in sé, ma nell’avere un euro gestito “abusivamente” da altri, grazie alle nostre debolezze politiche. Darei due esempi, per ora solo immaginabili: in una siffatta Europa a governo unico, per ridurre il debito pubblico ci potrebbe venir imposto di espropriare i beni dei cittadini. Per ridurre il deficit di bilancio ci potrebbe venir imposta l’eutanasia per i pensionati ultrasessantacinquenni, per tagliare la spesa pubblica di pensioni e sanità. Se si andrebbe persino verso il superamento del principio della dignità umana? E chi la afferma più? Ormai legge civile, la salute, la vita, la morale, che significato hanno? Quello deciso dall’Oms all’Onu? Se così fosse, la vita e la salute sarebbero benessere psicosociale.
    Se riconoscessimo che un governo, “cooptato o gradito”, è sottoposto alla “moral suasion” internazionale (che si può immaginare possa utilizzare anche i vincoli di una moneta unica), e se convenissimo che i paesi influenti, al di là delle forme diplomatiche, ci disprezzano, ci boicottano e ci vedono come un vantaggio da acquisire per rafforzare se stessi, che concluderemmo? Quale governo, non cooptato, saprebbe oggi decidere le specifiche soluzioni necessarie al nostro paese, rifiutando, se il caso, l’applicazione di leggi economico-morali, da altri ritenute necessarie ma che danneggiano economicamente e, soprattutto, possono privare i cittadini di libertà democratica e personale? Che dire del futuro dell’Ue? I padri fondatori quali De Gasperi, Adenauer, Schuman e Monnet avevano progettato un’ Europa sussidiaria ai vari paesi, destinata a valorizzarne le identità. Ma il progetto di moneta unica doveva essere destinato a valorizzare le singole economie dei paesi europei. Poi sono sopravvenute “modifiche genetiche” di carattere cultural-politico, che hanno cambiato lo spirito originario facendo persino rinnegare le radici cristiane. Poi è arrivata la crisi economica del 2007 che fa esplodere le contraddizioni economiche, politiche e morali, facendo trionfare gli stessi egoismi arroganti che avevano snaturato il progetto originario.
    L’Europa è fatta da tre “culture religiose”: quella protestante-calvinista, quella cattolica e quella illuminista-laicista. Quando le cose vanno male, quale visione di cosa è bene o male prevale secondo voi? Secondo “loro” deve prevalere una forma di pragmatismo egoistico che rifiuta morali forti e dogmatiche e pretende morali relative, in evoluzione, pluraliste, dove l’autorità morale non deve più intervenire nel confronto con le leggi (etiche) dello Stato, ormai leggi globali di uno Stato globale. Che succede se l’autorità morale è invitata ad occuparsi di socio-economia e non più di morale? E chi ci difende e tutela allora? Ecco perché sono sempre più preoccupato. Il diritto a emigrare? Quanto ci manca Benedetto XVI, mai come ora! Le migrazioni son sempre più manifestamente state volute e pianificate, soprattutto per “aiutare” il nostro paese, dove risiede la massima autorità morale al mondo, a correggersi e aprirsi al “multiculturalismo” orientato a un sincretismo religioso necessario a prevenire “guerre di religione”. Temo che non riusciremo a metter in discussione più nulla, ahimè. Qui bisogna produrre un vero progetto per il paese e dotarsi delle capacità di gestirle (un paio di nomi io li avrei), invece di sperare di prender voti coccolando cani e gatti in Tv. Risposta provocatoria: bisogna andare a cercare all’estero, anche fuori Europa, i consensi necessari, facendo alleanze e compromessi a destra e a manca. Risposta realistica e rassegnata: fare atto di sottomissione alla Germania.
    (Ettore Gotti Tedeschi, dichiarazioni rilasciate a Paolo Becchi e Cesare Sacchetti per l’intervista “Per difendere l’euro ci attende un futuro terrificante”, pubblicata dal quotidiano “Libero” l’8 agosto 2017. Economista e banchiere, già docente universitario, Gotti Tedeschi è stato presidente dello Ior, la banca vaticana, dal 2009 al 2012, dopo una lunga carriera nel mondo dell’economia e finanza, iniziata con l’americana McKinsey e proseguita con la co-fondazione di Akros Finanziaria. È stato consigliere del ministro del Tesoro Giulio Tremonti dal 2008 al 2011, consigliere della Cassa Depositi e Prestiti per tre mandati e presidente del Fondo infrastrutture F2i).

