Archivio del Tag ‘California’
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Soldi a tutti, e meno ore di lavoro: abolire i poveri conviene
Soldi gratis per tutti e (molto) più tempo libero. Perché garantire a ogni cittadino un reddito di base conviene: riduce la criminalità, la mortalità infantile e la dispersione scolastica, e favorisce la crescita e l’uguaglianza di genere. E ridurre la settimana lavorativa a 15 ore aumenta la produttività, aumenta i posti part time, riduce le emissioni di CO2 e favorisce l’emancipazione femminile. E’ la “Utopia per realisti” (uscito in Italia per Feltrinelli) di Rutger Bregman, trentenne storico olandese con interessi che spaziano dalla filosofia all’economia, salito agli onori delle cronache per un provocatorio discorso contro l’evasione e l’elusione fiscale tenuto in gennaio ai partecipanti all’ultimo Forum economico di Davos. «Nessuno solleva l’argomento che i ricchi non pagano la loro parte, quella che è giusto che paghino», ha scandito Bregman – che il mensile “Fq Millennium” aveva intervistato nel novembre 2017 – davanti alla platea di milionari riuniti in Svizzera. «Mi sento come a una conferenza di pompieri in cui non è permesso parlare dell’acqua. Tasse, tasse, tasse. Tutto il resto sono stronzate».Il punto di partenza del libro è che questa nuova utopia è utile e necessaria in un mondo in cui «tanti pensatori e politici di sinistra tentano di mettere a tacere le idee radicali tra le proprie fila per la paura di perdere voti», mentre «i neoliberisti sono imbattibili nel gioco in cui contano la ragione, i giudizi e le statistiche». Ma è proprio con una grande mole di numeri e statistiche che Bregman spiega come la lotta contro la povertà sia «un investimento che ripaga con gli interessi», e come distribuire denaro senza un eccesso di cavilli burocratici sia il modo migliore per condurla. Soldi gratis, dunque, «non come favore ma come diritto»: quella che Bregman definisce «la via capitalista al comunismo». Secondo l’economista Charles Kenny, dello statunitense Center for Global Development, «il principale motivo per cui la gente è povera è perché non ha abbastanza soldi, perciò non dovrebbe essere una grossa sorpresa vedere che dargli dei soldi è un modo fantastico per ridurre il problema».E Bregman elenca una serie di casi in cui le elargizioni di soldi senza contropartite hanno funzionato nel migliorare le condizioni di vita della popolazione nei paesi in via di sviluppo – dal Malawi alla Namibia – o di gruppi sociali a rischio come gli homeless: esperimenti condotti nei Paesi Bassi e in Utah mostrano per esempio che fornire case gratis, oltre a togliere le persone dalla strada, riduce notevolmente l’incidenza di alcolismo e abuso di droga, e nel complesso costa molto meno che garantire assistenza agli homeless e sostenere i costi giudiziari legati ai piccoli crimini che commettono per sopravvivere. Ma gli esperimenti di redditi di base hanno funzionato bene, pur su piccola scala, anche quando applicati a piccole comunità locali, come avvenuto a fine anni ‘60 negli Usa durante la presidenza di Lyndon B. Johnson e in Canada negli anni ‘70 con il Mincome. «Greg J. Duncan, professore della University of California, ha calcolato che sottrarre una famiglia americana alla povertà costa una media di circa 4.500 dollari all’anno», nota Bregman. «Alla fine, i rientri di questo investimento per bambino sarebbero: +12,5 per cento di ore lavorate, +3.000 dollari di risparmio annuale come welfare, +50mila-100mila dollari di maggiori guadagni nella vita, +10mila-20mila dollari di introiti fiscali statali aggiuntivi».Questo perché la povertà, ponendo continue sfide immediate da affrontare, riduce quella che gli psicologi hanno definito “larghezza di banda mentale”, arrivando addirittura a influenzare negativamente il quoziente intellettivo misurato dai test. Nel 1969, racconta Bregman, il presidente Usa Richard Nixon era stato in procinto di varare il reddito senza contropartite per tutte le famiglie povere. Ma alcuni suoi consiglieri fecero strenua opposizione, fino a consegnargli un documento sugli esiti estremamente negativi del sistema Speenhamland, risalente ai primi anni dell’Ottocento inglese, che consisteva nell’incremento fino al livello di sussistenza dei redditi di «tutti gli uomini poveri e industriosi e loro famiglie». Documento che in seguito si rivelò però manipolato fin dall’origine, per “sabotare” il reddito di base. Ora, secondo l’autore, «l’ora è arrivata» per garantire a tutti «una rendita mensile sufficiente per campare, anche se non muovi un dito», senza «nessun ispettore che ti controlla da dietro per vedere se li spendi saggiamente, nessuno che ti chiede se sono davvero meritati».Gli altri due pilastri della “utopia per realisti” riguardano il lavoro. Il primo è la riduzione degli orari, che l’economista John Maynard Keynes riteneva una conseguenza inevitabile del progresso ma al contrario non si è mai materializzata, nonostante in molti casi si sia toccato con mano che la produttività non va di pari passo con l’aumento delle ore lavorate, anzi. Il secondo è un meccanismo di incentivi che renda meno attraenti quelli che Bregman definisce “lavori burla”, attività ben pagate che però non forniscono contributi tangibili alla società o addirittura distruggono ricchezza anziché crearla (l’esempio del libro sono i banchieri, che concepiscono «complessi prodotti finanziari che sono, in pratica, una tassa sul resto della popolazione»). L’idea è quella di una tassa sulle transazioni finanziarie che, oltre a generare gettito da utilizzare per investimenti utili alla società, motiverebbe le menti più brillanti a dedicarsi alla ricerca, all’insegnamento o all’ingegneria invece che preferire una carriera nelle banche di investimento. Idee irrealizzabili? «Definirle “irrealistiche” era una semplice scorciatoia per intendere che collidevano con lo status quo», è la risposta di Bregman. «La fine dello schiavismo, l’emancipazione delle donne, l’avvento della previdenza sociale erano tutte idee progressiste nate folli e “irrazionali” ma alla fine accettate come cose di comune buon senso».(Chiara Brusini, “Reddito di base e 15 ore di lavoro alla settimana”, l’utopia dello storico che ha detto ai ricchi di Davos di pagare le tasse”, dal “Fatto Quotidiano” dell’11 maggio 2019. Il libro: Rutger Bregman, “Utopia per realisti”, Feltrinelli, 251 pagine, 18 euro).Soldi gratis per tutti e (molto) più tempo libero. Perché garantire a ogni cittadino un reddito di base conviene: riduce la criminalità, la mortalità infantile e la dispersione scolastica, e favorisce la crescita e l’uguaglianza di genere. E ridurre la settimana lavorativa a 15 ore aumenta la produttività, aumenta i posti part time, riduce le emissioni di CO2 e favorisce l’emancipazione femminile. E’ la “Utopia per realisti” (uscito in Italia per Feltrinelli) di Rutger Bregman, trentenne storico olandese con interessi che spaziano dalla filosofia all’economia, salito agli onori delle cronache per un provocatorio discorso contro l’evasione e l’elusione fiscale tenuto in gennaio ai partecipanti all’ultimo Forum economico di Davos. «Nessuno solleva l’argomento che i ricchi non pagano la loro parte, quella che è giusto che paghino», ha scandito Bregman – che il mensile “Fq Millennium” aveva intervistato nel novembre 2017 – davanti alla platea di milionari riuniti in Svizzera. «Mi sento come a una conferenza di pompieri in cui non è permesso parlare dell’acqua. Tasse, tasse, tasse. Tutto il resto sono stronzate».
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Facebook cancella membri dai gruppi in vista delle europee
Quando si parla dell’algoritmo di Facebook tutti pensano subito alla matematica. Eppure quante volte è capitato che vengano aggiunti amici al profilo senza che ciò venisse richiesto? Quante volte scompaiono i like senza motivo? Si elimina un commento e scompare l’intero thread del post. Il politically correct censura parole come “negri” dalle canzoni di Edoardo Vianello, mentre lascia passare minacce e ingiurie della paggior specie. Chi frequenta con assiduità il Re dei social sa benissimo di cosa stiamo parlando. E la matematica non c’entra nulla. In questi giorni, Facebook cancella in automatico gli iscritti dai gruppi. Tutti se ne sono accorti e gli admin lamentano la scomparsa improvvisa di centinaia, se non di migliaia di membri dal gruppo da loro gestito. Poichè il social di Zuckerberg è incontrollabile se non dagli sviluppatori di Menlo Park, viene da chiedersi perchè proprio i gruppi, e, soprattutto, quali gruppi? Pier Paolo Pasolini, in un celeberrimo articolo sul “Corriere della Sera”, scriveva così: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere)».«Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, (…) Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero (…)». Ebbene, anche se a fronte del repulisti censorio di Facebook verrebbe facile evocare Pasolini ed il suo “io so”, nel caso dei gruppi, direi che ci sono anche le prove. I gruppi dai quali sono spariti centiania di membri automaticamente sarebbero tutti, incondizionatamente, ma i soli a lamentarsene pubblicamente sono i gruppi che parlano di politica, specialmente quelli che trattano di controinformazione.I gruppi tacciati di “rossobrunismo” o che propongono politiche economiche di stampo keynesiano o molto critici nei confronti dell’Unione Europea. E’ in quei gruppi che si registrano i danni maggiori. La scusa per bannare è la passività dei membri. Detto diversamente, Facebook si è arrogata il diritto di cancellare tutti quei membri che non partecipano alla vita del gruppo, non mettono i like, non condividono nè postano notizie. Eppure, chi è iscritto in gruppi come “amici che rivogliono Pippo Baudo alla tele”, pur silenti da anni, non si sono visti scippare l’iscrizione da Zuckerberg… come mai? Ora i soliti siti antibufala si affrettano a garantire che è tutto un malinteso, perchè il messaggio di chiarimento inviato dal social californiano precisa che non compariranno più tra i membri quei soggetti che sono stati iscritti in passato da altri e che d’ora in avanti, per rimanerci, dovranno confermarlo in modo esplicito. Dunque, se rimani iscritto agli “amici che rivogliono Pippo Baudo” è solo perchè, quella volta, tu hai chiesto l’iscrizione. Qualora, invece, fossi stato iscritto “di nascosto”, ban automatico in attesa di conferma esplicita.Niente Zuckerberg cattivo, dunque. Ma questa difesa antibufala puzza come le bufale scadute da un mese. Se applicassimo lo stesso criterio alle democrazie occidentali, cadrebbero tutte domani mattina, perchè nessuno dei viventi ha sottoscritto di suo pugno la dichiarazione d’indipendenza americana del 1876 o la Costituzione italiana del 1948. E tornando a Internet, basta scivolare sul mouse per accettare i cookies di qualsivoglia sito web, oppure accedere ad un servizio tramite Facebook per vedersi arrivare in posta elettronica email spazzatura da tutto il mondo. Questo zelo – “ti elimino dai gruppi se ti ha iscritto un amico anni fa” – a pochi mesi dalle elezioni, puzza di bruciato. Il confronto politico di maggio 2019 potrebbe cancellare un’intera classe politica dal vecchio continente. lobby comprese. I gruppi che si sono visti dimezzare gli iscritti, infatti, molto difficilmente pubblicano approfondimenti di “Repubblica” o del “Sole 24 Ore”, e la scusa per azzopparli con astruse motivazioni tecniche può convincere solo chi è ingenuo. O in malafede.(Massimo Bordin, “Facebook cancella membri dai gruppi a pochi mesi dalle elezioni europee”, dal blog “Micidial” del 21 gennaio 2019).Quando si parla dell’algoritmo di Facebook tutti pensano subito alla matematica. Eppure quante volte è capitato che vengano aggiunti amici al profilo senza che ciò venisse richiesto? Quante volte scompaiono i like senza motivo? Si elimina un commento e scompare l’intero thread del post. Il politically correct censura parole come “negri” dalle canzoni di Edoardo Vianello, mentre lascia passare minacce e ingiurie della paggior specie. Chi frequenta con assiduità il Re dei social sa benissimo di cosa stiamo parlando. E la matematica non c’entra nulla. In questi giorni, Facebook cancella in automatico gli iscritti dai gruppi. Tutti se ne sono accorti e gli admin lamentano la scomparsa improvvisa di centinaia, se non di migliaia di membri dal gruppo da loro gestito. Poiché il social di Zuckerberg è incontrollabile se non dagli sviluppatori di Menlo Park, viene da chiedersi perché proprio i gruppi, e, soprattutto, quali gruppi? Pier Paolo Pasolini, in un celeberrimo articolo sul “Corriere della Sera”, scriveva così: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere)».
