Archivio del Tag ‘colonialismo’
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Gas, l’Eni sfratta il Belgio dal Venezuela: perciò ci odiano
Non so se qualcun altro l’ha già scritto. La ragione del rabbioso attacco di Verhofstadt a Conte sta esattamente nelle sue parole dal minuto 0:34 al minuto 1:04 qui, ed è un embolo di gas Lng, piuttosto raro fra gli umani, ma non fra quelli come lui. Roba da tanti, ma tanti soldi. Al belga sono rimasti piantati a metà trachea il Venezuela e Putin, e soprattutto la mite posizione italiana su di essi. Per questo ci odia, e, ancor più di lui, ci odia la Exmar, che come avrete di certo letto sui giornali è la corporation navale belga che gli paga le parcelle mentre ’sto lobbista siede a fare il parlamentare europeo. Una storia multimiliardaria di Lng (gas naturale liquefatto), le cui maggiori comparse sono: un incontro dell’ottobre 2017 fra Putin e l’iraniano colosso petrolifero Nioc; un contratto andato in malora l’anno precedente fra la Exmar e la canadese Pacific Exploration & Production Corporation in Colombia; la Carribean Flng, che è la mega-chiatta per la lavorazione e il trasporto del Lng strapagata dalla Exmar, che oltretutto se la fece recapitare dalla Cina con l’ambizione di farci una montagna di soldi, ma rimasta piantata ad arrugginirsi per via dei sopraccitato contratto andato a vuoto e anche di un secondo contratto andato a puttane, poi graziata all’ultimo dall’odierno arcinemico latino americano del Venezuela, cioè il presidente argentino Macri; l’Eni che si lavora il Lng di Maduro mentre i belgi della Exmar schiumano alla bocca per vederlo morto.Il Belgio è un paese di sfigati, che dopo aver ammazzato 11 milioni di congolesi, per rimanere poi a mani vuote, circa 130 anni fa (il cobalto e il coltan, che oggi nell’It e nella Smart Tv-Smart Phones Industry valgono più dei diamanti, se li sono presi i Kabila, l’americana Glencore e gli israeliani), si sono distinti di recente per aver avvelenato i maiali di tutt’Europa con la diossina, e poi sono rimasti sfigati. Possono vantare solo quella cloaca di politica autocratica e infestata di lobbies che è Bruxelles, ma mica tanto altro. La loro Exmar è dal 1981 che si è fatta un nome nel mondo per i servizi di trasporto navale e di rigassificazione soprattutto di gas naturale, che viene trasformato in Lng. Ne vanno fieri, e che ci sia un paese in Ue che non solo gli piscia in testa sugli idrocarburi con l’Eni, ma che è pure ‘amico’ di due giganti odiosi per la Exmar nel business Lng come Russia e Venezuela, be’, questo per Verhofstadt e per le ambizioni smisurate di chi ce l’ha a busta paga, la Exmar appunto, è stato troppo. Fra poche righe capirete il perché. Tutto il resto della sua sparata su Italia vs Ue, immigrazione, gran valori di Spinelli, Ciampi e Bonino, la recessione, i populismi, sono stati pretesti. Contano i soldi, follow the money, eh?Un po’ di background in breve. Dunque, nel luglio 2017 i padroni di ’sto Verhofstadt, la Exmar, si fa recapitare dall’altra parte del pianeta questa mega-chiatta chiamata Carribean Flng che avevano costruito a costi stratosferici nella speranza di concludere un accordo multi-milionario con l’Iran. Ma nel novembre successivo la Gazprom di Putin arriva a Tehran, incontra la Nioc (la regina degli idrocarburi iraniana) e di colpo tutto per la Exmar va storto. L’Iran, si disse allora, avrebbe usato altri vascelli per il Lng, quelli norvegesi, e gli oleodotti russi dell’amico Vladimir. Questo aprì ulcere gastriche in Belgio dove ci passava un pallone da calcio, soprattutto perché era la seconda volta che la super-chiatta della Exmar veniva cestinata con milioni di dollari di perdite: era successo nel 2016 nel sopraccitato flop in Colombia in associazione con la fallita canadese Pacific Exploration & Production Corporation. I padroni di Verhofstadt ora hanno buchi contabili che si vedono dalla Luna con ’sta mega-chiatta Carribean Flng piantata sul gozzo mentre altri si stanno spartendo l’immane mercato del gas Lng.Putin è il target N.1 dell’odio della Exmar, e non solo per la faccenda dell’Iran del 2017, ma anche perché in tutto l’affare Nord Stream 2 (il super-gasdotto dalla Russia alla Germania) le mega-chiatte della Exmar e tutti i suoi servizi aggiunti per il trasporto del gas Lng sono ovviamente tagliati fuori. La corporation belga e il suo scagnozzo lobbista Verhofstadt sono impotenti contro Mosca in Ue. Per ovvi motivi, “l’amico del tuo nemico è il tuo nemico”, cioè tradotto: l’Italia di Salvini che è di casa in Russia diventa oggetto d’odio alla Exmar-Verhofstadt. Ma non solo. C’è il Venezuela. Caracas, come si sa, è un colosso di idrocarburi, ora ingabbiato dalle sanzioni Obama-Trump, ma lo stesso una miniera d’infinite ricchezze anche di gas Lng. Infatti si sappia che, sorprendentemente, uno del 10 maggiori esportatori al mondo di Lng è Trinidad & Tobago nei Caraibi, ma la sua vera fonte è la compagnia petrolifera di Stato di Caracas, la Pdvsa. A Bruxelles gli ulcerati della Exmar stanno solo a guardare tutto quel ben di Dio in mano al “socialista” Maduro, a cui loro non hanno significativi accessi, mentre l’Eni sì, eccome. ‘Sti italiani, di nuovo in mezzo alle palle, eh? Allora che si fa?Be’, com’è noto, nell’America Latina esiste oggi un gruppo di nazioni totalmente baciapile di Washington che si chiama il Gruppo di Lima, e chi le capeggia? L’Argentina del presidente Macri. E allora, si dicono gli ulcerati della Exmar a Bruxelles, dove la piazziamo ’sta emorragia di milioni di dollari che si chiama super-chiatta Carribean Flng? Eh, da un signor nessuno mondiale del gas Lng, cioè proprio da Macri, ma la rinominiamo Tango Flng, giusto per smussare un po’ le figurette di cacca del passato. E giù a ingoiare magoni, loro e il loro servetto Verhofstadt. Insomma, quello che doveva essere per i padroni di Verhofstadt l’inizio di un business multi-milionario nel 2016, finisce a far da carretta per il mediocre business dell’Lng in Argentina, mentre è proprio l’Italia che ostacola l’appoggio dell’infame Ue al golpe americano in Venezuela che avrebbe aperto ogni singolo rubinetto di petrolio e gas Lng agli Usa e ai Verhofstadt-Exmar-Bruxelles per mano del cagnolino di Washington, Juan Guaidò. Poi Salvini che strizza l’occhio a Putin, quello dei due mega-calci in culo alla Exmar e al suo prezzolato Verhofstadt… dai, le ulcere di sti belgi non hanno retto. Non so se serve sapere altro. Non credo. Ora sapete che significava il bau-bau di ’sto cane da guinzaglio. Poi, lo ribadisco, Conte non Conta in effetti una mazza, ma con ’sta storia i burattini non c’entrano proprio per nulla.(Paolo Barnard, “A Verhofstadt è partito l’embolo di Lng, il ‘burattino’ Conte non c’entra”, dal blog di Barnard del 15 febbraio 2019).Non so se qualcun altro l’ha già scritto. La ragione del rabbioso attacco di Verhofstadt a Conte sta esattamente nelle sue parole dal minuto 0:34 al minuto 1:04 qui, ed è un embolo di gas Lng, piuttosto raro fra gli umani, ma non fra quelli come lui. Roba da tanti, ma tanti soldi. Al belga sono rimasti piantati a metà trachea il Venezuela e Putin, e soprattutto la mite posizione italiana su di essi. Per questo ci odia, e, ancor più di lui, ci odia la Exmar, che come avrete di certo letto sui giornali è la corporation navale belga che gli paga le parcelle mentre ’sto lobbista siede a fare il parlamentare europeo. Una storia multimiliardaria di Lng (gas naturale liquefatto), le cui maggiori comparse sono: un incontro dell’ottobre 2017 fra Putin e l’iraniano colosso petrolifero Nioc; un contratto andato in malora l’anno precedente fra la Exmar e la canadese Pacific Exploration & Production Corporation in Colombia; la Carribean Flng, che è la mega-chiatta per la lavorazione e il trasporto del Lng strapagata dalla Exmar, che oltretutto se la fece recapitare dalla Cina con l’ambizione di farci una montagna di soldi, ma rimasta piantata ad arrugginirsi per via dei sopraccitato contratto andato a vuoto e anche di un secondo contratto andato a puttane, poi graziata all’ultimo dall’odierno arcinemico latino americano del Venezuela, cioè il presidente argentino Macri; l’Eni che si lavora il Lng di Maduro mentre i belgi della Exmar schiumano alla bocca per vederlo morto.
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Maometto e l’Arca dell’Alleanza sepolta dai russi in Antartide
Un’oscura strage alla Mecca e una strana spedizione navale russa in Antartide, con tappa a Gedda in Arabia Saudita. Vox populi, dal web: i russi, attraverso il patriarca ortodosso Kirill, avrebbero preso in custodia nientemeno che la leggendaria “Arca di Gabriele”, risalente a Maometto, per metterla al sicuro dalle parti del Polo Sud, in una base militare. Succedeva alla fine del 2015. Pochi giorni dopo, Putin scatenava l’offensiva dell’aviazione di Mosca contro l’Isis in Siria. E la misteriosa Arca dell’Alleanza? Sarebbe stata portata alla luce il 12 settembre nei sotterranei della Grande Moschea della Mecca. I 15 operai impegnati nell’operazione sarebbero morti, folgorati dall’imprecisata “energia” emanata dal manufatto. L’esplosione sarebbe stata così violenta da uccidere anche 107 pellegrini, al piano superiore. Le vittime sono reali, anche se le autorità saudite le hanno attribuite a cause accidentali: un incidente cantieristico nel sottosuolo avrebbe scatenato il panico in superficie, provocando il fuggi-fuggi culminato nella carneficina. Verificata anche l’anomala “visita di lavoro” della delegazione russa in Arabia Saudita, con la nave da ricerca “Admiral Vladimirsky” ormeggiata nel porto saudita di Gedda, a due passi dalla Mecca.La nave è poi ripartita diretta proprio in Antartide, scortata da una potente flotta capitanata dall’incrociatore lanciamissili “Varyag” e dalla nave da battaglia “Bystry”. Poche settimane dopo, lo stesso patriarca Kirill si è fatto fotografare tra i pinguini, in Antartide. Motivo ufficiale della missione religiosa: benedire una chiesa ortodossa. La notizia non poteva passare inosservata e, come annota l’inglese “Daily Star”, non poteva non eccitare i dietrologi di mezzo pianeta. La tesi: una volta scatenatosi il potere energetico dell’Arca, i sauditi si sono immediatamente rivolti ai russi per un motivo preciso, storico. Nel remoto 1204, all’epoca della Quarta Crociata, sarebbe stato proprio il clero ortodosso a mettere in salvo un documento cruciale, fino a quel tempo custodito nella basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, saccheggiata dai crociati. Per mille anni sarebbero quindi state custodite dagli ortodossi slavi le “Istruzioni di Gabriele a Maometto”, vale a dire il “vademecum” per l’utilizzo dell’Arca che “l’arcangelo” avrebbe consegnato al profeta dell’Islam. Un’Arca diversa, quella di Gabriele, rispetto a quella che – secondo la Bibbia – Yahvè ordinò a Mosè di costruire, per riporvi le Tavole della Legge?Il Libro dell’Esodo la descrive come una cassa in legno d’acacia rivestita d’oro, lunga 110 centimetri, alta 66 e profonda altrettanto, sigillata da un coperchio di oro puro. Solo un oggetto di culto o anche un potente generatore energetico? Così la interpreta Mauro Biglino, a lungo traduttore della Bibbia per le Edizioni San Paolo: quell’Arca era pericolosa, al punto che gli addetti alla sua manutenzione – accuratamente prescelti – dovevano indossare esclusivamente panni di lino, materiale notoriamente “neutro”, adatto a proteggere il corpo dall’elettricità. Una specie di “ordigno energetico” temibile, esattamente come quello che – esplodendo – travolge i nemici di Harrison Ford (Indiana Jones) nel kolossal “I predatori dell’Arca perduta”, diretto da Spielberg nel 1981. Molto suggestiva, ovviamente, l’inconsueta triangolazione che – alla vigilia della guerra di Putin contro l’Isis – mette insieme Mosca, la Mecca e il continente antartico, “blindato” come zona militare off limits. Tra i blog propensi ad accreditare la versione “segreta” della vicenda si distingue “Segnali dal cielo”, che cita un dispaccio del ministero della difesa russo datato 6 dicembre 2015. La squadra navale sarebbe salpata l’8 dicembre 2015 da Gedda, alla volta dell’Antartide, con a bordo «un misterioso artefatto dall’Arabia Saudita».Si sarebbe trattato di «uno dei più strani trasporti mai organizzati dal Cremlino». La spedizione sarebbe stata espressamente richiesta dal leader della Chiesa ortodossa russa, il patriarca Kirill di Mosca, il quale «si è incontrato in Antartide con l’armata navale della Federazione Russa», incaricata di trasportare e scortare la mitica “Arca di Gabriele”. Dall’Arabia Saudita, l’Arca sarebbe giunta in Antartide «per essere affidata nelle mani del Custode delle due Sacre Moschee, in modo da propiziare un “antico rito” attraverso la lettura di un “testo segreto”». E attenzione: il misterioso “testo segreto” sarebbe stato fornito che da Papa Francesco, che ha incontrato Kirill a Cuba nello storico meeting interreligioso del 12 febbraio 2016. A mietere vittime alla Mecca, mesi prima, sarebbe stata una potente emissione di “energia-plasma” scaturita dall’Arca di Gabriele.Anche se il citato rapporto del ministero della difesa russo «non dice praticamente nulla sulle conversazioni tenute tra sua santità il patriarca Kirill e gli emissari della Grande Moschea, con riferimento a questa misteriosa “arma-dispositivo”», scrive il sito “Intermatrix”, colpisce l’automatismo in base al quale Putin, «informato di questa grave situazione», il 27 settembre 2015 «ha immediatamente ordinato la missione in Antartide per la nave “Vladimirsky”», la cui missione sarebbe stata ulteriomente protetta da satelliti militari. Tra le fonti russe, il sito “Imbf” conferma: la nave “Vladimirsky” ha fatto davvero scalo nel porto di Gedda, anche se «non c’è stata una spiegazione ufficiale dei motivi della chiamata» (i media si sono limitati a parlare di “visite di lavoro”. Secondo il newsmagazine moscovita, il 17 febbraio 2016, il patriarca Kirill avrebbe davvero eseguito “l’antico rituale” sulla cosiddetta Arca di Gabriele. Dove? «Nella chiesa ortodossa russa della Santissima Trinità, l’unica chiesa presente in Antartide», con l’aiuto di quel “testo segreto” «datogli da Papa Francesco». Subito dopo, il “misterioso artefatto” sarebbe stato «trasportato in profondità, in quel vasto e freddo continente, da un’unità di forze speciali».Pochi mesi dopo, l’11 novembre 2016, l’allora segretario di Stato americano John Kerry è volato a sua volta in Antartide, dove – ricorda sempre “Imbf” – ha avuto luogo una discussione, a porte chiuse, per la firma del «nuovo trattato intergovernativo, secondo cui le visite private in Antartide, senza previo consenso, sono state chiuse per 35 anni». Domande: cosa avrebbe comunicato il Papa cattolico al patriarca Cirillo all’Avana? E perché il sovrano saudita avrebbe precipitosamente chiesto a Putin di trasportare tra i ghiacci antartici l’ipotetica Arca trovata nel sottosuolo della Mecca? E poi: in cosa si differenzia, la