Archivio del Tag ‘Uk’
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Qe, truffa da record: soldi facili alle banche, solo per i ricchi
Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.Come notato da Laith Khalaf, senior analyst presso Hargreaves Lansdown, «dopo la crisi finanziaria, le banche centrali hanno inondato l’economia globale con denaro a buon mercato, ma la crescita globale è tuttora in una situazione di stallo, in particolare in Europa ed in Giappone, dove sono state prese imponenti misure di stimolo per fronteggiare il problema». Persino “Forbes” ammette che il Qe ha «in gran parte fallito nel rivitalizzare la crescita economica». Ciò non sorprende, o quanto meno non dovrebbe. Il Qe era destinato fin dall’inizio a mancare i suoi obiettivi dichiarati, perché il motivo per cui le banche non finanziavano investimenti produttivi non era la carenza di denaro – al contrario, già nel 2013, molto prima degli ultimi cicli di Qe, le imprese inglesi disponevano di quasi 500 miliardi di riserve liquide – ma piuttosto perché l’economia globale si trovava (e si trova tuttora) in una profonda crisi di sovrapproduzione. In poche parole, i mercati erano (e sono) saturi, e non ha senso investire in un mercato saturo.Per questo motivo, tutto il nuovo denaro creato dal Qe ed “iniettato” nelle istituzioni finanziarie – come fondi pensione e compagnie d’assicurazione – non è stato poi investito nelle attività produttive, ma si è invece riversato nei mercati azionari ed immobiliari, gonfiando i prezzi delle azioni e degli immobili, senza generare nulla in termini di ricchezza reale o occupazione. I titolari di beni come azioni e immobili hanno tratto molti vantaggi dal Qe, che in Uk si stima abbia accresciuto la ricchezza del 5 percento più ricco mediamente di 128.000 sterline a testa. Com’è stato possibile? Da dove è venuta tutta questa nuova ricchezza? Dopo tutto, anche se il denaro – a dispetto degli slogan dei Tory – può essere effettivamente creato “dal nulla”, precisamente come è stato fatto col Qe, non è così per la ricchezza reale. Ed il Qe non ha prodotto ricchezza reale. Eppure, il 5% più ricco oggi dispone di 128.000 sterline extra da spendere in yacht, ville principesche, diamanti, caviale e così via. Ma da dove viene questo denaro?Semplice. La ricchezza che il Qe ha trasferito ai titolari di asset proviene, in primo luogo, direttamente dai salari dei lavoratori. Poiché ha praticamente svalutato la moneta, il Qe ha ridotto la capacità d’acquisto del denaro, il che ha causato nei fatti una svalutazione dei salari reali, che in Uk sono tuttora del 6% al di sotto dei loro livelli pre-Qe. Il denaro sottratto ai salari forma dunque parte di quel dividendo di 128.000 sterline. Ma viene anche dagli ultimi arrivati nei mercati gonfiati dal Qe – principalmente gli acquirenti di una prima casa e chi è recentemente andato in pensione. Chi oggi acquista una casa (che il Qe ha reso molto più cara), ad esempio, dovrà lavorare migliaia di ore in più per pagare un mutuo a prezzi più alti. Sono queste ore in più a creare la ricchezza che sovvenziona le stravaganti spese del 5% più ricco. Ovviamente, questi prezzi immobiliari più alti sono pagati da chiunque acquisti una casa, non solo da chi lo fa per la prima volta – ma per chi è già proprietario il costo aggiuntivo è compensato dall’aumento di prezzo della casa già di proprietà (o delle azioni, per chi è abbastanza ricco da possederne).Un’altra conseguenza del Qe è che chi va in pensione adesso è costretto a sovvenzionare il 5% più ricco. I nuovi pensionati usano il loro fondo pensione per acquistare una ‘rendita’ – un pacchetto di titoli azionari fruttiferi che produce reddito. Ma poiché il Qe ha causato un’inflazione del prezzo dei titoli, ciò ha ridotto il numero di titoli acquistabili con questo fondo. E dato che all’aumento di prezzo dei titoli non corrisponde un aumento dei dividendi, ciò si traduce in una pensione ridotta. In realtà, la teoria che il Qe servisse ad incoraggiare gli investimenti e stimolare l’occupazione e la crescita è sempre stata un artificio fantasioso creato per dissimulare quello che stava realmente accadendo – un colossale trasferimento di ricchezza verso i più ricchi. L’economista Dhaval Joshi faceva notare nel 2011: «La cosa più sconvolgente è che, dopo due anni di apparente ripresa, i