Archivio del Tag ‘burocrazia’
-
Fine della sovranità popolare, è l’autunno della democrazia
L’articolo 1 della Costituzione, comma II, recita: “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Anche molte altre costituzioni iniziano, più o meno, con la stessa dichiarazione di appartenenza della sovranità al popolo. Ed è proprio questa una delle norme più tradite dell’ordinamento giuridico: fra i popolo e la sovranità si frappongono molti ostacoli vecchi e nuovi, che vanificano in gran parte il valore. Fra gli ostacoli di sempre, prima fra tutti, c’è la tendenza oligarchica del ceto politico in tutte le sue forme. Nell’ordinamento liberale classico (retto a collegio uninominale) era un ceto notabilare a sollecitare, sulla sola base della fiducia personale, una delega piena che avrebbe speso a sua totale discrezione. Si pensò che il rimedio sarebbe stato la democrazia dei partiti, basata su una robusta e continua partecipazione popolare. L’eletto non sarebbe stato più solo nell’esercizio quinquennale del suo potere di rappresentanza, avrebbe dovuto render conto agli organi di partito, eletti con metodo democratico e rinnovati con frequenza molto meno che quinquennale. La voce della “base” si sarebbe fatta sentire di continuo.
-
Carpeoro: l’infame complotto degli italiani contro se stessi
L’Italia, oggi, sicuramente ha come nemico i poteri forti. Ma coloro che si dovrebbero opporre a quei poteri fanno tutt’altro. Il problema vero di questo paese non è di storia criminale, ma di storia non governata. Non è che siamo governati male: non siamo governati – il che, per certi aspetti, è peggio: forse, essere governati male è meglio che non essere governati. Certo, l’ideale sarebbe essere governati bene. Ma sapete cos’è necessario, per essere governati bene? Bisogna che, alla fine, qualcuno abbia il potere di decidere; che si sappia chi è che decide; e che il potere democratico, se le decisioni di questa persona si dimostrano sbagliate, la volta successiva lo lasci a casa. Vorremmo che la nostra vita fosse scandita da certezze, che non abbiamo: non abbiamo certezza nella giustizia e non abbiamo certezza nel nostro potere economico, perché non sappiamo chi lo governa. Non più la Banca d’Italia. La Banca Centrale Europea? Sì, ma chi la governa? Siamo sicuri che la governi quello che sembra che la governi adesso?
-
Eurispes: disastro Italia, uno su due non arriva a fine mese
Italiani sempre più poveri, euroscettici e sfiduciati per il futuro. Il popolo italiano arranca sempre più: lo confermano gli ultimi dati ufficiali. Quasi metà degli italiani non riesce ad arrivare alla fine del mese, sette italiani su dieci hanno visto ridursi il potere d’acquisto e tagliano su tutto, dai regali ai viaggi. Quasi un italiano su due accetta ormai l’idea di trasferirsi all’estero, e quattro connazionali su dieci uscirebbero dall’euro. Il rapporto Eurispes sul 2015 mostra un “mal d’Italia” ancora grave e fortemente diffuso, effetto di una crisi economica e finanziaria che morde ormai da molti anni. «Lo Stivale purtroppo continua a essere zavorrato e il tanto atteso decollo dell’economia e degli occupati cozza contro un muro di scetticismo», scrive il blog “Fronte di Liberazione dai Banchieri”. E mentre la crisi pesa, spiega il presidente di Eurispes, Gian Maria Fara, «lo Stato sopravvive nutrendosi dei propri cittadini e delle proprie imprese, cioè della società che lo esprime. Con evidente miopia: che cosa accadrà quando non ci sarà più nulla di cui nutrirsi?».«Mentre l’economia va a rotoli e la società vive un pericoloso processo di disarticolazione – aggiunge Fara – assistiamo al trionfo di un apparato burocratico onnipotente e pervasivo, in grado di controllare ogni momento e ogni passaggio della nostra vita». Da qui l’allontanamento dalle istituzioni dei cittadini italiani, che prosegue “indisturbato” da anni. Colpa anche della burocrazia, attacca Fara: «Con l’incredibile incremento della produzione legislativa necessaria a regolare la nuova complessità sociale ed economica, la burocrazia da esecutore si è trasformata prima in attore, poi in protagonista, poi ancora in casta e, infine, in vero e proprio potere al pari, se non al di sopra, di quello politico, economico, giudiziario, legislativo, esecutivo, dell’informazione». La cartella clinica del “paziente Italia” è «piena zeppa di diagnosi gravi», avverte l’Eurispes. La principale continua a essere la disoccupazione, che indirettamente ha rafforzato il plotone degli euroscettici, intaccando inevitabilmente anche la credibilità della politica.Il 47% degli italiani non riesce ad arrivare a fine mese con le proprie entrate. La percentuale è aumentata di 16,4 punti rispetto al 2014. Solo il 44,2% degli intervistati riesce a raggiungere fine mese senza grandi difficoltà. Registra ancora un calo il potere d’acquisto degli italiani. L’indagine Eurispes rileva che sette italiani su dieci (71,5%) hanno visto nell’ultimo anno diminuire nettamente o in parte il proprio potere d’acquisto, un dato in linea con quanto rilevato nel 2014 (70%). Dall’inchiesta emerge che l’82,1% dei cittadini ha ridotto le risorse per i regali, l’80,8% ha rinunciato ai pasti fuori casa, il 74,7% ha tagliato le spese per viaggi e vacanze, l’80,1% ha ridotto quelle per articoli tecnologici (+8,5%). Aumentano, ad esempio, le rateizzazioni per far fronte alle spese mediche: nel 2014 il 46,7% degli intervistati ricorre alle rate per pagare cure mediche, si tratta di un incremento di 24,3 punti percentuali rispetto al 2013. Si pagano a rate anche automobili (62,4%), elettrodomestici (60,4%), computer e telefonini (50,3%). Cresce il fenomeno dell’usura: sarebbero 40.000 gli usurai in attività, soprattutto nel Nord Italia. Vittime soprattutto i commercianti, ma non solo.Quattro italiani su dieci (40,1%) pensano che sarebbe meglio uscire dall’euro: il rapporto Eurispes 2015 segnala che a inizio 2014 la quota di delusi dalla moneta unica si attestava al 25,7%. Il 55,5% degli euroscettici è convinto che l’Italia debba uscire dall’euro perché sarebbe la moneta unica il motivo principale dell’indebolimento della nostra economia. Inoltre, per il 22,7% l’euro avrebbe avvantaggiato soltanto i paesi più ricchi. I meno convinti sulla moneta unica sono soprattutto i lavoratori atipici (47,5%), vale a dire, segnala l’Eurispes, «quelle categorie più indebolite dalla crisi economica e dall’instabilità del mercato del lavoro». Gli occupati con contratto a tempo determinato si dividono invece in due fasce quantitativamente simili, con un 47,4% di favorevoli e un 42,1% di contrari. E’ in crescita il numero di chi non si sente in grado di dare garanzie alla propria famiglia con il proprio lavoro (64,7%). Per l’ Eurispes, il 28% di chi lavora deve ricorrere all’aiuto di genitori e parenti.Inoltre, secondo l’indagine, riuscire a risparmiare qualcosa in futuro è un miraggio per 8 italiani su 10: per il 38,5% la risposta è “certamente no”, per il 41,2% “probabilmente no”. Oltre la metà dei lavoratori (57,7%) non è per nulla ottimista sulle possibilità che la propria situazione lavorativa permetta di fare progetti per il futuro. Inoltre, il 57% dice di non riuscire a fronteggiare spese importanti, anche qui tuttavia si registra un lieve miglioramento rispetto al precedente 66,1% del 2014. Quasi la metà degli italiani (il 45,4%) si trasferirebbe all’estero se ci fossero le condizioni. La percentuale, soprattutto a causa della crisi economica e delle difficoltà per chi cerca lavoro in Italia, è cresciuta di quasi otto punti dal 2006. «I dati appaiono come una conferma del fatto che oggi le condizioni di vita nel nostro paese sono più difficili che in passato per molti cittadini, al punto da indurre una parte di loro a valutare l’opportunità di trasferirsi».Italiani sempre più poveri, euroscettici e sfiduciati per il futuro. Il popolo italiano arranca sempre più: lo confermano gli ultimi dati ufficiali. Quasi metà degli italiani non riesce ad arrivare alla fine del mese, sette italiani su dieci hanno visto ridursi il potere d’acquisto e tagliano su tutto, dai regali ai viaggi. Quasi un italiano su due accetta ormai l’idea di trasferirsi all’estero, e quattro connazionali su dieci uscirebbero dall’euro. Il rapporto Eurispes sul 2015 mostra un “mal d’Italia” ancora grave e fortemente diffuso, effetto di una crisi economica e finanziaria che morde ormai da molti anni. «Lo Stivale purtroppo continua a essere zavorrato e il tanto atteso decollo dell’economia e degli occupati cozza contro un muro di scetticismo», scrive il blog “Fronte di Liberazione dai Banchieri”. E mentre la crisi pesa, spiega il presidente di Eurispes, Gian Maria Fara, «lo Stato sopravvive nutrendosi dei propri cittadini e delle proprie imprese, cioè della società che lo esprime. Con evidente miopia: che cosa accadrà quando non ci sarà più nulla di cui nutrirsi?».