cosiddetta Arca di Gabriele, da quella più celebre in Occidente, cioè l’Arca dell’Alleanza biblica tra Yahvè e la famiglia israelita di Giacobbe? Secondo la tradizione copta, quell’Arca sarebbe custodita in Etiopia, nella cattedrale di Nostra Signora Maria di Sion, ad Axum. Si tratterebbe di «una delle reliquie più antiche e misteriose della storia», sottolinea il newsmagazine “Si Viaggia”. Si trova davvero lì, l’Arca di Yahvè? «Nessuno può dirlo con certezza. La cattedrale che la custodisce infatti è sorvegliata da un sacerdote, che ha l’ordine di non lasciare la cappella dove si trova il manufatto per nessuna ragione al mondo».Secondo la Bibbia, da quello strano arnese «scaturivano aloni di luce e lampi “divini”, che colpivano chiunque vi si avvicinasse». E come sarebbe finita in Africa, l’Arca dell’Alleanza? Il mito – spiega sempre “Si Viaggia” – prende spunto dal testo sacro etiope Kebra Nagast (“Gloria dei Re”), secondo il quale Re Salomone l’avrebbe donata a Menelik I, il figlio avuto dalla regina di Saba, leggendaria fondatrice dell’Etiopia. «Da allora, l’Arca sarebbe custodita nella cattedrale di Axum, e ancora oggi i religiosi copti sostengono che si trovi lì». Nel 2009, l’allora patriarca etiopico Abuna Paulos dichiarò che l’Arca dell’Alleanza «si trova da tremila anni in Etiopia, e con la volontà di Dio continuerà ad essere lì». Nella cattedrale di Axum, meta di pellegrinaggi da ogni parte del pianeta, «possono entrare soltanto i monaci, e uno di loro è il guardiano dell’Arca: l’unico al mondo che può vederla». E la pericolosa Arca di Gabriele? E’ ancora Mauro Biglino a inquadrare sotto un’altra luce le notizie di origine biblica, attraverso la traduzione letterale del testo: quelle narrate dalla Bibbia (libro senza fonti, costantemente rimaneggiato fino all’epoca medievale di Carlo Magno) sono notizie essenzialmente storiche, politiche e militari, ma non religiose.Il nome Gabriele (Jibril, in arabo) non designa un individuo, ma una categoria di persone: in ebraico antico, Ghever-El significa “plenipotenziario di un El”. E nella Bibbia – aggiunge Biglino – l’espressione El (comandante) è il plurale di Elohim, termine che indica quegli individui che, come Yahvè, esercitavano il loro potere “coloniale” sugli umani. La Bibbia ne cita una ventina: sono analoghi agli Anunnaki sumeri, agli Netheru egizi, ai Theoi greci e ai Deva indiani. Extraterrestri, successivamente divinizzati – dopo millenni – con la nascita dei monoteismi? Non stupiscono le voci sulla presunta pericolosità dell’Arca della Mecca, che avrebbe costretto i sauditi a mobilitare la flotta militare russa: anche l’Arca di Yahvè, sottolinea Biglino, era un dispositivo da maneggiare con cura. Era guardato a vista nella dimora di Yahvè da personale altamente specializzato. E dal locale che la ospitava si udiva l’incessante ronzio dei “serafini”, simile a quello emanato dalle turbine dei generatori elettrici. Per Biglino, ovviamente, la Bibbia non parla di Dio: l’alleanza tra il governatore Yahvè e gli israeliti non aveva carattere mistico, ma militare. E proprio quell’Arca poteva essere una sorta di arma letale. Quella della Mecca – che secondo la tradizione fu consegnata a Maometto da un Ghever-El, a sua volta spiritualizzato e trasformato in “arcangelo” – era un esemplare gemello di quello di Gerusalemme, che ora sarebbe custodito ad Axum? Difficile sperare in conferme, tantomeno ufficiali. Specie se c’è di mezzo l’Antartide.Un’oscura strage alla Mecca e una strana spedizione navale russa in Antartide, con tappa a Gedda in Arabia Saudita. Vox populi, dal web: i russi, attraverso il patriarca ortodosso Kirill, avrebbero preso in custodia nientemeno che la leggendaria “Arca di Gabriele”, risalente a Maometto, per metterla al sicuro dalle parti del Polo Sud, in una base militare. Succedeva alla fine del 2015. Pochi giorni dopo, Putin scatenava l’offensiva dell’aviazione di Mosca contro l’Isis in Siria. E la misteriosa Arca dell’Alleanza? Sarebbe stata portata alla luce il 12 settembre nei sotterranei della Grande Moschea della Mecca. I 15 operai impegnati nell’operazione sarebbero morti, folgorati dall’imprecisata “energia” emanata dal manufatto. L’esplosione sarebbe stata così violenta da uccidere anche 107 pellegrini, al piano superiore. Le vittime sono reali, anche se le autorità saudite le hanno attribuite a cause accidentali: un incidente cantieristico nel sottosuolo avrebbe scatenato il panico in superficie, provocando il fuggi-fuggi culminato nella carneficina. Verificata anche l’anomala “visita di lavoro” della delegazione russa in Arabia Saudita, con la nave da ricerca “Admiral Vladimirsky” ormeggiata nel porto saudita di Gedda, a due passi dalla Mecca.
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Chavez fu ucciso, ma ora è Maduro a uccidere il Venezuela
Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il Pil è franato, togliendo al paese la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.Rifiutarsi di leggere con lucidità la storia recente del Venezuela, scrive Angiuli nella sua accurata ricostruzione, significa innanzitutto fare un torto ai venezuelani, oggi alla fame. Un affronto alla memoria dello stesso Chavez, strenuo difensore del suo popolo. E’ stato grande, Chavez, ma inevitabilmente imperfetto: proprio i suoi errori ottici, secondo Angiuli, hanno creato le premesse di una crisi spaventosa, che oggi – senza più il carisma e l’onestà di fondo del leader – stanno mettendo in pericolo il Venezuela. Il paese perde milioni di cittadini, ridotti a profughi. Mancano cibo e medicinali, e c’è anche il rischio concreto che le sue frontiere vengano violate da un intervento militare ispirato dagli Usa e condotto da paesi come la Colombia e l’inquietante Brasile di Bolsonaro. La domanda che sfugge, nel derby delle opposte tifoserie italiane ed europee, è la seguente: com’è possibile che sia finito nella disperazione di massa uno dei paesi virtualmente più ricchi del mondo? Quella del Venezuela è considerata la prima riserva petrolifera del pianeta: e da parte degli Usa, certamente ostili al regime chiavista, non c’è però mai stato nessun embargo del greggio venezuelano. Al contrario: proprio grazie all’export dell’oro nero, a Caracas negli ultimi vent’anni sono circolati fiumi di petrodollari. Che fine hanno fatto?All’inizio, miliardi di dollari sono serviti a finanziare il grandioso welfare ideato da Chavez per allievare le storiche sofferenze dei poveri. Ma non un soldo è stato investito nell’economia non-petrolifera. In compenso, grazie al controllo centralizzato della gestione dei cambi, è fiorito il contrabbando di valuta estera. E oggi si mangia acquistando alla borsa nera i generi alimentari che i gerarchi di Maduro – che controllano i petrodollari – fanno sparire all’ingresso del paese, prima che possano raggiungere i supermercati, dove i prezzi sarebbero calmierati per legge. Ma l’attuale tragedia del Venezuela – umanitaria, sociale, politica – non può impedire di guardare col necessario distacco (e col rispetto che merita) a quello che è stato il più clamoroso fenomeno sudamericano degli ultimi decenni: la “rivoluzione bolivariana” di Chavez, per 14 anni alla guida del paese caraibico. Un quasi-capolavoro, fondato su una scommessa di tipo socialista: nazionalizzare il petrolio per finanziare grandiosi programmi di assistenza e liberare la popolazione della piaga cronica della povertà, generata dallo spietato sfruttamento delle multinazionali occidentali.Nella sua meticolosa ricostruzione sulla crisi venezuelana pubblicata da “L’Intellettuale Dissidente”, Angiuli scrive che la morte di Chavez, nel marzo 2013, è «quasi certamente avvenuta per avvelenamento radioattivo, messo in atto da non ben identificati servizi segreti di qualche paese nemico». Magari gli Usa, che a Chavez non avevano mai perdonato il coraggio e l’indipendenza politica. O qualche entità sudamericana allineata alla Dottrina Monroe, secondo cui l’America Latina deve restare sottomessa a Washington. Il Venezuela di Chavez – poi letteralmente tradito da Maduro – ha rappresentato una grande speranza per tutto il Sud del mondo. Ma sarebbe sbagliato trasformarlo in un culto, osserva Angiuli: perché Chavez ha commesso l’errore (fatale) di basare il riscatto economico nazionale solo sul petrolio, mortificando l’industria e l’agricoltura. Ancora oggi, ridotto alla fame, il Venezuela continua a dividere: da una parte le destre neoliberiste che hanno sempre criminalizzato il chavismo fin dall’inizio, e dall’altra la vecchia sinistra terzomondista, che arriva a perdonare un dittatore come Maduro pur di non ammettere i gravi errori della politica venezuelana, che hanno messo nei guai il paese ben prima che scattasse l’accerchiamento geopolitico neoliberista che ha isolato il governo di Caracas.Il pensiero unico mainstream «tende a demonizzare alla radice l’intera vicenda del socialismo venezuelano, relegandola nell’ambito del caudillismo alla sudamericana». Per contro, gli epigoni delle residuali correnti marxiste-leniniste si erano illusi di poter finalmente riscattare, in Venezuela, «la tragica sconfitta del comunismo novecentesco», seppellito dalle macerie del Muro di Berlino. All’intera vicenda del “socialismo bolivariano” inaugurato da Hugo Chavez, Angiuli ammette di essersi accostato con emozione, sperando di trovarvi «un nuovo laboratorio politico capace di ripensare l’idea stessa e la pratica del socialismo». Angiuli è stato spesso in Venezuela, a stretto contatto con la società e con gli ambienti filogovernativi. Dopo l’entusiasmo, però, è subentrata l’amara disillusione. Beninteso: a prescindere dall’orrendo regime militare di Maduro, «resta in ogni caso intangibile – precisa Angiuli, a scanso di equivoci – il diritto del popolo venezuelano di costruire il suo futuro in condizioni di libertà, sovranità e autonomia rispetto a qualsiasi intervento di destabilizzazione esterna, a cominciare dalle esplicite minacce di invasione che ultimamente provengono dai governi dell’ultradestra insediatisi al potere delle nazioni vicine, con lo scontato supporto degli Usa che da sempre considerano quella parte del mondo come il proprio cortile di casa».Detto questo, ammette Angiuli, «è triste giungere alla conclusione di dover affermare che il socialismo venezuelano ha purtroppo tradito una buona parte dei suoi propositi, e oggi non può più costituire un modello positivo di giustizia e di benessere per i popoli oppressi di tutto il mondo». Cionondimeno, il “bolivarismo” di Chavez era partito con le migliori intenzioni. Analizzarne i difetti è indispensabile: provare a capire «cosa non ha funzionato in Venezuela» è fondamentale, per tentare di spiegarsi la drammatica situazione in cui oggi versa il paese che dette i natali al “libertador” Simon Bolivar, «un personaggio passato alla storia quale nemico giurato del colonialismo ispanico». Anche Hugo Chavez ha fatto la storia: la sua presa del potere a Caracas, a cavallo tra il 1998 e il 1999, ha simboleggiato per l’intero continente di Neruda e Garcia Marquez «la più grande sfida di discontinuità storico-politica rispetto alla lunga notte neoliberista, vissuta per alcuni decenni dall’America Latina». Micidiali le dittature militari filo-Usa degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Per questo, è naturale che il chavismo abbia suscitato «una grande ondata di legittime speranze fra tutti i popoli».Ex ufficiale paracadutista dell’esercito venezuelano, tradizionalmente “popolare” anche nei suoi ranghi più alti, Hugo Chavez – autore di un fallito tentativo di colpo di Stato del 1992 ai danni dell’allora presidente in carica Carlos Andres Perez – era riuscito in pochi anni a far coagulare attorno a sé «i migliori sentimenti e le aspirazioni di riscatto delle fasce sociali medio-basse del suo paese, fino a quel momento escluse dal godimento dei profitti della “Venezuela Saudita”». L’ideologia di Chavez? Un mix originale e composito, «che attinge tanto al panamericanismo di Simon Bolivar quanto all’umanesimo socialista di ispirazione massonica caro a Giuseppe Garibaldi e a Salvador Allende». Innegabili le influenze esercitate dal pensiero di Antonio Gramsci e dalla prassi rivoluzionaria di Ernesto Che Guevara e Fidel Castro. «Cuba rivoluzionaria, la piccola isola che da decenni resiste ad un crudele embargo degli Usa, per Chavez costituiva un esempio di dignità e un prototipo da emulare, soprattutto sotto il profilo dell’indipendenza nazionale e della lotta all’imperialismo a stelle e strisce». E proprio a partire dagli accordi di mutua assistenza con la Cuba di Fidel – petrolio in cambio di medici – Hugo Chavez, appena insediatosi alla presidenza, iniziò a «costruire sapientemente il suo modello di integrazione politica latinoamericana attorno ai principi generali di cooperazione, equità e solidarietà».Lo stesso Che Guevara, nei suoi scritti, aveva ben individuato la “maledizione” dei paesi dell’America Latina, «storicamente condannati a programmare le loro economie non in base ai propri bisogni interni, bensì in rapporto agli appetiti famelici dei loro paesi dominanti». Fin dall’epoca del colonialismo ispano-portoghese, gli europei avevano imposto a quei territori un modello “rentista” o monoculturale, «tutto basato sull’estrazione a costo zero di materie prime»: un “prelievo forzoso” grazie a cui sarebbero state edificate le basi dell’impero industriale e capitalistico dell’Occidente. A partire dal suo esordio, ricorda Angiuli, «uno dei principali meriti politici di Hugo Chavez è stato quello di sottrarre il controllo dell’oro nero del Venezuela a quella ristretta borghesia “compradora” fortemente compromessa col capitalismo a stelle e strisce». Una borghesia che «per decenni, dopo essersi appropriata della rendita petrolifera, era stata abituata a delocalizzare sistematicamente i suoi profitti a Miami, umiliando il paese estrattore con delle infime royalties e con dei contratti-capestro». Fino a quel momento, gli immensi giacimenti petroliferi non avevano mai consentito al Venezuela di trarre risorse per investimenti sociali. A questo ha provveduto proprio Chavez, all’inizio del suo mandato, con una nossa clamorosa: nazionalizzare la compagnia petrolifera Pdvsa, per poi tenere alto il prezzo del greggio premendo sull’Opec – insieme all’Iraq di Saddam e alla Libia di Gheddafi – al fine di contenere i volumi di estrazione.Destinare la rendita petrolifera alla spesa assistenziale finalizzata ad appianare le gravi diseguaglianze sociali del suo popolo – prosegue Angiuli – ha costituito indubbiamente l’atto più rivoluzionario compiuto da Hugo Chavez. Interventi imponenti, per garantire servizi sanitari anche nei “barrios” più poveri e alfabetizzare milioni di venezuelani, compresi i gruppi indigeni. Diritti: la nuova Costituzione varata da Chavez nel 1999 «contiene sulla carta alcuni principi inediti che possono fare da insegnamento anche alle democrazie più avanzate». E’ fondata su