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Putin a lezione di democrazia dal favoloso Tony Blinken
Un coraggio da leone, quello di Tony Blinken: l’uomo che impartisce lezioni di democrazia a Vladimir Putin, contestando la dura repressione delle manifestazioni pro-Navalny, è un tizio che oggi fa il segretario di Stato nell’amministrazione di Joe Biden, l’uomo che sostiene di essere stato eletto presidente degli Stati Uniti. E’ stato insediato col favore delle tenebre, grazie alla misteriosa sospensione notturna dello scrutino e al miracoloso afflusso di voti postali, anche fuori tempo massimo e in violazione delle norme elettorali previste dalla Costituzione di alcuni degli Stati in bilico. Un lavoretto completato dagli algoritmi della Dominion Voting Systems, che si sospetta siano stati taroccati in partenza e poi ri-tarati in corso d’opera, viste le inattese dimensioni della valanga di voti a favore del probabilissimo vincitore reale, Donald Trump, ultimo vero presidente degli Stati Uniti per la maggioranza degli americani (sondaggi Gallup) e primo nella storia ad aprire ora un Ufficio dell’Ex Presidente, in Florida. Ebbene: dall’alto di questo capolavoro di trasparenza squisitamente democratica, l’eterno scudiero di Sleepy Joe Biden – uno dei politici più mediocri e corrotti della storia politica americana – adesso si permette di ammonire lo Zar: non osi procedere oltre, nel fare strame delle libertà democratiche in Russia.Affabilmente, Giulietto Chiesa canzonò l’anziano Eugenio Scalfari per aver descritto Putin come “il capo del comunismo mondiale”, nientemeno, dimenticando il microscopico dettaglio rappresentato da un bruscolino come la Cina, il più esteso, popoloso e potente paese al mondo che sia mai stato retto da un partito comunista. Anni fa, lo studioso italiano Igor Sibaldi, di madre russa, espose la seguente tesi: già ai tempi dell’Urss, l’impero di Mosca era retto da una trentina di grandi famiglie, al di là della vernice cosmetica del Pcus. In piena sintonia con quella ristretta cerchia di oligarchi, secondo Sibaldi, il lungimirante Jurij Andropov – temendo l’inevitabile collasso socio-economico del “socialismo reale” – trasformò il vecchio Nkvd staliniano nel micidiale, efficientissimo Kgb, come nerbo irriducibile dell’élite, capace di sopravvivere all’eventuale disfacimento dell’Unione Sovietica. Non è un caso che venisse dal Kgb lo stesso Gorbaciov, storico pupillo di Andropov, né che provenga dai ranghi di quell’intelligence lo stesso Putin. Sono sempre quelle famose “trenta famiglie”, le detentrici del vero potere in Russia, al di là del ruolo che ha saputo ritagliarsi, di suo, uno statista di levatura mondiale come l’attuale uomo del Cremlino, da vent’anni ininterrottamente in sella?E’ noto che Putin fu chiamato in servizio quando il potere russo ne ebbe abbastanza dell’esausto Boris Eltsin, che aveva letteralmente svenduto il paese alle multinazionali americane. Qualcosa del genere, secondo uno schema invariabile, si ripeté nel 2014 con la finta “rivoluzione arancione” in Ucraina contro il corrotto presidente filorusso Yanukovic, accusato di aver truccato le elezioni dopo aver estromesso l’opposizione. All’arbitrio dell’autocrate ucraino si rispose gonfiando le piazze in modo pacifico, ma a un certo punto furono misteriosi cecchini a sparare sulla polizia, a Maidan, per provocare la repressione violenta che segnò la fine di Yanukovic e il passaggio di Kiev dall’orbita di Mosca a quella di Washington, secondo il più classico e opaco dei copioni, in mezzo a falangi di miliziani armati di fucili e bandiere neonaziste. Letteralmente automatica, a quel punto, la secessione dell’Est dell’Ucraina, il Donbass a maggioranza russa, e la scelta della Crimea di tornare sotto l’ala della madrepatria russa, di cui la penisola del Mar Nero aveva sempre fatto parte. Altrettanto scontata la reazione della “comunità internazionale”, alias Washington Consensus: dure sanzioni alla Russia (con anche gravissimi danni al made in Italy).Dettaglio non scontato, invece, la presenza della famiglia Biden nel ricco “affaire” ucraino: dopo gli infiniti viaggi a Kiev dell’allora