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Archivio del Tag ‘trasporti’

  • Com’è pericolosamente facile rinunciare alla nostra libertà

    Scritto il 20/3/20 • nella Categoria: idee • (7)

    Non so voi, ma io sono stanca di sentirmi in colpa. In colpa se esco a fare il giro dell’isolato (si può fare fitness in casa per un po’ di tempo!). In colpa se cerco di infilare il piede in una chiesa (si può pregare da casa!). In colpa se vado a fare spesa nel supermercato non proprio accanto a casa, perché mi piace di più e costa di meno (solo nelle strette vicinanze dell’abitazione!). Chi elabora questi decreti a raffica (presente le bolle della Preside di Hogwarts, la malefica Dolores Umbridge?) pensa che tutti abbiano a disposizione in casa una palestra, evidentemente. O un parco privato in cui fare jogging. Odio l’invidia sociale, ma un po’ mi girano quando vedo Ronaldo o Fedez, che poi sono generosissimi, per carità, dire “dovete stare a casa” dal loro giardino o dal loro salone da andarci in bici. Il cane a fare pipì solo nei paraggi! Capisco che interessi poco, ma tocca portar fuori i bambini, se hai tre stanzette e un balconcino occupato dallo stendino, e i tuoi dintorni sono strade sporche e con bidoni carichi di immondizia. Se nella via c’è solo un ferramenta e un bangladino. Se a casa forse hai solo un pc e se lo contendono in tre, urlando mentre cerchi di lavorare anche tu in smart working.
    Tutti sappiamo che bisogna limitare la nostra libertà, perché non c’è bene che valga la salute. Ma c’è modo e modo. Le multe, il carcere, l’autocertificazione. Per sopravvivere, ma entro i limiti sopportabili, senza editti minacciosi. Andate a prendere chi fa pic-nic nei parchi, chi sale e scende dai treni di mezz’Italia per andare nella casa al mare o in montagna. Chi si accampa nei giardini fumando canne o spacciando, prima loro. Perché è facile colpevolizzare tutti, inondarci di curve epidemiologiche terrorizzanti, adesso. Magari ci si poteva pensare prima, quando fioccavano inviti ad abbracciarsi, a bere aperitivi in compagnia, quando ci si attardava a emanare decreti richiesti a gran voce da chi sapeva dove drammaticamente si stava andando a finire. La zona rossa della Lombardia a tempo debito avrebbe permesso a tante Regioni del Sud di vivere ancora liberamente, con le dovute cautele, e risparmiare l’estensione di un contagio che non era inevitabile, se si impediva a decine di migliaia di studenti di tornare da mamma. Un sacrificio accettabile.
    Siamo in quarantena stretta da due settimane, i morti continuano a crescere, e tutto lo sforzo che stiamo facendo ci sembra inutile, quando ci avvertono che comunque il picco è lontano, e il coronavirus si estenderà a tutt’Italia, fatale. Non esiste il fato. Esistono previsioni intelligenti e misure ponderate per tempo. Non si gioca sulla paura della gente, sui sensi di colpa con chi s’arrabatta per tirare avanti, con tutti i problemi e le preoccupazioni che già soffocano, per il lavoro, per la scuola dei figli, perché non sai dove metterli, loro e gli anziani che non puoi nemmeno visitare. Non si fa leva sulla paura per coprire gli errori, le incertezze, per imporre regole sempre più restrittive, con roboanti dichiarazioni non sempre attendibili. Non ci fidiamo del numero dei contagi, non ci fidiamo del numero dei posti in rianimazione, non ci fidiamo abbastanza delle rassicurazioni alternate ad allarmi sempre più cupi. Vale la pena perdere libertà se si intravede una fine. Se si individua una strada soppesata nel bilanciamento tra diritti e doveri. Stiamo attenti, a sopportare passivamente qualsiasi privazione per amor patrio, attenti alla retorica del “siamo i primi e i migliori”. Non è così. Ai divieti ci si abitua. Ci si abitua a uno Stato che chiude le chiese. A uno Stato che ti chiede il numero di telefono se vai a fare due passi. Ci si abitua in fretta a consolidare un potere quando si è fragili.
    (Monica Mondo, “Com’è facile rinunciare alla nostra libertà in cambio di niente”, dal “Sussidiario” del 19 marzo 2020).

    Non so voi, ma io sono stanca di sentirmi in colpa. In colpa se esco a fare il giro dell’isolato (si può fare fitness in casa per un po’ di tempo!). In colpa se cerco di infilare il piede in una chiesa (si può pregare da casa!). In colpa se vado a fare spesa nel supermercato non proprio accanto a casa, perché mi piace di più e costa di meno (solo nelle strette vicinanze dell’abitazione!). Chi elabora questi decreti a raffica (presente le bolle della Preside di Hogwarts, la malefica Dolores Umbridge?) pensa che tutti abbiano a disposizione in casa una palestra, evidentemente. O un parco privato in cui fare jogging. Odio l’invidia sociale, ma un po’ mi girano quando vedo Ronaldo o Fedez, che poi sono generosissimi, per carità, dire “dovete stare a casa” dal loro giardino o dal loro salone da andarci in bici. Il cane a fare pipì solo nei paraggi! Capisco che interessi poco, ma tocca portar fuori i bambini, se hai tre stanzette e un balconcino occupato dallo stendino, e i tuoi dintorni sono strade sporche e con bidoni carichi di immondizia. Se nella via c’è solo un ferramenta e un bangladino. Se a casa forse hai solo un pc e se lo contendono in tre, urlando mentre cerchi di lavorare anche tu in smart working.