una netta separazione fra i poteri e contempla molteplici strumenti di democrazia diretta: c’è anche l’istituto del “referendum revocatorio”, che consente perfino di far dimettere il presidente a metà mandato, mediante una consultazione popolare indetta dal basso. La nuova Carta, poi, decreta l’intangibilità di Madre Natura quale soggetto titolare di diritti. E in più tutela l’identità etnoculturale delle comunità dei nativi amerindi, «facendosi così portatrice di un generale messaggio di rinascita dell’orgoglio indigeno», dopo secoli di sottomissione ai “conquistadores” e ai “gringos”.Il primo decennio del chavismo, riconosce Giuseppe Angiuli, è stato contrassegnato «da un risveglio delle coscienze del popolo venezuelano e da una straordinaria voglia di partecipare a riscrivere la storia del proprio paese da parte di milioni di persone, fino ad allora del tutto escluse dalla scena politica e incapaci perfino di intendere lo stesso concetto di cittadinanza». Solo gli osservatori più prevenuti, sottolinea l’analista, possono avere finto di non accorgersi della reale genuinità che ha connotato i primi anni del processo politico “bolivariano”, contraddistinti da un fermento rivoluzionario autentico, addirittura emozionante. E contro l’imperialismo mercantile “yankee”, Chavez s’è mosso anche a livello geopolitico: ha dato vita all’Alba (Alianza Bolivariana para los pueblos de nuestra America), reclutando Cuba, la Bolivia del leader sindacale Evo Morales, l’Ecuador dell’economista Rafael Correa, il Nicaragua sandinista, l’Honduras di Manuel Zelaya e vari piccoli Stati insulari caraibici. Checché ne dicessero i media occidentali, sottolinea Angiuli, il governo di Chavez – fino alla sua rielezione nel 2012 – è sempre stato largamente supportato dal popolo venezuelano. Ma oggi, ribadisce, il Venezuela non sarebbe in crisi nera, se lo stesso Chavez non avesse commesso clamorose ingenuità sul piano economico.Dopo aver distribuito soldi a pioggia per «contrastare la povertà più estrema di una parte significativa della popolazione», il chavismo ha mancato l’appuntamento con lo sviluppo, nonostante la felice congiuntura petrolifera, col prezzo del barile rimasto sopra gli 80 dollari fino al novembre 2014. Nonostante il fiume di valuta forte, piovuto su Caracas per almeno un decennio, il governo «non ha mai messo in campo alcuna seria misura per provare a debellare il vero cancro comune a tutti quei paesi la cui economia, come quella del Venezuela, si basa su un modello “rentista”», ovvero: «La dipendenza dalla estrazione della materia prima quale unica risorsa del proprio modello di sviluppo». Nonostante i tanti proclami, non è mai riuscito a diversificare le attività produttive: anzi, i governi chavisti hanno attuato «una massiccia politica di disincentivo al lavoro delle piccole e medie imprese», determinando così una contrazione drammatica del Pil, in quei settori, «con la conseguenza che la classe media è progressivamente scomparsa». Paradossale: «Oggi i venezuelani conducono in media un tenore di vita clamorosamente più basso di quello che si ricordi anche negli anni più bui della notte neoliberista dell’America Latina». E scontano «una diffusa scarsità di prodotti di prima necessità che oggi forse non si riscontra nemmeno a Cuba, paese ininterrottamente sotto embargo da più di mezzo secolo».Pessimo il bilancio dall’agricoltura: buona l’idea di una riforma agraria per smantellare i latifondi improduttivi. Ma poi è subentrata «una deriva ideologica di tipo estremistico velleitario, che ha condotto ad una espropriazione generalizzata delle terre anche di media dimensione». Terre assegnate «a improvvisate cooperative di lavoratori che non si sono mai realmente dimostrate all’altezza del loro compito», e con incarichi direzionali «troppo spesso affidati obbedendo unicamente a meri criteri di fedeltà politica». Risultato: la produzione agricola è crollata, ricorda Angiuli, persino per i più tipici prodotti alla base della dieta venezuelana: riso e farina di mais, frutta e verdura, polli d’allevamento, uova e caffè. Stessa sorte ha colpito l’industria: «Una analoga degenerazione demagogica del chavismo, nel segno del collettivismo spinto – scrive Angiuli – ha condotto negli anni a una diffusa e capillare occupazione delle fabbriche», da parte di «settori disinvolti delle forze armate». I militari, «arrogandosi il diritto di agire sempre e comunque nell’interesse del “pueblo” e contro l’odiata borghesia nazionale», si sono spesso impadroniti «con modalità arbitrarie e violente» dei mezzi di produzione, «lasciandoli cadere quasi sempre e molto presto in malora e facendo così crollare la produzione anche in quei settori nei quali – prima del chavismo – il Venezuela riusciva tranquillamente a soddisfare il suo fabbisogno interno, raggiungendo perfino l’obiettivo di esportare una discreta quantità di merci all’estero: ferro, acciaio, automobili, caffè».L’aspetto più inquietante di questo fallimento economico di dimensioni catastrofiche, scrive Angiuli, non risiede neppure nella pianificazione centralistica stile Urss e Cina maoista: il paradosso sta nella pessima gestione dell’oceano di petrodollari. Fino al 2013, il petrolio rappresentava ancora il 95% dell’export. Anziché sfruttare quell’enorme massa di denaro per rendere il Venezuela più autonomo economicamente, i governi socialisti «hanno finito per accentuare oltre ogni limite il tradizionale carattere “rentista” dell’economia venezuelana, legandone le sorti in modo irreversibile alla ciclicità dell’andamento del prezzo degli idrocarburi». Gli effetti di questa politica sono esplosi a partire dal 2015, con il crollo della quotazione del greggio: di colpo, il Venezuela ha incassato meno soldi, sia per il welfare che per pagare l’enorme volume di importazioni, cresciuto negli anni col progressivo calo della produzione interna di beni primari. Risultato: «La scarsità di prodotti sugli scaffali dei supermercati si è manifestata in modo crescente e irrimediabile». Ecco perché, osserva Angiuli, sta semplicemente mentendo, Maduro, quando si sforza ogni giorno di attribuire l’odierna crisi alla guerra economica orchestrata dall’odiato imperialismo yankee. Le sanzioni americane – varate da Obama e inasprite da Trump – non bastano a spiegare la catastrofica penuria di generi di prima necessità.Le stesse sanzioni, peraltro, non hanno impedito alle grandi banche d’affari statunitensi, prima fra tutte la Goldman Sachs, di investire copiose somme nell’acquisto di buoni obbligazionari emessi dalla compagnia petrolifera Pdvsa: «Un elemento che smaschera tanto l’ipocrisia del capitalismo a stelle e strisce quanto quella della retorica antimperialista così tanto sbandierata dal governo di Caracas». Inoltre, sebbene Trump abbia proibito nel 2018 l’acquisto di titoli del colosso petrolifero venezuelano, «nessun embargo commerciale petrolifero è mai stato decretato da Washington verso Caracas». Lo confermano i numeri delle esportazioni, che ora – non a caso – Maduro ha addirittura proibito di diffondere, roprio per non compromettere il suo vittimismo retorico che attribuisce al nemico imperialista la causa di ogni male. L’altra verità che Maduro nasconde, continua Angiuli, è che il suo Venezuela ha affidato a una ristretta oligarchia – società riconducibili all’establishment militare – l’intera gestione del cambio dei dollari necessari per accedere al mercato delle importazioni di beni dall’estero. Sono questi privilegiati ad accedere ai dollari, e in modo truffaldino, cioè con un cambio alterato sopravvalutando il bolivar: se la moneta venezuelana era stimata 1.000 a 1, rispetto al dollaro, l’élite governativa monopolista ha invece intascato 10 bolivar per ogni dollaro destinato ad acquistare beni dall’estero.Una volta che gli importatori della ristretta cerchia governativa hanno acquisito i dollari ad un cambio preferenziale e privilegiato, quella valuta forte, «ufficialmente necessaria per pagare le merci che si dovrebbero importare dall’estero», ha finito in realtà per alimentare «un circuito vorticoso e perverso, con cui gli stessi importatori filogovernativi sono troppo spesso riusciti ad occultare clandestinamente sia la valuta che le stesse merci importate». Una colossale frode valutaria, insomma, «che ogni giorno sottrae ricchezza al paese caraibico», e oggi costringe i venezuelani a lasciare le loro case. Elementare: «Se la moneta venezuelana viene scambiata sui mercati ad un valore reale spesso anche di 100 volte inferiore a quello con cui viene scambiata dagli organismi governativi, tutti coloro i quali sono nelle condizioni di mettere le mani sulla rendita petrolifera, una volta ottenuti i dollari col sistema del cambio preferenziale, ne investono effettivamente solo una parte nell’attività di importazione». E al contempo, aiutandosi con sovrafatturazioni fittizie (di merci mai effettivamente acquistate) occultano facilmente grandi quantità di valuta forte, trasferendole dei paradisi fiscali, «ovvero alimentando il mercato nero del dollaro all’interno degli stessi confini del Venezuela». Lo si capisce già all’aeroporto, appena si sbarca a Caracas: si viene assaliti da “agenti del cambio in nero” che offrono disinvoltamente i bolivar in cambio di dollari (o euro) secondo un rapporto di cambio molto distante da quello ufficiale.Per questo, aggiunge Angiuli, da quando si è diffusa la pratica governativa di sopravvalutare artificiosamente il bolivar, «il traffico di valuta è diventato di gran lunga il business più redditizio per chiunque riesca a venire in possesso di una certa quota della rendita petrolifera incamerata dal Venezuela». Negli anni, il fenomeno ha acquisito dimensioni impressionanti e incontrollabili. E il suo principale effetto nefasto sull’economia del paese è il generale disincentivo verso l’avvio di qualsiasi genere di attività produttiva. L’ex ministro per la pianificazione economica Jorge Giordani, grande amico di Chavez (dimessosi nel 2014 da ogni incarico governativo in polemica con Maduro) ha pubblicamente denunciato il furto, attraverso questo meccanismo fraudolento, di qualcosa come 25 miliardi di dollari dall’organismo governativo addetto alle operazioni di cambio su larga scala. E oltre al mercato nero di valuta, c’è anche la piaga che colpisce gli approvvigionamenti: il cibo, i medicinali e i prodotti manifatturieri che dovrebbero entrare in Venezuela a prezzo calmierato vengono in gran parte intercettati e rivenduti clandestinamente. Borsa nera: «Un formidabile, gigantesco contrabbando di merci vendute al mercato nero a prezzi molto più alti di quelli che il governo si sforza inutilmente di imporre nelle catene dei supermercati popolari», nei quali ormai scarseggia di tutto, dallo shampoo al dentifricio, dal sapone alla carta igienica.Giuseppe Angiuli lo descrive come «il disastro di una economia nazionale ormai strutturalmente e capillarmente fondata sul malaffare, sulla frode valutaria e sulla speculazione parassitaria, con un sistema di complicità e protezioni che purtroppo investe anche le sfere più alte del potere centrale». A questo si aggiunge l’iper-inflazione scatenata irresponsabilmente dalla banca centrale del Venezuela, «ricorsa in questi anni in misura sempre più massiccia alla stampa di cartamoneta priva di ogni copertura e valore reale». Tra il 1999 e il 2016, la massa monetaria circolante nel paese è cresciuta di circa il 33.000%. Inflazione folle: nel 2017 si è attestata al’830%, per poi raggiungere l’anno seguente il 4.684,3 percento, vero e proprio record mondiale. Secondo il Fmi, si viaggia ormai verso il “milione per cento” su base annua. Una catastrofe: paralisi economico-produttiva, l’iper-inflazione, crollo del valore reale dei salari. Generale impossibilità di procurarsi da vivere lavorando. Collasso del sistema sanitario nazionale, scarsità di viveri e medicinali, drammatico aumento della mortalità neonatale e della denutrizione infantile. Tutto questo sta oggi facendo vivere al Venezuela «un esodo di proporzioni bibliche dei suoi cittadini verso l’estero, come non si era mai visto nella storia recente del paese».Un fallimento così apocalittico, osserva Angiuli, avrebbe dovuto obbligare da tempo il governo Maduro ad adottare misure radicali, in forte discontinuità rispetto alle politiche suicide fin qui condotte. Di fronte all’esperazione popolare, sfociata in drammatiche proteste, Maduro ha risposto violando la Costituzione, truccando le elezioni e ordinando all’esercito di sparare sulla folla. Hugo Chavez non l’avrebbe mai fatto. Anzi: il “comandante” accettò lealmente il verdetto del referendum perduto, attraverso cui i venezuelani avevano bocciato la sua proposta di riforma costituzionale in senso presidenzialista. Maduro è solo, spelleggiato esclusivamente dai militari. Diversi dirigenti chavisti storici della prima ora – come l’ex ministro dell’ambiente Ana Elisa Osorio, l’ex ministro dell’economia Jorge Giordani, lo storico presidente della Pdvsa Rafael Ramirez e l’ex procuratrice generale Luisa Ortega Diaz – sono stati delegittimati ed emarginati. Qualcuno è riparato all’estero «per sottrarsi alla furia vendicatrice della cricca di potere vicina a Maduro».Non sappiamo quale futuro attende il Venezuela, conclude Angiuli, ma dopo vent’anni di chavismo «i risultati dell’economia del paese parlano un linguaggio implacabile, che non ammette repliche». Un fallimento di dimensioni così catastrofiche dimostra «l’evidente sconfitta politica del gruppo dirigente cresciuto all’ombra di Chavez, che non si è dimostrato all’altezza dei propri compiti storici». I meriti dell’azione ispiratrice dei primi anni del chavismo «andrebbero rivalorizzati e recuperati», ripensando le radici dottrinali del socialismo “bolivariano”, «che andrebbero rinforzate e vivificate». Attenzione: a livello geopolitico, il Venezuela resta «un attore decisivo per la possibile formazione di un nuovo mondo multipolare». E infatti, sottolinea Angiuli, «attorno alla tenuta dell’indipendenza del paese da eventuali aggressioni militari esterne si gioca gran parte del suo futuro». Certo, la catastrofe sociale potrebbe sfociare in esiti terribili. E se il Venezuela «dovesse progressivamente subire delle aggressioni militari da parte degli Usa o di paesi vicini governati dall’ultradestra, come la Colombia o il Brasile», secondo Angiuli occorrerà battersi «a difesa della sacrosanta intangibilità dei suoi confini e della sua legittima sovranità». Quello che non serve, per aiutare il Venezuela a uscire dall’incubo, è continuare a «fornire un sostegno acritico e fideistico al governo di Maduro». Meglio rileggere con onestà la grande storia di Hugo Chavez e anche i suoi limiti, onde avviare al più presto «quegli interventi indifferibili e vitali che il popolo venezuelano si attende, e di cui oggi non può più fare a meno».Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il paese ha perso la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.