-
Un solo Duce al comando, l’Italia è tornata alla monarchia
Matteo Renzi, il rottamatore che non ha bisogno di chiedere consenso, tanto meno di essere eletto dal popolo (infatti non è mai stato parlamentare, ma dà comandi ai parlamentari), si sceglie e impone in Parlamento il presidente della Repubblica, che invece dovrebbe rappresentare e garantire tutti, super partes. Facendolo, tradisce il Patto del Nazareno (che d’ora in poi potrà chiamarsi Patto del Giuda), e forma la sua terza maggiorana parlamentare, in perfetto stile africano. Adesso anche il presidente della Repubblica è un nominato. Un nominato del primo ministro, ratificato da un Parlamento di nominati, eletto con una legge elettorale già dichiarata incostituzionale una Corte di cui era membro lo stesso Mattarella! Ovviamente non potrà, quindi, svolgere una funzione di controllo e contrappeso rispetto al capo del governo. Questa è la componente sostanziale. Ma c’è anche la componente del metodo, che in materia costituzionale è sostanza: Renzi lo ha scelto unilateralmente e ha comunicato il nome della sua scelta all’ultimo momento persino al suo partito.Non si potrebbe immaginare qualcosa che sia più di parte di questo. Per giunta, è chiaro che Renzi ha scelto lui perché non minaccia, sia in Italia che all’estero, di contendere a lui la scena e alla Germania l’egemonia imperialista. A questo punto, che sia una figura politica e umana decente, presentabile, è secondario. In generale, la vicenda dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica evidenzia l’assurdità dell’assetto costituzionale presente, e ancora di più l’assetto costituzionale che risulterà dalla riforma elettorale congiunta la riforma del Senato: un assetto in cui un organo squisitamente di parte, parte politica, cioè il segretario del partito di maggioranza, non solo nomina direttamente o indirettamente i deputati e senatori, ma nomina persino il capo dello Stato che dovrebbe controllare e controbilanciare. È come se il premier britannico nominasse il re o la regina. L’assurdo nonpotrà mai essere legittimo, nemmeno se imposto con la legge costituzionale. Vedremo presto se Mattarella asseconderà questo processo eversivo della Costituzione.La divisione dei poteri dello Stato sembrava un principio cardine, scontato oramai e indiscutibile, indispensabile ai fini della legittimità dello Stato, un’acquisizione definitiva e irreversibile della democrazia occidentale; ma evidentemente non era così, almeno in Italia: con le riforme del Senato e della legge elettorale, il nostro premier è riuscito a rovesciare il lavoro di Montesquieu, a ritornare a una struttura statuale come prima della Rivoluzione Francese. Ora infatti il premier unisce in sé il potere esecutivo, il potere legislativo e un’ampia parte del potere di controllo. Inoltre, non vi sono contrappesi indipendenti da lui al suo strapotere. La tesi fondamentale esposta da Montesquieu nel suo celebre trattato “Lo spirito delle leggi”, pubblicato nel 1748, è che può dirsi libero solo quell’ordinamento in cui nessun governante possa abusare del potere a lui affidato. Per prevenire tale abuso, occorrono contrappesi e controlli; occorre che “il potere arresti il potere”, cioè che i tre poteri fondamentali siano affidati a persone od organi differenti, in modo che ciascuno di essi possa impedire all’altro di esorbitare dai suoi limiti e debordare in tirannia.La riunione di questi poteri nelle medesime mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perché annullerebbe quella “bilancia dei poteri” che costituisce l’unica salvaguardia o “garanzia” costituzionale in cui risiede la libertà effettiva. «Il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente»: è partendo da questa considerazione, che Montesquieu elabora la teoria della separazione dei poteri. Per evitare che si conculchi la libertà dei cittadini, il potere legislativo e quello esecutivo non possono mai essere accentrati in un’unica persona od organo costituzionale. Tecnicamente, perciò, Renzi ha restaurato l’ancien régime, lo Stato assolutista pre-rivoluzione francese. Infatti con le sue riforme il premier domina il partito e ne forma le liste elettorali; domina la Camera con un terzo circa dei suffragi; domina l’ordine del giorno dei lavori; domina il Senato; sceglie il capo dello Stato; nomina direttamente cinque membri della Corte Costituzionale e cinque attraverso il capo dello Stato; nomina o sceglie i capi delle commissioni di garanzia e delle authorities; da ultimo, quasi dimenticavo, presiede il Consiglio dei ministri. E gestisce molte altre cose. Si è fatto controllore di se stesso. Questo intendo dire quando affermo che è stato superato il principio della divisione dei poteri dello Stato.In ciò, Renzi batte Mussolini, perché l’espansione dei poteri del Duce incontrava la limitazione data dalla presenza del re a capo dello Stato, il quale non era scelto ovviamente dal Duce, ed era al di sopra del suo raggio d’azione, tanto è vero che il Re lo fece arrestare nel 1943. Rispetto a questo, Renzi è più simile a Hitler, perché anche in Germania non c’era la monarchia, quindi il cancelliere potè riunire nelle sue mani tutti i poteri. L’abolizione della separazione dei poteri dello Stato è un salto costituzionale tanto lungo e radicale quanto sarebbe il salto per passare alla legge islamica, alla shariya. Eppure, chi si accorge di tale salto? Il popolo è scusato, dato che le stime ufficiali rilevano un 47% di analfabetismo funzionale e solo un 18% capace di capire testi un po’ complessi, figuriamoci Montesquieu. Ma dove sono i liberali, i democratici, i costituzionalisti, i filosofi, i politici, gli intellettuali, quelli che hanno ampio accesso ai mass media e che fino a ieri si riempivano la bocca di antifascismo, Costituzione, Resistenza, garanzie?Dove sono i fieri magistrati che dimostravano con la Costituzione sotto il braccio togato? Perché tacciono di fronte alla concentrazione dei poteri in un’unica persona, di fronte all’abolizione dei controlli e dei bilanciamenti? Perché non insorgono come facevano in passato per molto, molto meno? Se non ora, quando, vostro onore? O sono cambiati gli ordini di scuderia? Forse voi, maliziosi lettori, pensate che i suddetti signori siano tutti diretti sul carro del vincitore, alla mensa del principe. Ma che male ci sarebbe, a questo punto? I poteri forti, la cosiddetta Europa del Bilderberg e di altri simili organismi, hanno capito che le inveterate caratteristiche sociologiche italiane non consentono il risanamento morale, la legalità e l’efficienza. Non provano nemmeno a metterci le mani. Si sono convinti che per governare e spremere questo paese ci vuole invece proprio il suo autoctono, tradizionale regime buro-partitocratico, con i suoi poteri collegati. Attraverso Renzi e Berlusconi, uniti da un patto sottobanco e di convenienza, forse comprendente la soluzione di problemi giudiziari, lo hanno perfezionato, stabilizzato, costituzionalizzato, ponendo tutto nelle mani del segretario del partito forte, controllore di se stesso. “Honni soit qui a mal de panse. Adieu, Montesquieu: Vive le renzien régime!”.(Marco Della Luna, “Renzi rottama Montesquieu e nomina Mattarella”, dal blog di Della Luna del 29 gennaio 2015).Matteo Renzi, il rottamatore che non ha bisogno di chiedere consenso, tanto meno di essere eletto dal popolo (infatti non è mai stato parlamentare, ma dà comandi ai parlamentari), si sceglie e impone in Parlamento il presidente della Repubblica, che invece dovrebbe rappresentare e garantire tutti, super partes. Facendolo, tradisce il Patto del Nazareno (che d’ora in poi potrà chiamarsi Patto del Giuda), e forma la sua terza maggiorana parlamentare, in perfetto stile africano. Adesso anche il presidente della Repubblica è un nominato. Un nominato del primo ministro, ratificato da un Parlamento di nominati, eletto con una legge elettorale già dichiarata incostituzionale una Corte di cui era membro lo stesso Mattarella! Ovviamente non potrà, quindi, svolgere una funzione di controllo e contrappeso rispetto al capo del governo. Questa è la componente sostanziale. Ma c’è anche la componente del metodo, che in materia costituzionale è sostanza: Renzi lo ha scelto unilateralmente e ha comunicato il nome della sua scelta all’ultimo momento persino al suo partito.