lavoratori [inglesi] in realtà guadagnano meno che nel momento più drammatico della recessione. Salari e stipendi reali sono calati di 4 miliardi di sterline. I profitti sono aumentati di 11 miliardi. I benefici della ripresa sono stati distribuiti nel modo più iniquo possibile».Nel marzo di quest’anno il “Financial Times” riportava che, nonostante il Pil della Gran Bretagna sia ritornato ai livelli pre-crisi già dal 2014, i salari reali sono ancora più bassi del 10% rispetto al 2008. «La contrazione dei salari reali in Uk si è arrestata nel 2015», aggiungeva, «ma ciò non è destinato a durare». Così è stato. Nello stesso mese di pubblicazione di quell’articolo, i salari reali hanno iniziato nuovamente a scendere, e sono da allora in costante diminuzione. Lo stesso è successo in Giappone, dove, secondo “Forbes”, «il reddito delle famiglie si è effettivamente ridotto dopo l’introduzione del Qe». Il Qe ha sortito un effetto simile nei paesi del sud del mondo: aumentare la ricchezza dei detentori di asset a spese di chi non ne ha. Così come l’afflusso di nuovo denaro crea bolle nei mercati immobiliari e finanziari, allo stesso modo crea una bolla nei prezzi delle materie prime, dovuta ad esempio alla corsa degli speculatori all’acquisto di quote di petrolio e di materie prime alimentari.Per alcuni paesi produttori di petrolio ciò ha comportato effetti positivi, con la messa a disposizione di denaro inatteso da investire in programmi sociali, come inizialmente è accaduto nel caso di Venezuela, Libia ed Iran. In tutti e tre i casi, le forze imperialiste sono state costrette a ricorrere a vari livelli di intervento militare per contrastare queste conseguenze indesiderate. Ma l’aumento del prezzo del petrolio è certamente deleterio per paesi che non ne producono – e qualsiasi aumento dei prezzi alimentari è sempre devastante. Nel 2011 il “Daily Telegraph” sottolineava «la correlazione tra i prezzi alimentari e gli acquisti da parte della Fed di titoli di Stato americani (ossia, programmi di quantitative easing)…Si può notare come l’indice dei prezzi alimentari si è pressoché stabilizzato tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, ed è poi nuovamente salito a partire dalla metà del 2010 dopo il nuovo avvio del quantitative easing… con un aumento dei prezzi di circa il 40% durante un periodo di tempo di otto mesi».L’aumento dei prezzi ha spinto 44 milioni di persone in povertà nel solo 2010 – il “Telegraph” riteneva che ciò stesse alla base del malcontento manifestato nelle cosiddette Primavere Arabe. Robert Zoellick, ex presidente della Banca Mondiale, all’epoca commentava: «L’inflazione dei prezzi alimentari è oggi la più grave minaccia incombente sui poveri del mondo… basta un episodio di maltempo estremo per finire nel baratro». Sono questi i costi del quantitative easing. I paesi Brics erano anche critici nei confronti del Qe per un altro motivo: lo consideravano un metodo subdolo di svalutazione competitiva. Riducendo artificialmente il valore delle loro monete, la “triade imperiale” Usa, Ue e Giappone causavano a tutti gli effetti un apprezzamento delle valute di tutti gli altri paesi, danneggiando così le loro esportazioni.Nel 2015 “Forbes” scriveva: «Gli effetti si iniziano già a sentire anche nei paesi esportatori più dinamici al mondo, nell’est asiatico. Le loro esportazioni in dollari americani hanno subito una drammatica variazione, da una crescita annua del 10% ad una contrazione del 12% nella prima metà di quest’anno, e questi risultati non cambiano, che si tenga conto o no della Cina». Il vantaggio principale del Qe per i paesi in via di sviluppo avrebbe dovuto essere l’enorme afflusso di capitali da esso innescato. Si stima che circa il 40% del denaro generato dalla prima espansione di credito Qe della Fed (‘Qe1’) si è spostato all’estero – in particolare nei cosiddetti ‘mercati emergenti’ del sud del mondo – e circa un terzo durante il Qe. Tuttavia, contrariamente alle apparenze questo non è necessariamente un vantaggio. Gran parte del denaro, come si è visto, è stato utilizzato per acquistare scorte di materie prime (rendendo così beni essenziali come il cibo esorbitanti per i poveri) invece di essere investito in attività di produzione, ed un’altra buona parte è servita per acquistare scorte valutarie, causando ancora una volta un