Archivio del Tag ‘Augusto Minzolini’
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Crosetto: Mes, rischio-catastrofe. Savona: ve l’avevo detto
Un documento inviato a tutti i ministri da Paolo Savona, oggi presidente Consob ma allora titolare degli Affari Ue, metteva in guardia il governo dai rischi delle modifiche del Mes. Quel documento, “Una politeia per un’Europa diversa”, aveva spaventato molto il mondo politico e finanziario dell’Unione, ma aveva centrato il punto: «La proposta in discussione di creare un fondo europeo per gli interventi, comunque lo si chiami – metteva nero su bianco Savona, come ricorda il “Messaggero” – oltre a disporre di risorse insufficienti, ha il duplice difetto di riproporre la parametrizzazione degli interventi, invece di valutare caso per caso secondo una visione politica comune. Essa inoltre ripropone i difetti della condizionalità restrittiva per la politica fiscale dei paesi che a esso ricorreranno, rendendo il meccanismo rigido nell’applicazione e con effetti deflazionistici». Traduzione: il Mes avrebbe peggiorato, e non risolto i problemi degli Stati costretti a ricorrervi. «Se c’è fretta di chiudere sul Mes, è un segnale drammatico». Guido Crosetto, ospite di “Omnibus” su “La7″, suggerisce qualcosa che tutti, fino a oggi, hanno sottovalutato o semplicemente nascosto, scrive “Libero”: il pressing dell’Unione europea sull’Italia per approvare la riforma del Fondo Salva-Stati potrebbe nascondere la preoccupazione di un imminente crac finanziario.«Temo che vogliano chiudere sul trattato – spiega il fondatore di Fratelli d’Italia, oggi ex parlamentare – perché la situazione delle banche tedesche e olandesi, a rischio crac, sia molto grave». Il riferimento è soprattutto a DeutscheBank e KommerzBank, i due colossi tedeschi a rischio collasso. «E guardate bene», avverte Crosetto: «Se saltano le banche avremo uno tsunami in confronto al quale la crisi del 2008 sarà nulla. E a pagare, come sempre, saranno i paesi più deboli, come l’Italia». Nel testo del rinnovato Mes, aggiunge “Libero”, è rimasta la valutazione della sostenibilità dei debiti e della capacità dello Stato che chiede un prestito di poterlo restituire. Ed è un punto che difficilmente sarà oggetto di negoziazione ulteriore. Al premier Giuseppe Conte e al ministro dell’economia Roberto Gualtieri, spiega il “Messaggero”, rimane la carta della modifica degli allegati, per correggere parzialmente un tiro destinato a fare malissimo all’Italia. Perché la ristrutturazione del debito (che renderebbe carta straccia i titoli di Stato, in mano soprattutto ai risparmiatori italiani) è ancora in piedi. E anzi, resta un caposaldo del Meccanismo Europeo di Stabilità.Nel frattempo, lo scandalo-Mes sta facendo franare il governo giallorosso: secondo Augusto Minzolini, autore di un report dietro le quinte pubblicato dal “Giornale”, Renzi avrebbe promesso a Salvini di staccare la spina al Conte-bis, in cambio di un eventuale accordo con la Lega per il varo di una legge elettorale proporzionale. Dal canto suo, il “Corriere della Sera” parla di imminenti diserzioni tra i 5 Stelle. E scrive: «Fonti leghiste assicurano che già quattro senatori hanno accettato il trasbordo nella Lega e altri starebbero per cedere». Voci che fanno il paio con chi, nel Movimento, parla insistentemente di scissione. Nei guai Conte, accusato di aver ceduto (in segreto) alle pressioni europee sul Mes. Lui smentisce, ovviamente. «Peccato che poi, implicitamente, riconosca come sia stato costretto a una brusca frenata sul negoziato che, diversamente – scrive “Libero” – sarebbe già andato in porto come suggerito maldestramente dal ministro dell’economia Roberto Gualtieri in commissione, parlando di “trattato già firmato e inemendabile”». Conte, infatti, ora parla di “rinvio possibile” e di un ok al Mes “vincolato” alla riforma dell’unione bancaria a marzo.Un documento inviato a tutti i ministri da Paolo Savona, oggi presidente Consob ma allora titolare degli affari Ue, metteva in guardia il governo dai rischi delle modifiche del Mes. Quel documento, “Una politeia per un’Europa diversa”, aveva spaventato molto il mondo politico e finanziario dell’Unione, ma aveva centrato il punto: «La proposta in discussione di creare un fondo europeo per gli interventi, comunque lo si chiami – metteva nero su bianco Savona, come ricorda il “Messaggero” – oltre a disporre di risorse insufficienti, ha il duplice difetto di riproporre la parametrizzazione degli interventi, invece di valutare caso per caso secondo una visione politica comune. Essa inoltre ripropone i difetti della condizionalità restrittiva per la politica fiscale dei paesi che a esso ricorreranno, rendendo il meccanismo rigido nell’applicazione e con effetti deflazionistici». Traduzione: il Mes avrebbe peggiorato, e non risolto i problemi degli Stati costretti a ricorrervi. «Se c’è fretta di chiudere sul Mes, è un segnale drammatico». Guido Crosetto, ospite di “Omnibus” su “La7″, suggerisce qualcosa che tutti, fino a oggi, hanno sottovalutato o semplicemente nascosto, scrive “Libero“: il pressing dell’Unione europea sull’Italia per approvare la riforma del Fondo salva-Stati potrebbe nascondere la preoccupazione di un imminente crac finanziario.
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Toghe e 007: perché condizionano l’agenda politica italiana
Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).Richiedere a un partito 49 milioni di euro, oggi, significa esporlo al rischio di non poter più svolgere l’attività politica (restringendo in tal modo la libertà costituzionale relativa all’offerta democratica garantita dalle elezioni). Ad Agrigento invece il pm sembra aver trattato Salvini – contrario agli sbarchi – alla stregua un bandito dell’anonima sarda, imputandogli addirittura l’ipotetico “sequestro di persona” a danno dei migranti, come se i profughi fossero stati tenuti prigionieri della nave che li aveva raccolti (e non fossero invece liberissimi di salpare, per poi sbarcare altrove). Ma il colpo più duro, alla Lega, lo hanno assestato i servizi segreti – non si sa di quale paese – che hanno intercettato e registrato a Mosca il famoso colloquio tra l’esponente leghista Gianluca Savoini e alcuni emissari di secondo piano del potere russo. Tema della conversazione: una ipotetica fornitura di petrolio e gas, sulla quale – hanno riferito giornali come “L’Espresso” – lo stesso Savoini (a che titolo, non si sa) avrebbe discusso la possibilità ipotetica di ricevere una percentuale sull’eventuale affare, peraltro non andato in porto e mai neppure avviato. Salvini si è difeso dichiarandosi più che tranquillo, evitando però di rispondere nel merito: del caso si sta occupando la magistratura milanese, a cui qualcuno (chi?) ha inviato l’audio della conversazione all’Hotel Metropol.Infastidito per l’insistenza dei giornalisti italiani che hanno seguito la vicenda (testate che contro l’ex Carroccio hanno condotto una vera e propria crociata politica), il leader lehista è apparso evasivo: ha detto di non essere stato messo al corrente di quell’incontro. In ogni caso, Savoini non rappresentava in alcun modo il governo italiano (all’epoca, ottobre 2018, Salvini era vicepremier, oltre che ministro dell’interno). Peraltro è noto a tutti che la Lega, alla luce del sole, ha sempre avuto ottimi rapporti politici con Mosca e col partito “Russia Unita”, fondato da Putin. Salvini giudica l’uomo del Cremlino uno statista di prima grandezza, e ritiene che l’Italia possa e debba riavvicinare la Russia all’orbita Nato, per ragioni geopolitiche e commerciali, dato anche il valore dell’export italiano verso Mosca. Non solo: dai tempi di Bossi, il Carroccio non è mai stato pregiudiziale nei confronti del mondo slavo. Durante la guerra civile nei Balcani, la Lega Nord fu l’unico partito italiano ad allacciare un dialogo anche con la Serbia filo-russa di Milosevic, bombardata dalla Nato e criminalizzata dalla disinformazione occidentale come unico “cattivo soggetto” dell’area balcanica. Una regione devastata dagli opposti nazionalismi e dal cinismo dei vari leader, come svelato nel memorabile saggio “Maschere per un massacro”, di Paolo Rumiz. Sullo sfondo, il ruolo occulto delle potenze egemoni (Occidente cristiano e Turchia islamica) nella “guerra per procura”, dopo la caduta dell’Urss, contro la residua influenza russa, attraverso il regime serbo, ai confini occidentali dell’Europa.Tornando a Salvini, è evidente lo stato di imbarazzo generato – a torto o a ragione – dal cosiddetto Russiagate. E’ pensabile che l’incidente non abbia inciso, nella scelta di “staccare la spina” dal governo gialloverde nel fatidico agosto 2018? Certo, a Bruxelles la Lega aveva appena incassato il “tradimento” di Conte e dei 5 Stelle, decisivi per l’elezione alla guida della Commissione Europea di Ursula von der Leyen, simbolo del rigore più estremo, di marca tedesca. Un vero e proprio affronto, per l’alleato leghista dichiaratamente impegnato (come un tempo anche i grillini) a pretendere un cambio di paradigma nella governance europea. Va aggiunto che Salvini aveva più di una ragione per pretendere il divorzio dai pentastellati: Conte, il misterioso premier indicato dai grillini ma teoricamente “venuto dal nulla”, aveva sostanzialmente insabbiato i referendum di Lombardia e Veneto per le autonomie regionali differenziate. Ma era stato ancora una volta uno dei consueti player istituzionali (la magistratura, in questo caso) a speronare indirettamente il progetto di Flat Tax, facendo piovere un avviso di garanzia sul suo ispiratore, il sottosegretario leghista Armando Siri. Effetti politici collaterali, certo. Ma intanto, una volta di più, è stato un soggetto terzo – non elettivo – a condizionare l’agenda politica italiana, esattamente come ai tempi di Mani Pulite e poi di Berlusconi.Se qualche potere sovrastante, non istituzionale, ha voluto provare a “togliere di mezzo” Salvini pensando di “utilizzare” apparati statali magari per fare un favore a Conte, oggi è lo stesso premier ad essere costretto (da altri poteri sovrastanti?) a rendere conto del suo operato, presso analoghi organi statali, in merito alla vicenda dell’ipotetico impegno “irrituale” dei servizi segreti italiani in favore di settori dell’intelligence statunitense. Si sospetta cioè che Conte, in modo indebito, abbia messo i servizi italiani a disposizione di quelli di Trump, a sua volta impegnato a difendersi dai vari Russiagate che gli sono stati addebitati: in questo caso, la Casa Bianca avrebbe richiesto l’aiuto italiano per “incastrare” il rivale Joe Biden, accusato di malversazioni in Ucraina. Qualcosa del genere aveva coinvolto anche Renzi: quando era primo ministro, Barack Obama gli avrebbe chiesto di mobilitare gli 007 italiani per aiutare Hillary Clinton ad azzoppare Trump, sempre attraverso indiscrezioni provenienti dalla sfera russa. In attesa che i fatti possano eventualmente chiarirsi (dopo le prime vaghe rassicurazioni rese dal premier al Copasir, ora presieduto dal leghista Raffaele Volpi) resta il fatto che Conte oggi è al governo proprio con Renzi, mentre a Salvini non resta che fare da spettatore.Sarebbe il colmo se lo stesso Conte, domani, fosse costretto a farsi da parte proprio a causa del suo ruolo nella gestione dell’intelligence, che stranamente ha voluto tenere per sé. Per coincidenza, negli ultimi giorni si rincorrono voci di corridoio proprio sull’eventuale sfratto dell’inquilino di Palazzo Chigi. Non durerà a lungo, profetizza Paolo Mieli. Potrebbe venir sostituito da Draghi, ipotizza Augusto Minzolini, interpretando i desiderata del redivivo Renzi. Secondo il saggista Gianfranco Carpeoro, a Renzi i “sovragestori” avevano dato un’ultima chance: rientrare in gioco, se fosse riuscito a silurare Salvini. Detto fatto: d’intesa con Grillo, il fiorentino è stato capace di digerire all’istante persino gli odiati 5 Stelle. In cambio di cosa? Il premio, pare, sarebbe il sospirato accesso al gotha supermassonico, quello da cui proviene il Draghi che oggi prova a dipingere se stesso come una specie di Robin Hood (evocando il ritorno alla sovranità monetaria) dopo aver interpretato per decenni il ruolo spietato dello Sceriffo di Nottingham.A Palazzo Chigi sta davvero per arrivare Super-Mario, che in realtà sarebbe propenso a puntare direttamente al Quirinale evitando la fatale impopolarità che attende chiunque si metta alla guida di un governo? Difficile dirlo. Certo, è impossibile non osservare il basso profilo ora adottato da Salvini: cauto e attendista, più moderato nei toni, concentrato sull’agevole partita tattica delle regionali. Come se sapesse che, a monte, restano da sciogliere nodi assai più grandi della Lega, fuori dalla portata dei comuni elettori. Svolte, scossoni e colpi di scena verranno, ancora una volta, da poteri non elettivi e organi istituzionali non politici? Un certo complottismo indiscriminato tende a mettere in cattiva luce sia i magistrati che gli 007, accusando gli uni di faziosità e gli altri di doppiogiochismo, come se non si trattasse di organismi che (salvo eccezioni) fanno semplicemente rispettare le leggi e vigilano sulla sicurezza del sistema-paese. Semmai, la lente andrebbe puntata su poteri elusivi e superiori, non solo italiani, che ne sfruttassero le prerogative per deviarne l’azione su obiettivi contingenti, condizionando – di fatto – l’agenda nazionale e le sue dinamiche politiche, al di sopra della volontà popolare espressa dai risultati elettorali.Secondo lo stesso Carpeoro, questa particolare fragilità italica ha radici antiche: già in epoca medievale e rinascimentale, Comuni e signorie ricorrevano regolarmente all’aiuto straniero (pagandone poi il prezzo in termini “coloniali”) per sbarazzarsi dei vicini di casa. L’Italia non è riuscita a proteggere né Enrico Mattei dai suoi sicari, né Adriano Olivetti dalla concorrenza industriale, di marca Fiat e statunitense. Travolta giudiziariamente la leadership dei vari Craxi e Andreotti, e scomparso un politico della caratura di Enrico Berlinguer, il Belpaese si è sorbito Berlusconi, Prodi, Grillo e Renzi. Così, Germania e Francia hanno fatto quello che hanno voluto, nella Penisola: Macron ha persino reclutato un esponente del Pd, Sandro Gozi, per farne una sorta di alfiere anti-italiano in sede europea, quand’era ancora in carica il governo gialloverde. Del resto, ormai, da noi vota solo un elettore su due. E quelli che tornano alle urne – nella maggior parte dei casi – lo fanno per votare contro qualcuno, più che per qualcosa. Se questo è il quadro, il meno che ci si possa aspettare è che poteri esterni cerchino di sfruttare le nostre istituzioni, con ogni mezzo, per insediare a Roma il governo più comodo per loro, non certo progettato per il benessere degli italiani. Non ci sarebbe da stupirsi, quindi, se fossero ancora le sentenze, gli avvisi di garanzia e le imprese degli 007 a scegliere tempi, modi e personaggi della politica italiana.Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).
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Minzolini: via Conte, Renzi punta su Draghi a Palazzo Chigi
Secondo Augusto Minzolini la crisi del governo M5S-Pd non è poi così vicina come alcuni profetizzano. In estrema sintesi, secondo quanto riportato in un retroscena su “Il Giornale”, le minacce e i veti incrociati degli ultimi giorni – che hanno portato a pensare che già sulla manovra i giallorossi potessero capitolare – sono fuochi di paglia. La ragione? Ad oggi, le urne non convengono a nessuno: il centrodestra viene dato davanti, e soprattutto Pd e M5S in caso di crisi dovrebbero scontare l’effetto negativo che conseguirebbe dall’aver dato vita a un governo durato soltanto poche settimane. Più plausibile, al contrario, che in un breve, medio o lungo periodo che sia si arrivi a un cambio di premier. Quest’ultima ipotesi, infatti, negli ultimi giorni continua a trovare diritto di cittadinanza in diversi retroscena di stampa. Il primo a volere una simile staffetta sarebbe il solito Matteo Renzi, che ha da tempo iniziato la sua battaglia contro il premier, spalleggiato anche da Matteo Salvini.E pure Luigi Di Maio – gli ultimi giorni lo hanno dimostrato – con Conte ha un rapporto sempre più logorato, e le rassicurazioni arrivate dal vertice di lunedì sera valgono a poco. Quale premier, dunque? Una risposta, piuttosto clamorosa, la offre sempre Minzolini nel medesimo retroscena. Il piano è quello dello specialista dei giochi di palazzo, ovvero Renzi. Uno scenario che emerge quando si dà conto di quanto risposto dal leader di Italia Viva a chi gli chiedeva come fosse possibile immaginare che chi verrà nel suo partito, per esempio da Forza Italia, in questa legislatura possa votare la fiducia a un premier come Conte. «Nessun problema», risponde Renzi, «non pretendo certo che chi viene voti la fiducia a Conte. Semmai potrebbero votare i nostri emendamenti, se li convincessero, se li considerassero figli di una cultura liberale. A me non interessa l’oggi, ma il domani».Già, il domani. Parole un poco profetiche, per certo gravide di conseguenze. Il significato, secondo Minzolini, è chiaro: non c’è alcun bisogno di dare la fiducia al premier di oggi, ossia al presunto avvocato del popolo Giuseppe Conte. Gliela si potrà dare se cambiasse atteggiamento, «se diventasse adulto», per dirla con le parole del Minzo. Ad oggi, Renzi, promette fiducia al premier del futuro, il cui nome viene snocciolato in chiusura: Mario Draghi. Nome fatto tra le righe: promettere la fiducia «in un possibile domani a uno che somigli a un Draghi». Ma poiché tra poco – il 24 ottobre – Draghi lascerà la presidenza della Bce…(“Mario Draghi premier al posto di Giuseppe Conte? Il piano di Matteo Renzi, secondo Augusto Minzolini”, da “Libero” del 22 ottobre 2019).Secondo Augusto Minzolini la crisi del governo M5S-Pd non è poi così vicina come alcuni profetizzano. In estrema sintesi, secondo quanto riportato in un retroscena su “Il Giornale”, le minacce e i veti incrociati degli ultimi giorni – che hanno portato a pensare che già sulla manovra i giallorossi potessero capitolare – sono fuochi di paglia. La ragione? Ad oggi, le urne non convengono a nessuno: il centrodestra viene dato davanti, e soprattutto Pd e M5S in caso di crisi dovrebbero scontare l’effetto negativo che conseguirebbe dall’aver dato vita a un governo durato soltanto poche settimane. Più plausibile, al contrario, che in un breve, medio o lungo periodo che sia si arrivi a un cambio di premier. Quest’ultima ipotesi, infatti, negli ultimi giorni continua a trovare diritto di cittadinanza in diversi retroscena di stampa. Il primo a volere una simile staffetta sarebbe il solito Matteo Renzi, che ha da tempo iniziato la sua battaglia contro il premier, spalleggiato anche da Matteo Salvini.
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Renzi: il veto su Paolo Savona imposto da Draghi e Visco
Mattarella nell’angolo: finito nel mirino di 5 Stelle e Lega dopo esser stato “costretto” a bocciare Savona, su pressione di Ignazio Visco (Bankitalia) e Mario Draghi (Bce). Lo scrive sul “Giornale” Augusto Minzolini, citando nientemeno che Matteo Renzi. Per spiegare l’avvitarsi esplosivo della crisi istituzionale, racconta Minzolini, l’ex segretario del Pd ha confidato ai suoi che «Mattarella in questi giorni ha ascoltato molto Draghi e Visco, che vedono Savona come fumo negli occhi». Tra l’altro, ha aggiunto Renzi, «quello che dice Savona sugli errori fatti da Bankitalia nel trattare i problemi delle piccole banche o il bail-in, io lo firmerei». Quindi, aggiunge Minzolini, con Bruxelles, Berlino, Draghi, Visco che premevano, Mattarella «non ha potuto non mettere quel “veto” su Savona». E ha dovuto accettare un grande rischio, quello su cui persino D’Alema giorni fa lo aveva messo in guardia: «Se il presidente dice no a Savona, rischia di ritrovarsi di nuovo di fronte lo stesso problema dopo le elezioni. Con Salvini che, però, gli metterà sul tavolo una maggioranza dell’80%». Già, con quel “no” ora Mattarella rischia di diventare l’obiettivo di una campagna elettorale, di essere sfiduciato dal paese. Ecco perché – anziché Cottarelli – sarebbe stato meglio per il Quirinale «rifugiarsi dietro a qualche precedente, mettere in piedi un governo istituzionale, guidato da uno dei due presidenti delle Camere, come fece Francesco Cossiga nell’87».Osservazioni che Minzolini coglie fra i retroscena di una crisi vertiginosa, innescata dal braccio di ferro sull’ex eurista e neo-euroscettico Paolo Savona. Inutili gli incontri in extremis tra Mattarella, Salvini e Di Maio, prima della visita conclusiva di Conte al Quirinale. «Tutti sono rimasti sulle loro posizioni». In realtà, si era già capito che le missioni del pomeriggio al Quirinale del leader della Lega e poi del capo dei 5 Stelle, «terrorizzato dal rischio di andare nuovamente alle urne», si erano risolte in un fallimento. Dice Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega: «Se su Savona c’è il no di Berlino e dei poteri forti – ha tagliato corto Salvini – significa che è il ministro giusto. Se non lo vogliono si torna a votare». Scuro in volto anche Di Maio: «Qui finisce male, la posizione di Mattarella è incomprensibile». E Mattarella? Minzolini lo descrive «fuori di sé», irremobivile di fronte ai suoi interlocutori: «Dovranno spiegare agli italiani quello che succederà da domani in poi sui mercati». La verità, aggiunge Minzolini, è che il “caso Savona” è diventato alla fine l’elemento catalizzatore del “non detto” di queste settimane: le prerogative istituzionali del capo dello Stato, i rapporti con il sistema Ue-Bce attraverso Bankitalia.«Ci sono sono state tutte le contraddizioni, che, piano piano, sono venute in luce nel “contratto” di governo», scrive Minzolini. «E la montagna di parole con cui i mediatori hanno tentato di coprire tutto questo negli ultimi giorni, quello spesso manto di ipocrisia, non è bastata per raggiungere un compromesso. Sicuramente non è bastata la dichiarazione di Savona». Secondo l’ex direttore berlusconiano del Tg1, si è tentata «una mediazione impossibile» per “sdoganare” «un personaggio come Savona con il suo profilo, la sua personalità, la sua storia al ministero dell’economia». Delle due l’una: Savona all’economia «avrebbe avuto il significato di un cedimento di Mattarella, per cui l’influenza che il Quirinale via via è venuto ad assumere nei settennati di Scalfaro, Ciampi e, soprattutto, Napolitano, sarebbe diventata un pallido ricordo». Se invece Salvini avesse accettato l’esclusione del professore, «avremmo avuto il paradosso che il primo governo “sovranista” di questo paese sarebbe stato il primo a essere condizionato platealmente dalla Ue e dalla Germania, nella scelta del ministro dell’economia». Non si scappa, sottolinea Minzolini: «Ci sarebbe stato un vincitore e un perdente. E nessuno era nelle condizioni di poter accettare una sconfitta».Chi rischia di più, ora? Ovviamente il Quirinale, secondo Claudio Borghi: «Mattarella e compagni non sono lucidi: stanno facendo a Salvini il favore che l’establishment americano ha fatto a Trump», confida il “cervello” economico della Lega. «Le hanno provate tutte, anche a dividere il ministero dell’economia in due per impedire a Savona di partecipare ai vertici europei». La verità, secondo Borghi, è che questa crisi non pone solo il problema del nostro rapporto con l’Europa, ma anche di quanto è avvenuto nel 2011: l’Italia è ancora un paese sovrano? «È una questione che non nasce ora», aggiunge Borghi, citato da Minzolini. «Lo sa benissimo Berlusconi, che ha l’occasione di vendicarsi per tutto quello che gli hanno fatto. Ieri c’è stato un capo dello Stato che su ordine della Ue ha fatto fuori un premier. Oggi c’è un capo dello Stato che ha posto un veto sulla nomina di un ministro, sempre su ordine di Bruxelles». Ieri Napolitano, oggi Mattarella. «Tutti i nodi sono venuti al pettine». E proprio sul nome di Savona, chiosa Minzolini, «è andato in scena lo scontro tra due mondi».Mattarella nell’angolo: finito nel mirino di 5 Stelle e Lega dopo esser stato “costretto” a bocciare Savona, su pressione di Ignazio Visco (Bankitalia) e Mario Draghi (Bce). Lo scrive sul “Giornale” Augusto Minzolini, citando nientemeno che Matteo Renzi. Per spiegare l’avvitarsi esplosivo della crisi istituzionale, racconta Minzolini, l’ex segretario del Pd ha confidato ai suoi che «Mattarella in questi giorni ha ascoltato molto Draghi e Visco, che vedono Savona come fumo negli occhi». Tra l’altro, ha aggiunto Renzi, «quello che dice Savona sugli errori fatti da Bankitalia nel trattare i problemi delle piccole banche o il bail-in, io lo firmerei». Quindi, aggiunge Minzolini, con Bruxelles, Berlino, Draghi, Visco che premevano, Mattarella «non ha potuto non mettere quel “veto” su Savona». E ha dovuto accettare un grande rischio, quello su cui persino D’Alema giorni fa lo aveva messo in guardia: «Se il presidente dice no a Savona, rischia di ritrovarsi di nuovo di fronte lo stesso problema dopo le elezioni. Con Salvini che, però, gli metterà sul tavolo una maggioranza dell’80%». Già, con quel “no” ora Mattarella rischia di diventare l’obiettivo di una campagna elettorale, di essere sfiduciato dal paese. Ecco perché – anziché Cottarelli – sarebbe stato meglio per il Quirinale «rifugiarsi dietro a qualche precedente, mettere in piedi un governo istituzionale, guidato da uno dei due presidenti delle Camere, come fece Francesco Cossiga nell’87».
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“Caro Stakeholder, le leggi dell’Ue le facciamo solo per te”
«Ripetiamo tutti insieme alla lavagna: nell’Unione Europea le leggi che contano le fa la Commissione di Bruxelles. I Parlamenti degli Stati dell’Unione non possono farci nulla, ma solo adottarle supini. Se si rifiutano, Bruxelles ha ogni possibile via legale e monetaria per bastonarli al punto di sottomissione». Le leggi che contano davvero, per cittadini e imprese, vengono scritte dalla Commissione su parere degli “stakeholders”, sottolinea Paolo Barnard. «E tutto si gioca qui. Ti chiedo: tu sei uno Stakeholder che dà il suo parere sulle leggi Ue che ti fanno? Ti risulta di esserlo?». La storia, ricorda il giornalista, inizia nell’anno Duemila, quando l’allora giovane inviato di “Report”, Rai Tre, mette insieme l’inchiesta ‘I globalizzatori”, che – ormai 17 anni fa – raccontava «tutto quello che oggi scoprono Sgarbi, Minzolini, Salvini, Borghi, Sapelli, Savona, Farage, alcuni “grullini” e codazzo cantante». La notizia principale era questa: «Era la Commissione Europea di Prodi a fare le leggi che contano per noi, ma noi ne sapevamo qualcosa? Ci veniva chiesto di leggerle o di farle leggere ai nostri parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria?».La risposta di Prodi? Lunare: «Qui a Bruxelles abbiamo un sistema che si chiama Sis, attraverso cui tutti gli attori, dalla mega-banca al cittadino, vengono informati delle leggi che proponiamo e votiamo». Al che, Barnard torna in Italia e interpella sindacati, Ong, operai, associazioni di categoria. «Sis? Non ci risulta: che roba è?». Aggiunge oggi lo stesso Barnard, sul suo blog: «Quell’inchiesta rivelava poi molto di peggio, e cioè quali erano le lobby delle corporations che addirittura ordinavano alla Commissione quali leggi fare». Passati 17 anni, fatto l’euro, sfornate milioni di info sul “mostro” chiamato Unione Germanica Europea, nascono in Europa i movimenti anti-Bruxelles e anti-euro, come se la Commissione fosse ormai sotto assedio. Davvero? Nemmeno per idea: al posto del Sis ora ci sono l’Inception Impact Assessment e la Roadmap. «Sono la versione moderna del Sis. Ma molto più con la faccia come il culo del Sis, che almeno su carta citava per nome chi avrebbe (falsamente) consultato: parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria».Oggi, invece, l’Inception Impact Assessment e la Roadmap che precedono la promulgazione delle leggi sovranazionali che contano, varate dalla Commissione – quelle che hanno demolito la nostra economia europea e fatto scappare la Gran Bretagna – citano una sola entità che viene consultata prima di approvare una di quelle super-leggi: gli Stakeholder. «Cosa sono? Sono poteri finanziari e industriali, pari pari. Esempio: Mediobanca è uno Stakeholder del “Corriere della Sera”. Il mostro d’investimento BalckRock è uno Stakeholder delle Poste Italiane. Caltagirone, Warren Buffett, le Generali, Eni, Exor-Fiat, Vivendi sono Stakeholders. Poi, siccome la cosa era banalmente troppo spudorata per esistere, la Commissione Ue ha aggiunto in una nota anni fa che Stakeholders sono anche gli Stati e… chiunque abbia un interesse nelle leggi che fanno». Fantastico, no? E allora «mandiamo cartoline a casa dalle gente, alle piccole medie imprese, alle Ong, ai contadini, ai medici e infermieri, negozianti, baristi, metalmeccanici e gli chiediamo se hanno mai ricevuto questo tipo di comunicazione: “Caro Stakeholder…”».Barnard cita, ad esempio, una delle lettere inviate agli Stakeholder, quelli veri. Il testo: «Caro Stakeholder, questa valutazione preliminare d’impatto ha lo scopo di informare le parti interessate circa il lavoro della Commissione, al fine di consentire loro di fornire un feedback sulle iniziative previste e di partecipare in modo efficace nelle future attività di consultazione». Non solo: «I soggetti interessati sono in particolare invitati a fornire opinioni sulla comprensione da parte della Commissione del problema e le possibili soluzioni, mettendo a disposizione tutte le informazioni pertinenti che possono avere, anche per quanto riguarda i possibili effetti delle diverse opzioni». E ancora: «La valutazione preliminare d’impatto è fornita solo a scopo informativo e il suo contenuto potrebbe cambiare». Beninteso: «Questa valutazione non pregiudica la decisione finale della Commissione sul fatto che questa iniziativa sarà perseguita o sul suo contenuto finale».A seguire, un testo di 3.182 parole. «“I bet you my fat ass”, direbbe un texano appoggiato al suo trattore, cioè: ci scommetto il culo che però gli Ad di Unicredit, Exor, Luxottica, Eni, Goldman Sachs, Hsbc, Siemes, Telefonica, Ubs, Amazon e soci le hanno ricevute eccome, e non solo», quelle sollecite e tempestive comunuicazioni preliminari. D’altro canto, aggiunge Barnard, «uno stuolo di 30 avvocati pagati 5.000 euro per ogni giorno di consulenza glieli hanno tradotti in ogni dettaglio e fatti capire. E non solo: così come faceva Prodi ai miei tempi, oggi Juncker aspetta il loro Ok, per poi sparare la legge sulla testa di tutti noi sfigati. Questa è la democrazia in Unione Europea. Magari vi serve saperlo». Morale della favola: i garbati distinguo dei nostri politici ma anche le sporadiche invettive verso Bruxelles «fanno venire il mal di pancia forse a un termosifone, se va bene», a fronte di un regime che è istituzionalmente “complice” degli Stakeholder, sulla testa di cittadini che ancora stentano a capire sotto che razza di super-dittatura sono finiti, e perché.«Ripetiamo tutti insieme alla lavagna: nell’Unione Europea le leggi che contano le fa la Commissione di Bruxelles. I Parlamenti degli Stati dell’Unione non possono farci nulla, ma solo adottarle supini. Se si rifiutano, Bruxelles ha ogni possibile via legale e monetaria per bastonarli al punto di sottomissione». Le leggi che contano davvero, per cittadini e imprese, vengono scritte dalla Commissione su parere degli “stakeholders”, sottolinea Paolo Barnard. «E tutto si gioca qui. Ti chiedo: tu sei uno Stakeholder che dà il suo parere sulle leggi Ue che ti fanno? Ti risulta di esserlo?». La storia, ricorda il giornalista, inizia nell’anno Duemila, quando l’allora giovane inviato di “Report”, Rai Tre, mette insieme l’inchiesta ‘I globalizzatori”, che – ormai 17 anni fa – raccontava «tutto quello che oggi scoprono Sgarbi, Minzolini, Salvini, Borghi, Sapelli, Savona, Farage, alcuni “grullini” e codazzo cantante». La notizia principale era questa: «Era la Commissione Europea di Prodi a fare le leggi che contano per noi, ma noi ne sapevamo qualcosa? Ci veniva chiesto di leggerle o di farle leggere ai nostri parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria?».
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Luttwak: ok Prodi al Quirinale, a un patto: rinneghi l’euro
Romano Prodi al Quririnale, con l’appoggio degli Usa? A una condizione su tutte: deve rinnegare l’orrore monetario rappresentato dall’euro, che sta decretando la fine del benessere in Europa. «Prodi è un economista provato e una persona onesta. E di onestà, nella politica italiana, non c’è un’offerta illimitata. Però lui dovrebbe dire: sono onesto e competente, ma ho fatto un grave errore: l’euro». Parola di Edward Luttwak, intervistato da “Italia Oggi”. «Traducendo liberamente dall’inglese-americano all’italiano», ad Aldo Giannuli suona così: “Prodi è stato un nostro nemico e un fautore di quella porcheria di moneta, però è uno dei pochi in Italia che capisca qualcosa di economia, per cui, se non si intestardisce a fare il filo-tedesco e a difendere l’euro, se ne può discutere”. Per orientarsi nella battaglia che sta per iniziare intorno al Quirinale, aggiunge Giannuli, occorre capire che c’è una novità rispetto al passato: questa volta il presidente della Repubblica, molto più che da Montecitorio e Palazzo Madama, scaturirà da telefonate tra Mosca, Berlino, Francoforte e Washington.Oggi, continua Giannuli sul suo blog, la globalizzazione impone dinamiche diverse: il Quirinale è diventato più interessante di Palazzo Chigi anche in ragione della stabilità settennale del primo e della precarietà del secondo. Al centro della crisi mondiale, la guerra valutaria in atto, in cui il dollaro non è più il signore incontrastato di un tempo: «Oggi il dollaro deve fare i conti con lo yuan renminbi cui è legato da un perverso intreccio: il secondo si tiene volutamente sotto-apprezzato per favorire le esportazioni, ma inizia ad essere accettato come moneta di scambio internazionale (come è accaduto da ultimo nel contratto sino-russo per il gas e da altre intese con paesi asiatici e latino-americani)». Cercare di destabilizzarlo, secondo Giannuli «sarebbe non solo difficile e poco utile, ma anche pericoloso, visto che, nella pancia della banca centrale cinese riposano tremila miliardi di dollari fra banconote e T-bond pronti ad essere riversati sul mercato, con gli effetti che è facile immaginare».D’altro canto, «anche ai cinesi non conviene tirare la corda più di tanto, perché, se il dollaro va a fondo, quei tre milioni di miliardi vanno in fumo, e poi si brucia il principale mercato di sbocco delle sue merci». Ai cinesi dà fastidio che gli americani emettano liquidità “facile”, con l’effetto di svalutare i loro stessi crediti, ma poi, alla fine, conviene acconciarsi in un equilibrio precario, che non esclude i colpi bassi, ma non può mai saltare del tutto. «Come terzo incomodo fra i due colossi c’è l’euro, una moneta sbagliata che non dovrebbe esistere e invece esiste», e rischia di rendere «molto più precario» l’equilibrio fra dollaro e yuan. «Non è un mistero che una parte degli americani vedrebbe volentieri sparire questa moneta», mentre altri temono che il crollo dell’euro potrebbe innescare un effetto domino. «Ma, sia che si voglia far fuori l’euro, sia che lo si voglia solo ridimensionare (come si fece con lo yen nel 1985), occorre metterci le mani su, e il modo migliore è controllarne il punto debole». Se la Germania è il punto forte, l’Italia è quello debole: la Grecia, il Portogallo e forse la Spagna «possono rappresentare malanni seri ma curabili», mentre l’Italia, «con il suoi 2.000 e passa miliardi di debito, rappresenta il vero rischio mortale: a un default italiano, l’euro non sopravvivrebbe».Senza più moneta sovrana, si sa, il debito pubblico – risorsa fondamentale e leva strategica per lo sviluppo dell’economia – diventa invece un problema. Non potendo più ricorrere alla libera emissione di valuta per sostenere la spesa pubblica, «la pressione fiscale indotta dal peso degli interessi condanna la nostra economia a lenta morte per asfissia», con il Pil condannato a scendere e quindi il debito destinato a crescere ancora in rapporto al Pil. Senza contare la scure finale dell’Ue, pareggio di bilancio e Fiscal Compact: «C’è chi pretende che troviamo altri 100 miliardi all’anno per rispettare il patto di stabilità che prevede il dimezzamento del debito entro un certo numero di anni: follie». L’Italia straziata dall’euro è diventata «un cadavere tenuto a galla con interventi-tampone»? Prima o poi, allora, «è di qui che occorrerà partire per rifare l’ordine monetario del continente». In questo quadro, continua Giannuli, Napolitano ha agito come sorta di garante-commissario, diventando il vero interlocutore a livello internazionale, mentre Berlusconi, Monti, Letta e Renzi si succedevano l’uno all’altro. «Si capisce che, per il sistema internazionale, un interlocutore stabile sia una esigenza di primaria importanza. Ed è importante che il presidente sia “la persona giusta”, capace di usare i “poteri silenti” previsti dalla Carta Costituzionale. Di qui le crescenti interferenze su una questione che, in altri tempi, sarebbe stata assai meno notata nell’agenda internazionale».Chi lo ha capito per primo, fra i candidati, è stato proprio Prodi, «che ha iniziato una complessa manovra avvolgente proprio sul piano internazionale, capendo che i voti necessari si possono raccogliere più facilmente fuori che in Italia». Dopo la visita di Prodi a Mosca, dall’amico Putin, «il Cavaliere ha esplicitamente lasciato cadere il veto su di lui dicendosi pronto a discuterne, mentre Minzolini e Rossella hanno esplicitamente invitato Berlusconi a far sua questa candidatura». Sicuramente, aggiunge Giannuli, «Prodi non ha problemi a farsi appoggiare da Berlino, di cui è stato sempre tanto amico. E anche da Francoforte non dovrebbe mancare la simpatia. In fondo, poi Prodi potrà sdebitarsi con Draghi assicurandogli l’appoggio italiano per la candidatura al Fmi». Il problema più serio? E’ il nulla osta a stelle e strisce. «Per quanto russi, tedeschi e Bce possano essere autorevoli, sarebbe dura spuntarla contro un veto americano». Inoltre, Prodi non