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India, reddito universale in arrivo. L’Italia può sognarselo
In India sta partendo un esperimento di reddito universale da far impallidire il nostro misero reddito di cittadinanza: succede nello Stato himalayano del Sikkim. Si tratta della seconda più piccola entità statale della federazione indiana, al confine con la Cina. Nel Sikkim, all’avanguardia socialmente, tutti i 610.577 abitanti riceveranno un reddito-base universale, come riportato dal “Washington Post”. «Al posto di un insieme anche piuttosto confuso di contributi sociali, tutti riceveranno una somma di denaro», scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici”. In questo, modo nessuno dovrà più preoccuparsi dei propri bisogni di base: saranno “stipendiati” tutti, indipendentemente dal reddito. Il Sikkim è un paese avanzato, per molti aspetti: «Con un tasso di alfabetizzazione del 98%, da diversi anni ha bandito completamente le borse di plastica: di recente è diventato il primo paese “biologico” al mondo, avendo messo al bando anche pesticidi e concimi chimici». Il piccolo Sikkim, aggiunge “Scenari Economici”, ha anche un tasso di povertà piuttosto basso, «soprattutto se comparato con il resto dell’India, in quanto solo l’8% della popolazione è in uno stato di indigenza, contro il 30% dell’India e il 10% dell’Italia».Il Sikkim ha un’economia basata sul un turismo di élite e sulla vendita dell’energia derivante dalle risorse idriche di cui dispone, alimentate dai ghiacciai dell’Himalaya. Lo Stato inolte garantisce la casa a tutti i cittadini, a cui ora darà anche un reddito. «La finalità della decisione è quella di accorciare il gap economico fra i cittadini, con la speranza che, almeno localmente, non segua il trend mondiale che vede i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri», spiega Guido da Landriano. “Scenari Economici” fa notare che esistono altri esperimenti in corso, nel mondo, sul reddito universale o reddito di cittadinanza: a Stockton, in California, tutti cittadini senza lavoro hanno ricevuto 630 dollari per 18 mesi. «Solo che nel Sikkim a ricevere il denaro saranno tutti i cittadini, indipendentemente dal fatto che ricevano un reddito o meno». Proprio la difficoltà nel dedurre l’identità degli aventi diritto ha invece paralizzato il governo italiano, a cui l’Unione Europea ha peraltro accorciato ulteriormente la “coperta” disponibile per soccorrere le fasce sociali più deboli.«A questo punto, viste le affermazioni dei politici italiani – chiosa “Scenari Economici” – ci sarà da attendere un boom di vendite della catena “Divani & Divani”, perché tutti i cittadini cesseranno di lavorare». Aggiunge, Guido da Landriano: «Tutti, poveri e ricchi, smetteranno di lavorare perché avranno un reddito minimo». C’è da sperare che, su quei divani, «si trasferiscano un po’ di deputati di Forza Italia e del Pd che, purtroppo, infestano il dibattito politico italiano». Se la cosiddetta opposizione spara a man salva sui provvedimenti sociali dell’esecutivo Conte, va però ricordato che gli stessi gialloverdi – dopo aver promesso un vero reddito di cittadinanza, nel “contratto di governo” – non hanno osato resistere al diktat neoliberista dell’Ue, votato al rigore più suicida: prima hanno proposto nel Def 2019 un timidissimo deficit al 2,4% (inferiore al tetto del 3% fissato arbitrariamente da Maastricht) e poi hanno rinunciato pure a quello, ripiegando sull’umiliante 2,04%. Tradotto: l’Italia non può fare come il Sikkim. Anche perché l’India è un paese sovrano, dotato di propria moneta: non deve rispondere a nessuna Ue, né tantomeno pagare per avere il denaro che le serve.In India sta partendo un esperimento di reddito universale da far impallidire il nostro misero reddito di cittadinanza: succede nello Stato himalayano del Sikkim. Si tratta della seconda più piccola entità statale della federazione indiana, al confine con la Cina. Nel Sikkim, all’avanguardia socialmente, tutti i 610.577 abitanti riceveranno un reddito-base universale, come riportato dal “Washington Post”. «Al posto di un insieme anche piuttosto confuso di contributi sociali, tutti riceveranno una somma di denaro», scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici”. In questo, modo nessuno dovrà più preoccuparsi dei propri bisogni di base: saranno “stipendiati” tutti, indipendentemente dal reddito. Il Sikkim è un paese avanzato, per molti aspetti: «Con un tasso di alfabetizzazione del 98%, da diversi anni ha bandito completamente le borse di plastica: di recente è diventato il primo paese “biologico” al mondo, avendo messo al bando anche pesticidi e concimi chimici». Il piccolo Sikkim, aggiunge “Scenari Economici”, ha anche un tasso di povertà piuttosto basso, «soprattutto se comparato con il resto dell’India, in quanto solo l’8% della popolazione è in uno stato di indigenza, contro il 30% dell’India e il 10% dell’Italia».
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Appello al governo: vi regalo la prevenzione dei terremoti
Appello al governo italiano: Salvini e Di Maio se la sentono di prendere finalmente in considerazione il sistema di prevenzione sismica collaudato da Giampaolo Giuliani, l’ex tecnico dell’istituito di astrofisica del Gran Sasso che nel 2009 previde il catastrofico terremoto dell’Aquila? La notizia: pur di salvare vite umane, Giuliani regalerebbe volentieri allo Stato il suo rivoluzionario brevetto, per il quale ha ricevuto offerte milionarie. Si tratta di un dispositivo di rilevazione e allertamento, installato con successo in mezzo mondo, dall’America all’Asia. Ha dell’incredibile il fatto che una scoperta italiana venga completamente ignorata in patria, dove la terra ha ripreso a tremare – dall’Abruzzo alla Sicilia. «Trovo vergognoso che ancora oggi i telegiornali sostengano impunemente che i terremoti non si possano prevedere», protesta Gianfranco Pecoraro (Carpeoro), dirigente del Movimento Roosevelt. Carpeoro ha rilanciato l’offerta salva-vita di Giuliani in una diretta web-streaming su YouTube il 6 gennaio, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”, in collegamento con lo stesso Giuliani.
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Tutta la verità, sempre. Grazie a Mazzucco, giornalista vero
«Ragazzi, ricordarvi di dare fastidio, sempre, a chi comanda». Furono le ultime parole che lo scrittore Nuto Revelli rivolse agli studenti delle scuole che spesso visitava. Autore di memorabili libri-denuncia come “La guerra del poveri” sulla ritirata di Russia e “Il mondo del vinti” sull’agonia delle valli alpini spopolate dall’era industriale, Revelli rappresentò una voce importante (e scomoda, quindi isolata) nella coscienza italiana del dopoguerra. Il suo lascito: cercare la verità, ad ogni costo. Quello che, in teoria, dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Quanti ce ne sono, oggi, in circolazione? Pochissimi, secondo il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh: «Se i reporter avessero fatto il loro dovere, in questi decenni, avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché il potere non avrebbe osato mentire così spudoratamente all’opinione pubblica». La madre di tutte le stragi, quella dell’11 settembre 2001, colse il milanese Massimo Mazzucco nella sua abitazione di Los Angeles, dove lavorava come sceneggiatore per la Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la sua brava gavetta in Italia in qualità di fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Quel giorno, Massimo vide – come tutto il resto del mondo – l’impatto del primo aereo. E vide che trascorse un intervallo interminabile prima che avvenisse l’urto del secondo velivolo, senza che nel frattempo si fosse levato in volo un solo caccia a presidiare i cieli.Quella mattina, infatti, l’intera difesa aerea degli Stati Uniti sulla costa orientale era affidata a due soli intercettori armati di missili e pronti a decollare, più altri due di riserva. Tutti gli altri – centinaia – erano impegnati in esercitazioni concomitanti in Canada, Alaska e California: fatto fino ad allora mai verificatosi, nella storia degli Usa, né più ripetutosi in seguito. Il cielo della superpotenza mondiale era più sguarnito di quello del Burkina Faso. Questo (e molto altro) ha messo insieme, Massimo Mazzucco, dopo anni di impegno ininiterrotto alla ricerca della verità. A partire dal primo documentario, “Inganno globale”, mandato in onda da Mentana a “Matrix” su Canale 5 in prima serata, nel 2006, di fronte a milioni di attoniti telespettatori, il video-reporter più scomodo d’Italia ha dedicato alla truffa dell’11 Settembre anche il maxi-documentario del 2013, “11 Settembre, la nuova Pearl Harbor”, raccogliendo prove e testimonianze che smentiscono la versione ufficiale sull’attentato alle Torri Gemelle. Tante le teorie: le Twin Towers abbattute da armi speciali ad energia, demolite con la nano-termite, incenerite con mini-atomiche? Mazzucco non sposa nessuna tesi: «Non spetta a me stabilire cosa sia stato usato per far crollare le Torri, a me basta dimostrare che non possono esser stati quegli aerei», ha ripetuto, anche in web-streaming su YouTube il sabato mattina con Fabio Frabetti di “Border Nights”.Anzi, aggiunge: «Il parteggiare per una tesi o per l’altra finisce per produrre contraddizioni tecniche utili solo a chi vuol farla dimenticare, quella storia, squalificando di fronte all’opinione pubblica chi ricerca la verità con serietà e impegno, come i tremila architetti e ingegneri americani che, mettendo a repentaglio il proprio posto di lavoro, sono riusciti a dimostrare in modo definitivo la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle». Cercare la verità, appunto, senza trarre conclusioni affrettate: nel suo ultimo lavoro, “American Moon”, Mazzucco si avvale dei maggiori fotografi internazionali per dimostrare che le immagini del mitico allunaggio del ‘69 non sono state realizzate sulla Luna, ma in studio. «Il che non significa che non siamo mai stati sulla Luna: significa che le immagini mostrate al mondo erano false». Il potere statunitense è finito nel mirino di Mazzucco in svariate occasioni: nel 2007 ha firmato il documentario “L’altra Dallas – Chi ha ucciso Robert Kennedy?”