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Maduro o Guaidò, cioè peste o colera: guerra civile in vista
Come era prevedibile e previsto, la crisi venezuelana è arrivata al punto di precipitazione e siamo ad un passo da una sanguinosissima guerra civile. Le responsabilità maggiori sono senza dubbio quelle di Maduro: quando uno dei massimi produttori mondiali di petrolio è alla fame, ma quella vera, dove non si mangia, dove la mortalità infantile è cresciuta in 5 anni del 30%, dove non si trovano medicinali e un salario mensile basta a comprare 2 chili di farina, non ci sono dubbi di sorta: la responsabilità è del governo che ha fatto una politica economica da dementi. All’inizio c’è l’errore storico di Chavez: aver dimensionato un welfare sostenibile solo con il barile di petrolio a 90-100 dollari. Non venne speso nulla dei profitti sia per rinnovare ed aggiornare gli impianti e meno ancora per avviare altre produzioni che potessero compensare il ribasso del petrolio, esportazione pressoché unica del paese, salvo modestissime entrate garantite da Rum e cioccolata. Pochissimo tempo dopo venne il prevedibile crollo del prezzo del petrolio che, già a quota 65, costringeva ad emettere sempre nuove quote di debito pubblico, e il debito costa. Altro errore storico di Chavez fu la sottovalutazione di fenomeni come la corruzione e il contrabbando, che minavano il paese. Ma furono errori che probabilmente lui, persona fondamentalmente onesta e di fede democratica, avrebbe cercato di correggere, facendo leva sul suo carisma e non certo mandando l’esercito in piazza a sparare sulla gente.Ma la prosecuzione su questa strada, dopo la sua morte, fu un crimine. E le scelte economiche di Maduro (a cominciare dal delirante accordo sottoscritto con le banche americane per il rinnovo dei titoli di debito che ha svenduto le esportazioni petrolifere, e a proseguire con la demenziale politica monetaria che ha superato di slancio il precedente di Weimar) hanno peggiorato drammaticamente la situazione. Maduro è un incapace privo del benché minimo carisma, di nessuna tempra morale e interessato solo al mantenimento del potere, per il quale non ha esitato a far sparare sul suo popolo. Di fatto, man mano, la base vera del suo potere sono stati esercito e polizia, entrambi corrottissimi e in stretti rapporti d’affari con il contrabbando. Questo non vuol dire che il regime non abbia un suo consenso: ci sono i beneficiati, poi i seguaci ideologicamente fedeli al chavismo e incapaci di vedere i guasti del governo e il sostanziale tradimento dell’eredità di Chavez. E poi, ovviamente la malavita, i contrabbandieri e i corrotti del partito e dell’amministrazione. E su questa base, e con una buona dose di brogli, Maduro è riuscito a mantenersi al potere, non arretrando neppure di fronte al colpo di Stato segnato dalla cosiddetta riforma costituzionale che ha abbattuto la Costituzione bolivariana voluta da Chavez.Maduro è indifendibile perché è un piccolo dittatorello latinoamericano, un incapace alla testa di una banda di corrotti e di delinquenti che, al bisogno, sono pronti a fare da squadristi. Dunque nessun rimpianto per una sua augurabile caduta. Il guaio è che l’alternativa è rappresentata da questo giovanotto di belle speranze che è Guaidò. Del personaggio sappiamo poco e l’aspetto e l’eloquio ce lo presentano come il fratello meno intelligente di Macron, che a sua volta è il fratello meno intelligente di Renzi. Ma, detto questo, non ci vuole molto a capire che è la marionetta dietro cui ci sono gli Usa. Washington ha sempre riservato uno speciale odio al Venezuela sin dai tempi di Chavez, e ora aspira a due cose: la caduta dell’ultima roccaforte di sinistra del continente meridionale (salvo Uruguay e Bolivia) e la privatizzazione dei pozzi petroliferi del paese (e indovinate chi li acquisterebbe…). Quindi, Guaidò non è affatto una alternativa desiderabile. Occorrerebbe un governo di transizione affidato né a Guaidò né tantomeno a Maduro, capace di raffreddare il clima, consentire la riorganizzazione del sistema politico del paese con una sinistra non madurista e una destra nazionale non serva degli Usa, per far fronte alle urgenze alimentari e sanitarie del paese con un adeguato piano di aiuti internazionali, e poi andare a votare entro un anno o un anno e mezzo. E magari la mediazione potrebbe essere svolta dalla Chiesa che, sin qui, è il soggetto che si è comportato con maggior equilibrio nel paese.Beninteso: Maduro dovrebbe andare in esilio e farsi dimenticare. Ma, se questa potrebbe essere la soluzione più auspicabile, non è il caso di farsi illusioni e, di fatto, le alternative più probabili sono due: il passaggio dei militari armi e bagagli dalla parte di Guaidò (i corrotti non sono difficili da convincere, se gli si garantisce di poter continuare nei loro traffici) oppure una guerra civile fra le milizie maduriste e l’esercito da una parte e le milizie dell’opposizione debitamente armate, magari con l’appoggio di una forza multinazionale di “interposizione” fatta da brasiliani, colombiani e altri sudamericani. E in questo caso, chiunque vinca, dobbiamo sapere che seguirà uno spaventoso bagno di sangue. Poco male se questo significasse la fucilazione di Maduro e dei suoi gerarchi (che il tiranno sia fucilato è cosa piuttosto comune, e tutto sommato positiva); il guaio è che il massacro si estenderebbe alla base dei perdenti, di qualunque schieramento si tratti. E’ triste dirlo, ma temo che le speranze di una soluzione diversa siano ridotte al lumicino.(Aldo Giannuli, “Maduro o Guaidò? Come scegliere fra peste e colera, ma ormai la guerra civile è alle porte”, dal blog di Giannuli del 5 febbraio 2019).Come era prevedibile e previsto, la crisi venezuelana è arrivata al punto di precipitazione e siamo ad un passo da una sanguinosissima guerra civile. Le responsabilità maggiori sono senza dubbio quelle di Maduro: quando uno dei massimi produttori mondiali di petrolio è alla fame, ma quella vera, dove non si mangia, dove la mortalità infantile è cresciuta in 5 anni del 30%, dove non si trovano medicinali e un salario mensile basta a comprare 2 chili di farina, non ci sono dubbi di sorta: la responsabilità è del governo che ha fatto una politica economica da dementi. All’inizio c’è l’errore storico di Chavez: aver dimensionato un welfare sostenibile solo con il barile di petrolio a 90-100 dollari. Non venne speso nulla dei profitti sia per rinnovare ed aggiornare gli impianti e meno ancora per avviare altre produzioni che potessero compensare il ribasso del petrolio, esportazione pressoché unica del paese, salvo modestissime entrate garantite da Rum e cioccolata. Pochissimo tempo dopo venne il prevedibile crollo del prezzo del petrolio che, già a quota 65, costringeva ad emettere sempre nuove quote di debito pubblico, e il debito costa. Altro errore storico di Chavez fu la sottovalutazione di fenomeni come la corruzione e il contrabbando, che minavano il paese. Ma furono errori che probabilmente lui, persona fondamentalmente onesta e di fede democratica, avrebbe cercato di correggere, facendo leva sul suo carisma e non certo mandando l’esercito in piazza a sparare sulla gente.
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Magaldi: 5 Stelle, bugie sul Venezuela e fallimenti in Italia
Mascalzoni: o siete ignoranti, all’oscuro dei fatti, o siete addirittura in malafede. E non si sa cosa sia peggio, visto che sedete addirittura al governo. Pazienza, se si trattasse dei soliti “leoni da tastiera”, che sui social diffondono falsità e distribuiscono insulti in modo sleale, protetti dall’anonimato, convinti di restare impuniti in eterno. Ma se si rivestono cariche istituzionali, non si può scadere fino a questo punto. Specie se, come in Venezuela, è in gioco la sicurezza di quasi 30 milioni di persone, ormai alle prese con un’emergenza umanitaria. Sono tantissimi i venezuelani di origine italiana, ieri vicini al governo socialista di Hugo Chavez e ora spaventati e mortificati: dall’invereconda autocrazia dell’indegno Nicolas Maduro, e dal silenzio ufficiale dell’Italia, il cui governo non prende posizione in modo netto sulla crisi in corso. E’ esasperato, Gioele Magaldi, di fronte all’opaca neutralità dei 5 Stelle: non riconoscendo Juan Guaidò come “presidente ad interim”, i pentastellati finiscono per supportare Maduro, cioè il politico fallimentare di cui la stragrande maggioranza dei venezuelani vorrebbe liberarsi. «Avevo dato del cialtrone ad Alessandro Di Battista – tuona Magaldi, in web-streaming su YouTube – ma ora allo stesso giudizio associo anche il vicepremier Luigi Di Maio, allineatosi a Di Battista, esattamente come il presidente della Camera, Roberto Fico».L’accusa: è semplicemente folle dare del “golpista” a Guaidò, solo perché è sostenuto dagli Usa. «L’autoproclamato presidente non ha fatto nulla che non fosse previsto dalla Costituzione del Venezuela: e il governo italiano non può fingere di non saperlo, come invece fanno i 5 Stelle». Scandisce i termini della questione, il presidente del Movimento Roosevelt: per chi non l’avesse ancora capito, ribadisce, Guaidò non è un “signor nessuno” messo lì dalla perfida America per rovesciare un governo legittimo. E’ il presidente del Parlamento. E la Costituzione del suo paese – in circostanze straordinarie, come queste – gli conferisce il potere, legale, di disconoscere il presidente in carica, sostituendolo in via strettamente provvisoria. Con un unico obiettivo: indire elezioni. Dove starebbe il golpismo? Per colpo di Stato si intende: presa del potere con metodi violenti, mediante l’uso della forza. Guaidò vuole forse cacciare Maduro per insediarsi stabilmente alla presidenza? No: si limita a compiere un passaggio costituzionale necessario, per imporre a Maduro il ripristino della legalità democratica. Vuole che i venezuenali possano tornare a votare. L’ultima volta che l’hanno fatto, lo scorso anno, il partito di Maduro ha praticamente vinto da solo: l’opposizione incarnata da Guaidò non si era neppure candidata, non ravvisando l’agibilità democratica della consultazione. Come si può parlare, seriamente, di golpe?Certo, il Venezuela è ricchissimo di petrolio: ha la prima riserva petrolifera del mondo, e ora è boicottato dagli Stati Uniti. Come ricorda Eugenio Benetazzo, c’è proprio il petrolio nel destino di Caracas, nel bene e nel male: usando i proventi del greggio, Hugo Chavez riuscì a condurre uno spettacolare programma di welfare, di stampo socialista. Maduro avrebbe voluto imitarlo, ma il crollo del prezzo del barile gliel’ha impedito. E quando il paese è scivolato nella crisi, l’erede di Chavez – a differenza del suo precedessore – non ha esitato a ricorrere alla repressione, di fronte alle proteste popolari. Maduro ha forzato ripetutamente la Costituzione, cosa che invece Chavez s’era ben guardato dal fare: aveva proposto una modifica costituzionale in senso presidenziale, ma aveva accettato (democraticamente) il verdetto contrario dei venezuelani. «Maduro – sintetizza Magaldi – ha letteralmente rovinato il gran lavoro svolto da Chavez». Non ci credete? E allora, suggerisce il presidente del Movimento Roosevelt, magari leggetevi su “L’Intellettuale Dissidente” le illuminanti analisi di un osservatore privilegiato come Giuseppe Angiuli, grande estimatore di Chavez e oggi rassegnato a descrivere “la triste parabola del socialismo bolivariano”, con ormai quasi 3 milioni di venezuali in fuga – per fame – nei paesi vicini.Lo fa notare lo stesso Benetazzo: è vero, il regime di Maduro si è trovato ad affrontare difficoltà serissime ed è stato progressivamente “accerchiato”. Ma la sua evidente incapacità è ormai diventata un problema insormontabile: al di là dell’avversione ideologica per il governo di Caracas, paesi come Brasile, Argentina ed Ecuador percepiscono Maduro come un ostacolo da rimuovere, non essendo in grado di impedire che il Venezuela si trasformi in una bomba sociale, nel teatro regionale di una catastrofe umanitaria. Alle Sette Sorelle – fa notare Gianni Minà – fa gola il petrolio venezuelano: il loro grande obiettivo è appropriarsi della Pdvsa, la compagnia petrolifera nazionale, tuttora statale. Tutto sembra congiurare contro Maduro: l’Ue lo ha scaricato, e la Banca d’Inghilterra rifiuta di restituire al Venezuela l’ingente riserva aurea di cui il paese virtualmente dispone, nei forzieri di Londra. Ma in tutto questo – insorge Magaldi – come si fa a non vedere da che parte sta, Juan Guaidò? Non agisce a nome delle perfide multinazionali, bensì del popolo venezuelano mortificato e affamato dalla crisi che Maduro non ha saputo affrontare, preferendo silenziare l’opposizione e reprimere ferocemente le proteste, anche calpestando la Costituzione che Hugo Chavez aveva sempre rispettato.Magaldi considera Guaidò un patriota, un vero sindacalista civile del suo paese. Un uomo coraggioso, pronto a rischiare la pelle in nome della democrazia. Il suo partito, “Voluntad Popular”, non è affatto neoliberista: è di ispirazione dichiaratamente liberaldemocratica. Magadi è trasparente: lui stesso, precisa, milita nello stesso network massonico internazionale di Guaidò, quello che si dichiara progressista e si oppone al dominio neo-oligarchico che ha confiscato la democrazia in tutto il pianeta. Come dire: di Guaidò potete fidarvi. In Venezuela, antichi supporter di Chavez masticano amaro, di fronte a quello che interpretano come un tradimento, e vedono in Guaidò un leale traghettatore. Ipotesi: un nuovo Venezuela, non più affamato né “normalizzato”, non ridotto a colonia neoliberale. Un paese senza più il carisma del chavismo, certo, ma senza neppure «gli eccessi statalistici che, in altri tempi, in Cile, prepararono le condizioni del golpe Usa che costò la vita ad Allende, altro massone progressista». Ma, a parte l’orientamento politico di Guaidò, «socialdemocratico, non certo reazionario», l’oppositore di Maduro – insiste Magaldi – riveste oggi un profilo istituzionale perfettamente legale, che solo un cieco potrebbe non vedere. Per questo, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, la vacuità bugiarda e cialtrona dei 5 Stelle, di fronte alla tragedia venezuelana, è pari alla fellonia parolaia del “governo del cambiamento”, che in Italia non sta cambiando proprio niente.Sparare proclami a vanvera su uno scenario lontano come il Venezuela, fa notare Magaldi, serve anche a distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica sulle miserie domestiche dell’infimo governo gialloverde. Nelle parole dei leader pentastellati risuonano echi terzomondisti e vetero-antiamericanisti? Male, dice Magaldi (atlantista dichiarato), perché è facile giocare con gli slogan, come fanno gli anonimi “eroi” del web complottista. L’imperialismo yankee è brutto? «Tutte le potenze del mondo, da sempre, attuano politiche di quel tipo». L’egemonia Usa è stata determinante per l’Italia? Eccome: «Ma chi demonizza gli Stati Uniti dimentica cos’era, l’Italia feroce di Mussolini con le sue leggi razziali. Dimentica