è il candidato naturale di Renzi: il premier «capisce perfettamente che, con Prodi al Quirinale, la sua permanenza a Palazzo Chigi potrebbe durare meno di un mese».Renzi potrebbe tentare di convincere gli americani e «ostentare la più schietta ortodossia atlantica, pur di evitare che la “mortadella dal volto umano” si insedi sul Colle». Viceversa, se ci fosse una pressione congiunta dei russi, dei tedeschi e della Bce, «con un appoggio americano anche solo tiepido», alla fine Renzi sarebbe costretto ad accettarlo e magari a proporlo, «per evitare di subirlo apertamente». Ma gli americani che pensano di Prodi? «E’ sempre stato amico della Germania, da sette-otto anni lo è pure della Cina», in più «tresca con i russi ed è stato ostile alla guerra del Golfo». Con questi precedenti non dovrebbe avere speranza alcuna. «Ma, in politica, mai dire mai». Specie dopo le parole di un uomo come Luttwak, ben addentro all’establishment di Washington. Insomma, conclude Giannuli, «non è detto che dal Potomac debba necessariamente arrivare un “niet”», e d’altra parte gli americani non saprebbero che farsene di una Pinotti, di un Veltroni o di un Franceschini. Serve un candidato di caratura internazionale. Prodi saprà convincere i suoi vecchi antipatizzanti? Per Giannuli, «la partita è molto più aperta di quel che si pensi». Potrebbero spuntare Amato, D’Alema, Cassese, forse Gentiloni. Ma intanto «l’unica candidatura in pista a livello internazionale è quella di Prodi: per ora, è il solo nome che si fa».Romano Prodi al Quririnale, con l’appoggio degli Usa? A una condizione su tutte: deve rinnegare l’orrore monetario rappresentato dall’euro, che sta decretando la fine del benessere in Europa. «Prodi è un economista provato e una persona onesta. E di onestà, nella politica italiana, non c’è un’offerta illimitata. Però lui dovrebbe dire: sono onesto e competente, ma ho fatto un grave errore: l’euro». Parola di Edward Luttwak, intervistato da “Italia Oggi”. «Traducendo liberamente dall’inglese-americano all’italiano», ad Aldo Giannuli suona così: “Prodi è stato un nostro nemico e un fautore di quella porcheria di moneta, però è uno dei pochi in Italia che capisca qualcosa di economia, per cui, se non si intestardisce a fare il filo-tedesco e a difendere l’euro, se ne può discutere”. Per orientarsi nella battaglia che sta per iniziare intorno al Quirinale, aggiunge Giannuli, occorre capire che c’è una novità rispetto al passato: questa volta il presidente della Repubblica, molto più che da Montecitorio e Palazzo Madama, scaturirà da telefonate tra Mosca, Berlino, Francoforte e Washington.
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Costituzione fai da te, Giulietto Chiesa: senatori golpisti
Ma Laura Puppato non avrebbe dovuto opporsi al “golpe bianco” per cambiare la Costituzione, come annunciato da lei stessa in piazza il 12 ottobre? E’ stata “convinta” in extremis da Anna Finocchiaro a votare a favore, spiega lei stessa nella sua pagina Facebook. «La Costituzione è in mano a queste rocce saldissime», commenta Giulietto Chiesa, che annuncia: «Noi faremo resistenza», contro la manomissione della Carta. Per soli 4 voti, il Senato ha approvato il dispositivo che modifica l’articolo 138 e apre la strada a rapide modifiche dell’impianto costituzionale, come suggerito dal “garante” Napolitano. Risultato: per cambiare le regole della democrazia in Italia non sarà più necessario disporre del consenso dei due terzi del Parlamento: si potrà procedere più alla svelta, magari come auspicato da uno dei potenti della Terra, il “ceo” di Jp Morgan Chase, Jamie Dimon, ansioso di veder sparire dall’Europa le “vecchie” Costituzioni come quella italiana, così attente ai diritti del lavoro.Questo Senato sbrigativo non ci rappresenta, protesta su “Megachip” Giulietto Chiesa, presidente del laboratorio politico “Alternativa”. «E’ una Camera che ha una maggioranza di provocatori, di lanzichenecchi che operano contro l’ordine e la pace sociale». Dettaglio decisivo: questa «maggioranza indegna» non è certo appannaggio dei soli “berluscones”, di Casini e di Monti, visto che «ne è parte integrante il Partito Democratico», che dopo lo “smacchiatore” Bersani propone il neoliberista Renzi, col contraltare mediatico di un uomo d’apparato come Cuperlo, che richiama la sinistra ai suoi doveri storici ma senza ovviamente disturbare il manovratore europeo, che col limite del deficit al 3% rende vuoto qualsiasi proclama sociale e democratico. Molte delle attuali direttive europee e degli accordi-capestro (Maastricht, Lisbona, Fiscal Compact) da cui dipende la nostra crisi, accusa un giurista come l’ex ministro Giuseppe Guarino, sono tecnicamente illegali, Costituzione alla mano. E, anziché rimediare impugnando la Carta, la si preferisce cambiare, neutralizzandola, in modo che non possa più ostacolare il super-potere europeo.La maggioranza con cui è passato al Senato il testo della deroga all’articolo 138 della Costituzione, storico baluardo contro tentazioni manipolatorie della Carta su cui si è finora basata la Repubblica nata dalla Resistenza, ha superato i due terzi con appena 218 a favore rispetto ai 214 del quorum richiesto (58 i contrari e 12 gli astenuti). Hanno votato a favore la stragrande maggioranza dei senatori Pd, Pdl e “Scelta Civica”. Contrari M5S e Sel, cui si aggiungono 5 senatori Pd: Felice Casson astenuto, mentre non hanno partecipato al voto Walter Tocci, Silvana Amati e Renato Turano. Con loro anche l’ex direttore di “RaiNews24”, Corradino Mineo, che pure – accettando di candidarsi – sperava in una “legislatura costituente” di ben altro livello. Decisivo, osserva il “Fatto Quotidiano”, il supporto numerico offerto della Lega Nord per sostenere il provvedimento, fortemente voluto dal governo delle larghe intese su sollecitazione del Quirinale. Se il quorum dei due terzi venisse superato anche alla Camera, sarà possibile evitare il referendum confermativo per le leggi di riforma costituzionale.Molte, al Senato, anche le defezioni nel Pdl, tra cui quella di