. Un giallo tutt’altro che chiuso, quello che circonda la morte del fratello di Jfk, assassinato il 6 giugno 1968 nelle cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles per fermare la sua corsa alla Casa Bianca: «Nonostante vi siano almeno venti persone che hanno visto Sirhan Sirhan sparare a Kennedy, sono emersi nel corso del tempo svariati elementi che tendono decisamente a scagionarlo».Lo chiamano Deep State, ed è qualcosa che affonda le sue radici nella nebulosa che tiene insieme esponenti della supermassoneria sovranazionale neo-oligarchica messa a nudo da Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni”, con propaggini nella Cia e nell’Fbi, al Pentagono, alla Casa Bianca, in centri di comando assoluti come il Council on Foreign Relations. Da quegli ambienti scaturì il Pnac, Piano per il Nuovo Secolo Americano, attraverso cui i neocon – i Bush e Cheney, Wolfowitz, la Rice, Donald Rumsfeld – pianificarono apertamente la “guerra infinita” a cui il maxi-attentato dell’11 Settembre avrebbe spianato la strada. Massimo Maazzucco ne parla nel documentario “Il nuovo secolo americano”, uscito nel 2008 per illuminare «tutti i retroscena storici, politici, economici e filosofici che avrebbero portato agli attentati dell’11 Settembre per vie ben diverse da quelle che ci sono state raccontate». Non è possibile, infatti, comprendere gli attacchi alle Torri «se non si conosce la storia che c’è alle loro spalle». Ma lo sguardo di Mazzucco – giornalista vero – si estende anche oltre l’agenda geopolitica: nel video “I padroni del mondo”, uscito sempre nel 2008, esplora il territorio misteriosamente ibrido che comprende avvistamenti Ufo, ruolo dei militari e pericolo atomico.“I padroni del mondo”, spiega, non è un classico film sugli Ufo, ma «un film che cerca di comprendere il motivo per cui tutte le informazioni raccolte fino ad oggi sugli Ufo ci vengano tenute nascoste dai militari del Pentagono». E’ forse trovando questa risposta, ipotizza il video-reporter milanese, che si può scoprire qualcosa anche sull’esistenza di «esseri provenienti da altri pianeti, e sulle loro eventuali intenzioni». Tanto per essere espliciti: l’ufologo Roberto Pinotti, da decenni in contatto l’aeronautica militare italiana, ricorda che i gesuiti hanno speso milioni di dollari per allestire sul Mount Graham, in Arizona, un potente osservatorio astronomico dedicato allo studio dell’esobiologia, cioè la vita aliena. “L’extraterrestre è mio fratello”, titolò clamorosamente “L’Osservatore Romano” intervistando padre José Gabriel Funes, astronomo e gesuita, direttore della Specola Vaticana: un centro «che possiede anche un telescopio ad alta tecnologia e vanta un team di scienziati che fa invidia a quello della Nasa», ricorda Agnese Pellegrini su “Famiglia Cristiana”. Ma se padre Funes scruta il cielo in attesa dello sbarco dei “fratelli dello spazio”, Massimo Mazzucco – al solito – scava dietro le verità ufficiali, prendendo per le corna il toro del potere: perché i militari non ci raccontano tutto quello che sanno?Inutile sperare che sui giornali si riscontri altrettanto impegno, nella ricerca delle notizie che contano, anche – per dire – in un settore delicatissimo come quello della salute. E’ del 2009 la dirompente indagine sulle cure alternative per il tumore (“Cancro, le cure proibite”), nel quale Mazzucco mette a nudo il silenzio assordante che copre i clamorosi risultati già ottenuti da decine di medici, in tutto il mondo, per i quali il cancro non è più una malattia incurabile. Negli ultimi 100 anni, riassume il trailer del documentario, dozzine di scienziati, medici e ricercatori hanno trovato diverse cure valide per il cancro, spesso supportate anche da migliaia di testimonianze di pazienti guariti – ma noi non lo abbiamo mai saputo: perché? Statistiche: cent’anni fa si ammalava di cancro solo una persona su 20, oggi invece una su 3 (e negli Usa, un individuo su 4 muore di cancro). Chi sopravvive, viene semi-distrutto dalla chemio: dolori, gonfiore, febbre, nausea, vomito e svenimenti, senza contare l’abbattimento delle difese immunitarie e quindi il rischio elevatissimo di contrarre altri tumori, di cui l’organismo ormai indifeso diviene facile preda. Quando mai se ne parla, sui giornali, di cure di successo contro lo stramaledetto cancro?«Da cent’anni – dichiara Mazzucco – la medicina ufficiale nega che esista una cura risolutiva». Il video mostra sanitari come Max Gerson, che guarisce pazienti considerati “terminali”, così come il collega Harry Hoxsey. Medici per i quali il cancro non è più invincibile: da Tullio Simoncini a René Caisse. Racconta un anziano paziente: «Mi avevano detto che sarei morto in 24 ore, e invece eccomi qua». L’elenco di medici anti-cancro è lungo quasi quanto il Novecento: Chas Ozina e Josef Issels, Emanuel Revici, Royal Rife. E poi Gaston Naessens e Linus Pauling, senza contare Wilhelm Reich e Ryke Hamer. «Perché tutti coloro che hanno proposto una nuova cura, negli ultimi cento anni, sono stati sistematicamente ignorati, derisi, combattuti e spesso anche messi in prigione?». Nel video, rispondono operatori della sanità: «Il cancro è un grosso affare, uno dei più grandi che ci siano». Nel solo 2004, Big Pharma ha fatturato oltre mezzo “biliardo” (“550 billion”, cioè 550 miliardi di dollari). I medici intervistati da Mazzucco parlano di «inviti a pranzo, cene gratis, Champagne». Scandisce il norvegese Per Lonning, dell’Haukeland Hospital di Bergen: «Arriveremo a trovare la cura? La questione non è “se”, ma “quando”». Solo questione di volontà politica, in altre parole. E di soldi, tanto per cambiare.Dice Mark Abadi, psicologo: «La farmaceutica è l’industria di maggior successo nel mondo. Quello che non vogliono è che tu guarisca». Chiosa un’anziana, fissando la telecamera: «Se i medici sanno che c’è una cura, eppure mandano i pazienti a casa a morire, quella è un’atrocità peggiore dell’Olocausto». Tra i rimedi anti-cancro recentemente ammessi c’è anche la marijuana, le cui infiorescenze sono ricchissime di Tch, un principio attivo (già usato da Big Pharma in modo non dichiarato) che in molti casi distrugge le cellule tumorali, oltre ad alleviare le sofferenze dei pazienti. Mazzucco ne parla nel documentario “La vera storia della marijuana”, uscito nel 2010. Domanda: «Che cosa si nasconde dietro alla ossessiva, incessante e terrificante guerra alla droga?». La realtà che si cela sotto la proibizione di questa pianta è «qualcosa di assolutamente impressionante e sconvolgente, con una portata storica che condiziona in modo determinante la vita quotidiana di tutti noi, compreso chi non ha mai visto da vicino nemmeno uno spinello». Tanto per dire, in tutte le civiltà, la marijuana è stata la pianta più utile per l’intera umanità: se ne ricavano carta e tessuti per abiti, olio, corde, medicine. Dalla canapa è possibile produrre anche un’ottima plastica naturale. Ecco il punto: il boom della cannabis avrebbe tagliato le gambe all’industria (sanguinosa) del petrolio.La cannabis, aggiunge Mazzucco nel suo video, è stata usata fin dall’antichità per combattere malaria, reumatismi e dolori mestruali, epilessia, coliche e anche gastriti, anoressia e tifo. Non ci credete? Il medico personale della regina Vittoria, Sir John Russell Reynolds, nel 1890 la definì «una delle medicine più importanti a disposizione dell’uomo». Poi, da un giorno all’altro, questa pianta miracolosa è diventata il frutto proibito, la radice di ogni male: fonte di peccato, perversione e immoralità. Una pericolosa scorciatoia verso la devianza e la follia. Una demonizzazione devastante, improvvisa e sospetta, proprio in prossimità del boom del petrolio. Mazzucco ricorda che Harry Anslinger, del Federal Bureau of Narcotics, fece proibire la marijuana in tutto il mondo: chi lo finanziava? Lo spiega il suo filmato, ora proposto anche come strenna – in cofanetto – insieme a tutti gli altri: un’ottima occasione per fare scorta di informazioni serie, comprovate da documentazioni a prova di bomba.A Mazzucco, naturalmente, il mainstream dà del complottista: un modo facilotto per tentare di sbarazzarsene. Se c’è una dote nella quale l’autore eccelle è proprio la prudenza. Regola numero uno: verificare le notizie in modo da avere sempre almeno 3-4 conferme incrociate. Cosa che i giornalisti hanno smesso di fare da secoli, limitandosi per lo più a passare veline governative. A lettori e telespettatori rifilano quasi solo robaccia, semplice gossip politico, guardandosi bene dall’impensierire il potere. Mazzucco rimpiange il Mentana dei bei tempi, che a suo modo era coraggioso. «Poi, col tempo, si è integrato nel sistema. Arrivato a La7, poteva diventare “il primo degli ultimi”. Invece, si è accontentato di essere “l’ultimo dei primi”». A chi ha fame di notizie vere, naturalmente, resta il web: «Oggi sulla Rete troviamo informazioni impensabili, dieci anni fa, grazie al lavoro tenace e paziente di migliaia di attivisti». Lavoro che “dà fastidio”, come auspicava l’anziano Nuto Revelli, tant’è vero che la politica – italiana, europea – continua a tentare di imbavagliare i blog. E i giornalisti? Silenti, su tutta la linea. Si consolino: se vogliono scoprire come sono andate davvero le cose, in molti tornanti dell’attualità, possono sempre guardarsi i dvd di Massimo Mazzucco. Vere e proprie miniere di notizie.(Tutti i dvd ideati, prodotti e diretti da Massimo Mazzucco sono acquistabili singolarmente, on-line, attraverso il sito “Luogo Comune”. Per il Natale 2018, è anche possibile acquistarli in un’unica soluzione – versione cofanetto – al prezzo scontato di 49 euro).«Ragazzi, ricordatevi di dare fastidio, sempre, a chi comanda». Furono le ultime parole che lo scrittore Nuto Revelli rivolse agli studenti delle scuole che spesso visitava. Autore di memorabili libri-denuncia come “La guerra del poveri” sulla ritirata di Russia e “Il mondo del vinti” sull’agonia delle valli alpine spopolate dall’era industriale, Revelli rappresentò una voce importante (e scomoda, quindi isolata) nella coscienza italiana del dopoguerra. Il suo lascito: cercare la verità, ad ogni costo. Quello che, in teoria, dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Quanti ce ne sono, oggi, in circolazione? Pochissimi, secondo il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh: «Se i reporter avessero fatto il loro dovere, in questi decenni, avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché il potere non avrebbe osato mentire così spudoratamente all’opinione pubblica». La madre di tutte le stragi, quella dell’11 settembre 2001, colse il milanese Massimo Mazzucco nella sua abitazione di Los Angeles, dove lavorava come sceneggiatore per la Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la sua brava gavetta in Italia in qualità di fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Quel giorno, Massimo vide – come tutto il resto del mondo – l’impatto del primo aereo. E vide che trascorse un intervallo interminabile prima che avvenisse l’urto del secondo velivolo, senza che nel frattempo si fosse levato in volo un solo caccia a presidiare i cieli.