che, senza il Piano Marshall, il paese – in macerie – non sarebbe mai diventato quello del boom economico. I detrattori degli Usa avrebbero preferito l’egemonia dell’Urss? Volevano che l’Italia diventasse come l’Albania? La Cecoslovacchia? L’Unghieria?». Ovvio, non c’è rosa senza spine: e l’Italia ne ha assaggiate parecchie. Bombe nelle piazze, stragismo, strategia della tensione, tentativi di golpe. Tutta roba americana, anche quella. Chi lo dice? Sempre Magaldi, nel saggio “Massoni”.Col piglio dello storico e del politologo, l’autore ha svelato retroscena mai prima chiariti: erano massoni statunitensi i burattinai della Loggia P2 di Licio Gelli, con la sua rete di servizi deviati e terroristi pilotati. Ma erano massoni statunitensi – di segno opposto, progressista – gli uomini come Arthur Schlesinger Jr., capaci di manovrare dietro le quinte per sventare tutti e tre i tentativi di colpo di Stato organizzati dai signori della “Three Eyes” capitanata da Kissinger, l’ispiratore del golpe in Cile, dall’onnipresente David Rockefeller (grande padrino della Trilaterale) e dal raffinato stratega Zbigniew Brzezinski, l’uomo che arruolò Osama Bin Laden in Afghanistan. Poi però, annota Magaldi, lo stesso Brzezinski ci riomase male, quando Bin Laden lasciò la “Three Eyes” per approdare alla “Hathor Pentalpha” dei Bush, cupola eversiva e terroristica, capace di progettare (con l’11 Settembre) la strategia della tensione internazionale che stiamo ancora scontando, per imporre – a mano armata – la peggior forma di globalizzazione. Uno schema a cui il pavido Obama non ha osato opporsi, e che oggi vede come il fumo negli occhi l’outsider assoluto che siede alla Casa Bianca, Donald Trump, l’uomo che oggi vorrebbe liberarsi di Maduro. Come dire: niente è come sembra, l’apparenza inganna. Più che gli Stati, la geopolitica la dettano gruppi ristretti, in lotta fra loro. Ma appena sale la tensione, ricompaiono le bandiere: e il derby lo vince l’emotività. Peccato veniale, prendere lucciole per lanterne, a patto che non si sieda al governo di un paese come l’Italia.Magaldi è stato un franco sostenitore del governo Conte, come unico possibile esecutivo “eretico” rispetto al dogma finto-europeista. Aveva scommesso sulla freschezza dei 5 Stelle e sulla conversione nazionale di Salvini, a capo di una Lega non più nordista. Sperava che l’esecutivo avesse il coraggio di resistere alle pressioni internazionali, esercitate prima ancora che il governo nascesse, con il “niet” su Paolo Savona all’economia. Ad ogni sconfitta, leghisti e grillini hanno alzato la voce: grandi proclami, per nascondere l’imbarazante verità. L’ipotesi di deficit al 2,4%? Troppo debole, per aiutare l’economia. Ma si sono dovuti rimangiare pure quella, piegandosi agli oligarchi di Bruxelles. Non hanno osato tener duro, i gialloverdi, neppure di fronte al clamoroso assist offerto in Francia, contro l’establishment eurocratico, dai Gilet Gialli. L’ultima cosa che oggi possono permettersi di fare, i 5 Stelle, è di dire stupidaggini su Juan Guaidò, insiste Magaldi: prima di parlare, si leggano la Costituzione del Venezuela. E smettano di essere ipocriti: «Il governo è pieno di massoni, anche se nel “contratto” (in modo discriminatorio, ledendo un diritto democratico) avevano scritto che non avrebbero dato spazio a esponenti della massoneria». Peggio: «Qualche settimana fa, esponenti della maggioranza erano venuti a chiedere la mia personale intercessione per essere aiutati, a livello europeo, dai circuiti massonici progressisti». E adesso vogliono farci la lenzioncina sul Venezuela?O siete ignoranti, all’oscuro dei fatti, o siete addirittura in malafede. E non si sa cosa sia peggio, visto che sedete addirittura al governo. Pazienza, se si trattasse dei soliti “leoni da tastiera”, che sui social diffondono falsità e distribuiscono insulti in modo sleale, protetti dall’anonimato, convinti di restare impuniti in eterno. Ma se si rivestono cariche istituzionali, non si può scadere fino a questo punto. Specie se, come in Venezuela, è in gioco la sicurezza di quasi 30 milioni di persone, ormai alle prese con un’emergenza umanitaria. Sono tantissimi i venezuelani di origine italiana, ieri vicini al governo socialista di Hugo Chavez e ora spaventati e mortificati: dall’invereconda autocrazia dell’indegno Nicolas Maduro, e dal silenzio ufficiale dell’Italia, il cui governo non prende posizione in modo netto sulla crisi in corso. E’ esasperato, Gioele Magaldi, di fronte all’opaca neutralità dei 5 Stelle: non riconoscendo Juan Guaidò come “presidente ad interim”, i pentastellati finiscono per supportare Maduro, cioè il politico fallimentare di cui la stragrande maggioranza dei venezuelani vorrebbe liberarsi. «Avevo dato del cialtrone ad Alessandro Di Battista – tuona Magaldi, in web-streaming su YouTube – ma ora allo stesso giudizio associo anche il vicepremier Luigi Di Maio, allineatosi a Di Battista, esattamente come il presidente della Camera, Roberto Fico».
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Aquisgrana: il vero potere adesso ha paura di noi europei
Tanto peggio, tanto meglio: vuoi vedere che l’orrendo patto franco-tedesco per fondare la versione 2019 del Sacro Romano Impero finirà con l’aprire gli occhi agli europei? Lo sostiene Enrico Carotenuto in un’analisi su “Coscienze in Rete”, network impegnato a svelare i retroscena della geopolitica sulla base di una tesi di fondo: il vero potere non mostra mai il suo vero volto, preferendo utilizzare comodi burattini (come Macron e la Merkel, in questo caso). E una mossa come il Trattato di Aquisgrana – che affossa virtualmente l’Ue sullo scenario mondiale – rivela la fragilità del potere franco-tedesco, spaventato dalla ribellione in corso in tutta Europa (elettorale in Italia, popolare in Francia, istituzionale nella Gran Bretagna della Brexit). Ma quel potere, più che “franco-tedesco”, è apolide: la Francia di Macron e la Germania della Merkel sono solo i principali strumenti con cui il neoliberismo neo-feudale ha esercitato il suo dominio, imponendo ai popoli europei di sottostare alle rigide norme finanziarie che hanno fatto crescere il Pil europeo impoverendo però la stragrande maggioranza della popolazione, attraverso un immenso trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, grazie a regole truccate dell’austerity.Tristemente decadente anche l’aspetto simbolico del trattato, firmato non casualmente proprio ad Aquisgrana, la capitale di Carlomagno. Proprio Aachen, ricorda Enrico Carotenuto, è la città dove ben 37 imperatori del Sacro Romano Impero vennero incoronati “Re dei Germani” (non dei Franchi). E siamo sicuri, aggiunge, «che anche questa ennesima “incoronazione” abbia il beneplacito del papato». Ve le ricordate, le effusioni del soave Macron in Vaticano con Papa Francesco, dopo che i francesi avevano appena definito “vomitevole” la politica italiana sui migranti? Ora ci risiamo: lo stesso Macron – attaccato da Di Maio per lo sfruttamento coloniale dell’Africa – dice che l’Italia merita governanti migliori, all’altezza della sua storia. Si scivola dal ridicolo al grottesco, visto che Macron – a capo di un paese che rapina nel modo più ignobile 14 paesi africani – parla come una Maria Antonietta qualsiasi, assediato com’è dalla rivolta dei Gilet Gialli, approvata da 8 francesi su 10. Ed è proprio il malconcio Macron – politicamente, un morto che cammina – ad aver firmato il Trattato di Aquisgrana insieme ad Angela Merkel, la cui stella politica è al tramonto.In altre parole: non sono loro, a decidere. Politici come Merkel e Macron si limitano a eseguire ordini. La notizia? L’élite che li comanda oggi teme il popolo. Ha paura del risveglio in atto, nelle coscienze dei cittadini europei. «Noi – scrive Carotenuto – siamo del parere che il “peggioramento” (l’accorciamento delle linee di comando) sia una manovra di retroguardia, da parte di certe forze, di fronte a quello che sta succedendo realmente dal punto di vista evolutivo». Sempre “Coscienze in Rete” immagina «che la risposta a questo peggioramento imposto sia un’occasione di miglioramento delle coscienze individuali». E’ evidente, intanto, il rischio che la Ue “si smonti” per via dei risentimenti crescenti che stanno esplodendo ovunque, specie nell’Europa mediterranea. Il Trattato di Aquisgrana sembra fatto apposta per varare l’Europa a due velocità, divisa tra paesi leader e piccoli satelliti. Il vero potere lavora da sempre alla creazione del super-Stato, «ma è un lavoro molto lungo e difficile anche per le grandi piramidi». Chi ha un po’ di potere tende a mantenerlo. E la piramide è antica, come i suoi metodi: carota e bastone, “divide et impera”. Ora, se non altro, il fenomeno è sotto gli occhi di tutti.Tanto peggio, tanto meglio: vuoi vedere che l’orrendo patto franco-tedesco per fondare la versione 2019 del Sacro Romano Impero finirà con l’aprire gli occhi agli europei? Lo sostiene Enrico Carotenuto in un’analisi su “Coscienze in Rete”, network impegnato a svelare i retroscena della geopolitica sulla base di una tesi di fondo: il vero potere non mostra mai il suo vero volto, preferendo utilizzare comodi burattini (come Macron e la Merkel, in questo caso). E una mossa come il Trattato di Aquisgrana – che affossa virtualmente l’Ue sullo scenario mondiale – rivela la fragilità del potere franco-tedesco, spaventato dalla ribellione in corso in tutta Europa (elettorale in Italia, popolare in Francia, istituzionale nella Gran Bretagna della Brexit). Ma quel potere, più che “franco-tedesco”, è apolide: la Francia di Macron e la Germania della Merkel sono solo i principali strumenti con cui il neoliberismo neo-feudale ha esercitato il suo dominio, imponendo ai popoli europei di sottostare alle rigide norme finanziarie che hanno fatto crescere il Pil europeo impoverendo però la stragrande maggioranza della popolazione, attraverso un immenso trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, grazie a regole truccate dell’austerity.
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Bifarini: saremo invasi dagli africani “rapinati” dalla Francia
Sicuramente l’Africa è un continente strategico per le proprie ricchezze e per il proprio patrimonio di risorse naturali. È il continente più ricco al mondo, nonostante continui ad essere il più povero e destinato al sottosviluppo endemico. Tuttavia il problema che è stato scoperchiato proprio in questi giorni, attraverso le dichiarazioni di Di Maio e di Di Battista, è quello del neocolonialismo che viene esercitato in questo continente, in primis dalla Francia. Si tratta di un fenomeno molto complesso e articolato, che è alla base del sottosviluppo di questo territorio. Tutto ciò è quindi collegabile al fenomeno dell’esplosione migratoria a cui stiamo assistendo. Il problema dei flussi migratori va risolto attraverso gli accordi con i singoli Stati, così come era stato fatto in passato. Tuttavia, torno a ripetere, se non capiamo i motivi per i quali stiamo assistendo a questo fenomeno migratorio di massa, non interveniamo sui problemi reali del continente africano e ci limitiamo alla sola gestione difficoltosa dei flussi in ingresso.L’accusa di Di Maio e di Di Battista è assolutamente fondata: la Francia ruba ricchezze all’Africa, e questo avviene da sempre. Attraverso il progetto della Francafrique si è avviato un continuum del colonialismo della Francia, senza alcuna interruzione. La Francia perciò depaupera effettivamente il territorio africano imponendo il dominio delle proprie multinazionali e da sempre agisce alimentando disordini e tensioni locali. L’ingerenza della Francia in Africa è davvero importante e finalmente se ne parla. Se l’Italia viene lasciata sola dagli altri Stati europei non riusciremo a risolvere il problema, anche perché il continente africano sta vivendo un’esplosione demografica: al momento conta 1,2 miliardi di abitanti e nel 2050 è previsto un aumento fino a due miliardi e mezzo. Quindi bisogna risalire all’origine del problema che spinge questi flussi migratori e capire una volta per tutte, scoperchiando il vaso di Pandora del neocolonialismo: perché questi paesi non sono riusciti a svilupparsi, perché non hanno uno sviluppo della propria economia locale, quali sono gli ostacoli che l’hanno impedito e che fine hanno fatto i fiumi di miliardi di dollari che sono stati inviati come aiuti umanitari.Finalmente il problema è stato sollevato e va analizzato in tutta la sua complessità, anziché continuare ad agire secondo direttive e metodi che non hanno funzionato. Smettiamola di stanziare fondi che poi non sappiamo come vengono spartiti. Nel mio libro, che in questi giorni è stato aggiornato con un focus sul neocolonialismo francese in Africa, spiego come il neocolonialismo agisca dalla fase di decolonizzazione ai giorni nostri e soffochi il continente africano, fenomeno che però si continua ad ignorare. Si continua a reagire con il solito finto buonismo di chi parla di accoglienza, di colpe da parte dell’Italia per un passato coloniale che ormai appartiene alla storia. Nessuno si è mai preoccupato di analizzare cosa succeda in Africa, chi sfrutti l’Africa. La Francia deve assumersi le proprie responsabilità, è ora di porre fine a questa ipocrisia. Tra l’altro pochi giorni fa è stata rafforzata questa egemonia ad Aquisgrana con l’asse franco-tedesco. Per cui l’Italia si trova ad essere sempre criticata e tenuta a rispettare le regole e i parametri che le vengono imposti, mentre si chiudono gli occhi di fronte allo scandaloso fenomeno neocolonialista che operano i francesi in Africa.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Tatiana Santi per l’intervista “L’Italia e il neocolonialismo francese”, pubblicata su “Sputnik News” il 25 gennaio 2019. Economista e scrittrice, la Bifarini è autrice del saggio “I coloni dell’austerity” (Altaforte Edizioni): è stata la prima, in Italia, ad aver sollevato il caso del neocolonialismo francese in Africa nel contesto delle migrazioni di massa).Sicuramente l’Africa è un continente strategico per le proprie ricchezze e per il proprio patrimonio di risorse naturali. È il continente più ricco al mondo, nonostante continui ad essere il più povero e destinato al sottosviluppo endemico. Tuttavia il problema che è stato scoperchiato proprio in questi giorni, attraverso le dichiarazioni di Di Maio e di Di Battista, è quello del neocolonialismo che viene esercitato in questo continente, in primis dalla Francia. Si tratta di un fenomeno molto complesso e articolato, che è alla base del sottosviluppo di questo territorio. Tutto ciò è quindi collegabile al fenomeno dell’esplosione migratoria a cui stiamo assistendo. Il problema dei flussi migratori va risolto attraverso gli accordi con i singoli Stati, così come era stato fatto in passato. Tuttavia, torno a ripetere, se non capiamo i motivi per i quali stiamo assistendo a questo fenomeno migratorio di massa, non interveniamo sui problemi reali del continente africano e ci limitiamo alla sola gestione difficoltosa dei flussi in ingresso.