  • Geopolitica del coronavirus: è bioterrorismo, made in Usa

    Scritto il 08/3/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Mentre in Italia il coronavirus produce i suoi pesanti e scontati effetti economici/finanziari, nell’ottica di una più ampia destabilizzazione dell’Europa, altri paesi risultano essere particolarmente investiti dalla virus: in primis Corea del Sud e Iran. Il diffondersi della malattia segue dunque criteri squisitamente geopolitici e si inserisce nella più ampia strategia delle potenze marittime anglosassoni contro la massa continentale afro-euro-asiatica. Sono trascorsi poco più di sette giorni dalla nostra ultima analisi sul diffondersi del coronavirus in Italia e gli avvenimenti intercorsi ne mostrano la validità: a fronte di un numero relativamente basso di vittime (circa 80 su 2.500 casi) ed una mortalità di poco superiore alla normale influenza, questa acuta forma di polmonite ha prodotto, produce e produrrà enormi danni economici e finanziari, vero obiettivo dell’attacco asimmetrico di cui è vittima l’Italia. Le regioni più produttive d’Italia sono soggette a misure che restringono la circolazione delle persone e delle merci; il clima di incertezza ha congelato gli investimenti e le assunzioni; i voli aerei da/per l’Italia sono stati oggetto di limitazioni; il turismo, una voce che vale il 5% del Pil, ha incassato forse il colpo più dura, grazie anche al clima d’emergenza creato ad hoc attorno all’Italia dai media esteri.
    Ci sono volute poche ore perché la crisi si trasmettesse ai titoli di Stato italiani, ed è molto probabile che il circolo vizioso (panico, crisi economica, crisi del debito) debba produrre ancora i suoi effetti peggiori. L’Italia è infatti il “ventre molle” dell’Eurozona, e l’attacco bioterroristico angloamericano mira soprattutto a destabilizzare l’Eurozona e l’Unione Europea nel suo complesso: l’operazione è facilitata anche dalle dinamiche messe in moto dal virus: la tentazione di ripristinare le frontiere in Europa e procedere in ordine sparso è fin troppo evidente. Va da sé che un collasso violento dell’Unione Europa, con la conseguente crisi politica ed economica, rallenterebbe non poco il tentativo cinese di “agganciare” il Vecchio Continente alla Via della Seta. Già, perché il coronavirus sembra proprio studiato per destabilizzare non soltanto l’Europa, ma la massa afro-euro-asiatica nel suo complesso, massa che Russia e Cina stanno tentando di organizzare con una rete di infrastrutture sempre più fitta ed intricata.
    Il primo e più potente colpo è stato sferrato dagli angloamericani ovviamente in Cina (80.000 casi) che, per fare fronte al propagarsi dell’epidemia, ha dovuto adottare contromisure senza precedenti: come nel caso italiano, i danni umani sembrano contenuti, ma quelli all’attività economica sono ingenti e si attende per questi mesi un brusco calo dell’attività produttiva: il sistema-paese non dà comunque segni di cedimento, grazie alla solidità della macchina statale centralizzata e alla consapevolezza, molto diffusa tra tutti gli strati della popolazione, di dover fronteggiare un vero e proprio assalto statunitense. Ovviamente le ripercussioni economiche sono pesanti anche per gli Stati Uniti, ma è errato in questa nuova fase storica attribuire troppa importanza al “business”: la geopolitica, intesa come duello tra colossi continentali e potenze marittime, domina ormai l’agenda di Washington e Londra, e una destrutturazione violenta della globalizzazione (velocizzata da un collasso delle piazze finanziarie che si fa giorno dopo giorno più concreto) coincide perfettamente con i piani delle potenze anglosassoni, accortesi di aver perso il primato  economico in troppi campi (dal 5G ai treni superveloci).
    Tra Italia e Cina, i principali focolai di coronavirus agli estremi opposti dell’Eurasia, due paesi risultano essere stati particolarmente colpiti, attraverso i soliti canali “misteriosi” dietro cui si celano attacchi biologici mirati: Iran e Corea del Sud. Sull’Iran (90 morti e 2.900 casi), specie dopo il recente omicidio del generale Souleimani, si è troppo scritto per doverne parlare ancora: ci basti qui dire che Teheran è un ottimo fornitore di greggio alla Cina, è parte integrante del corridoio centrale della Via della Seta che dovrebbe unire le regioni occidentali cinesi all’Europa via Istanbul, consente alla Russia di affacciarsi, se necessario, all’Oceano Indiano. Più interessante, perché ne abbiamo sinora parlato meno, è il dilagare del coronavirus nella Corea del Sud, dove sinora si contano circa 5.000 casi ed una trentina di vittime ed il governo di Seul si è visto costretto a dichiarare “guerra” al virus. Colpire l’Italia per destabilizzare l’Europa e punirla per aver aderito alla Via della Seta, colpire l’Iran perché un tradizionale nemico, ma perché colpire anche la Corea del Sud?
    Chi avesse seguito la politica dell’Estremo Oriente in questi ultimi anni, dominata dalle tensioni attorno al nucleare nordcoreano, avrà certamente notato il progressivo “ritorno” (perché così è stato per millenni) anche della Sud Corea nell’orbita cinese. Il dislocamento nella penisola coreana del sistema antimissilistico Thaad, uno strumento neppure troppo velato di “contenimento” della Cina, aveva inasprito nel 2017 i rapporti tra Pechino e Seul; da allora, fungendo da mediatore tra le due Coree, Pechino si è riavvicinata al piccolo, ma altamente industrializzato, paese asiatico, sino alla decisione del dicembre 2019 di “normalizzare” i rapporti, chiudendo i recenti dissapori dovuti al dispiegamento del Thaad. Seul, come molti altri paesi del sud-est asiatico, sta dunque anch’essa convergendo verso l’Impero Celeste e non ha alcuna intenzione di fungere da “testa di ponte” degli angloamericani sul continente asiatico: come molti altri paesi del sud-est asiatico (si veda il caso della Malesia), anche la Corea del Sud ha quindi avuto la sua “punizione”. Il coronavirus, appunto.
    Chiudiamo la nostra analisi sulla geopolitica del coronavirus con un accenno all’Africa. Nelle ultime settimane, prima che il virus si diffondesse in Italia, si è molto parlato del rischio di un’epidemia in Africa, dove peraltro mancherebbero le strutture per contenerla. Pare che il clima caldo disincentivi il propagarsi della malattia e ciò metterebbe dunque almeno parzialmente al sicuro le regioni africane tropicali: non c’è alcun dubbio, infatti, che se gli angloamericani dovessero sferrare un attacco biologico anche nel Continente Nero, sceglierebbero certamente il Corno d’Africa e la regione compresa tra Gibuti e l’Etiopia: i paesi, cioè, toccati dal corridoio marittimo della Via della Seta.
    (Federico Dezzani, “Geopolitica del coronavirus”, dal blog di Dezzani del 4 marzo 2020).

    Mentre in Italia il coronavirus produce i suoi pesanti e scontati effetti economici/finanziari, nell’ottica di una più ampia destabilizzazione dell’Europa, altri paesi risultano essere particolarmente investiti dalla virus: in primis Corea del Sud e Iran. Il diffondersi della malattia segue dunque criteri squisitamente geopolitici e si inserisce nella più ampia strategia delle potenze marittime anglosassoni contro la massa continentale afro-euro-asiatica. Sono trascorsi poco più di sette giorni dalla nostra ultima analisi sul diffondersi del coronavirus in Italia e gli avvenimenti intercorsi ne mostrano la validità: a fronte di un numero relativamente basso di vittime (circa 80 su 2.500 casi) ed una mortalità di poco superiore alla normale influenza, questa acuta forma di polmonite ha prodotto, produce e produrrà enormi danni economici e finanziari, vero obiettivo dell’attacco asimmetrico di cui è vittima l’Italia. Le regioni più produttive d’Italia sono soggette a misure che restringono la circolazione delle persone e delle merci; il clima di incertezza ha congelato gli investimenti e le assunzioni; i voli aerei da/per l’Italia sono stati oggetto di limitazioni; il turismo, una voce che vale il 5% del Pil, ha incassato forse il colpo più dura, grazie anche al clima d’emergenza creato ad hoc attorno all’Italia dai media esteri.

  • Big Pharma ringrazia il coronavirus, “previsto” da Bill Gates

    Scritto il 26/2/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Chi guadagna dalla diffusione della paura da contagio? I colossi farmaceutici privati quotati in Borsa. Per appurarlo basta osservare gli andamenti borsistici. Chi aveva puntato i propri investimenti, per fare un esempio, su trasporti aerei o aziende che fondano la propria attività sul turismo (migliaia i voli cancellati), è indotto a venderle e comprare azioni di istituti che mostrano di impegnarsi nel settore della ricerca di vaccini contro il virus. Le azioni di Vir Biotechnologies, ad esempio, fondata nel 2016, che sviluppa trattamenti per le malattie infettive, dall’inizo del 2020 ha visto il valore delle proprie azioni crescere del 97%, con conseguente impennata della capitalizzazione dell’azienda che è arrivata a ben 3 miliardi di dollari. L’offerta di azioni Vir è guidata da Goldman Sachs, Jp Morgan Chase, Cowen e Barclays. Le azioni sono negoziate su Nasdaq Global Select Market venerdì con il simbolo Vir. Come Vir, Inovio Pharmaceuticals, Moderna e Novavax. Quest’ultima ha registrato un rialzo del 113%. La Coalizione for Epidemic Preparedness Innovations, ente non profit pubblico-privato con sede in Norvegia, ha donato 11 milioni di dollari in finanziamenti alle prime due per incentivarle a sviluppare vaccini contro il coronavirus. Il Pirbright Institute per la prevenzione e il controllo delle malattie virali ha ricevuto cospicui finanziamenti dalla Bill & Melinda Gates Foundation.