apprezzamento nocivo alle esportazioni.Per di più, un afflusso di ‘hot money’ (capitali speculativi erranti, in contrapposizione al capitale per gli investimenti di lungo termine) accentua la volatilità e vulnerabilità delle valute in caso, ad esempio, di aumenti dei tassi esteri. Se, ad esempio, i tassi d’interesse dovessero nuovamente salire in Usa ed in Europa, ciò rischierebbe di scatenare una fuga di capitali dai mercati emergenti, che potrebbe innescare un tracollo valutario. Fu infatti proprio un afflusso di ‘hot money’ nei mercati valutari asiatici, molto simile a quello visto durante il Qe, a precedere la crisi valutaria asiatica del 1997. La prossima fine del Qe, con il conseguente innalzamento dei tassi d’interesse, rischia di riproporre proprio questa vulnerabilità come una possibilità – se non addirittura come un’opportunità speculativa.(Dan Glazebrook, “Quantitative Easing, il più grande trasferimento di ricchezza della storia”, da un editoriale su “Rt” del 22 luglio 2017, tradotto e ripreso da Margherita Russo per “Voci dall’Estero”. Glazebrook è un giornalista politico freelance che collabora, fra gli altri, con “Russia Today Rt”, “Counterpunch”, “Z Magazine”, il “Morning Star”, il “Guardian”, il “New Statesman”, l’“Independent” e “Middle East Eye”. I suoi saggi esaminano i legami tra la crisi economica, l’ascesa dei Brics, le guerra in Libia e in Siria e l’“austerità” europea. Attualmente conduce ricerche per un libro sull’impiego degli “squadroni della morte” contro Stati sovrani e movimenti politici, dall’Irlanda del Nord e dall’America Centrale negli anni ‘70 e ‘80 fino al Medio Oriente e all’Africa di oggi).Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.
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Esercito europeo sotto il comando tedesco: sta nascendo
Ogni pochi anni, l’idea di un esercito dell’Ue torna a farsi strada tra le notizie, facendo molto rumore. Per alcuni è un’idea fantastica, per altri un incubo: per ogni federalista di Bruxelles convinto che una forza di difesa comune sia ciò che serve all’Europa per rilanciare la sua posizione nel mondo, ci sono quelli, a Londra e altrove, che inorridiscono all’idea di un potenziale rivale della Nato. Ma quest’anno, lontano dall’attenzione dei media, la Germania e due dei suoi alleati europei, la Repubblica Ceca e la Romania, hanno silenziosamente fatto un passo avanti radicale verso un qualcosa che assomiglia ad un esercito Ue, evitando le complicazioni politiche che questo passo comporta: hanno annunciato l’integrazione delle loro forze armate. L’intero esercito della Romania non si unirà alla Bundeswehr, né le forze armate ceche diventeranno una semplice divisione tedesca. Ma nei prossimi mesi, ciascun paese integrerà una brigata nelle forze armate tedesche: l’81a Brigata Meccanizzata della Romania si unirà alla Divisione delle Forze di Risposta Rapida della Bundeswehr, mentre la 4a Brigata di Dispiegamento Rapido della Repubblica Ceca, che ha servito in Afghanistan e in Kosovo ed è considerata la punta di lancia dell’esercito ceco, diventerà parte della Decima Divisione Blindata tedesca.Così facendo, seguiranno le orme di due brigate olandesi, una delle quali è già entrata a far parte della Divisione delle Forze di Risposta Rapida mentre l’altra è stata integrata nella Prima Divisione Blindata della Bundeswehr. Secondo Carlo Masala, professore di politica internazionale presso l’Università della Bundeswehr a Monaco di Baviera, «il governo tedesco si sta dimostrando disposto a procedere verso l’integrazione militare europea» – anche se altri paesi del continente ancora non lo sono. Il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha ripetutamente ventilato l’idea di un esercito dell’Unione Europea, solo per ricevere in risposta derisione o un imbarazzato silenzio. È così anche adesso che l’Uk, eterno nemico dell’idea, sta uscendo dall’unione. C’è poco accordo tra i rimanenti Stati membri su come dovrebbe essere organizzata esattamente una simile forza e a quali competenze le forze armate nazionali dovrebbero conseguentemente rinunciare. E così il progresso è stato lento. A marzo di quest’anno, l’Unione Europea ha creato un quartier generale militare congiunto – ma ha soltanto la responsabilità dell’addestramento delle missioni in Somalia, Mali e Repubblica Centrafricana