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Hitler, Kennedy, 11 Settembre: è nera la storia dei Bush
Se c’è un motivo per cui si insiste sull’importanza dell’omicidio Kennedy, dopo oltre 50 anni dall’evento, non è certo per “cospirazionismo congenito”, ma per un fatto molto più semplice e tangibile: la stessa persona che era a Dallas il 22 novembre 1963 dormì alla Casa Bianca il 10 settembre 2001. E ciò per sua stessa ammissione, in ambedue i casi. Anzi, nel primo George Herbert Bush, padre-padrone del Nuovo Ordine Mondiale – oltre che del futuro presidente, George Walker Bush – si premurò di informare direttamente l’Fbi della sua presenza a Dallas quel giorno, proprio nelle ore in cui il corteo di Kennedy si presentava all’appuntamento con la storia in Dealey Plaza. Nelle stesse ore Richard Nixon, presente a Dallas da tre giorni per «motivi personali» – peraltro mai accertati – ripartiva alla volta di New York, dove avrebbe appreso dell’avvenuto omicidio di John Kennedy. Sarebbe diventato l’unico uomo al mondo a non ricordarsi del momento esatto in cui apprese la notizia, fornendone negli anni ben tre versioni differenti: all’aeroporto, durante il tragitto in taxi, sotto il portone di casa. «Diventano così tre, contando anche Johnson che lo sarebbe diventato quel pomeriggio, i futuri presidenti che erano a Dallas quel giorno. Un curioso crocevia della storia, se non altro».Lo afferma Massimo Mazzucco, riproponendo su “Luogo Comune” una scheda sulla dinastia dei Bush all’indomani della scomparsa di “Bush padre”, George H., spentosi a Houston il 30 novembre all’età di 94 anni. Dei Bush “segreti” parla diffusamente Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), svelando che – dopo la sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane nel 1980 – Bush senior fondò la Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, detta anche “loggia del sangue e della vendetta”. Alla “Hathor”, nella sua ricostruzione fondata su un archivio massonico di 6.000 pagine, Magaldi attribuisce l’attentato a Reagan (cui seguì in modo simmetrico l’attentato a Papa Wojtyla), quindi l’incubazione della strage dell’11 Settembre e infine – ancora nel campo del terrorismo “false flag” – la fabbricazione dell’Isis, ultima incarnazione del “demonio” islamista partorito dallo schema (interamente occidentale) del cosiddetto “scontro di civiltà”, grazie al quale il gruppo di potere capeggiato dalla superloggia dei Bush decise di completare “a mano armata” la globalizzazione violenta del pianeta, attraverso guerre in Medio Oriente innescate da “fake news” come le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.Dal canto suo, Mazzucco si concentra invece su “nonno Bush”, ovvero Prescott, il padre di George H. Lo definisce «la persona più importante di tutte, in questa vicenda», dati i clamorosi legami della famiglia col nazismo. Retroscena imbarazzanti, in grado di illuminare le origini del gruppo di potere che – con l’11 Settembre – ha cambiato la storia del pianeta. Tanto per cominciare, Prescott Bush era a Dallas il giorno dell’attentato a Kennedy. E oltre che ad aver avuto un ruolo determinante, dietro le quinte, in tutta la politica americana del dopoguerra, lo stesso Prescott è risultato esser stato implicato nei pesanti finanziamenti illeciti che contribuirono all’ascesa di Hitler al potere. La vicenda, aggiunge Mazzucco, merita di essere conosciuta per meglio inquadrare la potenza di una dinastia così determinante, nella storia degli Usa e del resto del mondo. Fin dall’inizio, la saga dei Bush è fondata sul fatale intreccio di politica e affari. Il nonno materno di Prescott, George Herbert Walker, aveva fondato a St.Louis, nel 1900, la società finanziaria G. H. Walker and Company. Tale fu il suo successo, che nel 1920 la società si trasferiva con tutti gli onori nella prestigiosa Wall Street di New York. Di lì a poco, il contatto con la Germania: nel 1924 George Walker conobbe l’industriale tedesco Fritz Tyssen, uno dei maggiori finanziatori del nascente partito nazista. «In poco tempo Walker divenne a sua volta il tramite di finanziamenti sempre più voluminosi che dall’America finivano direttamente nelle casse di Hitler».Un’altra compagnia che investiva denaro americano in Germania era la Sullivan & Cromwell di un certo Allen Dulles, che ritroveremo trent’anni dopo alla guida della Cia. Una terza società, la più importante di tutte, era la Harriman & Associates, di un certo Averill Harriman: «Un personaggio con forti legami col paritito nazista tedesco, che in seguito sarebbe divenuto ambasciatore Usa a Mosca, e poi ministro del commenrcio, sotto Truman». Nel 1931, prosegue Mazzucco, Harriman scelse George Walker alla guida della Union Banking Corporation, la banca che gli serviva da tramite per i suoi traffici monetari con la Germania. A sua volta, nel 1934, George Walker fece assumere il nipote Prescott come vicepresidente della Harriman & Associates, accanto al suo boss. Nel 1936 Harriman fondò la Brown Brothers Harriman, ne assunse alla guida legale Allen Dulles, del quale assorbiva nel frattempo la Sullivan & Cromwell. Nel 1937 Harriman entrò in società con i Rockefeller, dando origine alla Brown Brothers Harriman-Schroeder Rock. Già a quel tempo, Rockefeller significava Standard Oil.Come delfino di Harriman, Prescott Bush si era intanto venuto a trovare, prima della guerra, anche nel consiglio di amministazione della Union Banking. Ma nel 1942 – a guerra scoppiata – la banca si vide congelare dall’Fbi di Edgar J. Hoover tutti i beni, in seguito ad una legge che imponeva di interrompere ogni possibile relazione finanziaria con in paesi nemici. «Ma Prescott, con l’aiuto di Dulles, seppe congegnare un meccanismo finanziario che permise alla maggior parte dei capitali di sfuggire al congelamento, dirottandoli semplicemente in operazioni molto meno vistose, ma altrettanto lucrative. Per Prescott fu il trionfo, e per Dulles la garanzia di un futuro senza più limiti alle sue ambizioni». Naturalmente, aggiunge Mazzucco, «Hoover non era stato troppo rigoroso nell’indagare sulla Union Bank di Harriman, e molto probabilmente nacque proprio in quei giorni una reciproca simpatia fra i tre “ragazzi”, che avrebbe poi condizionato la storia per molti decenni a venire». Se Allen Dulles e Edgar Hoover si legano ai Bush già durante il secondo conflitto mondiale, l’uomo-chiave dell’ancoraggio della famiglia Bush nella politica americana del dopoguerra sarà Richard Nixon, «divenuto il pupillo di Prescott – altri direbbero il suo pupazzo». Bush ne aveva finanziato l’elezione al Parlamento, dopo averlo prelevato dai ranghi dell’Fbi.Risale a quegli anni, sostiene Mazzucco, un possibile collegamento fra Nixon e Jack Ruby, l’assassino di Oswald a Dallas. Sempre “nonno Bush” aveva poi piazzato Nixon accanto ad Eisenhower, alla vicepresidenza, facendogli sposare la nipotina dell’ex-generale. «Nixon era quindi diventato il candidato naturale alla presidenza, nel 1960, allo scadere del mandato di Eisenhower, ma aveva perso a sorpresa contro lo sconosciuto Kennedy». Con l’assassinio di Dealey Plaza, tre anni dopo, si riapriva per Nixon (e quindi per Prescott Bush) la strada della Casa Bianca. Il giorno seguente, infatti – come poi raccontò uno dei suoi più stretti collaboratori – si svolse a casa di Nixon una riunione segreta, nella quale vennero discusse le strategie per rientrare sulla scena politica, dopo la bruciante sconfitta del 1960. «Cuba era diventata nel frattempo una dolorosa spina nel fianco, dopo il fallimento dell’invasione della “Baia dei Porci”, che i repubblicani imputavano interamente a Kennedy. Ma il progetto originale, del ‘59, era dello stesso Nixon, il quale evidentemente “se lo era preparato” per ritrovarselo fresco sul tavolo, una volta divenuto presidente».Lo aveva elaborato subito dopo la rivoluzione castrista, collaborando con un certo Howard Hunt della Cia, uomo di Allen Dulles (il direttore Cia in quel periodo) sin dagli anni ‘30. La differenza era che il piano Hunt-Nixon-Dulles prevedeva che al momento giusto l’America avrebbe concesso il supporto militare richiesto dagli “invasori” di Cuba, mentre Kennedy “al momento giusto” si rifiutò di concederlo. Questo causò una crisi insanabile all’interno dell’amministrazione, con la frattura definitiva fra la Cia e Kennedy, che si permise addirittura di licenziare Dulles. «Meno di due anni dopo, Allen Dulles sedeva accanto al giudice Warren, nella famigerata commissione che prendeva il suo nome, e che riusciva in qualche modo ad insabbiare le indagini sull’omicidio più famoso della storia». Curiosamente, annota Mazzucco, anche Howard Hunt si trovava a Dallas il giorno dell’attentato: «Nonostante in seguito abbia tentato di negarlo, fu inchiodato in proposito dalla testimonianza dei suoi stessi figli». E così, «il crocevia texano si fa sempre più fitto». Nel ‘64 però Nixon scelse, saggiamente, di non candidarsi, poichè la popolarità di Johnson – succeduto a Kennedy dopo Dallas – in quel momento era alle stelle. Johnson infatti stracciò letteralmente il candidato repubblicano Barry Goldwater.Nixon sarebbe rientrato alla Casa Bianca solo nel ‘68, dopo la morte del nuovo candidato democratico, Robert Kennedy, anch’egli assassinato in circostanze mai chiarite, «ma di certo non da Shiran Shiran solamente». Una volta che Nixon fu presidente, Howard Hunt fece uno strepitoso balzo di carriera, passando da semplice agente Cia a capo dei servizi segreti della Casa Bianca. Contemporaneamente George H. Bush (“Bush padre”, il figlio di Prescott) veniva nominato da Nixon ambasciatore alle Nazioni Unite. «Ormai le redini del comando, in famiglia, erano passate a George H. Bush». Prescott però moriva, nel 1972, e non potè vedere il figlio diventare direttore della Cia nel 1976, poi vicepresidente sotto Reagan (1980-1988), ed infine presidente egli stesso, dal 1988 al 1992. Non vide nemmeno, peraltro, la sconfitta del figlio nel 1992, che perdeva inaspettatamente la sua rielezione contro uno sconosciuto Bill Clinton. La storia sembrava ripetersi, e fu questa volta George H. Bush a dover attendere la controversa decisione della Corte Suprema, nel 2000, per poter piazzare il figlio – George W. – fra le mura tanto amate. «Talmente amate, parrebbe, che il 10 di settembre del 2001, nonostante il figlio si trovasse in Florida, decise di fermarsi a dormire alla Casa Bianca, sulla via del ritorno da New York al Texas».Lo ha raccontato egli stesso in televisione, più di una volta. Sarebbe ripartito molto presto all’alba, venendo così a trovarsi già vicino a casa, al momento del blocco completo dei voli che seguì gli attentati dell’11 Settembre. «La sera del 10, a fare gli onori di casa c’era Dick Cheney, l’uomo che lo stesso Bush aveva messo accanto al figlio, come vicepresidente, un anno prima. Cheney era anche l’uomo che, in assenza del presidente in carica, avrebbe saldamente preso in mano la situazione durante gli attacchi terroristici, arrivando anche a far deviare, tramite i servizi segreti, i due caccia che si stavano finalmente dirigendo verso l’aereo diretto sul Pentagono, e mandandoli invece su un bersaglio fasullo». Aggiunge Mazzucco: «Che cosa abbia fatto George H. Bush a Dallas nel lontano 1963, e che cosa abbia fatto – o di cosa abbia parlato con Cheney – la notte del 10 settembre 2001, alla Casa Bianca, non lo sapremo probabilmente mai».Stranissima, poi, la telefonata che George H. Bush fece, il 22 novembre 1963, a un agente Fbi, Graham Kitchel. Nel suo report, Kitchel riporta due notizie. La prima: Bush senior gli ha segnalato il nome di un giovane, James Parrott, «forse studente dell’università di Houston». Naturalmente «in via confidenziale», Bush parla di «una voce» che «ha sentito girare» nelle settimane precedenti, secondo cui l’ipotetico Parrott «andava parlando di uccidere il Presidente», quando fosse arrivato a Houston. Sempre all’agente Fbi, Bush fornì indicazioni su come approfondire: due donne della direzione del partito repubbicano della contea di Harris avrebbero potuto fornire maggiori informazioni sull’identità di Parrott. Infine, lo stesso Kitchel scrive: «Bush ha dichiarato di essere in partenza per Dallas, Texas, dove avrebbe alloggiato allo Sheraton-Dallas, per tornare a casa sua il 23 novembre 1963», cioè il giorno seguente. Curioso, segnala Mazzucco: «Mentre Kennedy sta morendo all’ospedale di Dallas, Bush – allora privato cittadino, e presidente di una delle tante compagnie petrolifere di proprietà di famiglia – parte per la stessa città, e si premura di farlo sapere all’Fbi». Sembra proprio di leggere fra le righe «una strana voglia da parte sua di “farsi trovare” a tutti costi dalla stessa Fbi, a Dallas, quella sera».Ancora più curioso, dice Mazzucco, è che Bush utilizzi, come scusa per rendere nota la sua presenza in città, proprio la “voce di possibile attentato al presidente Kennedy, quando verrà a Huston”, visto che a Houston Kennedy c’era già stato. «Di certo si può supporre una cosa: se Bush quella sera è stato contattato dall’Fbi – come appare probabile – avrà sicuramente avuto da loro più informazioni sull’attentato appena avvenuto, di quante ne possa mai aver date sul suo fantomatico “James Parrott”». Curioso infine che l’ora in cui fu ricevuta la telefonata (13.45) corrisponda al momento in cui la notizia della morte di Kennedy, avvenuta intorno alle 13, iniziava a rimbalzare in tutte le agenzie del mondo. «Giusto per assicurarsi un “alibi” fuori città, nel caso estremo, ma anche giusto in tempo per saltare in macchina e raggiungere lo Sheraton di Dallas, dove potersi “rendere reperibile in serata”». Tutte coincidenze? «Può darsi. Ma che dire allora di questo documento, dal quale risulta che Jack Ruby – l’uomo su cui fece perno l’intera organizzazione dell’omicidio di Dallas, e che pensò poi a liberarsi fisicamente di Oswald, prima che potesse parlare – lavorava per Nixon già dal lontano 1947?».Si tratta di un documento dell’Fbi, desecretato qualche anno fa. «Giuro con questa dichiarazione che un certo Jacob Rubinstein di Chicago, potenziale testimone davanti al Comitato per le Attività Antiamericane [Commissione McCarthy], lavora come informatore per l’ufficio del deputato repubblicano della California, Richard M. Nixon. Si richiede di non interrogarlo pubblicamente nelle udienze sopra menzionate». La data: 14 novembre 1947. «E’ noto che in quel periodo Ruby lavorasse per la mafia di Chicago», osserva Mazzucco, «e il documento sembra quindi fornire l’anello mancante per il collegamento fra mondo “pulito” e mondo “sporco”, che fu assolutamente necessario per organizzare a Dallas un attentato che desse le massime garanzie di riuscita». Prescott Bush e la Germania di Hitler, la Cia di Allen Dulles, l’Fbi di Edgar Hoover, quindi Richard Nixon e infine George Herbert e George Walker, padre e figlio, direttamente alla Casa Bianca – l’ultimo sotto la tutela del potente Dick Cheney, emblema del Deep State. Le Torri Gemelle, l’Iraq, l’Afghanistan, l’incendio permanente in Medio Oriente. Potere, attentati, guerra e terrorismo: una dinastia in chiaroscuro, con ombre più che inquietanti attraverso svariati decenni, a tracciare una vera e propria storia parallela, accanto a quella ufficiale.Se c’è un motivo per cui si insiste sull’importanza dell’omicidio Kennedy, dopo oltre 50 anni dall’evento, non è certo per “cospirazionismo congenito”, ma per un fatto molto più semplice e tangibile: la stessa persona che era a Dallas il 22 novembre 1963 dormì alla Casa Bianca il 10 settembre 2001. E ciò per sua stessa ammissione, in ambedue i casi. Anzi, nel primo George Herbert Bush, padre-padrone del Nuovo Ordine Mondiale – oltre che del futuro presidente, George Walker Bush – si premurò di informare direttamente l’Fbi della sua presenza a Dallas quel giorno, proprio nelle ore in cui il corteo di Kennedy si presentava all’appuntamento con la storia in Dealey Plaza. Nelle stesse ore Richard Nixon, presente a Dallas da tre giorni per «motivi personali» – peraltro mai accertati – ripartiva alla volta di New York, dove avrebbe appreso dell’avvenuto omicidio di John Kennedy. Sarebbe diventato l’unico uomo al mondo a non ricordarsi del momento esatto in cui apprese la notizia, fornendone negli anni ben tre versioni differenti: all’aeroporto, durante il tragitto in taxi, sotto il portone di casa. «Diventano così tre, contando anche Johnson che lo sarebbe diventato quel pomeriggio, i futuri presidenti che erano a Dallas quel giorno. Un curioso crocevia della storia, se non altro».