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La patria europea demolita dal sovranismo degli europeisti
Dunque, la Germania al posto dell’Europa nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il franco francese anziché l’euro nei paesi africani. L’accordo economico-politico bilaterale tra Macron e la Merkel sulla testa dell’Europa e dei suoi accordi. Lo sfondamento dei limiti europei del debito da parte dei francesi, col placet dei tedeschi. La conquista dell’economia italiana soprattutto da parte di aziende francesi. Lo sfaldarsi di ogni piano comune europeo per affrontare i flussi migratori, e il deliberato sfilarsi di Germania e Francia dalle responsabilità che loro competono. E si potrebbe ancora continuare. Come giudicare complessivamente questi fattori, dove portano? Alla dichiarazione di fallimento dell’Europa, anzi all’autocertificazione, al prevalere degli interessi nazionali sugli interessi europei, all’egemonia delle potenze nazional-coloniali sull’unione tra Stati membri. In una parola, chi affossa l’Europa non sono coloro che escono, come i britannici; e nemmeno chi tuona, a volte in modo greve, contro chi comanda in Europa, come fanno gli italiani grilloleghisti. Ma sono proprio loro, i presunti padroni di casa.Sono loro, quelli di Aquisgrana, quelli dell’asse carolingio, i franco-tedeschi, a uscire dall’Europa. O se preferite, si sentono i genitori d’Europa e considerano gli altri Stati come minorenni; loro possono uscire di casa e rientrare, loro possono avere le chiavi di casa, loro possono concedersi libertà che agli altri sono negate. Quando sento il solito refrain sugli amici e i nemici dell’Europa, la solita condanna dei nazionalismi e dei sovranismi, mi chiedo: e questi due sarebbero i garanti dell’Europa? Non sono loro i primi fautori di nazionalismo e sovranismo, con l’aberrante precisazione che lo sono a prescindere dai loro popoli, puro kratos senza demos, nonostante siano in palese, schiacciante minoranza nei loro paesi? Simbolicamente grave è l’accordo tra Macron e Merkel per chiedere che il seggio assegnato all’Europa nel Consiglio di Sicurezza venga invece dato alla Germania. È la sconfessione dell’Unione Europea, l’abdicazione dell’Unione, la vanificazione della rappresentanza europea nel mondo, nel timore che nuovi equilibri, nuove ondate “sovraniste” possano nominare rappresentati dell’Europa non conformi e non graditi all’establishment dominante.Ora non si tratta d’inventarsi nuove crociate antifrancesi o antitedesche, né si tratta di alimentare la guerra civile europea e l’Eurexit, cioè l’uscita dell’Europa da se stessa, come se fosse posseduta da un demonio. Niente toni scomposti, nessuna caccia al nemico come capro espiatorio delle difficoltà interne. Si tratta prima di ricomporsi e poi di ricomporre, ovvero di assumere un contegno adeguato e poi puntare a una rigenerazione del patto europeo, una ridefinizione. Si tratta di pensare a una cosa: c’è bisogno d’inventarsi un sovranismo europeo, fondato su un patriottismo europeo. Cioè su un sentire comune, su un’appartenenza condivisa ad una civiltà. L’Europa di oggi, proprio come il governo Salvini-Di Maio, regge su un contratto. Ovvero su un patto economico-finanziario, sulla firma di un accordo e di alcuni obblighi legati a quell’accordo. Ma non c’è, e si vede a occhio nudo, nessun afflato europeo, nessun fervore identitario comune, nessuna percezione di vivere in una casa comune. Sarebbe quello il salto di qualità da compiere a questo punto.Un patriottismo europeo, come un sovranismo europeo, non sostituirebbe il patriottismo e la sovranità delle nazioni, ma ne sarebbe in qualche modo la sintesi, il garante dei singoli Stati e dei loro patriottismi nazionali. Un patriottismo europeo, un sovranismo europeo, dovrebbe esercitarsi rispetto al mondo esterno prima che sugli Stati membri, e dovrebbe occuparsi della concorrenza commerciale esterna, della comune difesa europea, dell’egemonia planetaria delle superpotenze, dei flussi migratori e delle minacce all’Europa e agli europei. Insomma dovrebbe essere proiettato sull’esterno, più che essere vessatorio e oppressivo al suo interno. Dovrebbe proteggere i popoli europei più che sottometterli ai diktat economico-finanziari o ai dogmi dell’accoglienza.Ci sono tre patriottismi, uno dentro l’altro come matrioska e come cerchi concentrici: il patriottismo locale, vorrei dire a chilometro zero, quello del territorio più prossimo, della provincia e del proprio habitat; il patriottismo nazionale, fondato sulla storia, la lingua, gli Stati e le tradizioni nazionali; il patriottismo europeo, inteso come patriottismo delle civiltà europea e dei suoi confini verso l’esterno. Non si può pensare di sopprimere uno senza poi sopprimere o vanificare gli altri. E se il compito dei nostri giorni, paradossale ma non troppo, sia quello di difendere l’Europa dagli europeisti?(Marcello Veneziani, “Francia e Germania contro l’Europa”, da “La Verità” del 25 gennaio 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Dunque, la Germania al posto dell’Europa nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il franco francese anziché l’euro nei paesi africani. L’accordo economico-politico bilaterale tra Macron e la Merkel sulla testa dell’Europa e dei suoi accordi. Lo sfondamento dei limiti europei del debito da parte dei francesi, col placet dei tedeschi. La conquista dell’economia italiana soprattutto da parte di aziende francesi. Lo sfaldarsi di ogni piano comune europeo per affrontare i flussi migratori, e il deliberato sfilarsi di Germania e Francia dalle responsabilità che loro competono. E si potrebbe ancora continuare. Come giudicare complessivamente questi fattori, dove portano? Alla dichiarazione di fallimento dell’Europa, anzi all’autocertificazione, al prevalere degli interessi nazionali sugli interessi europei, all’egemonia delle potenze nazional-coloniali sull’unione tra Stati membri. In una parola, chi affossa l’Europa non sono coloro che escono, come i britannici; e nemmeno chi tuona, a volte in modo greve, contro chi comanda in Europa, come fanno gli italiani grilloleghisti. Ma sono proprio loro, i presunti padroni di casa.
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Solo il Papa Buono si oppose all’orrore Usa in America Latina
Che l’America Latina debba essere proprietà privata degli Stati Uniti fu deciso nel 1823 dal presidente americano James Monroe, che nella sua celebre “dottrina” già aveva definito le terre che vanno dal Messico alla Patagonia come proprietà naturale degli Usa, cioè terre che per una “naturale legge di gravità politica” sarebbero prima o poi cadute nel “giardino di casa” di Washington (citaz. Chomsky). L’unico ostacolo, prevedeva Monroe, erano gli inglesi, le cui flotte erano a quel tempo troppo potenti per permettere la conquista yankee, ma che prima o poi si sarebbero ritirate, predisse il presidente. E infatti è accaduto. Quello che sta succedendo in queste ore in Venezuela è, in una sua parte, banale: il Padrone non molla mai, e siamo da capo, cioè all’intervento illegale N. 300 degli Stati Uniti in America Latina secondo la dottrina di Monroe. Naturalmente, agli Usa devono conformarsi i vassalli – cioè gli Stati latinoamericani oggi in mano a pupazzi del Fondo Monetario Internazionale, come il gruppo di Lima, poi la Gran Bretagna e anche noi della Ue. E la cosa farsesca è che, mentre in America si strilla isterici per le presunte interferenze di Putin a favore di Trump, accade che come nulla fosse il ministro degli esteri americano Mike Pompeo telefona al neo-autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidò, 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente. Ma va’?Prima domanda: “Ma se Pompeo fa questo, allora perché Putin non avrebbe potuto telefonare a Trump 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura?”. Poi, la risposta alla domanda “cosa si saranno detti?” la si può fare a una scatoletta di tonno, fiduciosi di avere la risposta giusta. E siccome è noto che – da Kennedy, finanziatore dell’orrendo golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari – siccome è noto che, dicevo, Washington ci tiene così tanto agli ideali democratici che vanno esportati nel suo “giardino di casa”, è notizia di oggi che Mike Pompeo ha nominato il “neocon” Elliot Abrams come suo inviato speciale in Venezuela, giusto per dar l’impressione di essere equidistanti. Abrams è un neo-nazista, un pregiudicato (graziato da Bush I), che ha finanziato il genocidio in Guatemala del generale Rios Montt, che ha passato le bustarelle dello scandalo Iran-Contras sotto Reagan e che organizzò il fallito golpe contro Chavez nel 2002. E’ “the Monroe doctrine on steroids”, si direbbe in slang.Ma vedete, l’articolo N. 231 di oggi sul Venezuela e tutti i dettagli da Google-journalism non vi servono a molto. Piuttosto va dato ancora un po’ di retroterra per capire Maduro e come uscirne. In un indicibile paradosso, le tragedie dell’America Latina iniziarono nel XVI secolo con la conquista nel nome del Vaticano, ma ebbero la loro unica speranza di terminare proprio grazie al Vaticano, quello del Concilio Secondo di Papa Giovanni XXIII nel 1959. Fra le maggiori istanze che esso annunciò, ve n’era una di portata rivoluzionaria scioccante: l’opzione della Chiesa dei Poveri. Dall’infame Costantino, nel IV secolo, la Chiesa aveva scelto senza ombra di dubbio l’opzione per i ricchi e per i potenti e il tripudio per lo sterminio dei poveri e dei dissidenti, non stop per i 1.700 anni successivi anni fino al grande Papa Giovanni XXIII (poi ci è ricascata, ahimè). Questo pontefice, invece, di colpo invertì gli ordini di squadra: no, disse, la Chiesa ora sceglie i poveri. Quasi nessuno qui da noi ci fece molto caso; ovvio, eravamo italiani in pieno boom economico. Ma nell’America Latina invece il messaggio del Concilio Secondo prese piede in modo sorprendente sotto forma della Teologia della Liberazione. Cos’era?In due parole: si trattò di ampi numeri di preti e suore, e qualche rarissimo caso nei ranghi ecclesiastici superiori, che proprio ispirati dal Concilio Vaticano Secondo si spogliarono di ogni bene e semplicemente fecero quello che fece Cristo, cioè lottarono nelle bidonville dei poverissimi, morirono per e accanto a loro, e ovviamente entrarono in aperto conflitto con i superiori, cioè i loro vescovi, arcivescovi e cardinali, fra cui anche il buon Bergoglio. Nota: lunga e fetente storia per questo mistificatore, che sempre tenne i piedi in 3 staffe. Un minino stette coi suoi gesuiti teologi della liberazione (ne tradì due in circostanze orribili e silenziò molti altri), ma poi in maggioranza stette invece zitto con le dittature, e alla fine fu un fedele facilitatore del Fondo Monetario Internazionale di Washington fino al Papato. Ma torniamo alla storia. Nel 1962, il venerato (da voi…) presidente Usa J.F. Kennedy notò questi clamorosi fatti e scosse il capo. Ma scherziamo? Adesso ’sti quattro preti straccioni si mettono a fare i “socialisti” contro gli interessi degli investitori americani? Ma che crepino (non poté “prepensionare” Giovanni XXIII perché era troppo popolare).Quindi Kennedy per primo (ma nel mezzo fu assassinato) e poi il suo successore Lyndon B. Johnson diedero il semaforo verde (per usare un’espressione tutta americana) al peggior terrore neonazista della storia del Brasile, quando con la cacciata del democratico Goulart i militari ripresero il potere nel paese (1964) inaugurando la notoria stagione del National Security States, quella cioè dei golpe fascisti latinoamericani per tre decadi successive. Nei files segreti dell’epoca, oggi desecretati e disponibili presso i National Security Archives di Washington, si possono leggere le euforiche parole dell’ambasciatore statunitense in Brasile Lincoln Gordon, un uomo del “democratico” Kennedy, che definì il golpe dei torturatori «una grande vittoria per il mondo libero» e «un punto di svolta per la storia» (un intero capitolo del mio “Perché ci odiano” della Rizzoli è dedicato a questi abomini). Spiacenti, caro Papa Giovanni XXIII, la tua Opzione per i Poveri deve morire, disse Jfk. E fu olocausto di massacri, torture, campi di concentramento, furti di risorse per trilioni di dollari, tutto di fila in America Latina fino alla fine anni ’90 e proprio a partire dalla nascita della Teologia della Liberazione laggiù.Fra l’altro quest’anno ricorre il 30esimo anniversario di uno degli ultimi atti di macellazione post-Jfk della giustizia in America Latina, cioè la strage di sei accademici gesuiti teologi della liberazione e di due loro domestiche da parte degli squadroni della morte Atlacatl in Salvador nel 1989. Nota: col benestare evidente e più volte espresso nei fatti dell’infame Papa Wojtyla, l’uomo piantato a Roma da Washington non solo per abbattere l’Urss ma proprio per disintegrare l’Opzione per i Poveri in America Latina, visto che rodeva nelle tasche delle corporations, degli hedge funds e degli asset manager americani (e nostri). E arriviamo a Maduro oggi, passando, come già scritto sopra, per tutti i presidenti Usa di fila che mai hanno smesso di finanziare e armare ogni porcheria antidemocratica a sud del Texas (ripeto: da Kennedy, finanziatore del golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari).Washington non molla, e oggi col naufragio delle rivoluzioni “bolivariane” in America Latina, siamo a questa realtà: l’85% del continente è tornato nelle mani delle destre-stuoini del Fondo Monetario. Ma qui l’onestà intellettuale impone un “ma”… Verissimo che la guerra di sanzioni americane contro Cuba e Venezuela è un abominio della legalità internazionale e ruba miliardi all’anno a quei due paesi. Verissimo che la fetente lustrascarpe del Fmi, cioè la Ue, non è capace di un belato di giustizia internazionale da nessuna parte (Palestina, Siria, Egitto, Yemen, America Latina) mentre ruggisce contro le pecorelle Piigs. Verissimo che quella che fu la culla della democrazia, la Gran Bretagna, ha di nuovo sputato sulla propria storia bloccando l’oro di Maduro in un momento drammatico per il Venezuela. Ma… è altrettanto verissimo che l’America Latina, almeno nella leadership (ma non solo), non ce la può fare, come si dice gergalmente. E inizio da questo: sono “cattolici dentro”, anche quando sono comunisti. Dal 2001/2 fino a ieri, le sinistre latinoamericane hanno avuto in mano quasi tutto per salvare il continente e per finalmente usare le loro immani risorse e le loro monete sovrane sganciate dal dollaro per rafforzare la base sociale povera, cioè il 90% degli elettori.Gli Usa erano in ritirata ormai decennale sia economica che militare, e in affanno, anzi, panico, proprio mentre dall’altra parte esplodeva il potere degli “astri benevoli” dell’America Latina di sinistra, cioè Cina e Russia a far da contraltare. Ma cosa è successo invece? Siamo minimamente onesti, per favore: i leader latinoamericani hanno sbagliato economie nel 100% dei casi, e con una pervicacia sbalorditiva, limitandosi a programmi-elemosina per la base sociale povera, cioè il 90% (vi ricorda qualcuno? RdC?). Hanno fatto parrocchie a sinistra come a destra nel 100% dei casi. Come ogni bravo “cattolico dentro” sono stati ipocriti da vomitare, corrotti da barzellette, e alla fine (in Brasile in modo cosmico) hanno rubato il rubabile. Chiunque non sia un partigiano in malafede si è accorto che sia in Brasile ma soprattutto in Venezuela l’elettorato di maggioranza detesta la sinistra come la destra, derubato e tradito da entrambi, oggi. Nomi come Maduro e Guaidò non rappresentano più nulla, sono screditati alla morte, e figurano solo nei media per via di quel 10% a testa di esagitati che riescono ancora a far comparire davanti alle telecamere in piazza, mentre l’80% sta a casa a sbattere la testa contro il muro. Quindi?Quindi di certo nel mondo dei sogni andrebbe messo uno stop immediato ai 196 anni d’illegalità della dottrina Monroe (con la pietosa Ue al seguito); di certo l’unica via è oggi il negoziato, visto che laggiù la scelta realistica per quella povera gente è fra lo schifo di Maduro e lo schifo di Guaidò. Ma come sempre dico in quasi totale isolamento da decenni (come nel caso dei paesi africani), finché le sinistre, intese come base di popolo, non accetteranno di guardarsi dentro e di capire come hanno fatto a diventare ovunque nel mondo delle tali schifezze, mafie, parrocchie e traditrici di lotte centenarie, possiamo pure continuare a gridare “yankee go home!”, ma in America Latina le maggioranze continueranno a sbattere la testa contro il muro. O le sinistre imitano l’immenso atto di autocritica di Giovanni XXIII e anch’esse ritornano a una vera storica Opzione per i Poveri (si spera con maggior successo oggi), oppure non si andrà da nessuna parte (neppure qui da noi).