    L’euro è stato utilizzato come scusa per ridimensionare il nostro paese da un punto di vista economico e morale. Le altre giustificazioni sono insostenibili da più punti di vista. Usano un modello irrazionale che confonde cause con effetti, è lo stesso usato per spiegare decisioni che provocano le condizioni per giustificarle, come è successo per l’immigrazione (gap di popolazione) o l’ambientalismo (neomalthusianesimo). Così le pressioni fatte al nostro paese per difendere l’euro (tedesco) sono state giustificate dall’alto debito pubblico italiano – che è un falso problema, perché è il debito complessivo di un paese che va misurato, come il caso Usa 2008-2010 ha ben dimostrato (in situazione di insolvenza, tutto il debito privato diventa debito pubblico). Ma dette pressioni ci hanno ridotto allo stremo economico, con rischio morale. La carta stampata ha ignorato la mia considerazione perché può avere indirizzi politici da rispettare: “No touch issues”, che sono tabù e vanno trattati in un certo modo. Per esempio appunto l’immigrazione, l’ambientalismo, l’Europa, l’euro, Bergoglio. L’Europa e l’euro non devono essere messi in discussione, a meno che non lo autorizzi la signora Merkel.

  • Musica infelice, poi non stupiamoci se la rockstar si suicida

    Scritto il 07/8/17 • nella Categoria: idee • (8)

    Non molto tempo dopo lo scioccante suicidio di Chris Cornell, frontman di Audioslave e Soundgarden, il mondo musicale ha perso un altro talento il 21 luglio. Chester Bennington, 41 anni, frontman dei Linkin Park, si è tolto la vita dopo anni di dipendenza da droga e depressione. Ha lasciato la moglie e sei figli. Queste morti non sono del tutto inaspettate, visti i frequenti casi di depressione e morti premature nel mondo della musica. Negli ultimi decenni, suicidi, omicidi e morti accidentali sono diventati cosa comune per i musicisti. Da Elvis a Kurt Cobain, da Jim Morrison ad Amy Winehouse, molti grandi artisti hanno perso la vita prematuramente a causa di stili di vita distruttivi. Uno studio condotto da Diana Kenny dell’Università di Sydney ha infatti mostrato che le rockstar tendono a vivere fino a 25 anni meno del resto della popolazione e che i loro tassi di suicidio, omicidio e mortalità accidentale sono molto più alti. Ma perché? In realtà, parte della risposta è facile: la cosiddetta “fast life”, in cui questi giovani artisti si trovano catapultati, è estremamente tossica, nonostante il glamour con cui i media la ritraggono.
    L’arrivo improvviso della fama, assieme ad un’indulgenza eccessiva e ad alcool e droghe, troppo spesso si dimostra essere una formula fatale. Certo, non tutti i musicisti sono colpiti allo stesso modo, ma troppi sono caduti in questo circolo vizioso. Soprattutto quando questi eccessi incontrano la cultura dell’odio e del materialismo oggi dominante, emergono sentimenti distruttivi che iniziano a perseguitare molti artisti di talento. Odio, ostilità e crudeltà sono pandemici su Internet. La gente si attacca senza sosta solo perché ha pensieri o look diversi. Per le celebrità, tuttavia, la storia è totalmente diversa. Sono costantemente perseguitati, insultati, minacciati e criticati sia dai media che dal pubblico. Non importa quanto successo abbiano, bisogna sempre fare di più. Sono giudicati per ogni piccola cosa che fanno. Dalle loro acconciature alla loro arte e ai loro sguardi ai figli, sono costantemente sottoposti ad impensabili quantità di scrutinio ed animosità; in aggiunta, non riescono quasi mai a trovare persone attorno a loro di cui possano davvero fidarsi.
    Questo persistente isolamento spesso apre profonde ferite che, nella negatività del mondo della musica, trovano terreno fertile. Di conseguenza, molti musicisti commettono l’errore di rivolgersi ad alcool e droghe, che non fanno altro che aggravare i problemi. Tutti questi fattori inevitabilmente si riflettono nella loro musica. Innumerevoli giovani impressionabili in tutto il mondo li guardano in tutto ciò che fanno e di conseguenza anche loro sono travolti da angoscia e pessimismo. Questa negatività si impossessa facilmente delle loro vulnerabili menti ed anime. Questa è una delle ragioni dietro l’aumento dei tassi di depressione, ansia, delinquenza, abuso di sostanze e suicidio tra gli adolescenti. Secondo uno studio, il tasso di suicidio tra gli adolescenti è aumentato del 200% tra il ’62 e l’82. L’Oms stima che ogni anno più di 800.000 persone muoiono per suicidio e che il gruppo di età 15-29 – i seguaci più attivi dell’industria musicale – ne sono i maggiormente colpiti. Certo, i fattori che contribuiscono a questa tendenza sono molti, ma non c’è dubbio che la cultura della depressione promossa da alcune rockstar svolga un ruolo importante.
    Molti studi dimostrano che ascoltare musica triste può essere molto pericoloso, soprattutto per persone già affette da ansia e depressione. In uno studio, i ricercatori hanno fatto ascoltare ai partecipanti musica felice, aggressiva e triste: hanno scoperto che chi aveva ascoltato musica triste presentava livelli più elevati di ansia. Milioni di giovani che già hanno problemi di angoscia e bassa autostima ignorano il fatto che ascoltare musica triste peggiori le cose. Non è difficile immaginare come questa tendenza possa influire sul futuro del nostro mondo. Se l’industria musicale però capisse che i valori spirituali sono più importanti di quelli materiali, potrebbe favorire una diversa visione del mondo, che aiuti le persone a superare la propria tristezza e a diventare migliori.
    Non c’è dubbio che la musica e l’arte possano essere modi estremamente efficaci per sollevare gli spiriti della gente ed aiutarli verso un percorso di costante automiglioramento. Infatti, in molti studi diversi, gli scienziati hanno scoperto che l’ascolto di una musica felice migliora la salute e le sensazioni complessive di soddisfazione. Una volta che i musicisti si saranno messi in testa di rendere il mondo un posto migliore, capiranno rapidamente che il loro contributo è estremamente importante. Questo è fondamentale, non solo per il bene dei talenti musicali, ma anche per i loro milioni di fan che formeranno il nostro mondo futuro.
    (Harun Yahya, “Quando finiranno i suicidi delle rockstar?”, da “AhTribune” del 24 luglio 2017, ripreso da “Come Don Chisciotte” con traduzione a cura di Hmg).