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Tumori: le città Usa contro il wireless 5G, in arrivo in Italia
America dei controsensi: dal 1° ottobre il sistema 5G è regolarmente in funzione a Houston, Indianapolis, Los Angeles e Sacramento, ma c’è pure chi s’è sfilato e ha detto “no”. Se a Doylestown (Pennsylvania) da più d’un anno i funzionari rimbalzano tra le aule dei tribunali statali e federali per opporsi alla massiccia invasione di mini-antenne di quinta generazione, dopo le città di San Anselmo e Ross, anche il Comune di Mill Valley (sempre in California) ha deciso di fermare il 5G: «Troppo inquinamento elettromagnetico, esiste un fondato pericolo per la salute pubblica». Ricevute le protesta dei cittadini, scrive “Terra Nuova”, i municipi hanno infatti bloccato l’installazione del wireless del 5G per salvaguardare «la salute e la sicurezza della comunità». Lo stesso è accaduto a Palm Beach, in Florida, perché – sostengono i maligni – vi risiede nientemeno che il presidente Donald Trump, che pare non gradisca vivere in un groviglio di radiofrequenze. «Fatto sta che, numeri alla mano, solo in fase sperimentale oltre l’Atlantico sono già quattro le città che faranno (volentieri) a meno dei 20 Gigabit al secondo in download». Come ricorda anche l’Agcom, aderire al 5G significa garantire infrastrutture in grado di sostenere fino un milione di dispositivi connessi contemporaneamente per chilometro quadrato.Tradotto: irradiazioni di microonde millimetriche ovunque, non più solo dalle stazioni radio sui tetti dei palazzi (in Italia già 60.000) ma anche dai vecchi pali della luce «riconvertiti in ubiquitari Wi-Fi, uno ogni poche decine di metri, ovunque». Enel X, aggiunge “Terra Nuova”, ne ha annunciati poco meno di 2 milioni, distribuiti nei su 3.300 Comuni italiani. Con quali effetti per la salute? «Le prime evidenze che stanno venendo fuori dalla sperimentazione del 5G sono abbastanza preoccupanti», sostiene Agostino Di Ciaula, presidente di Isde-Italia (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, che ha già chiesto al governo Conte – inutilmente – una moratoria, per il nostro paese». Secondo Di Ciaula, «sono state segnalate alterazione dell’espressione genica, effetti sulla cute, effetti sulla proliferazione cellulare, sulla sintesi di proteine, sui processi infiammatori». Dati di fatto «ormai consolidati», secondo Di Ciaula: «Le onde elettromagnetiche ad alta frequenza causano effetti biologici soprattutto in termini di plesso ossidativo, che è alla base di numerose patologie croniche e dello stesso cancro». L’esposizione a onde come quelle fel 5G può danneggiare l’estensione del genoma e causare rischi in termini di fertilità, oltre che conseguenze neurologiche.«Ci sono numerosissime evidenze che documentano danni nello sviluppo, comportamentali, persino danni metabolici», aggiunge Di Ciaula. Sull’ipotesi di revisione da parte dell’Oms sulla “cancerogenesi da elettrosmog”, lo stesso Isde puntializza: «Il cancro è una evenienza che sembra molto probabile, ma è soltanto la vetta dell’iceberg». Secondo “Terra Nuova”, sono troppe le cose non dette, in materia: «Tra l’imbarazzante silenzio di amministratori locali, istituzioni regionali, politica e governo nazionale – non a caso anche mainstream e stampa faticano a informare l’opinione pubblica sullo scontro (titanico) in atto tra i massimi organismi di controllo sanitari del mondo – l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dovrà esprimersi sulla richiesta di revisione nella classificazione della radiofrequenze tra gli agenti cancerogeni». Secondo il newsmagazine ecologista, sarà un “terremoto” per il business 5G se la connessione elettrosmog-salute passerà dall’attuale livello (Classe 2B) alla Classe 2A o addirittura alla Classe 1, venendo cioè elevata da “possibile” a “probabile”, se non addirittura “certo” agente cancerogeno.La partita, aggiunge “Terra Nuova”, s’è riaperta proprio in questi giorni, con i risultati degli studi americani del National Toxicology Program e dell’Istituto Ramazzini di Bologna, bollati però come «non convincenti» dalla Commissione Internazionale per la Tutela dalle Radiazioni non Ionizzanti (Icnirp), che li ha definiti «studi che non forniscono un corpus di prove coerenti, attendibili e generalizzabili che possano essere utilizzate come base per la revisione delle attuali linee guida sull’esposizione umana». Sono davvero necessarie ulteriori ricerche? Non s’è fatta attendere la risposta degli scienziati chiamati in causa, «spartiacque in un’invisibile lotta tra negazionisti e precauzionisti che già in passato s’è macchiata di anomalie, scandali e conflitti d’interesse». Un’ombra che, secondo “Terra Nuova”, ancora oggi grava sulla tesi di quanti – anche davanti l’evidenza negli aggiornamenti e del numero degli “elettrosensibili” in crescita – si ostinano a considerare solo gli effetti termici (escludendo danni biologici da elettrosmog).«I nostri studi sono stati ben eseguiti e senza pregiudizi sui risultati», assicura Fiorella Belpoggi, direttrice della ricerca condotta per il Ramazzini: si tratta dell’indagine attualmente più importante al mondo, non finanziata dalle lobby del wireless né da privati, ma da enti pubblici. Dieci lunghi anni di studi e test, condotti su cavie “uomo-equivalenti”, che hanno permesso di riscontrare «gravi tumori maligni al cervello», oltre che l’insorgenza di infarti cardiaci. Ora, certo, la sanità pubblica dovrà valutare lo studio e trarne le conclusioni: il ruolo degli scienziati “finisce” nel momento in cui alle autorità si forniscono i dati accertati, che in questo caso rivelano la presenza di un rischio concreto e allarmante. «La sottostima delle prove dei biotest sui cancerogeni e i ritardi nella regolamentazione – osserva la dottoressa Belpoggi – hanno già dimostrato molte volte di avere gravi conseguenze, come nel caso dell’amianto, del fumo e del cloruro di vinile». La posizione ultra-prudente dell’Icnirp? Per Fiorella Belpoggi si commenta da sé, visto che sottovaluta gli evidentissimi rischi per la salute dei cittadini.America dei controsensi: dal 1° ottobre il sistema 5G è regolarmente in funzione a Houston, Indianapolis, Los Angeles e Sacramento, ma c’è pure chi s’è sfilato e ha detto “no”. Se a Doylestown (Pennsylvania) da più d’un anno i funzionari rimbalzano tra le aule dei tribunali statali e federali per opporsi alla massiccia invasione di mini-antenne di quinta generazione, dopo le città di San Anselmo e Ross, anche il Comune di Mill Valley (sempre in California) ha deciso di fermare il 5G: «Troppo inquinamento elettromagnetico, esiste un fondato pericolo per la salute pubblica». Ricevute le protesta dei cittadini, scrive “Terra Nuova”, i municipi hanno infatti bloccato l’installazione del wireless del 5G per salvaguardare «la salute e la sicurezza della comunità». Lo stesso è accaduto a Palm Beach, in Florida, perché – sostengono i maligni – vi risiede nientemeno che il presidente Donald Trump, che pare non gradisca vivere in un groviglio di radiofrequenze. «Fatto sta che, numeri alla mano, solo in fase sperimentale oltre l’Atlantico sono già quattro le città che faranno (volentieri) a meno dei 20 Gigabit al secondo in download». Come ricorda anche l’Agcom, aderire al 5G significa garantire infrastrutture in grado di sostenere fino un milione di dispositivi connessi contemporaneamente per chilometro quadrato.