  • Banche pubbliche: rivoluzione, nella culla del neoliberismo

    Scritto il 19/2/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Il 2019 ha segnato un punto di svolta in un crescente movimento di banche pubbliche che ha preso slancio negli Stati Uniti. Tra le conquiste del movimento troviamo il passaggio del Public Banking Act (Ab-857) in California, l’istituzione di una banca pubblica statale nel New Jersey e l’apertura della Banca territoriale delle Samoa americane. Dopo che i legislatori della California hanno emanato il Public Banking Act dello Stato, San Francisco e Los Angeles hanno annunciato piani per l’istituzione di banche pubbliche. E ora ci sono più di 25 leggi per l’apertura di banche pubbliche in esame in altri stati. Perché il settore bancario pubblico? Perché ora? Dalla crisi bancaria del 2008, l’opinione pubblica ha espresso preoccupazioni per le banche commerciali e la natura del sistema bancario. Ogni anno miliardi di dollari di fondi pubblici vengono depositati in banche private (Wall Street). Non è il governo che conserva i nostri soldi, sono le banche private. In genere, questi fondi pubblici non sono investiti in comunità o Stati locali. Questi fondi finiscono in investimenti ad alto rendimento come l’industria dei combustibili fossili, condutture, prigioni private.
    Un movimento di disinvestimento in crescita si concentra ora sulla cessione di programmi governativi, come i fondi pensione dei dipendenti pubblici ad esempio, togliendoli alle grandi banche. La domanda quindi è dove metterli. Gli attivisti della giustizia economica affermano che la risposta è il settore bancario pubblico. Le banche pubbliche sono servizi pubblici, di proprietà delle persone con la missione di servire il bene pubblico e i valori della comunità. Secondo i sostenitori, le banche pubbliche possono offrire prestiti a basso tasso d’interesse per studenti e agenzie pubbliche e capitali per piccole imprese e organizzazioni no profit. In tal caso, il sistema bancario pubblico consentirebbe alle città, alle contee o agli Stati di ottenere di più per i loro fondi limitati e di gestire efficacemente il proprio denaro per fornire più servizi ai propri cittadini. Vale a dire alloggi a prezzi accessibili, servizi per i senzatetto, istruzione, energie rinnovabili, strutture sanitarie comunitarie, trasporto pubblico.
    Il 2019 è stato anche il centesimo anniversario della prima banca statale di proprietà pubblica americana, la Bank of North Dakota (Bnd), un’eredità vivente che fa prestiti al di sotto del mercato per le comunità locali e le imprese, generando allo stesso tempo un profitto per lo Stato. La Bank of North Dakota è stata fondata in risposta a una rivolta degli agricoltori contro le banche private che stavano ingiustamente pignorando le loro fattorie. Da allora la Bnd si è evoluta in una banca da 7,4 miliardi di dollari, che risulta essere ancora più redditizia rispetto a Jp Morgan Chase e Goldman Sachs, sebbene il suo mandato non sia effettivamente quello di generare profitti ma di servire le comunità locali. Insieme a centinaia di banche pubbliche in tutto il mondo, Bnd ha dimostrato cosa si può fare tagliando azionisti e intermediari privati ​​e mobilitando le entrate pubbliche per servire il pubblico. Con la leadership di Bnd, il Nord Dakota è stato l’unico stato negli Stati Uniti a sfuggire alla crisi del credito del 2008, avendo anche il più basso tasso di disoccupazione e tasso di pignoramento nel paese. La Bank of Nord Dakota si pone come modello di successo.
    La rivoluzione del settore bancario pubblico potrebbe andare oltre, esplorando la rinascita del sistema bancario postale, un servizio realizzato in passato dagli uffici postali statunitensi. Le banche che inseguono gli utili tendono ad abbandonare i quartieri rurali e a basso reddito, lasciando una persona su cinque senza servizi bancari o “underbanked”. Questo, spesso li costringe a fare affidamento su servizi finanziari predatori come banchi dei pegni, servizi di cambio assegno e prestatori di giorno di paga. Di conseguenza, le famiglie senza accesso ai servizi bancari spendono quasi il 10% delle loro entrate solo per accedere al proprio denaro. L’ufficio postale locale potrebbe facilmente cambiare la situazione. Mentre le città e gli Stati iniziano a svilupparsi e ad investire nei propri sistemi bancari pubblici, siamo in un momento storico che potrebbe portare a un futuro più prospero per l’americano medio. La copertura mediatica di questo argomento è stata limitata all’annuncio di notizie isolate, invece di raccontare questa rivoluzione in atto nel settore bancario locale e le forze che la guidano.
    (Mattew Ascano, “La rivoluzione delle banche pubbliche, nella culla del neoliberismo”, da “Projectcensored.org”; articolo presentato da Riccardo Donat-Cattin su “Come Don Chisciotte”. Ascano è un ricercatore della San Francisco University).

    Il 2019 ha segnato un punto di svolta in un crescente movimento di banche pubbliche che ha preso slancio negli Stati Uniti. Tra le conquiste del movimento troviamo il passaggio del Public Banking Act (Ab-857) in California, l’istituzione di una banca pubblica statale nel New Jersey e l’apertura della Banca territoriale delle Samoa americane. Dopo che i legislatori della California hanno emanato il Public Banking Act dello Stato, San Francisco e Los Angeles hanno annunciato piani per l’istituzione di banche pubbliche. E ora ci sono più di 25 leggi per l’apertura di banche pubbliche in esame in altri stati. Perché il settore bancario pubblico? Perché ora? Dalla crisi bancaria del 2008, l’opinione pubblica ha espresso preoccupazioni per le banche commerciali e la natura del sistema bancario. Ogni anno miliardi di dollari di fondi pubblici vengono depositati in banche private (Wall Street). Non è il governo che conserva i nostri soldi, sono le banche private. In genere, questi fondi pubblici non sono investiti in comunità o Stati locali. Questi fondi finiscono in investimenti ad alto rendimento come l’industria dei combustibili fossili, condutture, prigioni private.

  • Carpeoro: se fossi Mattarella. Più Stato, Italia da ribaltare

    Scritto il 03/1/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Se alla presidenza della Repubblica, oltre che una persona per bene, ci fosse anche uno statista, si preoccuperebbe di fare un’inversione di rotta, una specie di rivoluzione copernicana, per la quale l’Italia dovrebbe cominciare a pensare al proprio futuro in termini diversi. L’Italia dovrebbe darsi il coraggio di affermare delle priorità diverse dalle attuali, e in base alle quali richiedere con fermezza ciò che le è necessario. L’Italia non riceverà le risorse che dovrebbe ricevere dai meccanismi finanziari del progetto generale europeo, e invece queste risorse le servono disperatamente. L’Italia ha il suo Welfare State gravemente pregiudicato dal fatto che l’Inps è in stato pre-fallimentare. L’Italia non ha fatto nessun investimento produttivo, negli ultimi anni: ha i cantieri fermi, le grandi opere, i trasporti, le infrastrutture ferme. Tutto è vecchio, desueto, e niente è in grado di produrre innovazione. Ci vorrebbe un cambiamento di paradigma molto forte, con dei segnali che inevitabilmente ci metterebbero in conflitto con le burocrazie europee: ma nella vita i conflitti bisogna affrontarli, sia pure in modo incruento. L’Italia deve capovolgere una serie di cose: deve capovolgere parzialmente la logica delle privatizzazioni riducendole al minimo, deve rifare subito il ministero delle partecipazioni statali, deve ripristinare l’Iri (e possibilmente non farla presiedere mai più a Prodi).