vice di Obama, fu affidato a Hunter Biden l’opulento malloppo di Burisma, colosso del petrolio e del gas ucraino. Inutile aggiungere che l’attuale segretario di Stato americano, Tony Blinken, era già il braccio destro di Sleepy Joe (non così “addormentato”, a quanto pare, se si trattava di incassare cospicui dividendi, non solo politici). Lo stesso Blinken era accanto a Biden anche rispetto al teatro siriano, quando Obama – anche attraverso un falco come John McCain – favorì l’esplosione del bubbone Isis, a partire dall’Iraq, dove fu improvvissamente rilasciato un personaggio che poi si sarebbe fatto chiamare Abu Bakr Al-Bagdadi. Da quasi una decina d’anni, Vladimir Putin si trova di fronte lo stesso avversario, pronto a promuovere la guerra, che la scena si svolga in Ucraina o in Siria, dove è stata proprio la Russia a sgominare le bande di tagliagole dello Stato Islamico, che gli americani facevano finta di non conoscere.In questo, stando a Wikipedia, Tony Blinken è persino trasparente: «Non ho mai visto una decisione più coraggiosa presa da un leader», disse nel 2011, applaudendo il Barack Obama che aveva appena raccontato di aver fatto uccidere Osama Bin Laden, già operativo della Cia in Afghanistan, morto quasi certamente parecchi anni prima. Può sembrare ridicolo, almeno quanto la storiella dell’inabissamento in mare della presunta salma del redivivo Bin Laden, ma nessun tribunale statunitense ha mai potuto imputare legalmente al capo di Al-Qaeda alcuna responsabilità formale nel super-attentato che distrusse le Torri Gemelle, spalancando la strada al Nuovo Secolo Americano vagheggiato dai Bush con le loro guerre, approvate senza riserve dal democratico Joe Biden, presidente della commissione esteri del Senato. Gli era accanto sin da allora Tony Blinken, favorevole nel 2003 alla brutale invasione dell’Iraq motivata dalle (inesistenti) armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Blinken ha definito la determinazione a invadere l’Iraq «un voto per una diplomazia dura».Finita la prima parte del “lavoro”, scrive sempre Wikipedia, Tony Blinken «ha assistito Biden nella formulazione di una proposta al Senato per stabilire in Iraq tre regioni indipendenti, divise lungo linee etniche o settarie». Un orrore, trasformato in un fiasco: «La proposta è stata respinta in modo schiacciante in patria, così come in Iraq, dove il primo ministro si è opposto al piano di spartizione». Dal 2009 al 2013, Blinken è stato consigliere per la sicurezza nazionale dell’allora vicepresidente Biden. Dal 2015 al 2017 è stato poi vicesegretario di Stato di John Kerry e viceconsigliere della sicurezza nazionale dal 2013 al 2015, sotto la presidenza Obama. Ruoli molto importanti, che gli hanno permesso di «contribuire a elaborare la politica statunitense su Afghanistan e Pakistan», con esiti letteralmente imbarazzanti. Lo stesso Blinken si è anche impegnato «sul programma nucleare dell’Iran», al quale si era fermamente opposto Donald Trump. Invano: oggi, la squadra di Biden è già al lavoro per ripristinare buone relazioni con Teheran.«Può usare Twitter anche l’Ayatollah, ma non Trump», ha protestato in questi giorni un parlamentare trumpiano, denunciando la scandalosa censura di Big Web praticata in modo unilaterale a vantaggio di “democratici” come Biden e Blinken, nell’ex “paese della libertà” che si sente in vena di dare lezioni alla Russia. Parla da solo, del resto, il vasto curriculum di Blinken: «Un profilo del 2013 lo descriveva come “uno degli attori chiave del governo nella stesura della politica sulla Siria”», il paese letteralmente fatto a pezzi dall’Isis, mentre le truppe Usa stavano a guardare. Un recidivo, Blinken: già nel 2011 aveva «sostenuto l’intervento militare in Libia e la fornitura di armi ai ribelli siriani». Tecnicamente: un professionista del Nuovo Disordine Mondiale, a suon di bombe. «Nell’aprile 2015, Blinken ha espresso sostegno all’intervento guidato dall’Arabia Saudita nello Yemen». Ha detto che «come parte di questo sforzo, abbiamo accelerato le consegne di armi, abbiamo aumentato la nostra condivisione di intelligence e abbiamo istituito una cellula di pianificazione