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Vietato diffondere i post dei blog: il bavaglio al web dall’Ue
Il 12 settembre il Parlamento Europeo ad ampia maggioranza ha approvato la legge sul copyright. In Italia il Movimento 5 Stelle tuona il suo parere contrario per voce del leader Di Maio, mentre sui più blasonati giornali online si festeggia. Ufficialmente gli articoli 11 e 13, vero cuore della riforma, sembrano indirizzati a presevare il diritto d’autore, ma, come dice il poeta, “fatta la legge trovato l’inganno”. Lascerei perdere l’idea che il pericolo stia dietro il divieto di pubblicare immagini o spezzoni di contenuti altrui sotto forma di link (chiamati “snippet”). Se fosse davvero tutto qua ci sarebbe solo da festeggiare: basterebbe infatti evitare di richiamare le puttanate che puntulamente scrivono le testate giornalistiche mainstream e saremmo a cavallo. Anzi, messa giù così, l’agonia del giornalismo prezzolato subirebbe una forte accelerazione perchè le piattaforme più importanti del web come Google e Facebook si troverebbero nella condizione di impedire la divulgazione tramite modalità ipertestuale dei vari “Espresso”, “Repubblica”, “Corriere, “Sole 24 Ore”, “Huffington Post”, ecc. Per i blog, i canali privati di YouTube e le testate giornalistiche medio-piccole sarebbe una manna caduta dal cielo di Strasburgo.Siccome le lobby degli editori, invece, hanno fatto pressione proprio nel senso opposto a quello sopra descritto, occorre allora chiedersi che diamine nasconda questa legge. Il trucco sta tutto negli algoritmi che Facebook e Google News dovranno implementare per difendere il diritto d’autore. Con ogni probabilità, Zuckerberg e amici dovranno pagare costosissimi algoritmi allo scopo di individuare tutti quei siti e post che non pagano gli editori per avere il diritto di pubblicare un loro link nella forma evoluta dello “snippet”. In altri termini, se possiedi un sito web che divulga informazioni, alla fine dell’iter attuativo della legge, potresti trovarti bloccato da Facebook o da qualsiasi piattaforma internet. Perché? Per il semplice fatto che queste piattaforme si saranno dotate di un algoritmo che individua i siti dotati di licenza, li lascia scaricare i contenuti, e al contempo blocca tutti quelli che non hanno la licenza, cioè quelli che non si fanno pagare, come i piccoli blog o le piccole testate giornalistiche. Sembra non aver nulla a che fare col diritto d’autore, e infatti non ce l’ha; quello è solo il pretesto per fermare la libera informazione col trucchetto sorosiano della burocrazia.Lo scenario peggiore è quello per il quale le grandi case editoriali, tipo “L’Espresso”, pagano una licenza ridicola e l’algoritmo facebookiano le intercetta e le accomoda sulla piattaforma con i loro link, le immagini e tutta la compagnia cantando. Gli altri che non pagano alcuna licenza, ma che lasciano accedere gratuitamente ai contenuti da essi prodotti, potrebbero però trovarsi bloccati perchè un algoritmo così elaborato da ricercare ogni singola foto, ogni musichetta da 5 secondi, ogni citazione ipertestuale, magari da Wikipedia, richiede un processso troppo complicato e, al più, esageratamente costoso. Insomma, per semplificare e abbattere i costi, Facebook e Google potrebbero bloccare tutta l’informazione non-mainstream, cioè, e guarda caso, tutta l’informazione che ha sconfitto il clan dei Clinton in America, che ha favorito la Brexit e ha consentito l’avanzata dei sovranisti nell’Europa Continentale (Italia in primis). Anche qualora un sito web di news riuscisse a rivedere la propria produzione evitando le rassegne stampa, i link e le citazioni, basterà una foto di qualche politico o di qualche incontro pubblico, magari postato agli albori del sito, per vedersi il blocco perenne delle piattaforme internazionali.Hai voglia, dopo, con l’avvocatucolo di Vergate sul Membro, a farsi ripristinare il diritto a postare su Facebook avendo a che fare con interlocutori che hanno sede legale a Menlo Park in California… Molti attivisti ripongono fiducia sull’abilità delle piattaforme di adeguare gli algoritmi in modo da rispettare solo gli “snippet”, oppure sulla concretezza legislativa delle singole nazioni. Oppure, ancora, su un cambio di leadership al Parlamento Europeo, visto che verrà rinnovato nel 2019. Comunque vada a finire questa complicata vicenda, una cosa è già appurata: non c’è nessuno di più smaccatamente illiberale dei liberisti che hanno preso le redini di questo continente, oramai troppo vecchio e stupido per poter pensare a qualsivoglia unificazione, trincerato in battaglie di retroguardia e incapace di proporre un valido modello alternativo a quello dei satrapi orientali alla Xi Jinping o al bellafighismo hollywoodiano d’oltreoceano (ps: quello della foto sono io. Ho già cominciato a tutelarmi, e sono anche più bello di Juncker).(Massimo Bordin, “Ecco cosa di nasconde dietro la legge sul copyright”, dal blog “Micidial” del 13 settembre 2018).Il 12 settembre il Parlamento Europeo ad ampia maggioranza ha approvato la legge sul copyright. In Italia il Movimento 5 Stelle tuona il suo parere contrario per voce del leader Di Maio, mentre sui più blasonati giornali online si festeggia. Ufficialmente gli articoli 11 e 13, vero cuore della riforma, sembrano indirizzati a presevare il diritto d’autore, ma, come dice il poeta, “fatta la legge trovato l’inganno”. Lascerei perdere l’idea che il pericolo stia dietro il divieto di pubblicare immagini o spezzoni di contenuti altrui sotto forma di link (chiamati “snippet”). Se fosse davvero tutto qua ci sarebbe solo da festeggiare: basterebbe infatti evitare di richiamare le puttanate che puntulamente scrivono le testate giornalistiche mainstream e saremmo a cavallo. Anzi, messa giù così, l’agonia del giornalismo prezzolato subirebbe una forte accelerazione perchè le piattaforme più importanti del web come Google e Facebook si troverebbero nella condizione di impedire la divulgazione tramite modalità ipertestuale dei vari “Espresso”, “Repubblica”, “Corriere, “Sole 24 Ore”, “Huffington Post”, ecc. Per i blog, i canali privati di YouTube e le testate giornalistiche medio-piccole sarebbe una manna caduta dal cielo di Strasburgo.
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Onu: italiani in via di estinzione, nel 2050 saremo 40 milioni
Arrivano ogni anno e sono come un bollettino di guerra. Sono i rapporti dell’Istat sulla popolazione: mai così basso il numero delle nascite. Nel 2016 l’Italia è “dimagrita” di 134.000 persone: come avessimo perso una città delle dimensioni di Salerno. La fecondità è scesa a 1,34 figli per donna: nessun paese al mondo fa meno figli dell’Italia. Secondo lo storico francese Pierre Chaunu, nei paesi europei la disaffezione a procreare ha conseguenze simili alla peste nera che sterminò un terzo della popolazione del continente. A differenza dell’epidemia del medioevo che riempiva i cimiteri, scrive Giulio Meotti sul “Foglio”, l’epidemia di sterilità volontaria svuota i reparti di maternità. Persino per l’Onu, gli italiani sono un gruppo etnico in via di estinzione: nel nostro paese, il rapporto fra nascite e decessi è negativo dal 1990 (per inciso, l’epoca in cui il paese – con il collasso della Prima Repubblica – ha imboccato la via delle privatizzazioni, dell’euro e dell’Unione Europea). I dati per l’Italia – meno di 60 millioni di persone, inclusi però gli immigrati – per le Nazioni Unite sono ancora più terribili se consideriamo il rapporto fra nascite e decessi: indicatore che ha appena raggiunto il valore peggiore di sempre. Dieci anni fa, su “Le Monde”, il sociologo Henri Mendras scrisse che, di questo passo, la popolazione dello Stivale si sarebbe ridotta da 60 a 40 milioni nel 2050.«Nessun popolo può sopportare un evento così traumatico e l’equilibrio generale dell’Europa ne sarebbe scosso», scriveva Mendras. «L’Italia del nord, oggi così opulenta, ha il più basso tasso di fecondità in Europa: in media, meno di un bambino per donna». Le grandi città italiane “resistono” soltanto grazie all’immigrazione, continua Meotti nella sua analisi sul “Foglio” pubblicata nel 2017. «Prendiamo Venezia: 2.102 nuovi nati nell’ultimo anno, a fronte di 2.878 morti. Nel giro di quindici anni, a Bologna nasceranno il 10% di bambini in meno, il 20% in provincia. Gli anziani tra 65 e 79 anni cresceranno del 15%. Senza immigrazione, l’Emilia Romagna in vent’anni perderebbe 871.000. Si passerebbe dai quattro milioni e 454.000 residenti emiliano-romagnoli del 2016 a tre milioni e 583.000. Una contrazione del 20%». E’ un trend nazionale. Crollano le nascite a Milano: 17.681 nel 2006, 13.682 nel 2014, 12.688 nel 2015 e poco oltre le diecimila nel 2016. Genova è diventata la “città più vecchia d’Europa”. In Val d’Aosta, dal 2008 al 2015 la natalità è diminuita del 24%, il dato peggiore in Italia. «Nel ricchissimo Veneto le nascite sono calate del 20%». Sta “dimagrendo” la Toscana, meno 5,8%. Per Mendras, siamo di fronte a «una rivoluzione ideologica che rischia di mettere in pericolo la civiltà italiana».Una rivoluzione “culturale”: «Nascerà un nuovo tipo di famiglia: senza fratelli, zii, cugini». Un’Italia composta per due terzi da anziani e con pochissimi bambini. E’ esplicito l’economista americano Nicholas Eberstadt: «Ci sarete ancora domani? Un popolo può scomparire». Perché accade questo? Per soldi: «Una delle ragioni è che i figli sono bellissimi, ma non sono economicamente convenienti», afferma Eberstadt. «E in una società che premia ciò che è conveniente, non è una buona idea costruire una nuova famiglia». Se ieri non avere figli era una tragedia, oggi è anche uno stile di vita: si è più “liberi”. Secondo Eberstadt, continua il “Foglio”, «in una società grigia il welfare diventerà insostenibile: dovrete aumentare l’età pensionabile a 72, 73, 74 anni». Continundo su questa strada, «non penso che la società italiana sopravvivrà così come è oggi», aggiunge Eberstadt: «E’ possibile che l’Italia sarà osservata dal resto del mondo come un esperimento, per capire come una società sopravvive a questo terremoto. Sarete una cavia per il resto del genere umano». Sarà un’Italia di centenari, sostiene il noto demografo James Vaupel, già a capo dell’Istituto tedesco Max Planck: «La maggior parte delle persone vive oggi in Italia sarà probabilmente ancora viva nel 2050». La popolazione dell’Italia? «Potrebbe essere di 10 milioni alla fine del XXI secolo, un quinto della popolazione oggi».«Non conosco nessuna società pre-moderna che ha smesso di avere figli», dichiara al “Foglio” lo storico Bruce Thornton, studioso di antichità alla California State University e autore di “Decline and fall of Europe”. «Si vede questo fenomeno tra le élite, per esempio nella Roma tardo-repubblicana, con Augusto che ha cercato di incoraggiare gli aristocratici romani ad avere più figli. Prima dell’età moderna, la gente ha visto i bambini come risorsa più importante di ogni cultura. Solo i moderni possono essere così stupidi da ignorare questa saggezza». Entrerà in crisi la democrazia, in una simile spirale di invecchiamento e sterilità. «La democrazia sarà in pericolo», afferma Thornton, perché welfare sanitario, assistenza e pensioni dipendono dai lavoratori più giovani che pagano le tasse. «Cosa succede quando una maggioranza di vecchi voterà per averne sempre di più, a scapito dei giovani ormai ridotti al lumicino?». Troviamo difficile sacrificarci per le generazioni successive, dice Thornton: «Per questo abortiamo così tanti bambini. Per questo non distribuiamo più la ricchezza dai ricchi ai poveri, ma dai non nati ai vivi». Un paese di vecchi, geopoliticamente irrilevante e vulnerabile. In Francia, gli immigrati islamici – con alto tasso di natalità – sono il 10% della popolazione francese: avranno «il potere politico per iniziare a cambiare la cultura del paese ospitante».Per Thornton, «vedremo grandi investimenti per aumentare la lunghezza della vita, con la produzione ad esempio di reni e cornee artificiali». Esisteranno ancora le pensioni? «Lavorerete di più, come vediamo in America dal 2008. Ma chi pagherà le pensioni? Qui sorgeranno i conflitti». Che cultura produrremo? «Già oggi non ne produciamo più. Ci sarà molta cultura popolare per intrattenere gli anziani». E la religione? «Se n’è andata dall’Occidente: quando i baby boomers saranno vecchi, l’edonismo avrà vinto completamente». Dice il celebre psichiatra inglese Anthony Daniels: «La situazione in Italia mi sembra senza precedenti», simile a quelle di Spagna, Germania e Giappone. «Questa Italia prevalentemente di anziani avrà difficoltà a difendersi dalle popolazioni più giovani. I capelli saranno grigi, ma le persone saranno molto più vigorose di quelle di una volta. Ci saranno adolescenti geriatrici o una geriatria di adolescenti. La gente cercherà un qualche tipo di trascendenza, la troverà nella cosiddetta ‘spiritualità’, paganesimo, culto della natura, il potere curativo dei cristalli, candele, carillon tibetani. La piramide della popolazione tradizionale sarà invertita, gli anziani dovranno lavorare fino a tardi nella vita e saranno assistiti da robot importati dal Giappone».In questo quadro, la Chiesa romana latita. Dovrebbe usare la crisi demografica per una rinascita. Lo sostiene George Weigel, saggista cattolico. «Una nazione che non si riproduce versa in una crisi morale e culturale», dice Weigel al “Foglio”. «La Chiesa dovrebbe prestare attenzione a questo, ma significherebbe rimuovere la polvere dalla propria mentalità museale». Pochi prelati oggi parlano della catastrofe demografica. «Penso che in Occidente abbiamo un desiderio di morte», dice Rod Dreher, giornalista conservatore americano: «Abbiamo scelto il comfort sulla vita». Ratzinger ha detto che ci troviamo di fronte a una crisi spirituale: una grande crisi di civiltà, peggiore di qualsiasi altra dalla caduta di Roma. «Ratzinger è un profeta», sostiene Weigel. «Siamo diretti verso giorni molto bui. I musulmani che arrivano in Europa oggi credono in qualcosa. Troppi di noi occidentali non credono in niente, non nel Dio della Bibbia, ma neanche in se stessi». Per l’americano David Goldman, editore di “Asia Times”, «il declino della popolazione è l’elefante nel salotto del mondo. E’ una questione di aritmetica, sappiamo che la vita sociale della maggior parte dei paesi sviluppati si romperà entro due generazioni. Due italiani su tre e tre giapponesi su quattro saranno anziani nel 2050».Se gli attuali tassi di fertilità continuano, dice Goldman, il numero di tedeschi scenderà del 98% nel corso dei prossimi due secoli. «Nessun sistema pensionistico e sanitario è in grado di supportare tale piramide rovesciata della popolazione». Aritmetica, appunto: «Il tasso