    Non molto tempo dopo lo scioccante suicidio di Chris Cornell, frontman di Audioslave e Soundgarden, il mondo musicale ha perso un altro talento il 21 luglio. Chester Bennington, 41 anni, frontman dei Linkin Park, si è tolto la vita dopo anni di dipendenza da droga e depressione. Ha lasciato la moglie e sei figli. Queste morti non sono del tutto inaspettate, visti i frequenti casi di depressione e morti premature nel mondo della musica. Negli ultimi decenni, suicidi, omicidi e morti accidentali sono diventati cosa comune per i musicisti. Da Elvis a Kurt Cobain, da Jim Morrison ad Amy Winehouse, molti grandi artisti hanno perso la vita prematuramente a causa di stili di vita distruttivi. Uno studio condotto da Diana Kenny dell’Università di Sydney ha infatti mostrato che le rockstar tendono a vivere fino a 25 anni meno del resto della popolazione e che i loro tassi di suicidio, omicidio e mortalità accidentale sono molto più alti. Ma perché? In realtà, parte della risposta è facile: la cosiddetta “fast life”, in cui questi giovani artisti si trovano catapultati, è estremamente tossica, nonostante il glamour con cui i media la ritraggono.

  • Carpeoro: Br, cioè Gladio. Chiedetelo a Curcio e Pazienza

    Scritto il 02/8/17 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Andate a vedere quanta galera ha fatto Morucci, presunto capo delle Brigate Rosse. A Curcio, che ha colpito solo il carabiniere che aveva sparato nella schiena alla sua donna, sotto stati attribuiti – come concorso morale – tutti gli omicidi commessi da Morucci. Il problema è che Morucci ha fatto sì e no sei mesi di carcere, e Curcio ha fatto tutta la pena – ma non la metà, con la semi-libertà: tutta. Sapete che in Italia l’ergastolo non esiste: dopo trent’anni di buona condotta ti devono mettere fuori, anche se di ergastoli ne hai dodici. Curcio dopo trent’anni l’hanno messo fuori; Morucci dopo quanto? Un anno, un anno e mezzo? Poi è entrato nel programma protezione, ora non si sa più neanche dove sia. Perché? Perché le Brigate Rosse, dopo Curcio, erano finite sotto la gestione diretta dei servizi segreti, non più sotto la gestione indiretta. Ma peggio dei servizi segreti: di Gladio. Cioè, non erano i servizi segreti: erano i servizi segreti che gestivano le Brigate Rosse per conto di Stay Behind, cioè di Michael Ledeen e del generale Santovito. E Curcio, che si è fatto tutti i trent’anni, ne è la prova vivente. E quando esce, e dice “mah, forse ora lo scrivo, un libro”, gli tolgono il posto all’università: lui attualmente è disoccupato, anzi ha fatto un appello per dire: rimettetemi in carcere, che almeno mangio.
    Noi in Italia abbiamo una concezione strana della giustizia: per certi soggetti l’ergastolo c’è davvero. Certi soggetti non si chiamano pregiudicati, si chiamano “eternamente giudicati”. Il rapporto con la giustizia dovrebbe essere laico: ho violato la legge? La pena prevista è questa? Dopo che l’ho scontata è finita, però. Può non essere finita moralmente, per le vittime. Ma, laicamente – con lo Stato – la vertenza è chiusa; non mi puoi rifiutare il lavoro, togliermi la cattedra di insegnante, perché per te è ancora aperta, perché altrimenti mi fai fare l’ergastolo davvero. Perché poi, uno che esce dal carcere dopo trent’anni che fa, specie ora con l’età pensionabile a settanta? Se la tua logica è che ho ancora qualcosa da pagare anche dopo che esco di galera, questo non è nelle regole. Invece non vale per altri, che non pagano nemmeno quello che dovrebbero pagare. Ripeto: il confronto tra Curcio e Morucci è impietoso – per non parlare di Mario Moretti. E’ un confronto impietoso, perché quello ha ammazzato davvero, e l’altro si è preso le condanne. I brigatisti erano diventati i gestori, per conto dei servizi segreti in capo a Gladio. Attenzione: tu hai un’organizzazione, creata dagli americani per evitare che venga il comunismo, la quale però gestisce il terrorismo comunista.
    Andate a vedere l’atto con cui è stata costituita Gladio: se costituisci una cosa, dovrebbe andare avanti per come l’hai costituita, no? Se la costituisci in un modo e poi invece ne fai altre, di cose… Perché, cos’era diventata, Gladio? E’ esistita quando gli americani sapevano benissimo che i comunisti erano spacciati. Nel ‘53, un economista americano che lavorava, credo, per McGovern, aveva previsto che il modello economico russo sarebbe morto nell’arco di trent’anni, massimo quaranta – e infatti l’Urss è finita nell’89, sostanzialmente. Non era un giudizio politico, etico, di disvalore di quel sistema, ma una previsione economica: “Tra quarant’anni non avranno più i soldi”. Quindi lo sapevano perfettamente, gli americani. E lo sapevano anche i comunisti italiani, che si sono ben guardati dall’andare al governo: quando nel ‘75 Berlinguer ha vinto a mani basse le elezioni amministrative, subito ha offerto il compromesso storico (alla Dc), non ha mica detto “domani comando io”. Sapevano tutti che quella roba lì – economicamente – non aveva futuro. Lo sapevano, tutti. Era un business, su cui hanno marciato tutti quanti. Ci hanno marciato i partiti italiani, perché beccavano il grano per essere “anticomunisti”. Ci hanno marciato i servizi segreti e i personaggi come Ledeen, perché (sulla minaccia sovietica) hanno costruito fortune e potere. Tutti, ci hanno marciato. E quando è morta l’Unione Sovietica hanno pianto: hanno versato calde lacrime, perché era finito il bengodi.