del coordinamento congiunto nel centro operativo saudita».Questo sarebbe dunque il profilo essenziale del nuovo Mister America in funzione di ministro degli esteri. Un uomo accorto, di origine ebraica, membro del potentissimo Council on Foreign Relations, santuario paramassonico del massimo potere. Politica e affari, come il suo maestro Biden: nel 2017, Blinken ha co-fondato WestExec Advisors, una società di consulenza strategica politica. Tra i clienti figurano Jigsaw (Google), la società israeliana di intelligenza artificiale Windward e il produttore di droni di sorveglianza Shield Ai, che ha firmato un contratto da 7,2 milioni di dollari con l’Air Force. “The Intercept” ha descritto «il ruolo di WestExec nel facilitare i rapporti tra le aziende della Silicon Valley, il Dipartimento della difesa e le forze dell’ordine», un po’ come nel caso della storica Kissinger Associates. Così come altri membri del “transition team” di Biden, tra cui il neo-ministro della difesa Lloyd Austin, Blinken è partner della società finanziaria (”private equity”) Pine Island Capital Partners, socio strategico della stessa WestExec. «Il presidente di Pine Island è John Thain, l’ultimo presidente di Merrill Lynch prima della sua vendita a Bank of America».«Blinken – precisa ancora Wikipedia – è andato “in congedo” da Pine Island nell’agosto 2020 per unirsi alla campagna di Biden come consulente senior di politica estera. Ha detto che si sarebbe liberato della sua partecipazione in Pine Island, se confermato per una posizione nell’amministrazione Biden». Salvare le forme: non suona bene, l’espressione “conflitto d’interessi”. Lo scorso autunno, Pine Island ha raccolto 218 milioni di dollari «per una società di acquisizione di scopo speciale (Spac)», un’offerta pubblica per investire in «difesa, servizi governativi e industrie aerospaziali», nonché sulla gestione dell’emergenza Covid, considerata redditizia in quanto il governo Trump «si rivolgeva ad appaltatori privati per affrontare la pandemia». A dicembre, persino il “New York Times” ha sollevato domande sui potenziali conflitti d’interesse tra i dirigenti di WestExec, i consulenti di Pine Island (incluso Blinken) e loro ruolo nell’amministrazione Biden.«I critici hanno chiesto la piena divulgazione di tutte le relazioni finanziarie di WestExec e Pine Island, la cessione della proprietà di partecipazioni in società che fanno offerte per contratti governativi o godono di contratti esistenti», raccomandandosi che Blinken e altri «si ritirino dalle decisioni che potrebbero avvantaggiare i loro precedenti clienti». E’ questo, dunque, il background del Blinken che vorrebbe mantenere a Gerusalemme l’ambasciata americana in Israele e critica giustamente la Cina come feroce tecno-autocrazia: Blinken si schiera con le proteste di Hong Kong e si dichiara pronto a difendere Taiwan con ogni mezzo, di fronte alle minacciose provocazioni anche militari di Pechino. Non che gli antichi vizi siano scomparsi: lo stesso Blinken ha ribadito il suo sostegno a mantenere aperta la porta della Nato per la Georgia, destabilizzando così la frontiera con la Russia e violando gli storici accordi stupulati ai tempi di Gorbaciov. Fu George W. Bush a far precipitare la situazione nel Caucaso, incoraggiando il sanguinoso bombardamento della capitale dell’Ossezia del Sud, Tskhinvali, rimasta filo-russa. Gente dal grilletto facile, quella tornata alla Casa Bianca? Niente paura: sempre Wikipedia ci informa che Tony Blinken suona la chitarra e ha persino tre canzoni disponibili, su Spotify, con l’alias ABlinken (pronunciate come “Abe Lincoln”). Queste sì, sono notizie confortanti.Un coraggio da leone, quello di Tony Blinken: l’uomo che impartisce lezioni di democrazia a Vladimir Putin, contestando la dura repressione delle manifestazioni pro-Navalny, è un tizio che oggi fa il segretario di Stato nell’amministrazione di Joe Biden, l’uomo che sostiene di essere stato eletto presidente degli Stati Uniti. E’ stato insediato col favore delle tenebre, grazie alla misteriosa sospensione notturna dello scrutino e al miracoloso afflusso di voti postali, anche fuori tempo massimo e in violazione