di natalità di tutto il mondo sviluppato è ben al di sotto del tasso di sostituzione, e una parte significativa di essa ha superato il punto di non ritorno demografico». La teoria geopolitica convenzionale, dominata da fattori materiali quali il territorio, le risorse naturali e la tecnologia, «non affronta il problema di come i popoli si comporteranno sotto questa minaccia esistenziale, in cui la questione cruciale è la volontà o mancanza di volontà di un popolo che abita un determinato territorio di sfornare una nuova generazione». Il declino demografico, inesorabile, nel XXI secolo «porterà a violenti sconvolgimenti nell’ordine del mondo». E l’Italia? «E’ sulla buona strada, secondo le Nazioni Unite: il numero di donne in età fertile si ridurrà di due terzi nel corso di questo secolo, e diminuirà di circa la metà dal mezzo secolo in poi», Ciò implica «una riduzione della popolazione paragonabile al declino di Roma nel Quinto e Settimo secolo». La causa immediata? E’ la crisi economica, dice Goldman. «L’Italia sarà simile a una casa di riposo, con il 45% popolazione sopra i sessant’anni». Conseguenza: «Il ruolo internazionale dell’Italia si ridurrà con la sua economia».Mentre l’economia continuerà a contrarsi, conclude Goldman, il rapporto deficit-Pil aumenterà. «L’Italia richiederà acquirenti stranieri per le sue attività, il che significa prima di tutto la Cina. L’Italia, insomma, si trasformerà in un parco a tema». Se il Giappone sarà abitato da filippine e indonesiane «pagate da una oligarchia di vecchi», agli italiani resterà il turismo per i cinesi: Roma, Firenze e Venezia. Secondo Goldman, il suicidio demografico italiano ha a che fare anche con il declino della religione. «I più bassi tassi di fertilità si incontrano tra le nazioni dell’Europa orientale, dove l’ateismo è stato l’ideologia ufficiale per generazioni». Al contrario, «Israele avrà più giovani dell’Italia o della Spagna. Un secolo e mezzo dopo l’Olocausto, lo Stato ebraico avrà più uomini in età militare e sarà in grado di mettere in campo un esercito di terra più grande di quello della Germania. Quando la fede scompare, la fertilità svanisce». La spirale di morte in gran parte del mondo industriale, aggiunge Goldman, ha costretto i demografi a pensare anche in termini di fede. «Decine di nuovi studi documentano il legame tra fede religiosa e fertilità. La religione ha cessato di svolgere un ruolo significativo nella società italiana. La metà dei seminaristi di Roma sono africani. Non c’è un Papa italiano da quarant’anni. Ci sarà sempre un nucleo di cattolici in Italia, ma la religione non è ora e non sarà un fattore significativo».Eppure, osserva Meotti, in Italia nessuno parla di suicidio demografico. «Due guerre mondiali – dice ancora Goldman – hanno mostrato agli europei che la loro cultura era deperibile e, per certi versi, costruita su illusioni di superiorità nazionale, e quando queste illusioni sono state chiamate in causa, gli europei hanno visto che non c’era alcuna ragione di sacrificare i piaceri per la cultura». Ancora: «Gli individui intrappolati in una cultura di morte vivono in un crepuscolo del mondo. Abbracciano la morte attraverso l’infertilità, la concupiscenza e la guerra». I membri di una cultura “malata” «cessano di avere figli, si stordiscono con l’alcool e la droga, diventano scoraggiati e spesso la fanno finita con se stessi». Una buona parte del mondo sembra aver perso il gusto per la vita, sostiene Goldman. «La fertilità è scesa finora in alcune parti del mondo industriale in maniera tale che lingue come ucraino ed estone saranno in pericolo in un secolo, e l’italiano nel giro di due». Le culture di oggi «stanno morendo di apatia, non per le spade dei nemici». E l’apatia europea «è il rovescio della medaglia dell’estremismo islamico». Potrà la geriatria italiana essere democratica? «Certamente», conclude Goldman. «Potrete votare democraticamente per chiedere all’ultima persona di spengere la luce».Arrivano ogni anno e sono come un bollettino di guerra. Sono i rapporti dell’Istat sulla popolazione: mai così basso il numero delle nascite. Nel 2016 l’Italia è “dimagrita” di 134.000 persone: come avessimo perso una città delle dimensioni di Salerno. La fecondità è scesa a 1,34 figli per donna: nessun paese al mondo fa meno figli dell’Italia. Secondo lo storico francese Pierre Chaunu, nei paesi europei la disaffezione a procreare ha conseguenze simili alla peste nera che sterminò un terzo della popolazione del continente. A differenza dell’epidemia del medioevo che riempiva i cimiteri, scrive Giulio Meotti sul “Foglio”, l’epidemia di sterilità volontaria svuota i reparti di maternità. Persino per l’Onu, gli italiani sono un gruppo etnico in via di estinzione: nel nostro paese, il rapporto fra nascite e decessi è negativo dal 1990 (per inciso, l’epoca in cui il paese – con il collasso della Prima Repubblica – ha imboccato la via delle privatizzazioni, dell’euro e dell’Unione Europea). I dati per l’Italia – meno di 60 millioni di persone, inclusi però gli immigrati – per le Nazioni Unite sono ancora più terribili se consideriamo il rapporto fra nascite e decessi: indicatore che ha appena raggiunto il valore peggiore di sempre. Dieci anni fa, su “Le Monde”, il sociologo Henri Mendras scrisse che, di questo passo, la popolazione dello Stivale si sarebbe ridotta da 60 a 40 milioni nel 2050.
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Credito ai poveri, e nacque il banchiere più grande al mondo
C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.Io per finanziare un uomo – era solito dire – voglio guardarlo negli occhi e vedere i calli sulle mani. A proposito del fatto che oggi tanto si parla di riforma delle banche popolari, ricordo che quell’uomo volle per la sua banca un azionariato diffuso, un azionariato popolare. Si occupò personalmente di andare a proporre le azioni a gente che non era mai stata in una banca: fornai, lattai, droghieri, ristoratori, idraulici, barbieri. Oggi si parla di austerity, di termini inglesi come “leverage” (il rapporto tra capitale e prestito), di rigore. Ricordo che anche allora si dicevano le stesse cose: in due mesi aveva raccolto 70.000 dollari, ma ne aveva impiegati 90.000 e i suoi soci erano preoccupati. Come faremo? – strillavano. Bisogna avere fiducia nella gente – rispondeva lui agli altri. La gente la ripagò, la sua fiducia. Cominciò ad andare nella banca che permetteva loro di finanziare una bottega, di avere un reddito dignitoso, di comprare una casa, di metter su famiglia, di mandare i figli a scuola. In un anno, quei 70.000 dollari divennero 700.000, e la banca continuava a crescere e a dare fiducia.Nel 1906 a San Francisco avvenne un fatto terribile. Il terremoto distrusse la città e la gente si aggirava disperata per le strade, avendo perso tutto, casa e lavoro. Quell’uomo, mentre gli strozzini si aggiravano per le strade, andò sul molo della città, mise un tavolaccio di legno appoggiato su due barili, in mezzo alla folla dei disperati, ci salì sopra ed espose un cartello, con il titolo “Banca di (X), aperto ai clienti” (il nome della “X” ve lo dirò alla fine di questa storia). Resta il fatto che quell’uomo mise un sottotitolo che aveva lui stesso dipinto sul cartello quella notte: “Prestiti come prima, più di prima”. Quell’uomo si chiamava Peter, e stava realizzando il suo sogno di aprire una banca per i piccoli imprenditori, i diseredati, gli emigranti. La “banca” venne assalita da persone che avevano idee per ricostruire la città e lui prestava soldi con il suo metodo, guardando le persone negli occhi e osservando i calli sulle mani. Segnava i crediti su un quadernetto, annotando nomi e cifre. Girava con un carretto ed elargiva prestiti sulla fiducia, senza garanzia, a persone che non avevano potuto andare a scuola e che per lo più firmavano con una croce. Li valutava fidandosi della loro parola e del loro onore. Lui dava fiducia a quelli che avevano delle idee, dei progetti, non a quelli che avevano dei soldi o proprietà da dare in garanzia.I suoi consiglieri gli dicevano che era un pazzo, che sarebbe finito in rovina. Invece, successe una cosa che nessuno si sarebbe aspettato. Quei piccoli imprenditori tornarono da lui, portando tanti altri amici, gente che toglieva i propri pochi depositi dalle altre banche e li andava a investire da Peter, l’uomo col carrettino. Pochi depositi, ma erano milioni di persone. Tutti gli immigrati della California, i nuovi piccoli imprenditori, vennero presto a conoscere la storia dell’uomo col carrettino e il nome di Peter divenne in breve mito, e da mito leggenda. Successe che l’uomo che dava fiducia al prossimo ricevette fiducia dal prossimo e i suoi conti crebbero, perché tutti volevano portare i propri risparmi alla banca di Peter. La sua politica era diversa da quella di tutte le banche dell’epoca ed era volta a dare soldi ai piccoli, agli artigiani, ai commercianti, agli agricoltori, ai piccoli imprenditori. La banca di Peter negli anni crebbe in tutta la California, aprendo filiali a San Francisco, a Los Angeles, fino ad attraversare l’immensa giovane nazione ed arrivare, nel 1919, a New York. Otto anni dopo, quella banca cambiò nome, e divenne la Bank of America.All’epoca, i consiglieri della banca proposero un premio al suo fondatore, di addirittura 50.000 dollari. L’uomo, che aveva già guadagnato nella sua carriera quasi mezzo milione di dollari, restando fedele al suo detto di quando, da giovane, aveva deciso di creare una banca, per evitare di “essere posseduto dalla ricchezza” rifiutò il premio, dicendo che chiunque desiderasse avere più di 500.000 dollari doveva farsi vedere da un dottore. La smania di denaro è una brutta cosa – disse una volta – io non ho mai avuto quel problema. Detto da uno che a sette anni aveva visto il padre ucciso dopo un litigio per un dollaro, c’era da credergli. Infatti, fece devolvere più volte vari premi alla ricerca scientifica. Oggi le banche aborrono progetti innovativi e la finanza moderna pretenderebbe che non si investa in progetti originali e non consolidati, senza patrimoni dell’imprenditore e adeguate garanzie. Pensate allora a cosa doveva voler dire, all’epoca, finanziare una cosa sconosciuta e incredibile che si chiamava cinematografo: follia, per i suoi colleghi. Peter, a differenza di tutti gli altri banchieri, prestò i suoi soldi a un geniale innovatore, consentendo nel 1921 a tutto il mondo di conoscere “Il Monello”, il meraviglioso film di Charlie Chaplin.Anni più tardi, finanziò Walt Disney, che gli parlava di finanziare un’altra incredibile rivoluzione tecnologica e cioè i cartoni animati. Il mondo conobbe così la favola di “Biancaneve e i sette nani.” Ancora, finanziò un visionario siciliano, Francesco Rosario Capra, rimasto senza lavoro per la crisi del ’29, rivelando così al mondo il genio del celeberrimo regista Frank Russel Capra. Così, mentre gli esperti di finanza insegnavano l’importanza di adottare regole restrittive, Peter finanziava i piccoli imprenditori guardandoli negli occhi e alla fine, tirando i conti, si scoprì che il 96% dei prestiti della banca erano stati rimborsati, senza alcuna garanzia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la banchetta nata in un bar, proseguita su un carrettino, che ora si chiamava Bank of America, superò per depositi la First National Bank e la Chase Manhattan Bank, le due più grandi banche di New York, diventando così la più importante banca del mondo. Dopo la fine della guerra, Peter volle che la Bank of America si impegnasse in prima persona nel piano Marshall, cioè nel gigantesco piano di ricostruzione che ha consentito anche al nostro paese di ripartire, finanziando così, indirettamente, milioni di nostri piccoli imprenditori.Quando, nell’ottobre del 1945, lasciò la presidenza della banca, lasciò i cassetti aperti, affermando che “né lui, né la sua banca, avevano nulla da nascondere”. Quando morì, quattro anni più tardi, dall’inventario dei suoi beni si scoprì che aveva mantenuto la sua parola, e pur essendo stato il banchiere della banca più grande del mondo, il suo patrimonio ammontava esattamente a soli 489.278 dollari, meno del mezzo milione per cui, secondo lui, uno sarebbe dovuto farsi vedere da uno psichiatra. Può sembrare una favola, ma è storia vera. L’ho raccontata perché oggi, se mi guardo intorno, io non vedo una situazione abissalmente diversa dal disastro di San Francisco del 1906 o dalla crisi del ’29. Mentre i politici parlano di riforma della legge elettorale, le imprese chiudono ogni giorno, la gente è a spasso, molti restano senza lavoro e senza speranza. Allora, esistevano uomini di banca come Peter. Oggi i piccoli imprenditori sono disperati. Le banche ripetono il mantra appreso da docenti, banchieri e politici che parlano in lingua inglese, chiedono garanzie, e si sente a ogni angolo la parola “austerity”. Gli anglosassoni ci vengono a insegnare come si fa il mestiere di banchiere e i tedeschi ci insegnano il rigore. Ora, io avrei un sogno. Vorrei che in una nostra città, una qualunque, tra le macerie della nostra economia, un banchiere italiano, un politico italiano, uno statista, prendesse un tavolaccio, lo mettesse in mezzo a una strada e poi ci salisse sopra.Vorrei che ci posasse sopra un cartello con una scritta a mano in cui si leggesse: “Da oggi, prestiti all’economia, come prima, più di prima”. Sottotitolo: “Colleghi, l’austerity ve la potete mettere in quel posto”. E poi, vorrei che quest’uomo cominciasse a ridisegnare le regole del gioco della finanza mondiale, per insegnare a tutti che noi italiani non abbiamo bisogno di lezioni da nessuno, sul come si fa a fare il mestiere del banchiere. Il vero banchiere non chiede le garanzie, ma guarda i calli sulle mani. Questo, sarebbe il mio sogno. Perché sul cartello che quell’uomo aveva scritto di suo pugno, su quel tavolo in mezzo alla strada, c’era il nome della sua banca: Bank of Italy. Questo era il nome originario di quella che sarebbe divenuta, molti anni dopo, la più grande banca del mondo: la Bank of America. Il suo fondatore, l’uomo che guardava gli altri negli occhi e finanziava guardando i calli delle mani, l’uomo che si alzò in piedi insegnando al mondo a rialzarsi in piedi, l’uomo che insegnò a tutti che fare banca non significa chiedere regole, ma dare fiducia, non era un anglosassone. Peter era il secondo nome di Amedeo Giannini, in cerca di fortuna nell’America di fine ottocento, figlio di poveri migranti dell’entroterra ligure. C’era una volta un banchiere. Era un uomo vero. Era un italiano.(Valerio Malvezzi, “L’incredibile storia del banchiere più grande del mondo”, dal sito “Win The Bank”, 2018).C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.