(Paolo Barnard, “Da Monroe a Papa Giovanni XXIII a Kennedy, fino a Obama, e allora si capisce il disastroso Maduro”, dal blog di Barnard del 29 gennaio 2019).Che l’America Latina debba essere proprietà privata degli Stati Uniti fu deciso nel 1823 dal presidente americano James Monroe, che nella sua celebre “dottrina” già aveva definito le terre che vanno dal Messico alla Patagonia come proprietà naturale degli Usa, cioè terre che per una “naturale legge di gravità politica” sarebbero prima o poi cadute nel “giardino di casa” di Washington (citaz. Chomsky). L’unico ostacolo, prevedeva Monroe, erano gli inglesi, le cui flotte erano a quel tempo troppo potenti per permettere la conquista yankee, ma che prima o poi si sarebbero ritirate, predisse il presidente. E infatti è accaduto. Quello che sta succedendo in queste ore in Venezuela è, in una sua parte, banale: il Padrone non molla mai, e siamo da capo, cioè all’intervento illegale N. 300 degli Stati Uniti in America Latina secondo la dottrina di Monroe. Naturalmente, agli Usa devono conformarsi i vassalli – cioè gli Stati latinoamericani oggi in mano a pupazzi del Fondo Monetario Internazionale, come il gruppo di Lima, poi la Gran Bretagna e anche noi della Ue. E la cosa farsesca è che, mentre in America si strilla isterici per le presunte interferenze di Putin a favore di Trump, accade che come nulla fosse il ministro degli esteri americano Mike Pompeo telefona al neo-autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidò, 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente. Ma va’?
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Tutte le altre stragi, senza nessuna Giornata della Memoria
E’ possibile celebrare la Giornata della Memoria per ricordare, tra tutti i genocidi della storia recente, solo quello nazista ai danni degli ebrei? Se lo domanda implicitamente un ex giornalista della Rai come Fulvio Grimaldi, nell’elencare – il 27 gennaio, sulla sua pagina Facebook – moltissime altre pagine atroci che hanno costellato il Novecento. «Il maresciallo Rodolfo Graziani massacra la Libia, occupata e seviziata dal 1911, e uccide seicentomila libici, tra civili e partigiani della resistenza, un terzo della popolazione», e poi «brucia centinaia di villaggi, bombarda centri abitati e carovane, avvelena i pozzi, impicca centinaia di libici, tra cui l’ottantenne leader della Resistenza, Omar al Mukhtar». Gli Stati Uniti, dal 1945 ad oggi, «iniziando con l’invasione della Corea e poi del Vietnam e poi proseguendo con la storica media di una guerra d’aggressione all’anno, con colpi di Stato, guerre civili innescate ad arte, sanzioni genocide», di fatto «uccidono 50 milioni di persone nel mondo». Nel solo Vietnam sono uccisi 3 milioni di civili, mentre gli effetti del napalm e dell’agente Orange continuano a far nascere e morire decine di migliaia di bambini deformi. Dagli Usa all’Europa: «Re Leopoldo del Belgio, occupante colonialista del Congo, provoca la morte di 20 milioni di congolesi».Il genocidio africano prosegue nel ‘900 «per opera di fantocci dell’Occidente e delle multinazionali che controllano i territori delle risorse minerarie attraverso l’intervento del protettorato franco-statunitense del Ruanda e l’uso di milizie tribali». Ma l’Italia non è da meno, ricorda Grimaldi: «Mussolini, nella guerra d’Etiopia, fa uccidere da Graziani e Badoglio 280mila abissini, 5 milioni di buoi, 7 milioni di ovini, 1 milione di cavalli, 700mila cammelli». Vengono bruciate 2.000 chiese e distrutte 525.000 case e capanne. L’Italia perde 4.350 militari, coscritti o volontari. Per «colonizzare il Sud Tirolo» e assicurare all’Italia Trento e Trieste, «che l’Austria è pronta a cedere se l’Italia non dovesse entrare in guerra», il potere industriale e bancario italiano «commissiona al governo Salandra e al re Vittorio Emanuele III l’ingresso in guerra». Nel primo conflitto mondiale «cadono 600mila italiani, perlopiù contadini e operai, molti fucilati dai propri ufficiali». Di fatto, annota Grimaldi, «scompare una generazione». Poi c’è la pagina nera della decolonizzazione del Nordafrica, cui la Francia si oppone strenuamente all’indomani della Seconda Guerra Mondiale: «Nella guerra d’Algeria il regime colonialista francese rinchiude 3 milioni di algerini in campi di concentramento, della tortura e dello stupro».Il bilancio della carneficina algerina è terrificante: «Un milione di algerini, su 10 milioni scarsi di abitanti, viene ucciso». Grimaldi calcola che un altro milione di persone, composto da «tedeschi antinazisti», fosse stato ucciso dal regime di Hitler tra il 1933 e il 1940. Aggiunge: «Vogliamo parlare di Palestina 1945-2019?». Di tutte le stragi divenute croniche, quella ai danni dei palestinesi è la più “invisibile”, sui media che celebrano il ricordo della Shoah. L’argomento resta controverso: se da una parte si contesta il fatto che la memoria sia “obbligatoria” solo per l’ecatombe di Auschwitz, dall’altro vale ricordare che soltanto lo sterminio nazista degli ebrei sia stato così meticolosamente progettato e realizzato, e per motivi dichiaratamente “razziali”: tutte le altre stragi, sostengono gli storici, hanno avuto motivazioni diverse, più tristemente “convenzionali” (geopolitica, imperialismo, economia, nazionalismo). Solo nel caso del nazismo, si sottolinea, il motore del genocidio fu l’odio, alimentato dal fanatismo ideologico della “purezza razziale”. A Grimaldi non basta: lo indigna il fatto che non si celebri nessuna “giornata della memoria” per tutte gli altri abissi di abominio. «Ci fermiamo qui – conclude – con un pensiero al bambino che, oggi, ogni 3 secondi muore di fame e malattia nel mondo per il modo di gestire l’umanità da parte dell’Occidente (il primo servizio su questo infanticidio planetario del capitalismo lo feci nel 1992 per il Tg3)».E’ possibile celebrare la Giornata della Memoria per ricordare, tra tutti i genocidi della storia recente, solo quello nazista ai danni degli ebrei? Se lo domanda implicitamente un ex giornalista della Rai come Fulvio Grimaldi, nell’elencare – il 27 gennaio, sulla sua pagina Facebook – moltissime altre pagine atroci che hanno costellato il Novecento. «Il maresciallo Rodolfo Graziani massacra la Libia, occupata e seviziata dal 1911, e uccide seicentomila libici, tra civili e partigiani della resistenza, un terzo della popolazione», e poi «brucia centinaia di villaggi, bombarda centri abitati e carovane, avvelena i pozzi, impicca centinaia di libici, tra cui l’ottantenne leader della Resistenza, Omar al Mukhtar». Gli Stati Uniti, dal 1945 ad oggi, «iniziando con l’invasione della Corea e poi del Vietnam e poi proseguendo con la storica media di una guerra d’aggressione all’anno, con colpi di Stato, guerre civili innescate ad arte, sanzioni genocide», di fatto «uccidono 50 milioni di persone nel mondo». Nel solo Vietnam sono uccisi 3 milioni di civili, mentre gli effetti del napalm e dell’agente Orange continuano a far nascere e morire decine di migliaia di bambini deformi. Dagli Usa all’Europa: «Re Leopoldo del Belgio, occupante colonialista del Congo, provoca la morte di 20 milioni di congolesi».
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Aquisgrana, due piccoli avvoltoi sul cadavere dell’Europa
Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.Di fronte alle pressioni americane (e alle minacce di disimpegno degli Usa dalla Nato, a meno che i paesi europei non incrementino l’acquisto di forniture militari americane nei prossimi anni), Francia e Germania se ne escono con questo trattato che, almeno sulla carta, «disegna una struttura di tipo quasi confederale, imperniata su organi e meccanismi stabili di collaborazione in tema di difesa, sicurezza interna, operazioni militari all’estero, industria militare, posti in Consiglio di Sicurezza Onu e concertazione sulle politiche europee». Secondo Alessandro Mangia siamo di fronte a una struttura polifunzionale, «destinata a operare come patto di controllo all’interno dell’Unione in attesa che Trump se ne vada». Oppure, se lo sfaldamento dell’Ue accelera dopo le elezioni europee, Francia e Germania hanno già messo in cantiere questo possibile Piano-B: un disegno «che riduca tutto a Germania, con baltici e Olanda al seguito, e Francia, con esercito, nucleare e colonie della zona franco Cfa», tuttora sottoposte a un severo regime di sfruttamento colonialistico. E ora? L’Unione Europea «diventa qualcosa di obsoleto o, nel migliore dei casi, una struttura destinata ad essere funzionale, in chiave subordinata, ad un asse politico che ha pretese di egemonia continentale».Qui si va molto al di là di una classica cooperazione rafforzata, sottolinea il professor Mangia: si tocca la sfera militare, e dunque politica per eccellenza. «La verità è che a fomentare squilibri e conflitti all’interno dei paesi dell’Unione è stata la politica mercantilista tedesca, che non si è limitata ad operare all’interno del continente, ma ha cominciato a infastidire gli stessi Usa. Se si pensa che la sola Germania ha un surplus sull’estero superiore a quello cinese – osserva Mangia – si capisce perché la proposta di Trump di livellare le spese militari al 2% dei paesi aderenti non fosse poi tanto peregrina, almeno dal suo punto di vista». Al di fuori di armi e tecnologia militare, aggiunge Mangia, non è che gli Usa abbiano ormai molto da esportare in Europa. «E infatti questo trattato è un “no” chiaro e tondo alle richieste americane: e si propone, non so con quale efficacia, di sviluppare un’industria militare e una forza di intervento esclusivamente franco-tedesca, che possa prendere il posto del fornitore americano». Scenario realistico? Manca esprime forti dubbi: «Il mercato mondiale delle armi è soprattutto in mano ad americani e russi, che ne hanno fatto un volano economico. Andarlo a sfidare senza avere la capacità economica – e la volontà di spesa – di Usa e Russia è a dir poco velleitario. Eppure, il segnale che si vuole lanciare è esattamente questo».Quanto al testo del trattato, il livello di cooperazione (sulla carta) è molto stretto. Si parla di un Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza comune, di un Consiglio dei ministri franco-tedesco, di partecipazione su base regolare di membri del governo francese o tedesco ai Consigli dei ministri dell’altro Stato. Ma ci sono anche dei passaggi meno generici, avverte Manca: nell’articolo 6 si parla di “unità comuni per operazioni di stabilizzazione in paesi terzi”. E si prevedono interventi tanto in Europa e in Africa: e cioè nelle zone del franco Cfa. «E’ chiaro che, se queste non restassero solo parole, ci si troverebbe di fronte ad un fatto politico piuttosto rilevante». Tradotto: «Se ci si ferma a riflettere su cosa si intende per “sicurezza interna” si finisce per leggere “ordine pubblico”. E si capisce che qui si va oltre il Trattato di Velsen del 2004 che istituisce Eurogendfor come piattaforma di Gendarmeria Europea. Potenzialmente la base giuridica per interventi diretti delle rispettive polizie oltre confine qui ci sarebbe. Non so se rendo l’idea».Nella sostanza, sottolinea Manca, il trattato si prefigge di formalizzare quell’idea di “Europa core” che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario. «Sullo sfondo c’è l’idea di passare dalla sfera economico-commerciale alla sfera militare, e cioè politica per definizione». Non è casuale, infatti, che sia stata scelta Aquisgrana come sede per la firma: il luogo-simbolo del Sacro Romano Impero. «Appunto. Nella cattedrale è sepolto Carlo Magno che aveva unificato Franchi e Germani; è la città dove viene attribuito quel Premio Carlo Magno che, negli ambienti europeisti, ha un fortissimo valore simbolico. Quando si passa a curare i simboli – aggiunge il professore – ci si muove in una dimensione apertamente politica. Ricordate le piramidi o le stelle a cinque punte di Macron? Siamo sempre lì». E partendo da Aquisgrana dove si può arrivare? La Merkel, «quasi dimissionaria in patria», ha delle mire precise sulla prossima Commissione Europea. Dall’altra parte c’è Macron, «che è riuscito nella non facile impresa di battere i livelli di impopolarità di Hollande», e che da dieci settimane si trova la città messe a ferro e a fuoco, nel weekend, dai Gilet Gialli. La sua unica strategia? «Lanciare le consultazioni con i sindaci e aspettare che i rivoltosi si stufino, nel più puro stile d’Ancien Régime».Merkel e Macron, per Alessandro Manca, «sono due figure deboli in patria, deboli sullo scenario mondiale, che riescono ad imporsi solo nei confronti degli altri paesi dell’Unione». Sul breve periodo, hanno ogni convenienza a sostenersi a vicenda. Ma il professore insiste ancora sul profilo militare: in Germania, oltre che sulle infrastrutture, si è giocato al risparmio anche sulle spese militari per la Bundeswehr, che soffre di sottofinanziamenti cronici. Ma dall’estate scorsa, «dopo lo scontro con Trump, si è iniziato a parlare, sulla stampa tedesca, dell’opportunità di divenire una potenza nucleare, in barba ai trattati di non proliferazione del dopoguerra». E qui, il partner ideale è la Francia. «Sì, perché la Germania è una potenza economica, ma un nano militare». La Francia ha un’industria militare di qualche rilievo, storicamente sovralimentata dallo Stato, e dispone di capacità e tecnologia nucleare sia civile che militare. «Ha qualcosa da vendere, insomma, che i tedeschi non hanno e non possono avere a breve. In cambio – aggiunge Manca – la Francia può ricevere accoglienza al vertice politico dell’Unione come “regina consorte” e vantare un rapporto privilegiato con il paese con il più grande surplus commerciale al mondo. Sembra uno scambio utile ad entrambi».Quanto all’impegno della Francia a favorire il riconoscimento della Germania come membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, Alessandro Manca sorride: ve le immaginate le risate, al Dipartimento di Stato e al Foreign Office inglese, il giorno che la Francia proverà a tener fede a questo impegno preso con i tedeschi, «con quello che stanno facendo passare al governo britannico sulla Brexit?». Per non parlare di Russia e Cina, «che “non aspettano altro” di avere la Germania seduta a quel tavolo a metter bocca sulle questioni internazionali». Come dire: uno scenario solo virtuale, del tutto irrealistico. Poi però ci siamo noi, l’Italia, insieme agli altri paesi esclusi dall’accordo: che conseguenze avrà, sulla nostra pelle, questo evidente progetto di dominio? «Questa è la nota più dolente, almeno a breve». Un asse franco-tedesco «che costituisca una struttura intrecciata anche militarmente ha poco rilievo fuori dal continente, ma ha molto rilievo al suo interno, soprattutto per il competitor naturale di Francia e Germania, che è poi l’Italia». Siamo «l’unico paese che, nonostante tutto, ha ancora una manifattura e un’industria militare capace di confrontarsi con Francia e Germania». L’Ue ha sgretolato le antiche alleanze. La prima vittima del Trattato di Aquisgrana, secondo Manca, sarà proprio l’industria militare italiana, «che è diretta concorrente dell’industria francese».Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.