    Quindi, queste gestioni (dell’intelligence) sono fatte innanzitutto di interessi economici particolari. Non sono fatte di complotti surreali, esoterici: sono fatte di soldi, di interessi, di gente che ci campa. Davvero pensate che ci sia dietro una gestione “mistica” del male? Ma il male non è mistico, è pratico. Il male, che è l’assenza di bene, non ha una dimensione mistica, esoterica, spirituale: ha una dimensione meramente pragmatica. Non dovete pensare che ci siano dietro delle cose complicate, le cose sono semplici. Avete degli esempi. C’è un mio “fratello” massone, a cui voglio bene – e lo dico pubblicamente – che si chiama Francesco Pazienza. Questo signore è in galera da vent’anni. E sta là perché vuole campare, perché se esce di galera lo ammazzano. Pazienza è colui che gestiva, per conto di interessi massonici italiani (cercando di limitare i danni), la moderazione del meccanismo Stay Behind. Era il signore che avrebbe dovuto evitare che Stay Behind finisse per farci fare, al 100%, i servi degli americani: era il nemico, lo “speculum” di Michael Ledeen.
    Nel momento in cui è scoppiato il bubbone, Pazienza venne protetto da Cossiga: e quello è stato uno dei pochi atti della vita di Cossiga per cui posso dire che si sia comportato bene. Fu Cossiga a pattuire che Pazienza stesse zitto, in carcere, e che gli venisse garantita la sopravvivenza – una sopravvivenza anche dignitosa, senza carcere duro. Fu stipulato questo accordo, nel quale venno coinvolti i magistrati, per cui Pazienza si prese una pena bestiale, è tuttora in galera e sta zitto. L’unica dichiarazione che ha fatto, da vero massone, è stata quella che poi ha confermato il quadro per cui esistesse una P1. Però i giornali l’hanno pubblicata in settantunesima pagina. Fu una dichiarazione che lui rese nell’anniversario dell’uccisione di Olof Palme. Pazienza è una persona sottile, non fa le cose grossolanamente. Nell’anniversario dell’uccisione di Palme fece la famosa dichiarazione della cosiddetta “cupola Santovito”. Cos’era la “cupola Santovito”? Era la cupola che stava sopra il generale Santovito e Gelli, ed era gestita da Michael Ledeen: cioè la P1, di cui non ha mai parlato nessuno. Questo per farvi capire come, in realtà, il potere fa un’operazione semplicissima: ci offre soluzioni estremamente complicate per nascondere quelle semplici.
    Se cerchiamo la soluzione semplice rischiamo di trovare la verità, ma siccome il potere ci offre sempre delle soluzioni “mistiche”, esoteriche e sataniche complicate (contorte, fantasiose, suggestive, depistanti), noi la verità semplice non l’andiamo a cercare. Non ci chiediamo mai perché la massoneria fa una loggia che si chiama “Propaganda” e poi decide che sia segreta: se è segreta, dov’è la propaganda? Avete mai visto una propaganda segreta?
    Invece: fanno la loggia “Propaganda”, dove vanno quelli famosi, perché così la massoneria ha una bellissima reputazione, ma la fanno segreta. E perché? A che serve? Se uno si fa le domande giuste e va appresso alle cose semplici, si dà delle risposte: nel senso che la “Propaganda”, la P2, era il modo più efficace – una volta scoperta – per coprire la P1. Ovvero: ti faccio trovare quello che tu puoi trovare, per non farti trovare quello che non si deve trovare. Così funziona.
    (Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-radio da Civitanova Marche il 23 luglio 2017, ripresa su YouTube. Già a capo della comunione massonica italiana di Piazza del Gesù, da lui stesso poi disciolta, l’avvocato Carpeoro – al secolo, Gianfranco Pecoraro – è un acuto studioso di simbologia esoterica, ha appena dato alle stampe il prezioso volume “Summa Symbolica” e, nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, offre una particolarissima chiave di lettura per inquadrare lo schema di potere denominato “sovragestione” che tiene insieme settori dell’élite, servizi segreti atlantici e manovalanza terroristica, dagli “anni di piombo” alla P2 di Gelli, fino alla segretissima Loggia P1 e all’Isis).