  • Cile, miracolo economico privatizzato (e violenza di Stato)

    Scritto il 23/12/19 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Lo stipendio medio di un cileno non arriva ai 350 euro mensili, mentre in poco tempo il biglietto della metro è quadruplicato, arrivando a costare 1 euro (come da noi). La crisi che sta attraversando il Cile in questi giorni non si può racchiudere tutta nei due numeri appena citati, però rendono bene l’idea del “miracolo” economico liberista in Sudamerica. Non so voi, ma a me ogni volta che discuto di economia latinoamericana, viene rifilata la solita manfrina del virtuoso Cile, nazione che al contrario degli altri paesi sudamericani avrebbe abbracciato la libera economia di mercato con continuità. “E’ il paese più stabile del Sudamerica”; “almeno in Cile non ci sono sacche di socialismo reale”; “in Cile sembra di stare in Europa”. Queste, più o meno, le considerazioni che sentiamo ripetere da anni. Di solito, vengono pronunciate come considerazioni di tipo politico, magari riferite al dittatore Pinochet, ai diritti umani, alla tortura e all’amicizia del caudillo cileno con l’utraliberista inglese Margaret Thatcher. In altre parole, se tutti riconoscono in Pinochet un dittatore, molti sono pronti ad attenuarne le responsabilità giocandosi la carta del “miracolo” economico del Cile, della crescita del Pil a ritmo del 6 per cento annuo.
    Nelle immagini di questi giorni, con le autoblido dei carabineros che si accaniscono sulla folla spappolando i femori dei manifestanti, abbiamo finalmente modo di accorgerci di questo “miracolo” con i nostri occhi. Occhi che almeno in Europa continuiamo a preservare, mentre secondo le testimonianze di Santiago i manifestanti perdono l’uso della vista a causa dei lacrimogeni. Le donne che vanno in pensione, nella stragrande maggioranza, non arrivano ai 250 euro mensili, mentre gli uomini pochi centesimi di più. Ma non è tanto questo: in molti paesi del Sudamerica gli stipendi sono questi o anche più bassi, ma è la sproporzionalità col costo dei servizi e l’abuso del credito a fare la differenza, e ciò accade perchè i servizi essenziali in Cile – contrariamente ad altre parti del Sudamerica – sono privati, non pubblici. Ecco allora che la situazione (tremenda!) di Cuba, dove gli statali hanno uno stipendio mensile che non arriva ai 30 euro al mese, può apparire persino migliore di quella cilena. All’Avana un biglietto di sola andata costa 8 centesimi e l’abbonamento mensile dei trasporti 2 euro; quindi la situazione non è migliore del Cile, ma almeno a Cuba l’accesso a scuola e sanità sono gratuiti, mentre sotto il regime di Piñera, no.
    In Cile, in questi anni, la gente comune è andata avanti facendo debiti con le banche, anche solo per fare la spesa al supermercato: altro che crescita del Pil al 6 per cento! In Cile, comunque, la protesta sul costo dei servizi era iniziato tranquillamente, ma la polizia, in solito stile Sudamericano, si è comportata in modo terrificante, come se un banale flash-mob fosse sinonimo di colpo di Stato. Ma come già detto non è solo una questione di trasporti. La situazione antidemocratica del Cile si trascina ormai da decenni. In buona sostanza, dopo l’omicidio di Salvador Allende, cos’è successo in Cile da un punto di vista pratico (cioè senza scomodare grafici e tabelle)? Che Pinochet ha creato due paesi diversi: uno per i ricchi, ed uno per i poveri. In quello per i poveri, se ti ammali, puoi tanquillamente crepare prima di essere curato. Se, invece, appartieni alla classe ricca, allora puoi permetterti un servizio privato e salvarti. Non è difficile da capire. Non occorre scomodare la curva di Laffer, le supercazzole di Michele Boldrin, la scuola austriaca, Polanyi, Cottarelli, Esa Fornero e Carlo Marx. Il liberismo è questa roba qua. E solo un cretino o una persona in malafede non lo vuole capire. Spesso, tuttavia, cretinismo e disonestà intellettuale coincidono.
    (Massimo Bordin, “Il ‘miracolo’ economico del Cile”, dal blog “Micidial” del 22 dicembre 2019).

    Lo stipendio medio di un cileno non arriva ai 350 euro mensili, mentre in poco tempo il biglietto della metro è quadruplicato, arrivando a costare 1 euro (come da noi). La crisi che sta attraversando il Cile in questi giorni non si può racchiudere tutta nei due numeri appena citati, però rendono bene l’idea del “miracolo” economico liberista in Sudamerica. Non so voi, ma a me ogni volta che discuto di economia latinoamericana, viene rifilata la solita manfrina del virtuoso Cile, nazione che al contrario degli altri paesi sudamericani avrebbe abbracciato la libera economia di mercato con continuità. “E’ il paese più stabile del Sudamerica”; “almeno in Cile non ci sono sacche di socialismo reale”; “in Cile sembra di stare in Europa”. Queste, più o meno, le considerazioni che sentiamo ripetere da anni. Di solito, vengono pronunciate come considerazioni di tipo politico, magari riferite al dittatore Pinochet, ai diritti umani, alla tortura e all’amicizia del caudillo cileno con l’utraliberista inglese Margaret Thatcher. In altre parole, se tutti riconoscono in Pinochet un dittatore, molti sono pronti ad attenuarne le responsabilità giocandosi la carta del “miracolo” economico del Cile, della crescita del Pil a ritmo del 6 per cento annuo.

  • La Cina il mondo lo compra: in Europa, 10 Piani Marshall

    Scritto il 13/12/19 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Da quando ho approfondito il pensiero di Vladimir Putin cercando di “entrargli nella testa” attraverso l’analisi dei suoi discorsi e delle sue letture personali, non sono pochi quelli che mi scrivono per chiedermi consigli di lettura su libri di strategia. Io rispondo sempre che ne basterebbe solo uno, l’Arte della Guerra di Sun Tzu. Il guaio di questo trattato militare non è solo che è composto di aforismi, ma che la maggior parte delle persone fatica molto ad “adattarlo” alle situazioni contemporanee, alla propria vita quotidiana, all’economia. La richiesta di capirne di più però rimane forte, perchè il compendio del vecchio generale cinese è certificato dagli esperti di strategia che lo avvicinano alla matematica della teoria dei giochi e della ricerca operativa. La chiave più efficace per entrare nel metodo di Sun Tzu però la si trova nella conoscenza della storia, più che nella matematica, e mai andrebbe dimenticato che Sun Tzu era cinese. Proverò a chiarire questi due aspetti, con un unico esempio. Com’è noto, il Novecento è stato il secolo americano e l’attuale establishment aspira a mantenere l’impero a stelle e strisce anche nel nuovo millennio. A minare questi progetti ci sono la Russia, l’India, la Cina, qualcuno dice anche la Germania. Molti commentatori aggiungono però che la Cina, anche se ne ha tutte le potenzialità demografiche e produttive, non è interessata a fare il Capo.
    Ed è in gran parte vero, l’idea di una leadership mondiale non sembra interessare alla politica cinese. Semplicemente, la Cina sta conquistando il mondo attraverso parametri che non sono di facile comprensione a noi occidentali. La Cina si sta prendendo il mondo, e basta; non è che c’è un piano d’assalto, un muro contro muro o una sfida all’Ok Corral. E lo fa molto lentamente, quasi in modo impercettibile, occupando tutti gli spazi. In questo caso il go e la dama ci aiutano più dei tradizionali giochi con le carte o degli scacchi. Con le carte e con gli scacchi, il più delle volte si usurpa il posto di qualcun altro attraverso un percorso. Nel go – gioco nato proprio in Cina – non accade nulla di tutto questo. Vince chi mette l’avversario nelle condizioni di abbandonare il campo, perché non ha più spazio e tutto è stato occupato. Ecco allora che si spiega molto meglio l’acquisto da parte di compagnie cinesi di terreni in Africa, di luoghi attrezzati per la logistica nelle grandi città europee e di energia. I cinesi arrivano in questi mercati dopo essersi messi d’accordo con i rispettivi governi locali, che riempiono di soldi. Le garanzie sono a prova di bomba, visto che ogni compangia cinese che si muove ha la copertura dello Stato e del partito comunista cinese.
    Ecco cosa scriveva poche settimane fa il “Sole 24 Ore” sull’argomento: «La Belt & Road Initiative (Bri), ossia la strategia lanciata dalla Cina per la crescita commerciale, che crea una nuova Via della Seta tra Far East ed Europa fa impallidire l’European recovery program ideato negli anni 40 da George Marshall». Con una differenza impressionante, aggiungerei: mentre il Piano Marshall per l’Europa, attualizzato, varrebbe 100 miliardi di dollari, quello cinese supererà i mille miliardi di investimenti. Solo tra il 2015 e il 2017, la Cina ha investito in 8 porti (Haifa, Ashdod, Ambarli, Pireo, Rotterdam, Vado Ligure, Bilbao e Valencia), oltre 3,1 miliardi di euro. E, per quanto riguarda l’Italia, a essere interessati al progetto sono soprattutto gli scali di Genova-Savona e Trieste, indicati come punti d’arrivo privilegiati dei traffici dalla Cina al Mediterraneo, attraverso Suez. E stiamo parlando solo dei porti… Il settore d’investimento privilegiato resta l’energia, con gli interscambi con la Russia. In Africa la Cina non si limita, come scrivono in molti, a comprare terreni, ma realizza opere pubbliche in cambio di favori di tipo politico. In Kenya, ad esempio, i cinesi hanno appena realizzato una ferrovia ad alta velocità. Il punto non è però capire qual è la lista della spesa dei cinesi nel mondo – per quello ci pensa appunto il “Sole 24 Ore” – bensì capire come questa operazione viene effettuata.
    Avete presente quei film western americani dove i cattivi vogliono comprare il terreno di un’allegra famigliola di cowboys perchè il sottosuolo è pieno di petrolio? I cattivi arrivano, violentano le donne e uccidono il padre di famiglia per costringere i figli, impauriti e oramai in miseria, a svendere quel terreno per una pipa di tabacco. Bene. Questo fanno gli americani, anche al di fuori delle sceneggiature hollywoodiane. Minacciano la Corea del Nord (che vuol dire minacciare la Cina); creano false flag in Ucraina (che equivale ad attaccare la Russia); intervengono in Afganhistan, Iraq e Siria per sottomettere l’area musulmana. I cinesi no. I cinesi si mettono d’accordo con i governatori locali e applicano una politica economica win-win. Si prendono quel che di buono c’è da prendere, ma offrono sempre qualcosa in cambio: soldoni, infrastrutture, know how, eccetera. Lo scopo finale, tuttavia, è sempre quello di vincere la guerra economica, cioè la guerra con gli Stati Uniti. Ci riusciranno? La domanda è mal posta, perché ci sono già riusciti: e senza mostrare stelle da sceriffo, fucili winchester e un inutile ghigno da Mike Tyson. Steve Bannon queste cose le aveva capite alla perfezione, ma gli ordoliberisti no, coi risultati che già si vedono e che si vedranno sempre di più in futuro.
    (Massimo Bordin, “La Cina non conquisterà il mondo, se lo comprerà – sulla scia di Sun Tzu”, da “Micidial” dell’11 settembre 2017, articolo riproposto alla luce dello sviluppo del protagonismo cinese in Europa. Bordin è autore del saggio “Putin e la filosofia”, acquistabile sempre su “Micidial”).

    Da quando ho approfondito il pensiero di Vladimir Putin cercando di “entrargli nella testa” attraverso l’analisi dei suoi discorsi e delle sue letture personali, non sono pochi quelli che mi scrivono per chiedermi consigli di lettura su libri di strategia. Io rispondo sempre che ne basterebbe solo uno, l’Arte della Guerra di Sun Tzu. Il guaio di questo trattato militare non è solo che è composto di aforismi, ma che la maggior parte delle persone fatica molto ad “adattarlo” alle situazioni contemporanee, alla propria vita quotidiana, all’economia. La richiesta di capirne di più però rimane forte, perchè il compendio del vecchio generale cinese è certificato dagli esperti di strategia che lo avvicinano alla matematica della teoria dei giochi e della ricerca operativa. La chiave più efficace per entrare nel metodo di Sun Tzu però la si trova nella conoscenza della storia, più che nella matematica, e mai andrebbe dimenticato che Sun Tzu era cinese. Proverò a chiarire questi due aspetti, con un unico esempio. Com’è noto, il Novecento è stato il secolo americano e l’attuale establishment aspira a mantenere l’impero a stelle e strisce anche nel nuovo millennio. A minare questi progetti ci sono la Russia, l’India, la Cina, qualcuno dice anche la Germania. Molti commentatori aggiungono però che la Cina, anche se ne ha tutte le potenzialità demografiche e produttive, non è interessata a fare il Capo.

  • Ma il prossimo sindaco di Roma lo vogliamo giapponese

    Scritto il 07/12/19 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Per il prossimo sindaco di Roma avrei una proposta da fare che spiazza tutti, sto già partendo con le firme per costituire un comitato elettorale a sostegno. Avendo già sperimentato tutte le possibilità – sindaci di sinistra e di destra, democristiani e comunisti, tecnici e nordici, pop e snob, alieni e grillini – e avendo ottenuto sempre risultati deludenti, fallimentari e da ultimo catastrofici, nell’impossibilità di rieleggere Giulio Cesare e Ottaviano Augusto per raggiunti limiti d’età né potendo auspicare la riconversione del Vescovo di Roma in sindaco della Medesima (sarebbe un sollievo, se non per il Comune, almeno per la Chiesa), ho maturato una ferma convinzione: eleggiamo governatore di Roma con poteri speciali Yuriko Koike, attuale sindaca di Tokyo che scadrà quando si voterà a Roma. È una donna esperta, riesce a governare una città che non ha nemmeno numeri civici per raccapezzarcisi, sta preparando con successo le olimpiadi di Tokyo per il 2020, è conservatrice di destra, extra-strong, conosce molte lingue, compreso l’arabo, ed è così cazzuta che è stata ministro della difesa. E soprattutto è estranea al generone romano, alla partitocrazia nostrana, al carnevale permanente di candidati, gagà e figuri sfornati dalle ditte politiche e dai clan di palazzinari, curia e potentati locali.
    Le abbiamo provate tutte per governare una città impossibile come Roma, ora non ci resta che un kamikaze, insomma qualcuno pronto a tutto, che non si tira mai indietro. Uno che se viene sfiduciato non resta attaccato alla poltrona, non indice una conferenza stampa per rovesciare la frittata e non ventila senza mai darle le dimissioni; ma taglia la testa al toro e compie il seppuku, il suicidio rituale da noi chiamato harakiri, a volte confuso col karaoke, ma è una cosa molto più seria e irripetibile. Ci vuole una come lei, gaiarda e tosta, come direbbe l’unico estremo-orientale de noantri, il vignettista sublime Osho. Una che sia in grado di trasformare l’Atac, l’Ama e l’Acea in formazioni paramilitari per rendere efficienti i trasporti, la raccolta differenziata e l’energia elettrica, idrica e spirituale. Con lei alla guida di Roma doteremmo i vigili urbani non dello stupido sfollagente o del ridicolo spray, ma di katana, che è la scimitarra giapponese, e poi vediamo se parcheggiano in doppia fila, passano col rosso e sorpassano a destra, salvo poi coionare er vigile e menarlo pure.
    Indossi lo hachimaki, Signora Yuriko, la benda tradizionale sulla fronte e si metta al lavoro per salvare Roma dai suoi rappresentanti, residenti, turisti e pellegrini. Non venga da sola dal Giappone ma si porti dieci assessori shogun, più un esercito imperiale di trecento samurai come dio comanda. I Casamonica, gli Spada, la banda della Magliana fuggirebbero in Trentino o in Vaticano, pur di non doversela vedere coi giapponesi. Una città come Roma, invasa da b&b abusivi e da monnezza permanente, invasa da zoccole di ogni tipo, anche umane, più cinghiali, gabbiani e autoblù, cosparsa di buche, sanpietrini semoventi e alberi cadenti, coi bus che vanno a fuoco e i dipendenti che si danno malati, non può essere affidata a gente che proviene dallo stesso humus. Ci vuole gente estranea, seria, magari piccola ma cocciuta, poco creativa ma molto operativa, col casco e la mascherina sulla bocca, che raddrizzi la schiena ai pizzardoni, agli impiegati, agli abitanti e pure ai gatti che si sono così impigriti e invigliacchiti da stare pappa e ciccia coi topi.
    Ci vuole gente che non si nasconda dietro l’estate romana, il cinema e le maratone, che non si faccia bella con l’antifascismo e la tragedia degli ebrei, scoprendo ottant’anni dopo qualche nonno deportato o salvaebrei; ma gente che, pancia a terra, si metta a lavorare sodo, risolvendo i problemi e non vendendo fumo e aria fritta. E ci vuole gente che ammiri e tuteli i monumenti antichi come solo i giapponesi sanno fare; gli unici che non si sono mai portati via souvenir dalle rovine, né abbiano pisciato sulle vestigia antiche o lasciato lattine di birra, coca-cola e altre porcherie, ma si incolonnano devoti e da Roma portano via solo foto ricordo. Solo una giapponese che viene dall’Impero del Sol Levante può capire la Città Eterna e l’Inno a Roma, che canta il Sole che sorge sui colli fatali, come il Sol Invictus dell’Imperatore. I giapponesi hanno la fierezza degli antichi romani, non si lasciano corrompere dalla pajata e dalla trippa, non chiedono il pizzo agli esercenti, mangiano sano e non pesante, non fanno la pennica il pomeriggio né se fanno du spaghi dopocena. E se uno spaccia droga e delinque, lo fanno fuori sul posto e lo servono a sushi ai loro complici terrorizzati, perché si nutrano con l’esempio.
    Solo i giapponesi potranno salvare Roma; lo sa Calenda che per spacciarsi da giapponese gira in suzuki col kimono, grida banzai ai semafori (traduzione del suo partito Azione) e si fa chiamare Kalenda con la Kappa. Ma lo dico anche a Salvini e Meloni che stanno incartandosi sul sindaco prossimo venturo. Evitate lo scontro tra voi e non andate al massacro di governare Roma; trovate una soluzione extra partes, extraterritoriale, né romanista né laziale. Kyoto schiaccia Kyoto. I giapponesi non hanno difficoltà a costruire termovalorizzatori e metropolitane in un batter d’occhio a mandorla. E ai finti disabili che esibiscono pass farlocchi per parcheggiare, loro non sequestrano il permesso falso ma spezzano le gambe, in modo che possano aver davvero diritto al posto riservato. Forza Koike, per un comune derattizzato e deraggizzato.
    (Marcello Veneziani, “Il prossimo sindaco a Roma lo vogliamo giapponese”, da “La Verità” del 3 dicembre 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).

    Per il prossimo sindaco di Roma avrei una proposta da fare che spiazza tutti, sto già partendo con le firme per costituire un comitato elettorale a sostegno. Avendo già sperimentato tutte le possibilità – sindaci di sinistra e di destra, democristiani e comunisti, tecnici e nordici, pop e snob, alieni e grillini – e avendo ottenuto sempre risultati deludenti, fallimentari e da ultimo catastrofici, nell’impossibilità di rieleggere Giulio Cesare e Ottaviano Augusto per raggiunti limiti d’età né potendo auspicare la riconversione del Vescovo di Roma in sindaco della Medesima (sarebbe un sollievo, se non per il Comune, almeno per la Chiesa), ho maturato una ferma convinzione: eleggiamo governatore di Roma con poteri speciali Yuriko Koike, attuale sindaca di Tokyo che scadrà quando si voterà a Roma. È una donna esperta, riesce a governare una città che non ha nemmeno numeri civici per raccapezzarcisi, sta preparando con successo le olimpiadi di Tokyo per il 2020, è conservatrice di destra, extra-strong, conosce molte lingue, compreso l’arabo, ed è così cazzuta che è stata ministro della difesa. E soprattutto è estranea al generone romano, alla partitocrazia nostrana, al carnevale permanente di candidati, gagà e figuri sfornati dalle ditte politiche e dai clan di palazzinari, curia e potentati locali.

  • Rizzo: senza l’euro stavamo meglio, l’Ue opprime gli italiani

    Scritto il 06/12/19 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «Quello che è successo in Europa dipende dall’aver anticipato la parte monetaria rispetto a quell’unificazione politica mai arrivata», dice qualcuno. In realtà non si è trattato di un errore, ma di un qualcosa di voluto e premeditato dai grandi poteri. La ricchezza di metà del pianeta è concentrata nelle mani di pochissimi, e questo si ripercuote nella vita di tutti noi. Quello che non funziona, dalla sanità al sociale, dipende da questo. Siamo obbligati ad avere il pareggio di bilancio in Costituzione, i padri costituenti si rivolteranno nella tomba. Sono dinamiche volute dalla grande economia e appoggiate da una politica supina prima, e supina oggi. Il Movimento 5 stelle e la Lega hanno raccolto i voti sulla critica serrata all’Ue e poi si sono rimangiati tutto. Sono andati lì per battere i pugni e sono tornati con le ginocchia sbucciate, perché a Bruxelles si sono inginocchiati. La Bce e il Fmi, Mario Draghi e Christine Lagarde, contano più del presidente del Consiglio italiano: ma li ha per caso eletti qualcuno? Queste organizzazioni sovranazionali contano più dei governi: siamo nel mondo della globalizzazione capitalista, dove un’impresa è più forte dello Stato. La Apple si è rifiutata di decriptare lo smartphone di un terrorista. Una cosa impensabile, alcuni decenni fa. La dittatura finanziaria ed economica è la peggior cosa che esista.
    Non può essere un singolo paese, da solo, a ribellarsi alla dittatura dei mercati. L’Italia non ha mai avuto una sovranità effettiva, e non appena le personalità importanti sono uscite dalla falsariga di ciò che era determinato per il paese, sono state fatte fuori (Mattei, Craxi per Sigonella, Berlusconi per le vicende di Gheddafi e Putin). In Italia abbiamo centinaia di bombe atomiche e non sappiamo dove sono, anche andando al governo non potremmo farci niente. Bisogna riunire i popoli. Non bisogna contrapporre gli italiani ai tedeschi o agli spagnoli, ma unificare la maggioranza dei popoli. Potremmo lavorare meno e lavorare tutti. La ricchezza potrebbe essere redistribuita, visto che il progresso tecnologico ci permetterebbe di vivere meglio. La moneta è un accordo tecnico. L’euro è stato costruito a tavolino: gli italiani l’hanno provato sulla loro pelle. Quello che costava mille lire costa un euro, ma gli stipendi non sono raddoppiati. Da quando c’è l’euro le cose vanno peggio, nel nostro paese. C’è chi dice: sarebbero andate ancora peggio, senza la moneta unica, ma non c’è la prova di questo. Quando un lavoratore prendeva due milioni di euro stava bene, oggi con mille euro è al palo.
    Arriveremo al 2030 dove l’1% della popolazione avrà la ricchezza dei due terzi del mondo: stiamo andando verso una società neomedievale. A New York si stanno costruendo dei grattacieli antimissile. Larga parte del pianeta sarà disastrato dal punto di vista ambientale e della sicurezza, ma allo stesso tempo ci saranno delle isole felici blindate. Già oggi ci sono appartamenti venduti a 100 milioni di dollari per 100 metri quadrati, cifre mostruose. Nel resto del mondo moriremo tutti di fame. Lo Stato è forte: ogni anno ha 850 miliardi da spendere. La crisi del governo gialloverde con l’Ue era relativa a circa 15 miliardi, tra “quota 100″ e reddito di cittadinanza (una piccola parte). Possiamo decidere cosa spendere. Serve un piano nazionale di messa a punto del nostro territorio. Potremmo assumere giovani geometri, ingegneri, architetti per evitare di pagare i danni da alluvioni e calamità naturali. Questa società è basata solo sul profitto, ma sulla salute non si può guadagnare. La sanità privata serve a chi la fa, non all’utenza. L’istruzione e i trasporti dovrebbero essere pubblici: hanno fatto apposta, a distruggerli, per favorire la loro privatizzazione. L’Europa dei popoli purtroppo oggi non esiste, esiste solo l’Europa dell’euro e delle grandi banche. Non dobbiamo essere dipendenti da Bruxelles, per fare una riforma. Bisogna uscire dall’Ue in un processo collettivo, rivoluzionario, che coinvolga i popoli. Quello italiano non è mai stato troppo avvezzo alle rivoluzioni, ma potrebbe anche imparare molto presto.
    (Marco Rizzo, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella video-intervista “Una rivoluzione dei popoli per uscire dall’euro”, pubblicata sul canale video di “Money.it” il 23 gennaio 2019).

    «Quello che è successo in Europa dipende dall’aver anticipato la parte monetaria rispetto a quell’unificazione politica mai arrivata», dice qualcuno. In realtà non si è trattato di un errore, ma di un qualcosa di voluto e premeditato dai grandi poteri. La ricchezza di metà del pianeta è concentrata nelle mani di pochissimi, e questo si ripercuote nella vita di tutti noi. Quello che non funziona, dalla sanità al sociale, dipende da questo. Siamo obbligati ad avere il pareggio di bilancio in Costituzione, i padri costituenti si rivolteranno nella tomba. Sono dinamiche volute dalla grande economia e appoggiate da una politica supina prima, e supina oggi. Il Movimento 5 stelle e la Lega hanno raccolto i voti sulla critica serrata all’Ue e poi si sono rimangiati tutto. Sono andati lì per battere i pugni e sono tornati con le ginocchia sbucciate, perché a Bruxelles si sono inginocchiati. La Bce e il Fmi, Mario Draghi e Christine Lagarde, contano più del presidente del Consiglio italiano: ma li ha per caso eletti qualcuno? Queste organizzazioni sovranazionali contano più dei governi: siamo nel mondo della globalizzazione capitalista, dove un’impresa è più forte dello Stato. La Apple si è rifiutata di decriptare lo smartphone di un terrorista. Una cosa impensabile, alcuni decenni fa. La dittatura finanziaria ed economica è la peggior cosa che esista.

  • Care Sardine, perché non vi rivolgete ai padroni dell’Italia?

    Scritto il 26/11/19 • nella Categoria: idee • (1)

    Care Sardine, volete decidervi a dire qualcosa di importante? Ovvero: «Perché non vi rivolgete ai veri padroni delle cose italiane, a quelli che decidono cosa si fa in Italia, invece di polemizzare con questo o quello, come se il problema nostro fosse l’immigrazione o le eventuali tendenze neofasciste?». Per la cronaca: oggi le frange “nere” sono relegate in «minuscoli raggruppamenti dello 0,0%, che non esprimono nemmeno un parlamentare». Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «pensare di liquidare la Lega parlando di xenofobia e neofascismo è un’idiozia: la Lega non è né fascista né xenofoba, e il tema dell’immigrazione Salvini l’ha posto in termini democratici». Al movimento delle Sardine, piuttosto, una domanda netta: «Perché non scendete in piazza per chiedere una Costituzione politica europea, l’emissione degli eurobond per far sparire il ricatto dello spread e 200 miliardi di investimenti per l’Italia?». Servirebbero giusto per «rilanciare l’occupazione, fare manutenzione del territorio e riammodernare i trasporti». Insiste Magaldi: «Consiglierei alle Sardine di puntare il dito verso che coloro che davvero, dall’Europa e dalle grandi centrali della globalizzazione, hanno deciso politiche neoliberiste, mortificatrici dell’interesse collettivo italiano».
    Parlando a ruota libera in diretta web-streaming su YouTube, Magaldi vede con favore la mobilitazione giovanile delle piazze: sarebbe un peccato, dice, se tanta energia venisse sprecata solo in termini di interdizione contro la Lega, in vista delle regionali emiliane. Per inciso: «Non credo che la Lega possa vincere, in Emilia, una Regione peraltro governata piuttosto bene dagli amministratori locali del centrosinistra». Clamoroso, se Lucia Borgonzoni riuscisse a battere Stefano Bonaccini: «Sarebbe come se il Pd conquistasse il Veneto, o la Lombardia». Consultazioni irrilevanti, dunque? Tutt’altro: la posta in gioco, secondo Magaldi, non è la presidenza della Regione, ma il trend elettorale che emergerà. «E’ sull’aumento della Lega in Emilia Romagna che si misura il tipo di mutamento che sta avvenendo nella politica italiana», di cui non si potrà non tener conto. Alle ultime regionali, nel 2014, in Emilia la Lega ottenne il 19%. Stesso risultato alle politiche del 2018. Poi, un anno di governo ha “miracolato” Salvini agli occhi degli elettori emiliano-romagnoli: alle europee di maggio, la Lega è volata al 33,7%. Per questo, oggi – anche se Magaldi resta scettico – i sondaggi la accreditano addirittura come possibile vincitrice della gara.
    Partita chiusa, invece, per il Movimento 5 Stelle, su cui Grillo ha fatto calare il sipario commissariando Di Maio e zittendo chiunque non gradisca il menù imposto dall’Elevato. «Requiem per Grillo, a meno che una mattina non si svegli e dica ai suoi: abbiamo sbagliato tutto». Quello che doveva fare, secondo Magaldi, era una cosa sola: «Cambiare l’Europa in senso democratico, invocare politiche keynesiane e chiedere di stralciare gli investimenti dal computo del deficit». Ma non creda, Grillo, di cavarsela così, cioè emarginando l’inconsistente Di Maio: «Riorganizzare la dirigenza? Ai cittadini non importa se accanto a Di Maio ci sarà una cabina di regia. Per fare cosa, poi? Si continua a non dirlo». Per il presidente del Movimento Roosevelt, a certificare ulteriormente il fallimento dei penstastellati è la grottesca “santificazione” che Grillo fa dell’attuale premier: «Conte non ha un’idea di paese, e intanto l’Italia è in pieno declino: disoccupazione e consumi in calo, aziende che chiudono, infrastrutture e scuole fatiscenti, professionisti che faticano a farsi pagare». Se in Emilia la Lega crescerà ancora, è evidente che per Conte saranno guai.

    Care Sardine, volete decidervi a dire qualcosa di importante? Ovvero: «Perché non vi rivolgete ai veri padroni delle cose italiane, a quelli che decidono cosa si fa in Italia, invece di polemizzare con questo o quello, come se il problema nostro fosse l’immigrazione o le eventuali tendenze neofasciste?». Per la cronaca: oggi le frange “nere” sono relegate in «minuscoli raggruppamenti dello 0,0%, che non esprimono nemmeno un parlamentare». Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «pensare di liquidare la Lega parlando di xenofobia e neofascismo è un’idiozia: la Lega non è né fascista né xenofoba, e il tema dell’immigrazione Salvini l’ha posto in termini democratici». Al movimento delle Sardine, piuttosto, una domanda netta: «Perché non scendete in piazza per chiedere una Costituzione politica europea, l’emissione degli eurobond per far sparire il ricatto dello spread e 200 miliardi di investimenti per l’Italia?». Servirebbero giusto per «rilanciare l’occupazione, fare manutenzione del territorio e riammodernare i trasporti». Insiste Magaldi: «Consiglierei alle Sardine di puntare il dito verso coloro che davvero, dall’Europa e dalle grandi centrali della globalizzazione, hanno deciso politiche neoliberiste, mortificatrici dell’interesse collettivo italiano».

  • La nostra storia non regge: sta per venircelo a spiegare E.T.

    Scritto il 24/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Non sono certo le mille fregnacce del governo e dell’opposizione a rendermi perplesso, e nemmeno le mille disgrazie economiche: previste, annunciate, poi scorporate, quindi riammesse…nel gran calderone della politica e dell’economia: si sta muovendo qualcosa di serio da tutt’altre parti. La prima notizia è giunta dalla Nasa, poche settimane or sono: d’ora in avanti, non vogliamo più sentir parlare di Oggetti Non Identificati in cielo…beh…consideriamoli come “elementi non censiti nelle aeronautiche terrestri” o qualcosa del genere; insomma, ci sono cose che volano in cielo che non sappiamo cosa siano. E non sono, sia chiaro, palloncini sfuggiti ai bambini al luna park né palloni aerostatici dispersi dai meteorologi: non possiamo dirvi chiaro e tondo che sono extraterrestri – perché, ad onor del vero, non lo sappiamo nemmeno noi (?) – però ‘sta roba può essere pericolosa per il traffico aereo, quindi – cari piloti – state accuorti. La comunicazione della Nasa giunge a proposito, perché – grazie alle mille diavolerie informatiche oggi possibili – nessuno prendeva più troppo sul serio i filmati degli Ufo, giacché il sospetto veniva: questi, tanto per guadagnare contatti su YouTube, macchineranno chissà che cosa. Invece è proprio la Nasa a dirlo: non sono roba nostra e ci sono veramente. Aggiunge anche, a pochi giorni di distanza, che su Marte c’è acqua ed una quantità “interessante” di ossigeno: partiamo?

  • Fiat, vaccini, 5G e Tav: la politica italiana non se ne occupa

    Scritto il 23/11/19 • nella Categoria: idee • (2)

    Il non-governo giallorosso non ha speranze di galleggiare ancora a lungo nell’acqua alta dove nuota lo squaletto Renzi, ma sulla spiaggia opposta non è che splenda il sole: attorno all’ombrellone di Salvini si attarda nonno Silvio, scortato dalla Meloni, senza che il pubblico percepisca la possibilità di un’epocale alternativa al lento e inesorabile sfacelo di cui l’Italia è vittima, in ossequio alla nuova legge di un mondo senza più politica. Tralasciando il pietoso equivoco 5 Stelle, che puzzava d’imbroglio fin dall’inizio (spettacolare manipolazione degli elettori, col pieno concorso dei militanti di base disposti ad avallare qualsiasi diktat), l’impotenza generale di fronte alla desolazione di Venezia o la resa di Taranto ai furbetti globali dell’acciaio non fanno che dimostrare una volta di più l’assenza di idee, dopo l’eutanasia delle ideologie, che siano capaci di generare qualcosa che assomigli a uno straccio di governance del sistema. E intanto continua a piovere sul bagnato: basta dare un’occhiata agli slogan archeologici – Dio, patria e famiglia – con cui il sedicente outsider Diego Fusaro, filosofo mediatico e grillo parlante corteggiato dalle televisioni, tenta di raccontare la sua rivoluzionaria prospettiva politica ottocentesca, o forse medievale, o forse adatta solo a menare il can per l’aia, ridicolizzando volutamente l’idea stessa che possa esistere, un giorno, un’opposizione sistemica.
    Nel vecchio film, quello finito con le nozze mostruose tra Di Maio e il fratello di Montalbano, o meglio tra l’esodato Renzi e l’ex guastatore Grillo insidiato politicamente dall’indagine sul figlio per presunto stupro, a tener banco era stato un totem come il progetto cimiteriale del Tav Torino-Lione, infrastruttura con cantieri mai davvero decollati (forse al 5%) e comunque destinata a trasformarsi in una spettacolare, costosissima cattedrale nel deserto. L’argomento, che – come tanti altri, poi abbandonati – era servito ai 5 Stelle solo per fare il pieno di voti, è stato usato per la rissa finale con Salvini, per poi essere archiviato nel silenzio generale. La notizia, sfuggita ai radar, è che l’Italia spenderà comunque miliardi per una linea ferroviaria virtualmente superveloce ma destinata a trasportare pochissime merci necessariamente lente. Una ferrovia-doppione, completamente inutile benché rischiosa e devastante per l’ambiente, che ci si ostina ad approntare lungo una direttrice commerciale desolatamente abbandonata, lontanissimo dalle rotte mercantili. Un favoloso binario morto, buono solo per il business dei costruttori (pochissimi posti di lavoro, temporanei), e imposto a una popolazione che ha inutilmente dimostrato, in ogni sede, la sciagurata natura di un ecomostro che indurrà migliaia di italiani a prendere in considerazione l’idea di scappare, lasciando le proprie case.
    La non-politica del Belpaese, europeista o sovranista non importa, ha evitato accuratamente di affrontare ogni altro tema vitale per le famiglie, dall’obbligo vaccinale imposto (stile Corea del Nord) senza emergenze sanitarie e senza spiegazioni, e il misteriosissimo avvento del wireless 5G, che avanza in semi-clandestinità abbattendo alberi secolari nelle piazze delle città. Logico che i media, a reti unificate, ignorino il convegno organizzato in Parlamento dai sindaci e dai comitati di cittadini giustamente allarmati per l’introduzione, senza precauzioni, di una tecnologia invasiva di cui non si conosce ancora l’impatto sull’organismo. Quanto ai vaccini polivalenti, che secondo la Regione Puglia hanno causato problemi di salute a 4 bambini su 10, sul tema cala semplicemente il sipario, anche se – per la prima volta nella storia – qualcosa come 130.000 bimbi, nel 2019, non hanno potuto accedere né ai nidi né alle scuole dell’infanzia. In compenso, i riflettori abbagliano l’epica sfida per le regionali in Emilia Romagna, dove la Lega potrebbe strappare al Pd la storica roccaforte, un tempo “rossa”. Accipicchia, questa sì che è una notizia: non come l’insignificante sorte della Fiat, che gli Agnelli-Elkann hanno ceduto ai francesi, nel silenzio generale dei media e dei politici italiani di ogni parrocchia.
    (Giorgio Cattaneo, Libreidee, 23 novembre 2019).

    Il non-governo giallorosso non ha speranze di galleggiare ancora a lungo nell’acqua alta dove nuota lo squaletto Renzi, ma sulla spiaggia opposta non è che splenda il sole: attorno all’ombrellone di Salvini si attarda nonno Silvio, scortato dalla Meloni, senza che il pubblico percepisca la possibilità di un’epocale alternativa al lento e inesorabile sfacelo di cui l’Italia è vittima, in ossequio alla nuova legge di un mondo senza più politica. Tralasciando il pietoso equivoco 5 Stelle, che puzzava d’imbroglio fin dall’inizio (spettacolare manipolazione degli elettori, col pieno concorso dei militanti di base disposti ad avallare qualsiasi diktat), l’impotenza generale di fronte alla desolazione di Venezia o la resa di Taranto ai furbetti globali dell’acciaio non fanno che dimostrare una volta di più l’assenza di idee, dopo l’eutanasia delle ideologie, che siano capaci di generare qualcosa che assomigli a uno straccio di governance del sistema. E intanto continua a piovere sul bagnato: basta dare un’occhiata agli slogan archeologici – Dio, patria e famiglia – con cui il sedicente outsider Diego Fusaro, filosofo mediatico e grillo parlante corteggiato dalle televisioni, tenta di raccontare la sua rivoluzionaria prospettiva politica ottocentesca, o forse medievale, o forse adatta solo a menare il can per l’aia, ridicolizzando volutamente l’idea stessa che possa esistere, un giorno, un’opposizione sistemica.

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