-
La Germania sta distruggendo l’Europa, ancora una volta
La riunificazione tedesca è, fra l’altro, un grande esperimento di ingegneria sociale: scompare mezzo secolo di economia totalitaria, prima nazista poi comunista, che è riorganizzata dalle fondamenta e nello stesso tempo adattata in tempi brevissimi a un sistema industriale e finanziario, fortemente strutturato, che preesiste. Un esperimento forse senza precedenti nella storia: rivoluzioni come quella sovietica hanno distrutto l’economia esistente per rifarla ex novo e non per incollarla come appendice a un’altra già funzionante; transizioni complesse come quella cinese hanno introdotto nell’economia novità dirompenti, ma con tempi lunghi e mediazioni sottili quanto estese. Lo smontaggio dell’economia tedesco-orientale non è l’unico esperimento di ingegneria sociale che si svolge in Europa negli anni ‘90: anche se procede con mezzi meno cogenti, la costruzione – a partire dall’adozione della stessa moneta – di un’area economica integrata ha un tratto consimile che consiste nell’idea di riorganizzare una vasta serie di attività industriali e finanziarie secondo un disegno preordinato ad alta intensità ideologica.In un libro denso di informazioni e lucido nell’analisi (“Anschluss – L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa”, Imprimatur editore) Vladimiro Giacché, dirigente di Sator (boutique finanziaria di Matteo Arpe) e studioso di impianto marxista, paragona i due esperimenti e rintraccia temi ricorrenti, analogie operative, intenzioni convergenti. L’“annessione” dell’economia pianificata dell’est a quella di mercato dell’ovest, che l’autore racconta in dettaglio, si basa su tre capisaldi. Anzitutto il primato, temporale e strutturale, dell’unione monetaria: il 7 febbraio 1990, a meno di tre mesi dalla caduta del Muro, Kohl, il cancelliere federale, propone alla Rdt, lo stato tedesco-orientale, di unificare in tempi brevi la moneta e poco dopo, durante la campagna elettorale a est (le prime elezioni politiche libere dopo quasi 60 anni si tengono il 19 marzo), promette un cambio alla pari che si realizza il 18 maggio quando i due Stati tedeschi firmano il Trattato sull’Unione monetaria economica e sociale (in vigore dal 1° luglio).Il marco dell’est non era convertibile, ma negli scambi commerciali fra le due Germanie l’uso pratico ne richiedeva 4,4 per fare un marco dell’ovest. Il cambio alla pari, così sproporzionato, ha conseguenze profonde sulla vita dell’est: risparmiatori e creditori lucrano forti vantaggi, si agevola l’accesso alle merci occidentali (ma subito parte l’aumento dei prezzi), le imprese, già obsolete, finiscono fuori mercato: la debole economia dell’Est va in pezzi ed è pronta per rimodellarsi secondo il disegno dell’ovest. La moneta è fin dall’inizio lo strumento per mutare i rapporti economici e per questa via riorganizzare l’Est: Wolfgang Schäuble, attuale ministro delle finanze e all’epoca uno dei responsabili di Bonn nel negoziato per il Trattato sull’Unione, lo dice senza giri di parole: «A de Maizière (primo ministro a Berlino) era ben chiaro, come a Tietmeyer (capo negoziatore e futuro presidente della Bundesbank) e a me, che, con l’introduzione della moneta occidentale, le imprese della Rdt di colpo non sarebbero più state in grado di competere».In secondo luogo c’è l’invenzione della Treuhandanstalt, una sorta di istituto di amministrazione fiduciaria che ottiene quasi tutto il patrimonio della Rdt allo scopo di privatizzarlo nei tempi più brevi. Alla fine del 1994 “la più grande holding del mondo”, che il 1° luglio 1990 concentra in sé 8.500 imprese, 20.000 esercizi commerciali e 25 miliardi di metri quadri (terreni, foreste, immobili), conclude il suo compito. Molto è liquidato a inizio opera, poco è risanato, la gran parte del patrimonio è venduta a prezzi stracciati e trattativa privata a compratori tedesco-occidentali (a loro va l’87 per cento delle imprese privatizzate). Il bilancio finale è in perdita per 257 miliardi di marchi: a fronte di 73 miliardi di ricavi (37 soltanto realmente riscossi) stanno spese di risanamento (154 miliardi), bonifiche ambientali (44 miliardi), debiti pregressi (101 miliardi) e altri costi. Dei 4 milioni di lavoratori che secondo stime del governo Kohl sono impiegati a fine 1989 nelle imprese poi gestite dalla Treuhand, solo un milione e mezzo – secondo valutazioni degli acquirenti – mantiene un posto di lavoro dopo il risanamento. Per Giacché l’opera della Treuhand, alla fine, non fu altro che «distruzione della base industriale della Germania Est». Infatti, «la vecchia Rdt era un paese solido almeno sotto un profilo: il patrimonio dello Stato era un multiplo del debito pubblico».Infine il privilegio accordato alle banche dell’ovest: acquirenti a prezzi di saldo e quasi in esclusiva delle banche orientali, si ritrovano in pancia una massa ingente di crediti (per lo più partite di giro fra articolazioni dello stato, unico proprietario esistente nel regime comunista) coperti, a norma del Trattato sull’unione, da garanzie del nuovo stato unificato. In totale sono acquisiti «crediti per 44,5 miliardi di marchi: una cifra pari a 55 volte il prezzo pagato dai compratori. Già i soli interessi del 10 per cento che le banche cominciano a praticare rappresentano un multiplo del prezzo d’acquisto». I capisaldi che creano l’“annessione” sono applicati, nota Giacché, in modo radicale, con intensità fondamentalista: la Germania Est, sbandata e inerme, è in condizioni simili a quelle di un paese che ha perso la guerra. «Si tratta di un ingresso della Rdt nella Repubblica federale, e non di un’unione tra pari di due Stati» (è sempre Schäuble che parla, con l’abituale ruvidezza).Nel caso dell’Eurozona i tempi sono allungati, il radicalismo della gestione è smussato, quasi dissimulato, ma i princìpi, le linee di fondo si mantengono. Anche in Europa la moneta è l’elemento fondante del nuovo rapporto fra gli Stati: precede ogni altra decisione, vincola la politica, indirizza l’economia. Chi decide il cambio e governa la moneta poi comanda l’unione fra gli Stati e fa la politica comune. Quando nel 1991-’92 negozia l’abbandono del marco e dà via libera alla moneta comune, Kohl sa bene, a differenza degli altri leader europei, quanto conti il vincolo monetario: ha già fatto un test. La storia dell’euro con i numerosi vantaggi offerti alla Germania e la progressiva riduzione della base industriale in molti paesi – soprattutto dell’orlo sud – conferma la dirompente forza politica della scelta che mette la moneta al primo posto e «costringe a chiedersi se l’unione monetaria non abbia replicato lo stesso meccanismo» all’opera nella Germania unificata.Il secondo caposaldo che caratterizza l’annessione dell’est tedesco e poi ricompare in grande formato sulla scena europea è l’indifferenza per la ricchezza (umana, produttiva, fisica) presente nei paesi che hanno difficoltà con l’impianto monetario reso vincolante: le ricette imposte a Grecia, Portogallo, Spagna o lo strisciante degrado industriale e tecnico vissuto dall’Italia fanno da testimonianza. Giacché cita, a suggello, dichiarazioni di Steinmeier, oggi ministro degli esteri in quota Spd (ma Juncker e Schäuble ne hanno fatte di analoghe), che offrono il modello Treuhand quale via di risanamento: «Vale la pena di riflettere sulla proposta di un modello europeo di Treuhand a cui apportare il patrimonio statale della Grecia da privatizzare in 10-15 anni. Col ricavato la Grecia potrebbe ridurre il suo indebitamento». Infine, ed è il terzo caposaldo, la struttura stessa degli algoritmi di Maastricht è pensata per proteggere i creditori e nei casi di crisi acuta, come in Grecia, è stata efficace nell’aprire alle banche una via d’uscita.Incorporazione della Germania est, creazione dell’area a moneta unica, conferma delle regole dell’euro nonostante le pessime prestazioni e l’ostilità del resto del mondo (Stati Uniti in testa: tutti vedono dissolversi nell’inanità contabile un partner come l’Europa essenziale per la crescita). La sequenza, che allinea un mezzo successo pagato a carissimo prezzo (non solo dai tedeschi) e un disastro economico-sociale reiterato senza correzioni per quasi sette anni, impressiona non solo per la durata temporale ma soprattutto per la resistenza alle confutazioni della realtà. Quali sono le forze potenti che hanno imposto all’Europa, senza chance di revisione, un modello tedesco così squilibrato e asimmetrico? Occorre un flashback. Con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e la fine dell’Unione Sovietica nel 1991, non crolla soltanto un pugno di regimi totalitari: si dissolve un ordine mondiale, quello che si era formato nel 1946-’48 con l’avvio della Guerra Fredda. Era un sistema “westfaliano”, come spiega il novantenne Kissinger nel suo ultimo splendido libro, “World Order”: al pari di tutti gli altri sistemi d’ordine succedutisi dopo la pace tedesca del 1648, anche la Guerra Fredda si basava su blocchi di alleanze disciplinati al proprio interno, regole di confronto fra i blocchi, gerarchie fra gli Stati, bilanciamenti di potere come criterio di continuità strategica del sistema.Per oltre 40 anni l’ordine tiene: poi la deflagrazione dell’Urss, uno dei pilastri del sistema, lo fa cadere e fino a oggi niente di simile lo sostituisce: gli interessi nazionali degli Stati faticano, senza regole condivise e fori di composizione, a trovare sintesi; criteri di legittimità diversi si contrappongono; le alleanze perdono vincoli e quindi stabilità. Il disordine politico si amplifica con la rivoluzione portata dalla tecnologia digitale che accelera il salto a una dimensione globale dei mercati e potenzia funzioni e performance della finanza: la scala degli effetti e il raggio delle persone coinvolte superano ormai la portata delle precedenti rivoluzioni industriali. L’Europa