delle norme elettorali previste dalla Costituzione di alcuni degli Stati in bilico. Un lavoretto completato dagli algoritmi della Dominion Voting Systems, che si sospetta siano stati taroccati in partenza e poi ri-tarati in corso d’opera, viste le inattese dimensioni della valanga di voti a favore del probabilissimo vincitore reale, Donald Trump, ultimo vero presidente degli Stati Uniti per la maggioranza degli americani (sondaggi Gallup) e primo nella storia ad aprire ora un Ufficio dell’Ex Presidente, in Florida. Ebbene: dall’alto di questo capolavoro di trasparenza squisitamente democratica, l’eterno scudiero di Sleepy Joe Biden – uno dei politici più mediocri e corrotti della storia politica americana – adesso si permette di ammonire lo Zar: non osi procedere oltre, nel fare strame delle libertà democratiche in Russia.
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Carceri private e schiavi al lavoro: l’ultimo scandalo Usa
L’ultimo scandalo americano? Sarebbe «l’uso, da parte del multi-miliardario ebreo Mike Bloomberg, di call center operati da carcerati per la pubblicità della sua campagna presidenziale». Attenzione: la popolazione carceraria degli Stati Uniti è superiore di 21.100 unità rispetto alla somma dei detenuti di Cina e India, due paesi la cui popolazione complessiva è pari a otto volte quella degli States. A denunciare lo sfruttamento professionale dei carcerati, nel “paese della libertà”, è un economista come Paul Craig Roberts, già viceministro con Reagan. A utilizzare manodopera reclusa sono colossi come Apple, ma non solo: stivali e abbigliamento per i militari vengono prodotti facendo lavorare i detenuti. «Chiaramente, le autorità hanno legittimato le carceri private e l’appalto del lavoro penitenziario a basso costo ad entità private che lo utilizzano a scopo di lucro», scrive Craig Roberts, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Secondo “The Intercept”, Bloomberg vale 54 miliardi di dollari, ed Apple molto di più. Domanda: «Se Apple può usare il lavoro dei carcerati, perché non può farlo Bloomberg? Quelli che ci guadagnano sono gli appaltatori che affittano i detenuti-lavorari a Bloomberg, ad Apple, al Dipartimento della difesa: incassano il salario minimo statale per i lavori penitenziari, mentre i carcerati sono retribuiti con pochi dollari al mese».In passato, ricorda Craig Roberts, i detenuti lavoravano alla manutenzione delle strade pubbliche e non venivano pagati. Ma attenzione: «Lavoravano per la comunità, che a sua volta pagava le spese della loro incarcerazione». Oggi invece «lavorano per le aziende private e generano profitti per le aziende private». Secondo l’analista, «quello che stiamo vivendo è il ritorno del feudalesimo». Sintetizzando: «Lo Stato arresta la gente e la incarcera nelle prigioni private». Sempre lo Stato, poi, «usa i soldi dei contribuenti per pagare le aziende private che gestiscono queste prigioni». A quel punto, «questi centri di detenzione privati affittano il lavoro dei prigionieri ad altre società private che, a loro volta, rivendono i prodotti di questo lavoro a multinazionali e ad enti governativi sulla base del salario minimo sindacale». Si noti: «Questo totale sfruttamento del lavoro è perfettamente legale». Per Craig Roberts, «non è diverso dai signori feudali che mettevano sotto servaggio gli uomini liberi e si appropriavano del loro lavoro». E parliamo, nella maggior parte dei casi, di detenuti non condannati: «Il 96% circa dei carcerati non ha mai ricevuto un processo. Sono stati costretti ad autoincriminarsi, accettando un “patteggiamento” per evitare una punizione più severa».Il restante 4%, secondo Craig Roberts, non ha comunque avuto un procedimento equo, «perché i processi equi non garantiscono le massime percentuali di condanne», e secondo l’analista «le carriere dei funzionari di polizia, dei pubblici ministeri e dei giudici vengono prima della giustizia». Per Roberts, «oggi, una pena detentiva andrebbe considerata alla stregua di un servaggio, anche più pesante di quello dell’era feudale». Nel medioevo, almeno, esisteva ancora una certa reciprocità: «Gli uomini liberi, che coltivavano i