e ha un magro personale di 30 unità.Sono state progettate anche altre forze multinazionali, come il Gruppo da Battaglia del Nord, una piccola forza di reazione rapida di 2.400 militari formata dagli Stati baltici, da diversi paesi nordici e dai Paesi Bassi, e la Forza Congiunta di Spedizione della Gran Bretagna, una “mini Nato” i cui membri includono gli Stati baltici, la Svezia e la Finlandia. Ma in assenza di adeguate opportunità di schieramento, questi gruppi operativi potrebbero anche non esistere. Tuttavia sotto la blanda etichetta del Framework Nations Concept, la Germania ha lavorato a qualcosa di molto più ambizioso: la creazione di quella che sostanzialmente è una rete di mini-eserciti europei, guidata dalla Bundeswehr. «L’iniziativa è scaturita dalla debolezza della Bundeswehr», ha dichiarato Justyna Gotkowska, analista di sicurezza dell’Europa settentrionale presso il think-tank polacco Centro per gli Studi Orientali. «I tedeschi hanno capito che la Bundeswehr doveva colmare le lacune delle sue forze terrestri… per guadagnare influenza politica e militare all’interno della Nato». Un aiuto da parte dei partner potrebbe essere la carta migliore a disposizione della Germania per rinforzare rapidamente il suo esercito – e i mini-eserciti a guida tedesca potrebbero essere l’opzione più realistica per l’Europa, se deve considerare seriamente la sicurezza comune. «È un tentativo per impedire che la sicurezza comune europea fallisca completamente», ha detto Masala.“Lacune” della Bundeswehr è un eufemismo. Nel 1989, il governo della Germania Occidentale spendeva il 2,7% del Pil per la difesa, ma nel 2000 questa spesa era scesa all’1,4%, dove è rimasta per anni. Infatti, tra il 2013 e il 2016, la spesa per la difesa è rimasta bloccata all’1,2% – lontano dal livello di riferimento del 2% della Nato. In un rapporto del 2014 al Bundestag, il Parlamento tedesco, gli ispettori generali della Bundeswehr hanno presentato un quadro imbarazzante: la maggior parte degli elicotteri della Marina non funzionava e dei 64 elicotteri dell’esercito solo 18 erano utilizzabili. E mentre la Bundeswehr della Guerra Fredda era composta da 370.000 soldati, la scorsa estate era forte soltanto di 176.015 tra uomini e donne. Da allora la Bundeswehr è cresciuta a più di 178.000 soldati attivi; l’anno scorso il governo ha aumentato i finanziamenti del 4,2%, e quest’anno la spesa per la difesa crescerà dell’8%. Ma la Germania è ancora molto lontana dalla Francia e dall’Uk come forza militare. E l’aumento della spesa per la difesa non è immune da polemiche in Germania, dato che il paese è consapevole della propria storia come potenza militare.Il ministro degli esteri Sigmar Gabriel ha recentemente affermato che è «completamente irrealistico» pensare che la Germania raggiunga il riferimento di spesa per la difesa della Nato del 2% del Pil – anche se quasi tutti gli alleati della Germania, dai più piccoli paesi europei agli Stati Uniti, la stanno sollecitando ad avere un ruolo militare più importante nel mondo. La Germania può non avere ancora la volontà politica di espandere le sue forze militari alle dimensioni che molti sperano – ma ciò che ha avuto dal 2013 è il Framework Nations Concept. Per la Germania, l’idea è di condividere le sue risorse con i paesi più piccoli in cambio dell’uso delle loro truppe. Per questi paesi più piccoli, l’iniziativa è un modo per far sì che la Germania sia più coinvolta nella sicurezza europea, evitando la difficile politica dell’espansione militare tedesca. «È un passo verso una maggiore indipendenza militare europea», ha detto Masala. «L’Uk e la Francia non sono disposte a prendere la guida della sicurezza europea». L’Uk è in un via di collisione con i suoi alleati dell’Ue, mentre la Francia, un peso massimo militare, ha spesso mostrato riluttanza verso le operazioni multinazionali della Nato. «Resta solo la Germania», ha detto.Operativamente, le risultanti unità bi-nazionali sono maggiormente dispiegabili perché sono permanenti (la maggior parte delle unità multinazionali fino ad ora sono state temporanee). Questo amplifica in modo determinante il potere militare dei paesi partner. E se la Germania decidesse di schierare un’unità integrata, potrebbe farlo solo con il consenso del partner minoritario. Naturalmente, dal 1945 la Germania è stata