cambia volto: l’impero sovietico e un paio di Stati artificiali creati a Versailles nel 1919 si frantumano; ricompaiono Stati, come quelli baltici, perduti dal 1939; altri, come quelli nati dalla Yugoslavia dissolta, si formano ex novo; gli Stati dell’Europa centrale, per 40 anni a sovranità limitata, ridiventano soggetti politici; nei Balcani ritorna la guerra. E’ uno sconvolgimento di forza epocale che i leader politici d’Europa non riconoscono, non riescono a misurare nella sua drammatica grandezza. La politica non guida gli eventi, va a rimorchio. Escogita soluzioni sbilenche (l’allargamento dell’Ue in gran fretta) o lascia marcire le cose (Balcani).Kohl è l’unico leader con un grande disegno che proietta l’interesse nazionale su una dimensione generale. Ha come leve la forza del marco, un sistema industriale costruito in 40 anni di intenso sviluppo, l’ideologia mercantilista (esportazioni al primo posto e quindi alta tecnologia e bassi salari) che sostiene entrambi (l’ordoliberismo) e li offre in un pacchetto come modello e come metodo per il tragitto futuro dell’integrazione europea. Considerata fino agli anni ‘80 un complemento idealista, manovrato dal tecnicismo giuridico, della politica nazionale, l’idea dell’integrazione diventa, dopo la fine della Guerra Fredda e con l’attenzione americana ormai rivolta altrove (Clinton punta sull’alleanza politico-finanziaria con la Cina), il quadro inevitabile entro cui tenere insieme le storie multiformi e gli interessi differenziati delle nazioni europee: Kohl fornisce la soluzione pratica che rende realizzabile una teoria fumosa e fa apparire credibile ai riluttanti francesi l’illusione di comandare per via politica un ruolo internazionale che l’economia ormai nega loro.Nel momento in cui l’euro si fa a calco del marco e la visione mercantilista diventa il paradigma dell’Unione, la Germania ottiene uno straordinario vantaggio di posizione: fissa lo standard e il resto d’Europa deve adattarsi alla sua scelta (poiché il gioco dell’export non è illimitato e implica che qualcuno importi, chi muove per primo ha partita più facile). La potenza che la Germania accumula durante gli anni dell’euro rende l’impianto varato da Kohl sempre più difficile da ribaltare: troppi i vantaggi sia politici sia economici. Solo ora, con la recessione che non cessa di allargarsi, segmenti della società tedesca cominciano a contare gli svantaggi. Altri due fattori vanno calcolati. Il più rilevante è la riduzione di ruolo della politica che è congenito nel modello adottato: per tutelare i debitori e incentivare l’export, le strategie di bilancio sono sottratte alla politica vincolata al consenso (e quindi incline, in paesi con tradizioni civili diverse da quella tedesca, a una certa indisciplina fiscale) e consegnate a pacchetti di norme assistiti da sanzioni. La politica amputata offre a parti significative delle classi dirigenti europee nuovi spazi d’azione, nonché vantaggi materiali e ideali. Da un lato la burocrazia comunitaria, quale custode delle norme che spingono avanti l’integrazione, accresce competenze, potere, funzione sociale – a scapito del campo di decisione nazionale che appartiene agli elettori. Dall’altro le élite dell’economia trovano un’ideologia che ne agevola e valorizza l’azione, almeno finché il disegno normativo non diventa troppo invadente: l’abbracciano con fervore e la trasformano in una sorta di pensiero ufficiale che per la politica quotidiana diventa sfondo obbligato e, con ciò, vincolo decisivo.Sommate fra loro, élite e burocrazie formano un blocco di forze poderoso che ha fatto un enorme investimento sull’idea dell’integrazione e ora non riesce a concepire un cambio di rotta. Infine il sistema politico: in alcuni paesi, soprattutto quelli in cui l’economia è più debole, preferisce scaricare responsabilità e, con una sovranità economica circoscritta, trovare altrove campi d’azione più favorevoli (diritti vari da tutelare, ambiente). L’ultimo fattore da considerare riguarda i caratteri genetici del modello che l’intuizione anticipatrice di Kohl, l’incomprensione degli altri leader continentali per gli sconvolgimenti degli anni ‘90, l’appoggio entusiasta delle élite hanno messo al comando della politica economica europea. Riflette un’impostazione mercantilista che, come nota Wolfgang Munchau sul “Financial Times”, è una solitaria eccezione tedesca entro il pensiero economico internazionale, ha seri buchi di funzionamento e una singolare carenza di feedback. Non c’è sforzo di correzione in corso d’opera, adattamento plastico alla contingenza: la comprensione è totalizzante, l’impianto razionale del modello non è intaccato dalle smentite empiriche, alla fine i conti tornano soprattutto grazie alla potenza politica e culturale.Paul Krugman parla di «potere infinitamente devastante delle cattive idee», e aggiunge: «Non è tutta colpa della Germania (che…) riesce a imporre le sue politiche deflazioniste soltanto perché gran parte dell’élite europea ha abboccato alla stessa falsa storiella». Honecker, l’ultimo segretario della Sed, il Partito comunista della Germania est, riflettendo in carcere sull’unificazione tedesca, connette la forza delle “cattive idee” a un carattere peculiare della ragione tedesca che definisce «propensione alla totalità». Giacché sottoscrive e specifica: «Utilizzo ai limiti del cinismo di rapporti di forza, rifiuto di compromessi accettabili, convinzione integralistica dell’assoluta superiorità del proprio punto di vista, difesa accanita degli interessi» nazionali. Chi vuole potrebbe rintracciare ascendenze storiche: dopo Bismarck la Germania ha spesso concepito assetti europei centrati su di sé e, come ovvio, sbilanciati nella distribuzione della potenza continentale. La formulazione più articolata si trova nel “Septemberprogramm” del cancelliere Bethmann-Hollweg, che è redatto nel 1914 in piena offensiva della Marna e pone come obiettivo nazionale «la fondazione di una associazione economica mitteleuropea mediante comuni convenzioni doganali con l’inclusione di Francia, Belgio, Olanda, Danimarca, Austria-Ungheria, Polonia, Italia, Svezia e Norvegia».L’associazione, «caratterizzata esternamente da parità di diritti tra i suoi membri ma in effetti sotto direzione tedesca» costituisce, nella visione del suo ispiratore Walther Rathenau, nel 1922 ministro degli esteri a Weimar poi assassinato da estremisti di destra, uno strumento essenziale per consentire alla Germania così rafforzata di mantenere una posizione di potenza mondiale come Stati Uniti, Gran Bretagna e Russia. Finché la scala delle operazioni è limitata al rango nazionale, come nel caso della Germania Est, il modello totalizzante, che implica asimmetria di comando fra chi propone l’impianto mercantilista e chi l’adotta, funziona, anche se con costi alti; quando invece con un salto di dimensione si passa alla scala continentale e il rapporto tra la potenza egemone e le altre non è più una soggezione storicamente confermata ma sfuma in una meno cogente subordinazione politica, come nell’area euro, allora le disfunzioni del modello diventano insuperabili: le divaricazioni fra gli Stati si allargano, la politica riprende spazio e contesta gli algoritmi, lo stallo prevale – in mancanza di strumenti autocorrettivi.Un modello ideale che promette, attraverso successive cessioni di sovranità, l’evaporazione degli Stati nazionali in una prospettiva confederale contrasta con gli interessi vitali che tuttora formano la trama di fondo della politica europea e soprattutto con il sentimento delle popolazioni che oggi collocano la propria sfera di esperienza solo entro la dimensione nazionale. Ma non è solo immobilismo, palude dei comitati e dei vertici: crescono le divisioni dentro la società europea, si estendono crepe e fratture: ideologia ufficiale contro esperienza vissuta, classi dirigenti contro popoli, nord contro sud, algoritmi da applicare rigidamente contro sentimento della contingenza politica. La frantumazione a sua volta rafforza l’inerzia: passi avanti sulla via dell’integrazione sovranazionale, come vorrebbero le élite che sperano di risolvere con l’azzardo della visione ideale i fallimenti operativi, sono rigettati dagli elettori; passi indietro verso una revisione del modello che attenui vincoli troppo stretti, sono avversati dalla potenza egemone e sconsigliati dalle inevitabili difficoltà pratiche. Lo stallo, in quanto esito più facile, alla fine domina e drammatizza lo stato delle cose.(Antonio Pilati, “L’Anschluss secondo Angela”, da “Il Foglio” del 9 dicembre 2014. Il libro: Vladimiro Giacché, “Anschluss – L’Annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa”, Imprimatur editore, 304 pagine, 18 euro).La riunificazione tedesca è, fra l’altro, un grande esperimento di ingegneria sociale: scompare mezzo secolo di economia totalitaria, prima nazista poi comunista, che è riorganizzata dalle fondamenta e nello stesso tempo adattata in tempi brevissimi a un sistema industriale e finanziario, fortemente strutturato, che preesiste. Un esperimento forse senza precedenti nella storia: rivoluzioni come quella sovietica hanno distrutto l’economia esistente per rifarla ex novo e non per incollarla come appendice a un’altra già funzionante; transizioni complesse come quella cinese hanno introdotto nell’economia novità dirompenti, ma con tempi lunghi e mediazioni sottili quanto estese. Lo smontaggio dell’economia tedesco-orientale non è l’unico esperimento di ingegneria sociale che si svolge in Europa negli anni ‘90: anche se procede con mezzi meno cogenti, la costruzione – a partire dall’adozione della stessa moneta – di un’area economica integrata ha un tratto consimile che consiste nell’idea di riorganizzare una vasta serie di attività industriali e finanziarie secondo un disegno preordinato ad alta intensità ideologica.