propri terreni, non avevano protezione contro le bande dei predoni, vichinghi, saraceni, magiari, ed entravano al servizio di un signore in grado di dar loro la protezione di una fortezza e dei cavalieri con la corazza». Invece, «il servo della gleba di oggi deve dare alla prigione privata tutto il suo lavoro». Accusa Roberts: «Le privatizzazioni sono il canto delle sirene dei libertari fautori del libero mercato», che però nella maggior parte dei casi «avvantaggiano gli interessi privati a spese dei contribuenti». Nella vicenda delle carceri privatizzate, «i contribuenti forniscono profitti alle società private che gestiscono le carceri», e le aziende «guadagnano ulteriormente affittando il lavoro dei prigionieri», offerto a basso costo alle multinazionali.«Forse questo è un motivo per cui gli Stati Uniti hanno non solo la più alta percentuale di popolazione carceraria, ma anche il più alto numero di detenuti in assoluto: l’America ha più persone in carcere di quante ne abbia la Cina, un paese la cui popolazione è quattro volte maggiore». La privatizzazione del settore pubblico investe anche l’esercito americano, continua Craig Roberts: «Molte attività precedentemente svolte dagli stessi militari sono ora affidate a società private. I cuochi dell’esercito e la corvè cucina sono spariti. Anche il settore rifornimenti è stato dato in appalto. Persino la vigilanza armata nelle basi militari è fornita da compagnie private». Tutti questi esempi «rappresentano l’uso del denaro pubblico per la creazione di profitti privati, tramite l’esternalizzazione di quelle che dovrebbero essere le funzioni di un governo». E la privatizzazione dei servizi dell’esercito «è una delle ragioni per cui le spese degli Stati Uniti nel settore della difesa sono così elevate». In Florida, lo Stato ha privatizzato persino l’ispettorato della motorizzazione, creando ritardi e disservizi persino per il pagamento delle multe, transazioni di cui ora beneficia (con la sua percentuale) un soggetto privato.«In sostanza, le privatizzazioni delle funzioni pubbliche sono un modo per trasformare i pagamenti delle tasse in profitti per gruppi privati particolari», riassume Roberts, che smentisce la tesi secondo cui le privatizzazioni ridurrebbero i costi: «Aggiungendo ulteriori passaggi che generano profitti privati, le privatizzazioni aumentano i costi. Nella maggior parte dei casi, le privatizzazioni sono un modo per favorire chi è ben ammanigliato». Oltre a creare flussi di reddito per interessi privati, le privatizzazioni «creano anche ricchezza privata trasferendo beni pubblici in mani private a prezzi sostanzialmente inferiori al valore di mercato». E’ accaduto per la svendita delle società statali britanniche e francesi e del servizio postale britannico. «Le privatizzazioni forzate imposte alla Grecia dall’Ue hanno creato ricchezza per gli Europei del nord a spese della popolazione greca». In una parola, «le privatizzazioni sono un metodo di saccheggio». Letteralmente: «Dal momento che le opportunità per un profitto onesto sono sempre di meno, si fanno strada le razzie. Aspettatevene sempre di più», avverte Craig Roberts, pensando anche agli affaroni che si accumulano, negli Usa, sfruttando gli stessi detenuti.L’ultimo scandalo americano? Sarebbe «l’uso, da parte del multi-miliardario ebreo Mike Bloomberg, di call center operati da carcerati per la pubblicità della sua campagna presidenziale». Attenzione: la popolazione carceraria degli Stati Uniti è superiore di 21.100 unità rispetto alla somma dei detenuti di Cina e India, due paesi la cui popolazione complessiva è pari a otto volte quella degli States. A denunciare lo sfruttamento professionale dei carcerati, nel “paese della libertà”, è un economista come Paul Craig Roberts, già viceministro con Reagan. A utilizzare manodopera reclusa sono colossi come Apple, ma non solo: stivali e abbigliamento per i militari vengono prodotti facendo lavorare i detenuti. «Chiaramente, le autorità hanno legittimato le carceri private e l’appalto del lavoro penitenziario a basso costo ad entità private che lo utilizzano a scopo di lucro», scrive Craig Roberts, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte“. Secondo “The Intercept”, Bloomberg vale 54 miliardi di dollari, ed Apple molto di più. Domanda: «Se Apple può usare il lavoro dei carcerati, perché non può farlo Bloomberg? Quelli che ci guadagnano sono gli appaltatori che affittano i detenuti-lavoratori a Bloomberg, ad Apple, al Dipartimento della difesa: incassano il salario minimo statale per i lavori penitenziari, mentre i carcerati sono retribuiti con pochi dollari al mese».