Francesco Nitto Palma, senatore campano e presidente della commissione giustizia. Nel Pdl, scrive il “Fatto”, il colpo di mano sulla Costituzione ripropone lo scontro tra “falchi” e “colombe”: la fronda interna al partito berlusconiano nel voto sul ddl costituzionale ha coinvolto 11 senatori, che si sono astenuti al momento del voto (al Senato, l’astensione vale come un voto contrario). Oltre a Palma, gli altri sono Maria Elisabetta Alberti Casellati, Vincenzo D’Anna, Domenico De Siano, Ciro Falanga, Pietro Iurlaro, Pietro Langella, Eva Longo, Antonio Milo, Domenico Scilipoti e l’ex direttore del Tg1, Augusto Minzolini. «Di questi solo Nitto Palma, Minzolini e Falanga hanno annunciato in aula la loro astensione, in disaccordo col fatto che il ddl non affronta il tema della riforma della giustizia. Altri 12 senatori del Pdl, compreso Silvio Berlusconi, non erano invece presenti in aula». Alla Camera, ovviamente, la strada sarà spianata. E gli appelli di Zagrebelsky e Rodotà per non manomettere pericolosamente la Costituzione? Tutto inutile. «Faremo quanto è possibile per cancellare questa vergogna», annuncia Giulietto Chiesa. «Un Parlamento di nominati non rappresenta il paese e, tanto meno, può arrogarsi il diritto di cambiarne la carta costituzionale con un colpo di mano. Questo è un golpe bianco, che esegue il piano eversivo della P2. Noi faremo resistenza».Ma Laura Puppato non avrebbe dovuto opporsi al “golpe bianco” per cambiare la Costituzione, come annunciato da lei stessa in piazza il 12 ottobre? E’ stata “convinta” in extremis da Anna Finocchiaro a votare a favore, spiega ora nella sua pagina Facebook. «La Costituzione è in mano a queste rocce saldissime», commenta Giulietto Chiesa, che annuncia: «Noi faremo resistenza», contro la manomissione della Carta. Per soli 4 voti, il Senato ha approvato il dispositivo che modifica l’articolo 138 e apre la strada a rapide modifiche dell’impianto costituzionale, come suggerito dal “garante” Napolitano. Risultato: per cambiare le regole della democrazia in Italia non sarà più necessario disporre del consenso dei due terzi del Parlamento: si potrà procedere più alla svelta, magari come auspicato da uno dei potenti della Terra, il “ceo” di Jp Morgan Chase, Jamie Dimon, ansioso di veder sparire dall’Europa le “vecchie” Costituzioni come quella italiana, così attente ai diritti del lavoro.
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Minzulpop, sindrome Tg1: giornalismo senza notizie
La macchina berlusconiana del consenso giunta nella sua fase finale: il “Minzulpop”. Crasi tra il nome del “direttorissimo” del Tg1 Augusto Minzolini e il ministero della propaganda di mussoliniana memoria. Coniato su Facebook, adottato dai blog e consacrato su YouTube, il neologismo dà il titolo a un saggio collettivo (un gruppo di giornalisti, blogger, attivisti della comunicazione dietro lo pseudonimo asimoviano di Hari Seldon) che analizza l’intera “orchestra mediatica” del Cavaliere. Dagli embedded alle “meravigliose creature”, gli inesauribili portavoce del capo, fino agli inventori di diversivi che mantengono gli italiani sospesi in una rasserenante “bolla catodica”.
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Fuga dal Tg1, Minzolini fa crollare l’ammiraglia Rai
Martedì sera, 7 settembre, ore 20.06, Tg1: Augusto Minzolini compare sullo schermo per l’ennesimo editoriale (tema: no al ribaltone, sì al voto anticipato) e circa 150.000 spettatori afferrano il telecomando e spengono la televisione. Sul finire del monologo, altri 244.000 lasciano RaiUno e scappano verso il telegiornale di Enrico Mentana, sostituti da un gruppetto stanco di “Tempesta d’Amore” su Rete 4 e da 192.000 spettatori che accendono in quel momento la tv e beccano il fotogramma di Susanna Petruni che riprende la linea in studio. Morale dell’aritmetica: Minzolini ha perso 400.000 persone in centoventi secondi.
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La Busi: rinuncio al video, dal Tg1 è sparita l’Italia
Caro direttore, ti chiedo di essere sollevata dalla mansione di conduttrice dell’edizione delle 20 del Tg1, essendosi determinata una situazione che non mi consente di svolgere questo compito senza pregiudizio per le mie convinzioni professionali. Questa è per me una scelta difficile, ma obbligata. Considero la linea editoriale che hai voluto imprimere al giornale una sorta di dirottamento, a causa del quale il Tg1 rischia di schiantarsi contro una definitiva perdita di credibilità nei confronti dei telespettatori.
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Fermare Santoro? Mentana sul web aggira il bavaglio
Mentre si attende per oggi la decisione del Cda Rai sulla riapertura dei talk giornalistici pre-elettorali bloccati dal governo con un decreto poi bocciato dal Tar a cui hanno fatto ricorso La7 e Sky, con una mossa a sorpresa il “Corriere della Sera” ha aggirato il bavaglio televisivo utilizzando per l’infotalk l’unico canale libero: il web. Si chiama “Mentana Condicio” il format web creato dal quotidiano milanese, dove l’ex direttore del Tg5 e di “Matrix” ha messo a confronto La Russa, Enrico Letta, Di Pietro e, nell’ultima puntata, Ronchi e Zanda. Tema scottante: i diktat di Berlusconi all’Agcom per chiudere “Annozero”.
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Spinelli: Napolitano e Fini fermeranno la tele-dittatura
Mentre le potenze europee si chiedevano ‘cosa avesse in mente Hitler’, Churchill nel 1936 affermò che era finito «il tempo delle mezze misure, degli espedienti, dei sedativi», ma si era già entrati «nel tempo delle conseguenze». Barbara Spinelli, tra le più riconosciute osservatrici dei fatti politici italiani, lancia un allarme esplicito: la crisi è acuta, ormai «è finito il tempo di chiedersi ‘cosa accadrà’», ci siamo tutti abituati «all’idea che avverrà qualcosa di ancora peggiore», viste di minacce di Berlusconi che non riconosce più Quirinale e Consulta. Unica uscita di sicurezza? Fini. Perché «il regime autoritario può essere scalzato soltanto dalla maggioranza».