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La Cina spende, investe e vola. L’Italia? Finirà fuori dal G8
«L’Italia si è auto-esclusa da ogni chance di sopravvivere nella globalizzazione del III millennio, quindi sappiate con assoluta certezza che perderemo il nostro posto nel G8 fra meno di 10 anni – se non di nome, almeno di fatto». Parola di Paolo Barnard. La Cina, rivela il Mit di Boston, ha scavalcato la Gran Bretagna come meta prestigiosa per gli studenti internazionali, e sta insidiando lo storico podio degli Usa. «Una laurea italiana con 110 e lode, e intesa come speranza d’ingresso a un lavoro da colletto bianco stabile, varrà fra meno di 10 anni come un vecchio gabinetto se non accompagnata da almeno due fattori», secondo Barnard: la conoscenza perfetta del cinese, insieme all’inglese, e conoscenze universitarie in matematica, fisica, biologia o ingegneria informatica «ma conseguite in università straniere». La Brookins Institution di Washington ha condotto forse il più attento studio sulle nuove opportunità di lavoro per noi occidentali, e in sostanza ha concluso che, appunto, «il fattore che deciderà se guadagnerai 1.000 euro al mese o 8.000 non è il tipo di laurea che hai preso e neppure che voto, ma il livello di conoscenze digitali che hai».La “buona” notizia, aggiunge Barnard nel suo blog, è che il flusso migratorio dei ragazzi istruiti, «cioè desiderosi di un futuro fuori dai call center», sta deviando verso Est «a stormi giganteschi». Il presidente cinese Xi Jinping, racconta il giornalista, è in sella al più faraonico progetto economico del III millennio, «avendo buttato, solo come antipasto, 900 miliardi di dollari nella conquista economica globale chiamata La Nuova Via della Seta». Si immagini quindi – nell’era dove le super-tech & Artificial Intelligence (Ai) sono come la scoperta della macchina a vapore nel XVIII secolo – la mole di esperti che la Cina sta cercando per sostenere quel progetto immenso. «Infatti, Pechino ha lanciato il cosiddetto Risveglio Cinese con un primo centro di studio sulle Ai del valore di 2,1 miliardi di dollari». Ma c’è un altro fattore che rende la Cina oggi il posto giusto dove spedire un figlio a studiare, o a cercare un lavoro di prestigio, «ed è che nel solo 2016 qualcosa come 440.000 super-tecnici, docenti universitari, colletti bianchi cinesi cresciuti e arrivati al top in Usa e Canada, sono tornati in Cina a portarvi la crème de la crème del sapere occidentale in diversi campi cruciali. Ed è una fuga di cervelli in continuo aumento».Ma non solo: «La Cina investe con denaro pubblico cifre immani in istruzione superiore ed economia». Di più: «Anche i soldi privati internazionali stanno seguendo il sopraccitato flusso di studenti esteri che mirano a Pechino come terra per il loro futuro». I soldi occidentali vanno là, a cascate: «Cina e sud-est asiatico (cioè Cina al 98%) erano solo pochi anni fa una specie di luogo dove investire 10 dollari per pagare 100 lavoratori a far scarpe da tennis; oggi sono sulla soglia del sorpasso sugli Usa come beneficiari d’investimenti, con un astronomico 71 miliardi di dollari investiti dai “venture capitals” occidentali nel solo 2017. Sommate quel “gruzzolo” a quello che ci mette il Tesoro cinese, e capite perché là i posti di lavoro e le imprese crescono come i batteri nel brodo tiepido». D’altronde, aggiunge Barnard, cosa si aspettavano gli yankees da un paese con 751 milioni di persone che usano Internet, col più affollato social del pianeta che è WeChat, e su cui “Bloomberg” ammette: «Tre delle 5 più ricche startup del mondo sono in Cina, non in California».«Nella Tolemaica, “Travagliata”, fantozziana Italietta dove per davvero la gggènte di ogni sorta e livello crede che “l’Italia è al centro del mondo” solo perché neppure si rende conto che “è l’Italia che resta ferma e tutto il mondo le gira intorno”, io scrivo con un senso d’incurabile disperazione, e scrivo per i vostri figli», dice Barnard, rivolto ai lettori, ai quali racconta di averne appena parlato a Bologna col titolare di un ristorante cinese. «Te lo confesso – gli ha detto il cinese – io venni qui 15 anni fa convinto di fare un figurone con la famiglia in Cina. Oggi mi vergogno a tonare, anche se lo vorrei disperatamente. Perché non posso tornare più povero dei miei amici studenti-contadini che lasciai là».«L’Italia si è auto-esclusa da ogni chance di sopravvivere nella globalizzazione del III millennio, quindi sappiate con assoluta certezza che perderemo il nostro posto nel G8 fra meno di 10 anni – se non di nome, almeno di fatto». Parola di Paolo Barnard. La Cina, rivela il Mit di Boston, ha scavalcato la Gran Bretagna come meta prestigiosa per gli studenti internazionali, e sta insidiando lo storico podio degli Usa. «Una laurea italiana con 110 e lode, e intesa come speranza d’ingresso a un lavoro da colletto bianco stabile, varrà fra meno di 10 anni come un vecchio gabinetto se non accompagnata da almeno due fattori», secondo Barnard: la conoscenza perfetta del cinese, insieme all’inglese, e conoscenze universitarie in matematica, fisica, biologia o ingegneria informatica «ma conseguite in università straniere». La Brookins Institution di Washington ha condotto forse il più attento studio sulle nuove opportunità di lavoro per noi occidentali, e in sostanza ha concluso che, appunto, «il fattore che deciderà se guadagnerai 1.000 euro al mese o 8.000 non è il tipo di laurea che hai preso e neppure che voto, ma il livello di conoscenze digitali che hai».
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Osservate questi 16 animali, a Natale 2018 saranno estinti
Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, osserva l’Ansa, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.Nella mappa c’è anche una specie di corallo, la madrepora oculata, scelta come simbolo della distruzione dei fondali del Mediterraneo: è una specie di profondità (250-800 metri) e la pesca a strascico e il cambiamento climatico sono i suoi nemici. In Italia per l’orso marsicano oggi si parla di poche decine di esemplari, come per la rarissima aquila del Bonelli, appena 40 coppie sulle scogliere mediterranee. Sarebbero poi appena una decina le coppie stabili di gipeto, il grande “avvoltoio degli agnelli” già estinto all’inizio del ‘900 e poi faticosamente reintrodotto. Una specie che resta a rischio, contando su meno di 10.000 esemplari tra Asia, Africa ed Europa. Se il Wwf lancia l’Sos anche per una specie arborea come l’abete dei Nebrodi, presente solo sulle montagne della Sicilia settentrionale, rischia di scomparire – tra i vari rettili – anche la lucertola delle Eolie. Il lupo della Tasmania, lo stambecco dei Pirenei, la tigre caucasica, il rinoceronte nero dell’Africa occidentale, il leopardo di Zanzibar, sono già stati spazzati via da bracconaggio, prelievo intensivo o distruzione del loro habitat, rileva l’associazione ambientalista.«Abbiamo il dovere di accendere i riflettori sul rischio di estinzione di alcune specie preziose e chiamare tutti a raccolta per combattere le minacce che rischiano di cancellare tesori di biodiversità in Italia e nel mondo», avverte la presidente del Wwf Italia, Donatella Bianchi. «Ormai sappiamo che la scomparsa anche di una sola specie determina una perdita immensa di informazioni biologiche, di caratteristiche genetiche e di servizi ecologici per tutta l’umanità: se, con l’impegno di tutti, anche attraverso piccoli gesti quotidiani, contribuiremo a mantenere il nostro pianeta ricco di animali, sarà a beneficio di tutti, soprattutto delle generazioni che ancora devono nascere». La piaga dell’estinzione rende più labili i sistemi naturali che consentono alle foreste di regolare le temperature del pianeta, ai fiumi di alimentare le biomasse marine, alle terre e agli oceani di produrre cibo e sicurezza, aggiunge Isabella Pratesi, direttore conservazione di Wwf Italia: «Trascuriamo inoltre che molte specie prima di noi hanno trovato, attraverso l’evoluzione, soluzioni a condizioni difficili ed estreme. Ogni insetto scomparso, ogni pianta estinta, ogni barriera corallina sbiancata potrebbe custodire le soluzioni e i rimedi ai nostri mali incurabili o ai drammatici cambiamenti che abbiamo generato».A pesare, in molti casi, sono le foreste abbattute per far spazio alle coltivazioni. Il lupo rosso statunitense sopravvive in meno di 150 individui, del bradipo pigmeo resistono alcune centinaia di esemplari su un’isola panamense. Il pangolino cinese? «E’ perseguitato per le sue scaglie ritenute “miracolose” nella medicina tradizionale». Quanto al chiurlottello, è un uccello «ritenuto una vera e propria chimera dagli ornitologi, data la sua estrema rarità in tutta Europa». Pappagalli ricercati per la loro bellezza, come l’ara golablu, hanno «la sfortuna di nidificare proprio nei palmeti pressati dalla deforestazione». Un animale leggendario come il cavallo selvaggio di Przewalski è ridotto, in Mongolia, ad appena 200 esemplari. Le specie su cui si concentra l’attenzione del Wwf sono gli “ambasciatori” di un percorso di estinzione che è arrivato, purtroppo, quasi al capolinea, insiste Donatella Bianchi: «Se, giustamente, mettiamo tanta cura nel custodire le opere dell’ingegno e della creatività umana, perché non impegnarsi per proteggere anche le meraviglie create dalla natura e che rischiano di scomparire per sempre?».Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.