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Barnard: getto la spugna, non posso più essere giornalista
Io ero giornalista quando potevo fare quello che vedete in foto. Era un altro universo, secolo, epoca, oggi scomparsi per me. C’è un mio video che è circolato molto e in cui lascio una specie di “testamento”, indicato nel mio recente articolo sui metodi ‘fai-da-te’ di procurarsi eutanasia quando il morire ci riduce il fine-vita a un insulto alla dignità e ad un’agonia per nulla, mentre né medici né familiari sanno o possono aiutarci a spegnerci degnamente. Il video si conclude con un addio ai lettori, nel mio rammarico di non aver potuto fare di più come giornalista (si legga però l’ultimo paragrafo). Per coloro che non si danno pace su come sia possibile che un Paolo Barnard getti la spugna del giornalismo, a prescindere da ciò che mi accade nella vita privata, è mio dovere ripetere, molto più in sintesi, ciò che già scrissi mesi fa. Eccovelo, e un abbraccio a tutti. Non mi è più possibile essere giornalista. In primo luogo il mio lavoro è stato devastato dal Facebook-journalism e dal Twitter-journalism, due tumori del mestiere che ricadono sotto l’ombrello del Google-journalism, o peggio persino, col Netflix-journalism.Oggi chiunque dal pc può infarcirsi di Google search, poi sparare ‘giornalismo’ nel web, Social o persino sui quotidiani online e reclamare, buffonescamente, competenza e celebrità. Il risultato è un’iperinflazione da Weimar di grotteschi personaggi auto proclamatisi giornalisti o commentatori, cioè tizi che eruttano masse di ‘factoids’ sparati ogni ora e 24/7, in un impazzimento fuori controllo. Tragicamente, hanno masse crescenti di pubblico stolto al seguito, che a ogni ‘factoid’ proclama “ecco la verità!”. Fra l’altro è proprio questo pubblico che ha preteso che il giornalismo diventasse intrattenimento istantaneo a portata di click o smart phone 24/7 come Netflix. Notatelo: ho appena scritto che i nuovi giornalistoidi dilaganti del Google-Netflix-journalism eruttano fattoidi sparati ogni ora 24/7, ma lo fanno perché è la gente che oggi chiede maniacalmente la news o il commento dopo pochi minuti da qualsiasi fatto accaduto, esattamente come oggi pretende eruzioni continue di serial e film su Netflix (+ altri) e guai se ogni giorno non ci sono, o esattamente come stanno incollati ai messaggi o ai like sui loro social 24/7.Ma che cazzo di frenesia è questa? Questo non sarà mai giornalismo. E’ una pietosa deformazione cerebrale molto ben conosciuta, ha un nome: “Short term, dopamine driven, feedback loops”. Si tratta di una forma di tossicodipendenza dal web studiata a tavolino nei laboratori di Facebook (et al.) dal 2004 in poi. Gli “Short term, dopamine driven, feedback loops” viaggiano sulla gratificazione immediata (dopamine driven) delle risposte (feedback da like, commenti, o appunto articoli) che diventa una tossicodipendenza (loops). Applicata al mio mestiere, ha significato letteralmente la fine del mio mestiere. Io nacqui come giornalista e reporter negli anni ’80, mi consolidai negli anni ’90 a “Report”, e nella mia vita ho prodotto vero giornalismo. Cos’è il giornalismo? Necessita di un editore in primo luogo, radio Tv o stampa; il giornalista deve essere pagato; il giornalista deve avere i mezzi finanziari per viaggiare, indagare, e attendere se necessario. Queste sono le tre basi elementari e indispensabili per qualsiasi tipo di giornalismo. Il resto è una truffa.Il mio maggior libro, che fu il Longest-Seller e il Best-Seller della collana Rizzoli che lo pubblicò (in foto), richiese 4 mesi di viaggi, quasi 25.000 euro di spese vive, e quasi un anno per la pubblicazione. Le