-
Maestri pagati con buoni pasto: la Francia sta per fallire
«C’è una realtà fittizia, quella dei desideri, il bel sogno. E poi c’è la triste realtà dei fatti, quella che la stragrande maggioranza delle persone non vuole vedere». Secondo Charles Sannat, il fallimento tecnico della Francia, anch’essa prostrata dal regime dell’euro, è più vicino di quanto non si creda: le casse dello Stato sono vuote. «La questione non è più sapere se lo Stato farà o non farà fallimento, ma quando sarà obbligato a riconoscerlo e quali saranno le modalità con cui rinegozierà il debito». Per Sannat «non succederà fra vent’anni, né tantomeno oggi, ma più verosimilmente nel 2015, quando probabilmente non riusciremo a far fronte al budget per il 2016» Tutto questo, aggiunge l’analista, avviene nella quasi-indifferenza generale. Lo definisce “accecamento volontario”: «Pensare che la Francia stia per fallire è talmente spaventoso che preferiamo chiudere gli occhi e fare come gli struzzi». E poi c’è il conformismo del gruppo: «Vogliamo assomigliarci tutti quanti per sentirci accettati», quindi «il nostro pensiero sarà sempre il pensiero comune del gruppo», quello che riteniamo accettabile. «È attraverso questo meccanismo che si spiegano il “consenso”, il “pensiero unico” o, ancora, le proposte tranquillizzanti che ci somministrano».Tenendo conto di questa dimensione psicologica, aggiunge Sannat in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, si ottiene «una schiacciante maggioranza di persone che “creano” il consenso e che, per non dover guardare la fredda e mostruosa realtà, si accecano volontariamente e sviluppano un pensiero unico sterilizzante, che difenderanno con le unghie». E chi dice come stanno realmente le cose «diventa il nemico del gruppo, e il gruppo cercherà di eliminarlo: il suo messaggio non deve essere ascoltato». Secondo l’analista, gli indizi del collasso imminente sono già sotto i nostri occhi. E continuare a non volerli vedere significherà solo provare più sofferenza al momento dell’impatto definitivo con la realtà, nonostante la camomilla mediatica del mainstream, l’informazione «superficiale e senza analisi», che mescola «gossip ed economia in un mondo in cui tutto si eguaglia e non c’è più una gerarchia di rilevanze». Lo conferma Joëlle, maestra senza salario che tira avanti con i buoni alimentari. Segnala l’agitazione degli insegnanti della scuola superiore per il corpo docente. «Cosa chiedono? Una revisione della loro formazione, mal concepita, ma anche il saldo dei salari di alcuni colleghi che dall’inizio dell’anno scolastico non sono ancora stati pagati».Ufficialmente, è sempre colpa dei “sistemi informatici” o dei ritardi amministrativi, ma la realtà – secondo “Le Parisienne” – è che «non c’è più denaro nelle casse, così ai giovani maestri si rifilano buoni pasto». Non ci sono più soldi, e «il fallimento è alle porte», avverte “Économie Matin”, secondo cui il sistema delle pensioni integrative «rischia la bancarotta nel 2017-2018». Intanto, stanno già per essere tagliate addirittura del 30% le pensioni complementari dei funzionari. Secondo “France Info”, una brutta sorpresa aspetta i 110.000 dirigenti pubblici a riposo, che si vedranno ridurre di un terzo la loro pensione. Ancora dubbi? «Non c’è più trippa per gatti», scrive “France Transactions”: «Fine della storia, siamo al capolinea già adesso». Dagli statali alla difesa: «Dato che non abbiamo più il becco di un quattrino – scrive Sannat – l’esercito rivenderà il proprio equipaggiamento a società private». Emmanuel Macron è favorevole, Michel Sapin contrario, e Hollande ha dato ragione al primo. «In questo modo, l’esercito percepirà subito qualche miliardo dalla vendita, cosa che permetterà di chiudere un buco di oltre 2 miliardi di euro nel budget della difesa». Dopodiché, le forze armate pagheranno un “affitto” per l’uso di quello stesso materiale. «Risultato: l’anno prossimo bisognerà trovare qualcos’altro per far quadrare i conti», secondo “Les Échosos”.Una “catastrofe annunciata”, addirittura, attende le forze dell’ordine, polizia e Gendarmerie. Mentre «diverse migliaia di poliziotti hanno sfilato a Parigi per denunciare le loro condizioni di lavoro e il malessere che regna nella polizia, iniziativa quanto mai rara per questa categoria», un articolo di “Le Figaro” rivela che «le auto delle forze dell’ordine sono alla frutta e che non c’è più denaro per comprarne altre», anche se lo Stato continua a foraggiare la Renault per l’acquisto di «inutili» veicoli elettrici. Sono solo alcuni esempi, osserva Sannat. E se Parigi è senza soldi, significa una sola cosa: le tasse aumenteranno ancora. «Per sopravvivere, lo Stato andrà fino in fondo nella sua logica mortale». Incapace di riforme da oltre 50 anni, ancora poggiato sull’eredità dei “Trente Glorieuses”, il trentennio del boom economico (1945-1973) che ormai non è che un vago ricordo, l’amministrazione è «sotto pressione per l’ingresso di centinaia di migliaia di nuovi pensionamenti l’anno, per i quali almeno 12 mesi prima deve essere in grado di versare loro la prima pensione». Senza più moneta sovrana diventa insostenibile «il peso di decenni di debito accumulato». I francesi sono «soffocati da una fiscalità sempre più dura, fino a uccidere ogni attività economica». Conclude Sannat: «Con la perdita della nostra sovranità monetaria e di spesa, la Francia è di fatto condannata al fallimento finanziario, peraltro già cominciato sotto i nostri occhi».«C’è una realtà fittizia, quella dei desideri, il bel sogno. E poi c’è la triste realtà dei fatti, quella che la stragrande maggioranza delle persone non vuole vedere». Secondo Charles Sannat, il fallimento tecnico della Francia, anch’essa prostrata dal regime dell’euro, è più vicino di quanto non si creda: le casse dello Stato sono vuote. «La questione non è più sapere se lo Stato farà o non farà fallimento, ma quando sarà obbligato a riconoscerlo e quali saranno le modalità con cui rinegozierà il debito». Per Sannat «non succederà fra vent’anni, né tantomeno oggi, ma più verosimilmente nel 2015, quando probabilmente non riusciremo a far fronte al budget per il 2016» Tutto questo, aggiunge l’analista, avviene nella quasi-indifferenza generale. Lo definisce “accecamento volontario”: «Pensare che la Francia stia per fallire è talmente spaventoso che preferiamo chiudere gli occhi e fare come gli struzzi». E poi c’è il conformismo del gruppo: «Vogliamo assomigliarci tutti quanti per sentirci accettati», quindi «il nostro pensiero sarà sempre il pensiero comune del gruppo», quello che riteniamo accettabile. «È attraverso questo meccanismo che si spiegano il “consenso”, il “pensiero unico” o, ancora, le proposte tranquillizzanti che ci somministrano».
-
Racconto un sacco di balle, ma se lo chiamo storytelling…
Dicesi storytelling un complesso sistema di pubblicazioni, notizie, modi di comunicarle, stili innovativi, segnali mediatici, ripetizioni ossessive perché il concetto entri anche nelle teste più dure, nuovi approcci, citazioni. Insomma un po’ tutto quello che una volta si chiamava “comunicazione” e ora fa più fico dirlo in inglese. «L’arte del raccontare storie impiegata come strategia di comunicazione persuasiva», dice il vocabolario. Ecco. Ora va da sé che il confine tra storytelling e leggenda metropolitana è un po’ labile e viene ogni giorno superato. Molto spesso invece impatta con la realtà con la potenza di un frontale tra camion e allora si crea un effetto lisergico: da una parte lo storytelling, e dall’altra quello che succede veramente. Ora si può scegliere, naturalmente: abbeverarsi alla leggenda, che si ripete nella speranza che qualcuno la prenda per vera, oppure guardare ai fatti.Immaginiamo, per esempio, un medio imprenditore tedesco, o cinese, che voglia investire qui. Potrà valutare lo storytelling corrente e ben oliato dai media – ottimismo, ripresa, riforme, Jobs Act, camice bianche, ministri da copertina, modernità, parole inglesi – oppure valutare lo stato delle cose: leggi complicatissime, giustizia lenta, corruzione, malavita, er Guercio, il mondo di mezzo e altro ancora. Potrà leggere i discorsi “luminosi e progressivi”, oppure i titoli delle inchieste in corso. I recenti fatti di cronaca, per esempio, rendono l’attuale storytelling governativo, tutto incentrato sul futuro, un po’ fuori luogo. Bella storia, insomma, ma smentita ogni giorno. Si è provato, è vero, all’inizio e per un annetto a ridicolizzare che si opponeva al racconto sorridente, ottimista e positivo (“gufi”, è già parola soprassata, sepolta), ma poi le smentite della realtà si sono fatte implacabili, e quel racconto, quello storytelling, oggi non sfonda più, non conquista.Non perché gli manchino elementi di fascino: a chi non piacerebbe essere moderni, carini, sexy, glamour, con un’economia frizzante e un governo di ragazzini ben pettinati? Piuttosto perde credibilità perché fornisce immagini troppo distanti dalla realtà che si vive ogni giorno. In certi casi, insomma, anche se è inglese e fa fico, costruire un elaborato racconto – una narrazione – troppo lontano da quel che accade può trasformarsi in autogol. Un caso di scuola è l’uso del concetto di “futuro” per la nuova classe dirigente renzista. Lasciamo da parte gli slogan facili e leopoldeschi e prendiamo invece il succo: faremo, saremo – o meglio torneremo ad essere – svilupperemo, cresceremo, attireremo capitali stranieri, eccetera eccetera.Lo storytelling è positivo e ottimista e si lascia intendere che domani andrà tutto molto meglio. Intanto, non domani ma oggi, uno non riesce ad avere un appalto perché non conosce nazisti dell’Illinois, o di Roma, oppure viene licenziato, oppure viene demansionato, oppure ascolta la solfa dell’abbassamento delle tasse più poderoso dai tempi di Ramsete II e si trova a pagarne di più. Ecco, allarme: lo storytelling renziano è molto distante dalla realtà. Futuro è un concetto luminoso ma distante, mentre qui e ora di luminoso c’è pochino. E siccome sanno tutti che per avere un buon futuro si parte da oggi e non da domani, la storia scricchiola, stona, suona falsa, e può diventare irritante. Si richiede un veloce ridisegno dello storytelling, una cosa che in italiano potrebbe suonare così: «Su, ragazzi, raccontatecene un’altra, che questa non ha funzionato».Dicesi storytelling un complesso sistema di pubblicazioni, notizie, modi di comunicarle, stili innovativi, segnali mediatici, ripetizioni ossessive perché il concetto entri anche nelle teste più dure, nuovi approcci, citazioni. Insomma un po’ tutto quello che una volta si chiamava “comunicazione” e ora fa più fico dirlo in inglese. «L’arte del raccontare storie impiegata come strategia di comunicazione persuasiva», dice il vocabolario. Ecco. Ora va da sé che il confine tra storytelling e leggenda metropolitana è un po’ labile e viene ogni giorno superato. Molto spesso invece impatta con la realtà con la potenza di un frontale tra camion e allora si crea un effetto lisergico: da una parte lo storytelling, e dall’altra quello che succede veramente. Ora si può scegliere, naturalmente: abbeverarsi alla leggenda, che si ripete nella speranza che qualcuno la prenda per vera, oppure guardare ai fatti.