straordinariamente riluttante a dispiegare il suo esercito all’estero, addirittura fino al 1990 ha vietato alla Bundeswehr di schierarsi fuori dai confini. In effetti, i partner minoritari – e quelli potenziali – sperano che il Framework Nations Concept farà assumere alla Germania più responsabilità nella sicurezza europea. Finora, la Germania e i suoi mini-eserciti multinazionali non sono altro che delle iniziative su piccola scala, ben lontane da un vero esercito europeo. Ma è probabile che l’iniziativa cresca.I partner della Germania hanno sfruttato i vantaggi pratici dell’integrazione: per la Romania e la Repubblica Ceca, significa portare le proprie truppe allo stesso livello di addestramento delle forze tedesche; per i Paesi Bassi, ha significato riconquistare competenze coi carri armati (gli olandesi avevano venduto l’ultimo dei loro carri armati nel 2011, ma le truppe della 43a Brigata Meccanizzata, che sono in parte acquartierate con la Prima Divisione Blindata nella città tedesca occidentale di Oldenburg, ora guidano i carri armati tedeschi e potrebbero utilizzarli se schierati con il resto dell’esercito olandese). Il colonnello Anthony Leuvering, comandante della 43a Meccanizzata di base a Oldenburg, mi ha detto che l’integrazione ha avuto veramente pochi intoppi: «La Bundeswehr ha circa 180.000 unità, ma i tedeschi non ci trattano come l’ultima ruota del carro». Si aspetta che altri paesi si uniscano all’iniziativa: «Molti, molti paesi vogliono collaborare con la Bundeswehr». La Bundeswehr, a sua volta, ha in mente un elenco di partner secondari, ha dichiarato Robin Allers, un professore tedesco, associato presso l’Istituto norvegese per gli Studi sulla Difesa, che ha visto l’elenco dell’esercito tedesco.Secondo Masala, i paesi scandinavi, che già utilizzano una grande quantità di apparecchiature tedesche, sarebbero i migliori candidati per il prossimo ciclo di integrazione nella Bundeswehr. Finora, l’approccio empirico di basso profilo del Framework Nations Concept è andato a vantaggio delle Germania; poche persone in Europa hanno obiettato all’integrazione di unità olandesi o rumene con le divisioni tedesche, in parte perché potrebbero non averla notata. E’ meno chiaro se ci saranno ripercussioni politiche nel caso in cui più nazioni dovessero unirsi all’iniziativa. Al di fuori della politica, il vero test sul valore del Framework Nations Concept sarà il successo in combattimento delle unità integrate. Ma la parte più complessa dell’integrazione, sul campo di battaglia e fuori, potrebbe rivelarsi la ricerca di una lingua franca. Le truppe dovrebbero imparare le lingue gli uni degli altri? O il partner minoritario dovrebbe parlare tedesco? Il Colonello Leuvering, olandese di lingua tedesca, riferisce che la divisione bi-nazionale di Oldenburg si sta orientando verso l’uso dell’inglese.(Elisabeth Braw, “La Germania sta costruendo un esercito europeo sotto il suo comando”, da “Foreign Policy” del 22 maggio 2017, articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Ogni pochi anni, l’idea di un esercito dell’Ue torna a farsi strada tra le notizie, facendo molto rumore. Per alcuni è un’idea fantastica, per altri un incubo: per ogni federalista di Bruxelles convinto che una forza di difesa comune sia ciò che serve all’Europa per rilanciare la sua posizione nel mondo, ci sono quelli, a Londra e altrove, che inorridiscono all’idea di un potenziale rivale della Nato. Ma quest’anno, lontano dall’attenzione dei media, la Germania e due dei suoi alleati europei, la Repubblica Ceca e la Romania, hanno silenziosamente fatto un passo avanti radicale verso un qualcosa che assomiglia ad un esercito Ue, evitando le complicazioni politiche che questo passo comporta: hanno annunciato l’integrazione delle loro forze armate. L’intero esercito della Romania non si unirà alla Bundeswehr, né le forze armate ceche diventeranno una semplice divisione tedesca. Ma nei prossimi mesi, ciascun paese integrerà una brigata nelle forze armate tedesche: l’81a Brigata Meccanizzata della Romania si unirà alla Divisione delle Forze di Risposta Rapida della Bundeswehr, mentre la 4a Brigata di Dispiegamento Rapido della Repubblica Ceca, che ha servito in Afghanistan e in Kosovo ed è considerata la punta di lancia dell’esercito ceco, diventerà parte della Decima Divisione Blindata tedesca.