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Patto franco-tedesco, Magaldi: minacciamoli di lasciare l’Ue
«Il governo gialloverde non fa paura a nessuno, in Europa: abbaia, ma non morde. Ecco perché l’oligarchia europea non ha alcun interesse a farlo cadere, men che meno per instaurare un esecutivo “tecnico” come quello di Monti, oggi improponibile all’elettorato italiano». Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, l’allarme lanciato da Gianfranco Carpeoro (Cottarelli al posto di Conte, in attesa di Draghi) ha un significato «sottilmente apotropaico», quello cioè di evocare un pericolo – l’ennesimo complotto – proprio allo scopo di scongiurarlo, “bruciandolo”. Per Magaldi, in fondo, la realtà è persino peggiore di quella tratteggiata da Carpeoro: perché «gli spaventapasseri Di Maio e Salvini non hanno nemmeno saputo approfittare della rivolta francese dei Gilet Gialli per pretendere, come avrebbero dovuto, il rispetto delle legittime istanze del governo italiano». Mazziati e cornuti, ma senza ammetterlo: «Bravi ad alzare la voce sui migranti e magari su Battisti, e invece zitti di fronte ai diktat della Commissione Europea», peraltro dominata da due paesi – Germania e Francia – che adesso, con lo scandaloso Trattato di Aquisgrana, «rifilano un ceffone plateale a tutti i cantori, anche italiani, della mitica Unione Europea, finora in realtà mai esistita e mai davvero nata».Chiamiamola Disunione Europea: è una cupola di oligarchi affaristi, impegnati a svuotare le nostre democrazie impoverendo i popoli. Di fronte a questo, «l’Italia dovrebbe minacciare di sospendere la vigenza dei trattati europei». Il dado è tratto, avverte Magaldi: ormai, i gruppi di potere (privatistici) che sostengono la Merkel e Macron hanno gettato la maschera. «Odiano a tal punto la democrazia, da stipulare un accordo smaccatamente egoistico, in danno degli altri paesi europei». Oltre all’incredibile “Consiglio dei ministri congiunto, franco-tedesco”, c’è anche «la barzelletta dei “due sederi” che si alternerebbero al seggio, attualmente solo francese, del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». Parigi è disposta a cedere il 50% di quella poltrona a Berlino? «Curioso: da Francia e Germania, non una parola sul penoso stato in cui è ridotta l’Onu, ormai incapace di far rispettare i diritti umani nel mondo». Quanto alla Francia, «persino Di Maio, meglio tardi che mai, si è premurato di ricordare l’incredibile atteggiamento predatorio e neo-coloniale che i francesi impongono a 14 paesi africani, quelli da cui provengono molti dei migranti diretti in Italia, su cui poi il signor Macron si permette di fare lo spiritoso».Una denuncia che il presidente del Movimento Roosevelt anticipa in una video-chat su YouTube con Marco Moiso, ribadendola poi nel web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”: l’Italia, semplicemente, non può accettare che una cricca di faccendieri oligopolisti decida – per giunta, parlando a nome del popolo tedesco e di quello francese – di prendere a calci i partner europei per tentare di ipotecare all’infinito il loro potere, finora affidato ai burattini Merkel e Macron. La verità è un’altra: la cancelliera è al tramonto, mentre l’Eliseo è assediato dalla rivolta di strada: 8 francesi su 10 voterebbero contro l’attuale presidente. E in queste condizioni i governi di Francia e Germania pensano di poter dichiarare guerra, impunemente, al resto d’Europa? I fatti potrebbero dar loro ragione, commenta Magaldi con amarezza, solo se il governo italiano continuasse la sua indecorosa manfrina: proclami altisonanti, per poi lasciarsi regolarmente umiliare. Sembra proprio che tutto sia cominciato il 27 maggio 2018, quando Lega e 5 Stelle hanno accettato di subire il “niet” di Mattarella sull’incarico a Paolo Savona come ministro dell’economia.Da lì in poi, gli oligarchi devono aver capito che il nascituro governo gialloverde si sarebbe rassegnato a ingoiare qualsiasi rospo, rinunciando alle grandi promesse della campagna elettorale: reddito di cittadinanza, Flat Tax, rottamazione della legge Fornero sulle pensioni. Per invertire la rotta e bocciare l’Europa del rigore serviva un deficit di almeno il 4%, capace di stimolare l’economia già nel 2019. Ma l’esecutivo Conte non è andato oltre la proposta del 2,4%, restando al di sotto della soglia (artificiosa, ideologica e dannosa) sancita dal famoso 3% di Maastricht. Salvo poi perdere definitivamente la faccia, facendosi limare un altro mezzo punto di deficit, sotto la minaccia della procedura d’infrazione. Risultato: accorciata ulteriormente la coperta, tutte le promesse gialloverdi sono evaporate. L’irrisorio reddito grillino appare condizionato da intricatissimi vincoli burocratici, mentre la riforma delle pensioni (quota 100) è ridotta a puro ecloplasma. E non s’è vista nessuna vera riduzione del carico fiscale. Anche per questo, dice Magaldi, i gialloverdi alzano il volume su questioni secondarie e irrilevanti, come l’arresto di Cesare Battisti, estradato solo perché in Brasile è salito al potere l’imbarazzante Bolsonaro.Un avviso a Salvini: non basta cambiare felpa, tutti i giorni, per nascondere la bancarotta politica del “governo del cambiamento”, che si sta rivelando una colossale presa in giro. «Che bisogno c’è di farlo cadere, un governo così docile? E’ perfetto, per lasciare tutto com’è». Con in più il vantaggio di dare agli italiani, per ora, l’illusione di un’inversione di rotta. «Ma attenzione: le cose possono cambiare in tempi rapidissimi». Se n’è accorto Matteo Renzi, «altro campione di chiacchiere», passato in pochi mesi dal 40% al ruolo di profugo politico. Anche per questo, sottolinea Magaldi, è necessario dare fiato a una nuova prospettiva, quella del “partito che serve all’Italia”, i cui promotori – tra cui Ilaria Bifarini, Nino Galloni e Antonio Maria Rinaldi – torneranno a riunirsi a Roma il 10 febbraio. Orizzonte: costruire un vero Piano-B per uscire dall’autismo dell’Europa degli oligarchi. Se ne parlerà anche a Londra il 30 marzo, in un forum sull’economia europea indetto dal Movimento Roosevelt, al quale parteciperanno personalità come Guido Grossi, già supermanager Bnl.E’ il momento di parlar chiaro, ribadisce Magaldi: oggi, l’Italia ha il dovere di convocare i partner europei – Francia e Germania in testa – per obbligarli a riscrivere le regole dell’Unione. Ovvero: una Costituzione democratica e un governo continentale finalmente eletto dal Parlamento Europeo, espressione diretta degli elettori. E quindi: una politica economica unitaria, la fine dello spread, il sostegno al debito mediante gli eurobond. Addio al Trattato di Maastricht e al suo ignobile 3%. O si disegna un New Deal, come invocato dallo stesso Savona nel suo discorso al Senato, o l’Europa è morta. E se Parigi e Berlino pensano di fare da sole, a maggior ragione: l’Italia le fermi. «Dica chiaramente, il nostro governo, che se la linea è quella del Trattato di Aquisgrana, il nostro paese sospende la vigenza di tutti i trattati europei». In questo modo, aggiunge Magaldi, l’Italia parlerebbe anche a nome degli altri partner Ue, esercitando un ruolo autorevole: «Un governo italiano realmente europeista, che denunciasse come anti-europeisti i difensori di questa Europa così com’è, dovrebbe dire a tutti gli altri partner che è giunta l’ora di sciogliere il patto».E questo, peraltro, «vorrebbe dire assumersi la leadership di un processo di riconversione democratica dell’Europa». Se invece Francia e Germania rifiutassero di ascoltare l’Italia, a quel punto «l’eventuale uscita dai trattati avrebbe ben altra legittimazione, anche internazionale». Certo, aggiunge Magaldi, lo schiaffo franco-tedesco deve bruciare soprattutto sulle guance «di tutti quegli imbecilli, anche italiani», che hanno fatto del mantra “ce lo chiede l’Europa” un dogma di fede, «credendo che il sogno europeo dovesse passare per l’imposizione di una governance post-democratica». Una sonora lezione anche per i velleitari “eroi” del nuovo sovranismo, ambigua bandiera «da sventolare in campagna elettorale, per poi ammainarla una volta al governo». Prendete Salvini: la sua ipotetica alleanza tra nazionalismi contava soprattutto su Ungheria e Polonia, «cioè proprio i due paesi che, per primi, hanno bocciato la manovra del governo Conte».Per Magaldi, in sostanza, «dobbiamo essere abili, e anche leali verso gli altri popoli europei». Illusorio rifugiarsi entro i confini nazionali: chi rimpiange l’Italia della lira, che stava certamente assai meglio di quella dell’euro, «dimentica sempre di ricordare che il nostro paese beneficiava innanzitutto del supporto internazionale degli Usa». Ovvero: «Con gli “assi” fondati sugli egoismi nazionali non si va da nessuna parte: fare da soli è impossibile, in un mondo sempre più interconnesso. E qualunque idea di una nazione isolata che possa resistere all’urto dei poteri globali è pura follia». L’alternativa? Semplice, in teoria: «Per contrastare le reti sovranazionali private, cementate da interessi inconfessabili, bisogna costruire reti sovranazionali pubbliche e finalmente democratiche». L’Italia di eri – fino a Monti, Letta, Renzi e Gentiloni – era «subalterna, imbelle e servile». Quella di oggi, gialloverde, preferisce «il piagnisteo velleitario, i proclami muscolari a cui poi non seguono i fatti». Serve un’altra Italia, «sovrana e democratica, orgogliosa di sé», capace di alzarsi in piedi e proporre la democrazia come modello imprescindibile, «non solo in Europa ma anche alle Nazioni Unite».«Il governo gialloverde non fa paura a nessuno, in Europa: abbaia, ma non morde. Ecco perché l’oligarchia europea non ha alcun interesse a farlo cadere, men che meno per instaurare un esecutivo “tecnico” come quello di Monti, oggi improponibile all’elettorato italiano». Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, l’allarme lanciato da Gianfranco Carpeoro (Cottarelli al posto di Conte, in attesa di Draghi) ha un significato «sottilmente apotropaico», quello cioè di evocare un pericolo – l’ennesimo complotto – proprio allo scopo di scongiurarlo, “bruciandolo”. Per Magaldi, in fondo, la realtà è persino peggiore di quella tratteggiata da Carpeoro: perché «gli spaventapasseri Di Maio e Salvini non hanno nemmeno saputo approfittare della rivolta francese dei Gilet Gialli per pretendere, come avrebbero dovuto, il rispetto delle legittime istanze del governo italiano». Mazziati e cornuti, ma senza ammetterlo: «Bravi ad alzare la voce sui migranti e magari su Battisti, e invece zitti di fronte ai diktat della Commissione Europea», peraltro dominata da due paesi – Germania e Francia – che adesso, con lo scandaloso Trattato di Aquisgrana, «rifilano un ceffone plateale a tutti i cantori, anche italiani, della mitica Unione Europea, finora in realtà mai esistita e mai davvero nata».