-
Le tasse alla mafia dei ladri, venduti al padrone straniero
Pagate le tasse senza discutere! Sono per la mafia e per la partitocrazia! Ormai è sotto gli occhi di tutti: le tasse che paghiamo vanno in mano ai ladri della politica, delle istituzioni, della burocrazia, delle mafie, che le usano soprattutto per arricchirsi, senza curarsi di spenderle bene e utilmente, nell’interesse collettivo. A Roma era così già 50 anni fa. E’ la costante nazionale, il carattere essenziale e immutabile dello Stato italiano. Rubare è lo scopo per cui si fa politica, e il mezzo con cui si fa politica, è il criterio con cui si fa carriera in politica e nell’apparato pubblico e partecipato. In questo quadro, i divieti all’uso del contante, l’imposizione di tenere i soldi in banca e di rendersi completamente tracciabili, col fisco che ti fa i conti in tasca e ti manda la dichiarazione dei redditi a casa, come se l’evasione fiscale dipendesse dall’uso del contante nelle transazioni spicciole, è un modo per consentire alla casta di saccheggiare direttamente e senza difese il cittadino, e per le banche di lucrare su ogni transazione, cumulativamente: 100 pagamenti di 100 euro l’uno, a 1,5 euro di commissioni, fanno guadagnare alla banca 150 euro, se fatti con la carta di credito, e zero, se fatti per contanti.Il principio della rappresentanza democratica parlamentare è clamorosamente e definitivamente fallito sia perché il paese non ha più autonomia politica nelle cose che contano, sia perché i rappresentanti rappresentano le segreterie affaristiche che li nominano, e vanno contro gli interessi dei rappresentati. Fino agli anni ’80 questo sistema di potere si notava meno, faceva danni sopportabili e compatibili con un certo sviluppo del paese, con un certo benessere, garantito da una spirale costruttiva di investimenti e consumi, grazie al fatto che allora la banca centrale e i vincoli di portafoglio delle banche ordinarie garantivano il finanziamento del debito pubblico a tassi sostenibili escludendo il rischio di default. E grazie al fatto che le banche ordinarie si dedicavano all’economia reale anziché alle speculazioni finanziarie e alle truffe ai risparmiatori. E grazie al cambio flessibile.Oggi gli uomini della buro-partitocrazia sono tutti in pasta, trasversalmente, tra loro e con la mafia. Sono tutti nella criminalità organizzata. Quelli che non lo sono direttamente e attivamente, lo sono comunque, perché consapevolmente e volontariamente fanno parte di quel mondo. Quindi sono corresponsabili. Non ci sono onesti, solo finti tonti. Questo sistema ovviamente non si lascia cambiare dal suo interno, perché occupa i canali elettorali, mediatici, istituzionali, e in buona parte anche quelli giudiziari (molti arrestati di oggi sono assolti di ieri); e l’“esterno”, cioè l’“Europa”, la Germania, trae profitto e potere economici proprio da questa situazione. E’ quindi chiaro che questa gente, questa casta, questa cupola nazionale non la si abbatterà mai con le leggi, i tribunali, l’indignazione popolare, anzi continuerà a tramandare il sistema alle nuove leve. Non la si potrà mai abbattere con strumenti interni all’ordinamento dello Stato, che essa occupa. La potrebbero fermare solo mezzi rivoluzionari, solo la ghigliottina. Oppure un padrone straniero che la sostituisca e prenda direttamente in mano la gestione amministrativa del paese – ovviamente nel suo proprio interesse.I leader carismatici proposti al pubblico possono essere “puliti” di faccia, ma gli apparati dei loro partiti sono tutto un cupolone, funzionano in quel modo, quindi nessun governo potrà cambiare questo sistema. Con le loro migliaia di società partecipate e di Onlus mai contabilmente controllate che ricevono e spartiscono i miliardi del business dell’accoglienza. Renzi, che invoca giustizia e promette pulizia, finge di non conoscere che cosa sono gli apparati dei partiti e di non sapere che, se si mettesse di traverso, semplicemente verrebbe sostituito. E infatti le principali componenti della partitocrazia, superando l’ipocrita distinzione maggioranza-opposizione, si accordano tra loro sulle riforme del sistema elettorale e del Senato, riforme concepite per proteggere e rafforzare il sistema stesso. E così alla Camera resta il sistema dei nominati: possono divenire deputati solo i graditi dei segretari dei partiti. La riforma del Senato mette quest’ultimo ancora di più nelle mani dei segretari, i quali vi collocheranno nominati regionali e comunali – cioè elementi presi dagli ambiti più ladreschi dell’apparato – dotandoli così di ciò che resta dell’immunità parlamentare.Intanto, il governo ha allontanato il commissario alla spending review, Cottarelli, che aveva ardito raccomandare la soppressione di 6.000 società partecipate mangiasoldi, una indispensabile greppia di consenso per la partitocrazia. Le condizioni degli italiani – tassazione, recessione, disoccupazione – continueranno perciò a peggiorare e peggiorare e peggiorare, finché questi non insorgeranno con le armi e non faranno fuori materialmente la casta parassita e criminale, o quella parte di essa che non riuscirà a fuggire all’estero. Ma non lo faranno mai: in parte emigrano, in maggioranza restano a subire o a raccontarsi le favole, aspettando il padrone straniero, e di vendersi a lui. Dopotutto, è questa la storica tradizione del Belpaese.(Marco Della Luna, “Le tasse ai ladri e alla mafia”, dal blog di Della Luna dell’8 dicembre 2014).Pagate le tasse senza discutere! Sono per la mafia e per la partitocrazia! Ormai è sotto gli occhi di tutti: le tasse che paghiamo vanno in mano ai ladri della politica, delle istituzioni, della burocrazia, delle mafie, che le usano soprattutto per arricchirsi, senza curarsi di spenderle bene e utilmente, nell’interesse collettivo. A Roma era così già 50 anni fa. E’ la costante nazionale, il carattere essenziale e immutabile dello Stato italiano. Rubare è lo scopo per cui si fa politica, e il mezzo con cui si fa politica, è il criterio con cui si fa carriera in politica e nell’apparato pubblico e partecipato. In questo quadro, i divieti all’uso del contante, l’imposizione di tenere i soldi in banca e di rendersi completamente tracciabili, col fisco che ti fa i conti in tasca e ti manda la dichiarazione dei redditi a casa, come se l’evasione fiscale dipendesse dall’uso del contante nelle transazioni spicciole, è un modo per consentire alla casta di saccheggiare direttamente e senza difese il cittadino, e per le banche di lucrare su ogni transazione, cumulativamente: 100 pagamenti di 100 euro l’uno, a 1,5 euro di commissioni, fanno guadagnare alla banca 150 euro, se fatti con la carta di credito, e zero, se fatti per contanti.