mie inchieste Rai erano lavori maniacalmente rifiniti nel controllo dei fatti, delle fonti, e anche lì occorse tempo e denaro. Idem per il mio impegno in economia. Quello era il giornalismo di Paolo Barnard, per un vero pubblico. Da anni ormai quelle tre condizioni indispensabili mi sono pervicacemente negate, e l’ostracismo degli editori contro di me ha raggiunto una tale pervicacia che non ho più speranza di lavorare. Esprimermi su un Social (demenziale come tutti i Social), o su un sito che è divenuto un Cult per una setta nazionale di miei fans, non è fare giornalismo. Sottolineo che una setta di fans non muove nulla, e infatti, da quando si sono raccolti attorno a me, da essi non è partito assolutamente nulla di concreto e utile nel paese.Inutile che continuino a scrivermi “non mollare!”, cosa che fanno perché, da drogati di “Short term, dopamine driven, feedback loops”, pretendono il loro Barnard quotidiano, mica perché poi si danno da fare per cambiare un cazzo nel paese, come appena scritto sopra. Ripeto: senza i sopraccitati fondamentali mezzi, anch’io finirei col truffare i lettori con fattoidi da Google-journalism, e sono sincero: negli ultimi tempi ci stavo cascando. Stop. Poi c’è sempre lui, l’immortale lui: il fatto che gli italiani sono una razza aliena nel pianeta, qui è inutile tentare qualsiasi cosa, tutto viene deformato in parrocchiette e mafie, e va in vacca. Tutto, io ci ho lasciato una vita, e per niente. Partimmo da “viva il Duce” e ci siamo tornati un secolo dopo, unici al mondo nella partenza e nell’arrivo. Che pena. Ridursi al crowdfunding è inaccettabile. Il giornalista non può essere una ‘one man band’ dove con una mano suoni la chitarra, con l’altra la batteria, col piede sinistro stai in piedi e col destro tieni in bilico il cappello per l’elemosina.In quelle stupide condizioni è impossibile produrre nulla di valido, e infatti un’analisi profonda persino dei maggiori esempi internazionali (“Democracy Now!”, “The Intercept”…) mostra lavori instabili e fallati, ma peggio: costretti alla partigianeria per compiacere i donatori, che se no se ne vanno. Di nuovo: questo non sarà mai giornalismo, il giornalismo vero deve poter pubblicare senza preoccuparsi di compiacere chi lo legge. Quindi basta. Così come sono fautore dell’eutanasia, anche fatta in casa, quando la vita diventa indegna di essere vissuta, allo stesso modo sono fautore dell’eutanasia della professione quando diventa indegna di essere praticata. Quindi mi ritiro. Nel mio giornalismo ho vinto alcune medaglie d’oro, la biografia che trovate in questo sito le elenca, ho corso da ‘campione’. Se ci pensate con oculatezza, i ‘campioni’ a cui nella vita fu concesso di vincere medaglie di continuo fino a un minuto prima di spirare sono rari come mosche bianche, quindi rimango più che contento di aver svettato almeno qualche volta, non poche, e non è poco. Poi vi rivelo una cosa: tutto finisce.(Paolo Barnard, “Non posso più essere giornalista”, dal blog di Barnard del 25 maggio 2019).Io ero giornalista quando potevo fare quello che vedete in foto. Era un altro universo, secolo, epoca, oggi scomparsi per me. C’è un mio video che è circolato molto e in cui lascio una specie di “testamento”, indicato nel mio recente articolo sui metodi ‘fai-da-te’ di procurarsi eutanasia quando il morire ci riduce il fine-vita a un insulto alla dignità e ad un’agonia per nulla, mentre né medici né familiari sanno o possono aiutarci a spegnerci degnamente. Il video si conclude con un addio ai lettori, nel mio rammarico di non aver potuto fare di più come giornalista (si legga però l’ultimo paragrafo). Per coloro che non si danno pace su come sia possibile che un Paolo Barnard getti la spugna del giornalismo, a prescindere da ciò che mi accade nella vita privata, è mio dovere ripetere, molto più in sintesi, ciò che già scrissi mesi fa. Eccovelo, e un abbraccio a tutti. Non mi è più possibile essere giornalista. In primo luogo il mio lavoro è stato devastato dal Facebook-journalism e dal Twitter-journalism, due tumori del mestiere che ricadono sotto l’ombrello del Google-journalism, o peggio persino, col Netflix-journalism.