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Stern: meno bistecche, così guariremo il pianeta
Milioni di persone minacciate da tifoni e uragani sempre più aggressivi, civiltà costiere destinate ad affondare negli oceani. Alle Maldive si stanno già attrezzando: nei giorni scorsi il governo è stato convocato sott’acqua, per lanciare un appello al resto del mondo contro il surriscaldamento del pianeta. E se la lotta ai cambiamenti climatici cominciasse nel piatto? Come? Rinunciando alle bistecche.
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Crisi senza precedenti, giornali verso l’estinzione?
Il disastro è smisurato. Decine di quotidiani stanno fallendo. Negli Stati uniti sono state chiuse già circa centoventi testate; adesso lo tsunami colpisce l’Europa. Non si salvano neppure quelli che in altri tempi erano considerati “i giornali di riferimento”: El País in Spagna, Le Monde in Francia, The Times e The Independent nel Regno Unito, il Corriere della Sera e La Repubblica in Italia, ecc. Tutti accusano forti perdite economiche, la crisi della diffusione e il crollo della pubblicità.
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Malati di guerra: reduci (e incubi) nelle prigioni inglesi
Alcol, droga, violenza, depressione e sindrome da stress post-traumatico. In Gran Bretagna, quasi un detenuto su dieci è un veterano di guerra: militare, non ha retto alla pressione del fronte, dalle Falkland/Malvinas all’Afghanistan. Lo rivela un rapporto pubblicato dalla Napo (National Association of Probation Officers), che monitora le condizioni dei carcerati britannici. «Tra coloro che hanno prestato servizio nelle forze armate di Sua Maestà, 8.500 sono in prigione, mentre 12.000 sono il libertà vigilata», scrive Luca Galassi su “PeaceReporter”, in un ampio servizio che documenta la drammaticità del fenomeno.
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Il Times insiste: l’Italia pagò i Talebani anche a Herat
L’Italia denuncia, ma il Times accusa ancora. «All’indomani della querela del governo italiano – scrive “Il Giornale” di Vittorio Feltri il 16 ottobre – il quotidiano britannico insiste nel sostenere che gli italiani abbiano pagato i Talebani per evitare attacchi ai militari e aggiunge che gli accordi furono raggiunti in tutto l’Afghanistan, non solo dunque nell’area di Sarobi, ma anche a Herat». Secondo un comandante talebano, Mohammed Ishmayel, l’accordo siglato lo scorso anno tra i servizi segreti italiani e la guerriglia locale prevedeva che nessuna delle due parti avrebbe attaccato l’altra.
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Bonelli: Verdi bipartisan e più europei?
Era ora che anche i Verdi nostrani uscissero una volta per tutte dalla logica dell’arrocco. Fuor di metafora scacchistica, non si può non cogliere la novità che proviene dall’assise del partito, dove l’elezione di Angelo Bonelli come segretario del “sole che ride” apre delle prospettive politiche e culturali inedite per il movimento ambientalista italiano. L’uscita dalla connotazione “di sinistra” rilanciata dal neosegretario e l’apertura alla trasversalità non sembrano essere solo uno scatto di orgoglio autonomista ma segnalano soprattutto un segno positivo di discontinuità che avvicina i Verdi al dibattito sull’ecologia che in Europa è sempre più un tema bipartisan.
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Italia boom, è il secondo produttore mondiale di armi
Non solo moda e cibo. Anche fucili, pistole, bombe, velivoli, mezzi blindati e corazzati. E’ la nuova frontiera del made in Italy, il record dell’export nazionale: l’Italia ha superato la Russia ed è ora il secondo produttore mondiale di armi, dopo gli Usa. Nel 2008, l’industria italiana ha infatti venduto armamenti per 3,7 miliardi di dollari. Cifre da capogiro, per un mercato di cui si parla pochissimo, rappresentato da prodotti-emblema, ad alta tecnologia, come l’elicottero d’attacco A-129 Mangusta, il primo progettato in Europa, e l’ormai celebre veicolo blindato Lince, che protegge le pattuglie dalle mine in agguato tra le insidiose piste afghane.