-
Tasse, privatizzazioni e via il contante: Renzi, cioè Monti
Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.«La politica economica di Renzi – scrive Foa nel suo blog sul “Giornale” – non è volta a difendere e incentivare la piccola e media impresa italiana, ma è favorevole soprattutto alle multinazionali, smaniose di trasformare ancor di più l’Italia in una riserva di talenti e di professionisti a buon mercato». Non è un caso che Renzi prediliga le sedi delle multinazionali nelle sue uscite pubbliche, prodigandosi in elogi nei loro confronti. «Ed è significativo l’atteggiamento elusivo del suo governo sui licenziamenti alla Thyssen Krupp: premuroso con i grandi gruppi, retorico e inconcludente con le piccole e medie imprese italiane». La verità? Più tasse e meno mercato. «Scusate, ma io i tanto promessi alleggerimenti fiscali e burocratici proprio non li vedo. Semmai, come ai tempi di Monti, assistiamo al moltiplicarsi di balzelli indiretti e occulti», come «la riforma per far pagare il canone Rai a tutti attraverso la bolletta della luce», esteso ai proprietari di case sfitte o di seconde o terze case. Ancora una volta, «emerge la volontà centralista vessatoria che caratterizza l’operato dei governi dalla caduta di Berlusconi in poi».Quindi, le privatizzazioni. Renzi ha predisposto la riforma del Titolo V: «Se passasse, permetterebbe al premier di privatizzare tutte le municipalizzate del settore delle utilities, con la conseguenza che ben conosciamo: non di liberalizzare e mettere in concorrenza più fornitori, ma di sostituire un monopolio pubblico con un monopolio privato, com’è inevitabile quando per la tipologia del servizio la concorrenza è di fatto impossibile». Valga l’esempio delle autostrade cedute ai privati: da Roma a Milano ne esiste solo una, o prendi quella o percorri le statali. Il mercato dov’è? Per molte utilities la situazione è analoga. Infine, si aggiunge la mazzata dell’abolizione del contante, come spiega Enzo Pennetta sul blog “Critica Scientifica”. Primo passo, informatizzare il paese – e sin qui, ok. Poi viene annunciato che si procederà all’eliminazione dello scontrino per ottenere la “tracciabilità totale”, «notizia criptica ma vagamente liberatoria». Quello che non viene detto, sottolinea Pennetta, è che questo significa procedere all’eliminazione del contante.«La tracciabilità assoluta e il superamento della necessità dello scontrino – scrive “Critica Scientifica” – non si possono conseguire che eliminando la possibilità di pagare in contanti, cosa che avrebbe dovuto essere detta con chiarezza». E così, senza neanche nominare il contante, è stato dato l’annuncio della sua prossima eliminazione. Notizia sfuggita al “Corriere della Sera”, che ha pubblicato per primo l’annuncio di Renzi, ma anche ai 58 lettori del “Corriere” che hanno commentato l’articolo. Nessuno ha intuito qual è la vera posta in gioco. E chi aveva proposto l’abolizione del contante? Mario Monti, risponde Foa, osservando che l’eliminazione del cash equivale alla cancellazione definitiva di ogni forma di privacy: saranno millimetricamente tracciati tutti gli acquisti dei cittadini, come non accadeva nemmeno in Urss. «Domenico Idone, su “Twitter”, mi ha ricordato questo articolo. Era il 2012 e Renzi diceva: “Sarò il Monti bis”. Ancora dubbi?».Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.
-
La gioia sinistra di chi vince da solo, rottamate le elezioni
A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.La democrazia a sovranità limitata si è congiunta con due spinte che da decenni agiscono nella società italiana. La prima è la banalizzazione e la spoliticizzazione del confronto politico, di cui è stata espressione la Seconda Repubblica berlusconiana. La seconda è lo spirito di vandea contro il lavoro e i suoi diritti che da più di trenta anni si scatena ad ogni difficoltà economica. Il governo Craxi negli anni ‘80 aveva già anticipato il linguaggio e i comportamenti di Matteo Renzi, ma perché il decisionismo liberista diventasse regime occorrevano tutte e tre le condizioni di fondo, e non solo una. Una democrazia ridotta a subire gli ordini esterni sui temi stessi per i quali è nata: il bilancio dello Stato. La distruzione della partecipazione e la riduzione del confronto politico a talk show. La guerra tra i poveri come unico sbocco della impotenza popolare verso le decisioni di fondo. È dalla miscela tra questi tre processi degenerativi della nostra società che nasce il successo di Matteo Renzi, e anche quello del suo omonimo Salvini.I due Matteo si dividono gran parte del consenso dei pochi elettori residui, perché meglio rappresentano l’autodistruzione della nostra democrazia. Essi sono molto simili nel modo di pensare e di proporsi, e forse persino intercambiabili. E questo non solo per il giovanilismo di palazzo, la carriera burocratica oscura trasformata in leadership grazie ai mass media mentre crollava il consenso delle vecchie direzioni, la formazione giovanile nei quiz delle Tv di Berlusconi. Il punto vero che hanno in comune è il trasversalismo reazionario. Renzi è partito volendo battere i pugni in Europa e contro i poteri forti e ora picchia solo contro sindacati, scioperi e diritti del lavoro. Che vengono indicati come i veri ostacoli, o in altre versioni come gli alibi, che fanno sì che le imprese non investano. Per Renzi la ruota della fortuna ha girato a lungo e alla fine si è fermata sul lavoro ancora sindacalizzato e tutelato da qualche diritto residuo. Quello è il nemico dei giovani, dei disoccupati, del merito, della crescita e naturalmente di quelle imprese che finanziano Renzi a 1000 euro a coperto.Anche Matteo Salvini lancia proclami contro banche, euro, finanza. Ma i mass media li buca indirizzando il rebus contro migranti e Rom e alleandosi con forze esplicitamente fasciste e razziste. Renzi e Salvini indicano all’italiano medio l’unico avversario a reale portata di mano, il vicino di casa metalmeccanico, o impiegato pubblico, o migrante. Loro vengono indicati come la causa dei guai e con loro sindacati e centri sociali. Renzi e Salvini alimentano le rispettive guerre dei poveri in competizione l’uno con l’altro, e così si presentano sempre di più come un’alternanza nell’ambito della stessa devastazione democratica. Che la gente non vada più a votare, a parte i loro sostenitori, ai due leader va benissimo. Entrambi sono figli della ideologia liberista, e la privatizzazione della democrazia è la madre di tutte le altre.Non c’è soluzione facile a tutto questo. Crisi economica e degrado democratico si alimentano reciprocamente, e per uscire da entrambi bisogna ricostruire il conflitto con avversari che non sono il vicino di casa. Per questo gli scioperi, i movimenti sociali, le lotte vere fanno così paura ad entrambi i Matteo. Perché se questi dovessero crescere e consolidarsi, loro perderebbero centralità e leadership. Il voto regionale colloca la maggioranza della popolazione italiana in una posizione extraparlamentare. Oggi è un successo per Renzi e Salvini, domani potrebbe essere la loro condanna. Ma perché questo avvenga, tutto ciò che si oppone al regime dei due Matteo deve trovare la stessa determinazione, la stessa dimensione culturale e volontà di vero cambiamento, della Resistenza e della liberazione dal fascismo.(Giorgio Cremaschi, “La resistenza contro il regime dei due Matteo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.
-
La crisi del sapere umanistico: non leggiamo più il mondo
La crisi del sapere umanistico è ormai conclamata: negli Usa 54 membri dell’“American Academy of Arts and Sciences” hanno denunciano il rischio della rapida scomparsa delle materie umanistiche dalle università americane; in Inghilterra la storia è stata esclusa da quasi tutti i corsi di studio; la geografia è quasi scomparsa dai corsi di insegnamento di metà Europa e resiste qua e là solo come geografia economica; gli studenti disertano i corsi di lettere, filosofia, storia, persino scienze politiche e giurisprudenza anche in Francia, Italia, Spagna. Resisticchiano le facoltà di lingue e letterature straniere o simili. Trionfa solo economia. Questo collasso è uno dei fenomeni culturali più inquietanti del tempo presente, contro il quale non servono a nulla le solite geremiadi. Esso è determinato da due cause principali fra loro connesse: le caratteristiche proprie del neoliberismo e il rifiuto degli umanisti di reinventarsi le loro discipline e ridefinire la loro figura sociale.Il neoliberismo ha prodotto una vistosa regressione culturale: la visione pan-economicista e la riduzione della stessa economia al solo filone walrasiano e derivati sono stati il brodo di coltura del maggior arretramento intellettuale mai registrato in epoca moderna. A questo si sono sommati, a ricaduta: la delegittimazione di ogni pensiero che non fosse quello liberista-liberale, che ha inaridito ogni confronto di idee; la pretesa di imporre comunque e dovunque la lingua inglese, funzionale solo alla dittatura culturale della produzione culturale made in Usa; una versione assai pedestre dell’utilitarismo, per cui qualsiasi attività è valutata in funzione del guadagno immediato. Da questo discendono i tagli alle spese culturali e per l’istruzione, di cui oggi gli intellettuali umanisti si risentono, ma dopo anni di acquiescenza. L’ondata neoliberista si è accompagnata ai cori festanti degli economisti massicciamente convertitisi a questo verbo, ma non ha trovato resistenze neppure fra i giuristi, gli storici, i sociologi, i politologi, che non hanno manifestato che rare e occasionali obiezioni, spesso improprie o più arretrate del fenomeno che avrebbero voluto criticare.E già questa scarsa attitudine a confrontarsi con l’ondata neoliberista è assai eloquente sulla capacità degli umanisti di confrontarsi con il tempo presente. La produzione storica, sociologica, politologica, giuridica, filosofica dell’ultimo quarto di secolo è, nella maggior parte dei casi, paccottiglia di nessun valore intellettuale. E’ tutto molto ripetitivo, stantio, privo di originalità e le opere di valore, per ciascuna disciplina, si contano sulle dita di un paio di mani. Diciamocelo sinceramente: se si trattasse di questo attuale assetto delle scienze umane, la loro scomparsa non sarebbe un gran danno. Il punto è che le discipline umanistiche non si sono adeguatamente confrontate con le vastissime conseguenze culturali della globalizzazione. Non che manchino studi sul fenomeno in sé (ad esempio quelli, peraltro non sempre soddisfacenti, di Zygmunt Bauman, Manuel Castells, Ulrich