    Andate a vedere quanta galera ha fatto Morucci, presunto capo delle Brigate Rosse. A Curcio, che ha colpito solo il carabiniere che aveva sparato nella schiena alla sua donna, sotto stati attribuiti – come concorso morale – tutti gli omicidi commessi da Morucci. Il problema è che Morucci ha fatto sì e no sei mesi di carcere, e Curcio ha fatto tutta la pena – ma non la metà, con la semi-libertà: tutta. Sapete che in Italia l’ergastolo non esiste: dopo trent’anni di buona condotta ti devono mettere fuori, anche se di ergastoli ne hai dodici. Curcio dopo trent’anni l’hanno messo fuori; Morucci dopo quanto? Un anno, un anno e mezzo? Poi è entrato nel programma protezione, ora non si sa più neanche dove sia. Perché? Perché le Brigate Rosse, dopo Curcio, erano finite sotto la gestione diretta dei servizi segreti, non più sotto la gestione indiretta. Ma peggio dei servizi segreti: di Gladio. Cioè, non erano i servizi segreti: erano i servizi segreti che gestivano le Brigate Rosse per conto di Stay Behind, cioè di Michael Ledeen e del generale Santovito. E Curcio, che si è fatto tutti i trent’anni, ne è la prova vivente. E quando esce, e dice “mah, forse ora lo scrivo, un libro”, gli tolgono il posto all’università: lui attualmente è disoccupato, anzi ha fatto un appello per dire: rimettetemi in carcere, che almeno mangio.

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