Beck, Alain Touraine), ma si tratta di punte individuali, che non si innestano su un solido reticolo di opere minori indispensabili a determinare una svolta complessiva di questa area di studi.E infatti si tratta in larga parte di opere che non si sottraggono ad un’ottica eurocentrica e non sfuggono ad un taglio specialistico disciplinare, che precludono molti sviluppi alla ricerca. La globalizzazione implica sia la mondializzazione dei rapporti, sia una stretta interdipendenza fra le sfere politica, economico-finanziaria, sociale, culturale, militare, e se il primo aspetto richiede imperiosamente un punto di vista più “centrale” e meno sbilanciato verso occidente, il secondo impone una capacità di analisi transdisciplinare, che allo stato si intravede solo in pochissime opere. Occorre un cambio di passo complessivo nei metodi; ripensare, soprattutto, la storica frattura fra scienze umane e scienze logiche, matematiche e naturali: i fisici, i biologi, i neurologi lo hanno capito e fanno sempre più frequenti incursioni nel mondo delle scienze umane, mentre gli umanisti (con l’eccezione di quei filosofi e psicologi che partecipano a progetti di scienze cognitive) tardano a comprenderlo e si tengono ancora troppo al di qua della linea di demarcazione che li separa dall’ “altra metà del cielo”.Quanti storici, sociologi e politologi immaginano di poter lavorare usando un modello di simulazione? E quanti di loro sono in grado di misurarsi con il campo delle scienze cognitive? Nelle nostre università si respira un’aria viziata perché da troppo tempo non si aprono le finestre. Certo che occorre continuare a studiare la letteratura greca e la Guerra dei Sette Anni, Leopardi e Weber, la secessione austriaca e la Riforma protestante, ma occorrerà ripensarli comparativamente agli sviluppi delle altre civiltà che, naturalmente, bisognerà studiare. Da due secoli e mezzo l’Europa (e tutto l’Occidente) ha costruito la sua identità intorno all’idea di modernità: l’Occidente è moderno per definizione e la modernità è occidentale allo stesso modo. E la globalizzazione è stata pensata come “modernizzazione del mondo” cioè come progetto di omologare tutto il mondo al modello occidentale. Ma le cose non stanno andando così: quello che le nostre scienze sociali pensavano fosse un modello universale si è rivelato solo il racconto di “come è andata in Europa”.La modernità è stata pensata come l’intreccio organico di sviluppo economico e urbanizzazione, di specificazione individuale e secolarizzazione, di affermazione dello Stato di diritto e disincanto del mondo, di nazione e acculturazione di massa, un insieme in cui ogni aspetto presuppone e rafforza l’altro. E abbiamo pensato che tutto questo avesse regole precise, che permettessero di replicarlo in ogni contesto, salvo trascurabili varianti locali. Ebbene, non sta andando affatto così: lo sviluppo economico non trascina dietro di sé quei processi di democratizzazione e secolarizzazione di cui si diceva, e ogni contesto sta avendo un suo sviluppo particolare. Questo obbliga a ripensare anche molte delle nostre convinzioni sulla nostra storia e sul modo con cui l’abbiamo interpretata ma, più ancora, ci obbliga ad un’opera di mediazione e di traduzione culturale: sia noi che i cinesi, gli indiani o gli egiziani abbiamo il concetto di nazione, ma siamo sicuri di dire tutti la stessa cosa? E lo stesso potremmo dire per concetti come classe, popolo, potere, secolarizzazione. E questo lavoro di riesame non riguarda solo storici, politologi e sociologi, ma anche giuristi, filosofi, letterati.Questo è il piano su cui le scienze umanistiche devono impegnarsi trasformandosi, ed è quello che ci dà la misura esatta del ritardo accumulato in questi anni, in gran parte dovuto allo statuto sociale dei nostri intellettuali umanisti, che da troppo tempo non hanno stimoli verso l’innovazione. Dopo gli anni ottanta, cessate le passioni politiche, che costituivano l’unico vero stimolo alla ricerca, gli umanisti si sono seduti sulla rendita di posizione di intellettuali burocratici retribuiti dallo Stato. Tutto oggi si riduce alla stucchevole rivendicazione del ruolo del “sapere inutile che ci renderà liberi”. Questa emerita sciocchezza, in realtà, vorrebbe dire che ci sono altre utilità oltre quelle economiche, il che è giusto, ma questo non implica che non debba esserci un calcolo dei costi e dei benefici dell’investimento e, se anche è accettabile l’idea che non sempre i benefici di un investimento culturale siano misurabili in termini monetari, non ce la si può cavare con i luoghi comuni sul “sapere critico” e simili.Un po’ di rapporto con il mercato non guasterebbe, per dare una scossa ai nostri intellettuali sedentarizzati. Non sto pensando all’università privata, che è un disastro anche peggiore che ha prodotto autori terribili come Francis Fukuyama, Niall Ferguson o Samuel Huntington. Sto pensando ad imprese autogestite degli intellettuali umanisti che si misurino con il mercato. Servirebbero anche cose minime, come ad esempio retribuire i docenti in base al numero di studenti che hanno, lasciando ovviamente gli studenti liberi di scegliere. Vediamo quante aule restano disperatamente vuote? Concludendo: certo che occorre difendere le materie umanistiche, ma questo sarà possibile solo cambiandole profondamente e mutando altrettanto radicalmente lo stato sociale dei suoi operatori, da “intellettuali” in “lavoratori della cultura”. La cultura non serve per i salotti.La crisi del sapere umanistico è ormai conclamata: negli Usa 54 membri dell’“American Academy of Arts and Sciences” hanno denunciano il rischio della rapida scomparsa delle materie umanistiche dalle università americane; in Inghilterra la storia è stata esclusa da quasi tutti i corsi di studio; la geografia è quasi scomparsa dai corsi di insegnamento di metà Europa e resiste qua e là solo come geografia economica; gli studenti disertano i corsi di lettere, filosofia, storia, persino scienze politiche e giurisprudenza anche in Francia, Italia, Spagna. Resisticchiano le facoltà di lingue e letterature straniere o simili. Trionfa solo economia. Questo collasso è uno dei fenomeni culturali più inquietanti del tempo presente, contro il quale non servono a nulla le solite geremiadi. Esso è determinato da due cause principali fra loro connesse: le caratteristiche proprie del neoliberismo e il rifiuto degli umanisti di reinventarsi le loro discipline e ridefinire la loro figura sociale.
-
Cucchi incarcerato solo perché classificato come straniero
La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa. Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato.Nel verbale d’arresto i militari dell’Arma scrissero che Cucchi era «nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora»; peccato che fosse nato a Roma in tutt’altra data, e che l’abitazione in cui risultava ufficialmente residente fosse appena stata perquisita, senza esito, alla presenza sua e dei genitori. Evidentemente il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la «mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti». Fosse tornato a casa, sia pure da detenuto, probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo. Incredibile, ma vero.Nello stesso provvedimento venne anche scritto che «il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari»; in realtà i genitori l’avevano visto quasi in diretta, perché dopo il fermo e la perquisizione i carabinieri gliel’avevano comunicato. E al papà che chiedeva se dovesse avvisare l’avvocato, risposero che non c’era bisogno, avevano già provveduto loro. La mattina dopo, però, Stefano non trovò in aula il difensore di fiducia che voleva, ma uno d’ufficio. Quel giorno, nei sotterranei del tribunale, Cucchi è stato picchiato come risulta dalle stessa sentenza che, in primo grado, non era riuscita a individuare le prove per condannare i responsabili (in quella d’appello si vedrà, ma è verosimile che sia avvenuta la stessa cosa).La morte del trentenne però – che certamente aveva un fisico gracile ma sano, tanto che poche ore prima di finire in gattabuia era stato nella palestra che frequentava regolarmente – non dipende solo dalle botte. È dovuta al viavai tra il carcere di Regina Coeli (dove a un medico che aveva constatato i segni delle percosse disse che era caduto dalle scale, tipica giustificazione dei detenuti che non si fidano di denunciare gli aggressori) e l’ospedale dove si decise di non farlo restare per evitare i piantonamenti, fino al ricovero nel reparto penitenziario delPertini: un pezzo di carcere trasferito dentro un policlinico.Anche qui si sono susseguiti eventi che hanno contribuito alla tragica fine di Stefano: l’assurdo divieto per i genitori che non solo non poterono incontrarlo prima di ottenere il permesso del giudice – e siccome c’era di mezzo il fine settimana, il via libera arrivò solo il giorno della morte – ma per loro era vietato anche ricevere informazioni sul suo stato di salute. Avevano avuto la comunicazione del ricovero, ma era impossibile conoscerne il motivo: una regola talmente incredibile che dopo la morte di Stefano fu cancellata dalla burocrazia penitenziaria. In quei giorni di isolamento – con papà e mamma lasciati dietro una porta blindata, ai quali fu concesso solo di lasciare un cambio per il figlio, rimasto però integro perché nessuno si preoccupò di aiutarlo a cambiarsi visto che non si poteva muovere dal letto – Cucchi chiese inutilmente di parlare col suo avvocato o con un assistente del centro per tossicodipendenti che frequentava in passato.Richiesta che non è mai uscita dal chiuso dell’ospedale Pertini, nonostante fosse annotata sul diario clinico, visto che per quel motivo Stefano rifiutava il cibo e le cure. Con la calligrafia ormai malferma per lo stato di sofferenza in cui versava, aveva perfino scritto una lettera all’operatore sociale, per chiedergli aiuto: qualcuno la spedì dopo che era morto. Per tutta questa incredibile catena di fatti e misfatti, e altri ancora, Stefano Cucchi «ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante», come scrisse il magistrato Sebastiano Ardita, all’epoca funzionario dell’amministrazione carceraria, nella relazione ispettiva del dicembre 2009. Cinque anni dopo quella fine è rimasta senza colpevoli, ma il problema non è certo – o non solo – l’ultima sentenza.(Giovanni Bianconi, “Cucchi, tutti gli incredibili errori”, dal “Corriere della Sera” del 2 novembre 2014).La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa. Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato.