Archivio del Tag ‘futuro’
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Seguite i soldi, e capirete perché Repubblica è pro-Tav
“Follow the money”, come dicono gli americani. Fatelo, e scoprirete tante cose. Per esempio, perché il quotidiano “La Repubblica”, fondato da Eugenio Scalfari e edito dal finanziere Carlo De Benedetti, è così graniticamente pro-Tav. Convinzione ideologica? Forse. Ma come spiegarsi tanta sistematica “disattenzione” verso le inoppugnabili motivazioni dei No-Tav, supportate dai migliori tecnici? Seguite i soldi, dice John Siccardi, e vedrete che gli azionisti del grande quotidiano italiano tutto l’interesse – solido, materiale – perché l’opera pubblica più devastante, assurda e inutile d’Italia, la linea Tav Torino-Lione, si faccia comunque. Anche se il Consiglio d’Europa definisce «incompatibili con il corretto giornalismo investigativo» le campagne giornalistiche realizzate sulla base di prese di posizioni “al servizio di interessi particolari”, è un dato di fatto che proprio gli interessi particolari riescano a farsi strada, eccome, nel mondo della cosiddetta informazione. L’unica domanda che conta è: chi comanda, davvero, in redazione?«Individuati i proprietari, cioè gli azionisti – scrive Siccardi sul sito “NoTav.info” – bisognerà poi cercare i loro settori di attività e chiedersi, ad esempio nel caso delle opere pubbliche, se abbiano o potranno avere in futuro un interesse economico all’espansione delle infrastrutture». Se si scopre «un potenziale o concreto beneficio per i proprietari del media», ad esempio nell’alta velocità ferroviaria, «allora non si potrà dire che quel media sia neutro ed equidistante, né il suo messaggio affidabile, perché non disinteressato». Conflitto d’interessi? Siccardi esamina la posizione di “Repubblica”, schieratissima a favore della Torino-Lione. Il giornale è editato dal Gruppo Espresso, società per azioni di cui a detenere la maggioranza (53,8%) è la finanziaria Cir di De Benedetti. Il secondo più importante proprietario del gruppo è Bestinver Gestion, azionista di Cofide (gruppo Cir). A sua volta, Bestinver «è controllata al 100% dal gruppo spagnolo Acciona, che fa molte cose tra cui costruire linee ferroviarie ad alta velocità e fornire corrente elettrica a linee ferroviarie».Ricapitolando: attraverso Bestinver, la spagnola Acciona (alta velocità ferroviaria) «controlla più del 20% del principale azionista di “Gruppo L’Espresso S.p.A.” e del suo prodotto editoriale, “La Repubblica”». Ma non solo. La Cir è anche l’azionista di maggioranza di Sorgenia, società italiana che si definisce il secondo fornitore elettrico delle aziende italiane ed il primo operatore privato nel mercato italiano dell’energia elettrica e del gas naturale. «Come tutti sanno, i treni ad alta velocità vanno a corrente elettrica acquistata da fornitori, e così nel 2013 Acciona (azionista di Cir e quindi di Sorgenia) si è aggiudicata un appalto da 200 milioni di euro dal governo spagnolo per alimentare le reti ferroviarie spagnole tradizionali e ad alta velocità». Per Siccardi, l’interesse degli editori di “Repubblica” nello sviluppo dell’alta velocità è palesemente dimostrato dalla composizione azionaria e dal business degli azionisti: cantieri ferroviari Tav e forniture di energia elettrica. Pur senza escludere il legittimo esercizio di libere opinioni, anche in redazione, «si può dire con sicurezza che la linea editoriale complessiva, che da anni fa opinione e pressione su lettori e politici, è nettamente in salsa Sì Tav e che sulla carta ci sono elementi che la possono spiegare». Seguite i soldi, appunto. E le idee vi si chiariranno.“Follow the money”, come dicono gli americani. Fatelo, e scoprirete tante cose. Per esempio, perché il quotidiano “La Repubblica”, fondato da Eugenio Scalfari e edito dal finanziere Carlo De Benedetti, è così graniticamente pro-Tav. Convinzione ideologica? Forse. Ma come spiegarsi tanta sistematica “disattenzione” verso le inoppugnabili motivazioni dei No-Tav, supportate dai migliori tecnici? Seguite i soldi, dice John Siccardi, e vedrete che gli azionisti del grande quotidiano italiano potrebbero avere tutto l’interesse – solido, materiale – perché l’opera pubblica più devastante, assurda e inutile d’Italia, la linea Tav Torino-Lione, si faccia comunque. Anche se il Consiglio d’Europa definisce «incompatibili con il corretto giornalismo investigativo» le campagne giornalistiche realizzate sulla base di prese di posizione “al servizio di interessi particolari”, è un dato di fatto che proprio gli interessi particolari riescano a farsi strada, eccome, nel mondo della cosiddetta informazione. L’unica domanda che conta è: chi comanda, davvero, in redazione?
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Qualcuno era comunista e voleva un’umanità felice
Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica. Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche – lo esigevano tutti. Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto. Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto. Qualcuno era comunista perché prima – prima, prima – era fascista. Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano. Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo. Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari. Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio. Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaio. Qualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendio. Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente. Qualcuno era comunista perché la borghesia, il proletariato, la lotta di classe… Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre. Qualcuno era comunista perché guardava solo Rai Tre. Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione. Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto. Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin. Qualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sé la classe operaia. Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri. Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista. Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista. Qualcuno era comunista perché non c’era niente di meglio. Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggior partito socialista d’Europa. Qualcuno era comunista perché lo Stato, peggio che da noi, solo in Uganda. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant’anni di governi democristiani incapaci e mafiosi. Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera…Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista. Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia. Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos’altro. Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana. Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno; era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare… come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo.(Giorgio Gaber e Sandro Luporini, “Qualcuno era comunista”, dall’album “La mia generazione ha perso”, aprile 2001).Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica. Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche – lo esigevano tutti. Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto. Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto. Qualcuno era comunista perché prima – prima, prima – era fascista. Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano. Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.
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Il futuro secondo Google? Un bel microchip nel cranio
Scott Huffman, direttore tecnico di Google, preconizza un mondo in cui i microfoni di Google, inseriti nel soffitto, ascolteranno le nostre conversazioni intercettando le risposte verbali date a qualunque domanda sia posta. Il futuro di un business da 300 miliardi di dollari dipende dal successo nel riuscire a prevedere, automaticamente, le necessità di ricerca degli utenti, per poter presentare loro i dati di cui hanno bisogno. «La capacità di calcolo sta diventando così poco costosa che è inevitabile che prima o poi avremo una completa ubiquità di sistemi connessi tra loro attorno a tutti noi», dal microfonino personale attaccato al bavero della giacca fino all’abitacolo della nostra auto e persino ai Google Glass, gli occhiali muniti di un mini-computer ottico. Google ti ascolta: un piccolo microfono appeso al soffitto, abilitato a rispondere a interrogazioni verbali al motore di ricerca, eliminerebbe la necessità di tenere un’agenda, “ricordando” impegni e orari.Huffman, scrive Adam Sherwin sull’“Independent”, è l’uomo che più di ogni altro ha lavorato, negli ultimi quindici anni, per raffinare il funzionamento dei motori di ricerca. Secondo lui, l’atto fisico dell’usare una tastiera per compilare il campo di ricerca della pagina di Google andrà gradualmente scomparendo. Le informazioni necessarie potrebbero essere rese disponibili tramite «un piccolo sistema indossabile, che potrebbe avere un piccolo schermo, e con cui si interagirà semplicemente attraverso la nostra voce, forse con qualche piccolo tocco, e nient’altro». Esempio: «Immagina che io possa dire al microfono inserito nel soffitto di una stanza: “Puoi farmi vedere il video con gli highlights della partita di ieri dei Pittsburgh Steelers sulla Tv del salotto?”, e che questo funzioni, grazie al fatto che con il Cloud ogni cosa è connessa». Oppure: «Potrei chiedere al mio “assistente” di suggerirmi un ristorante francese non troppo caro. Google dirà “ok, andremo in quel ristorante”, e prima ancora che io salga in macchina il navigatore avrà già impostato il percorso».Che poi gli utenti di Google vogliano davvero un microfono inserito in ogni soffitto è un’altra questione, osserva Sherwin, specie dopo che la società è stata coinvolta nella crisi di fiducia generata dalle rivelazioni di Edward Snowden a proposito del programma di sorveglianza elettronica clandestino Prism operato per anni dalla National Security Agency americana. Google ha unito le proprie forze a quelle di altri giganti della tecnologia come Facebook, Apple e Yahoo!, insieme ai quali ha chiesto un cambiamento nelle norme che regolano le procedure di sorveglianza elettronica negli Usa e una messa al bando su scala internazionale della raccolta massiva di “metadati”, per aiutare a mantenere la fiducia del pubblico nella rete internet. Dopodiché, aggiunge Sherwin, «Google ritiene di poter un giorno soddisfare il bisogno di informazioni dei suoi utenti inviando i risultati delle sue ricerche direttamente a dei microchip impiantati nel loro cervello». Primo step: «Sono state già avviate ricerche relative alla possibilità di utilizzare simili microchip per poter aiutare persone disabili a sterzare guidando le proprie sedie a rotelle».L’attuale attuale priorità è utilizzare “Google’s Knowledge Graph”, un magazzino di informazioni in continua espansione che al momento contiene 18 miliardi di informazioni su fatti relativi a 60 milioni di soggetti, per produrre un sistema di risposta più “umano”. Le richieste di informazioni di tipo vocale sono molto più complesse di quelle fatte immettendo un paio di parole nella finestra di dialogo di un comune motore di ricerca. «Il mio team sta lavorando molto sull’idea di avere una più ricca modalità di conversare con Google», sostiene il direttore del colosso digitale, secondo cui il traguardo è ormai alla portata: tra cinque anni, «Google ti risponderà esattamente nel modo in cui lo farebbe una persona», arrivando cioè a «comprendere il contesto di una conversazione».Scott Huffman, direttore tecnico di Google, preconizza un mondo in cui i microfoni di Google, inseriti nel soffitto, ascolteranno le nostre conversazioni intercettando le risposte verbali date a qualunque domanda sia posta. Il futuro di un business da 300 miliardi di dollari dipende dal successo nel riuscire a prevedere, automaticamente, le necessità di ricerca degli utenti, per poter presentare loro i dati di cui hanno bisogno. «La capacità di calcolo sta diventando così poco costosa che è inevitabile che prima o poi avremo una completa ubiquità di sistemi connessi tra loro attorno a tutti noi», dal microfonino personale attaccato al bavero della giacca fino all’abitacolo della nostra auto e persino ai Google Glass, gli occhiali muniti di un mini-computer ottico. Google ti ascolta: un piccolo microfono appeso al soffitto, abilitato a rispondere a interrogazioni verbali al motore di ricerca, eliminerebbe la necessità di tenere un’agenda, “ricordando” impegni e orari.
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Chi è davvero Matteo Renzi: quello che Firenze insegna
Renzi? E’ senza dubbio giovane, ma che sia nuovo è dubbio: è in politica fin dai tempi della rappresentanza di classe nel liceo. Poi ha prosperato a lungo nella Margherita e, come suo esponente, divenne presidente della Provincia di Firenze. Per un motivo elementare: i Ds avevano allora il presidente della Regione (Martini) e il sindaco di Firenze (Domenici). Perciò alla Margherita “spettava” la presidenza della Provincia. «L’indubbia capacità di Renzi si rivelò nell’eliminazione della concorrenza interna», annota Pancho Pardi. Ora Renzi si esibisce tra i fautori più convinti dell’eliminazione delle province? «Sarà l’effetto dell’esperienza diretta. Ma a suo tempo usò sapientemente la presidenza come trampolino di lancio per la candidatura a sindaco di Firenze». Inoltre, della sua legislatura in Provincia «si ricorda una lunga serie di mostre ed eventi culturali di mezza tacca, il cui centro unificatore era il logo: Il Genio Fiorentino. Al di là dell’insopportabile retorica fiorentinocentrica, passava il messaggio subliminale: il Genio era lui».Nella vulgata renziana, continua Pardi in un intervento ripreso da “Micromega”, la sua candidatura a sindaco «passa come atto di coraggio: ingigantisce la difficoltà di sfidare una nomenclatura cittadina esausta per sopravvalutare il successo della sua parte di nomenclatura». Sulle sue gesta da sindaco è istruttiva la lettura di Tomaso Montanari, “Le pietre e il popolo” (Minimum Fax, 2013). «Voleva rivestire il San Lorenzo con una facciata posticcia; e bucare la Battaglia di Marciano per trovarvi sotto un improbabile Leonardo. La logica pubblicitaria domina: piazza della Signoria affittata per le nozze di un ricchissimo sultano, il Ponte Vecchio concesso alla festa della Ferrari. Ma questo è colore». La sostanza, continua Pardi, è l’assenza di una qualsiasi logica di governo del territorio. «Firenze è presentata come città a sviluppo edilizio zero, ma ci si dimentica di dire che il piano strutturale acquisisce come dato di partenza tutte le procedure insediative avviate in precedenza: una massa enorme di spazi è già impegnata».Secondo Pardi, anche il delicatissimo sottosuolo di Firenze è minacciato. «Si può sperare che i numerosi parcheggi sotterranei nel centro storico restino allo stadio di minaccia. Ma il sottopasso dell’alta velocità è un danno certo. Gli abitanti della striscia di città interessata stanno già preparando le cause civili. Qui il coraggio del sindaco tace». Eppure, la “tecnica del trampolino” sembra proprio funzionare: «Chi ha scelto il mestiere più bello del mondo dovrebbe portarlo a termine e sottoporsi al giudizio dei cittadini per il secondo mandato. Renzi invece vuole bruciare le tappe e prima di finirlo vuole già cominciare un altro lavoro che gli appare ancora più bello». Per fare cosa? «Basta sentirlo parlare. Presenta il responso delle primarie come il momento definitivo in cui comincia l’avvenire. L’egotismo forse supera perfino quello di Berlusconi».Renzi? E’ senza dubbio giovane, ma che sia nuovo è dubbio: è in politica fin dai tempi della rappresentanza di classe nel liceo. Poi ha prosperato a lungo nella Margherita e, come suo esponente, divenne presidente della Provincia di Firenze. Per un motivo elementare: i Ds avevano allora il presidente della Regione (Martini) e il sindaco di Firenze (Domenici). Perciò alla Margherita “spettava” la presidenza della Provincia. «L’indubbia capacità di Renzi si rivelò nell’eliminazione della concorrenza interna», annota Pancho Pardi. Ora Renzi si esibisce tra i fautori più convinti dell’eliminazione delle province? «Sarà l’effetto dell’esperienza diretta. Ma a suo tempo usò sapientemente la presidenza come trampolino di lancio per la candidatura a sindaco di Firenze». Inoltre, della sua legislatura in Provincia «si ricorda una lunga serie di mostre ed eventi culturali di mezza tacca, il cui centro unificatore era il logo: Il Genio Fiorentino. Al di là dell’insopportabile retorica fiorentinocentrica, passava il messaggio subliminale: il Genio era lui».
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Mdf: cari forconi, la rivoluzione parte dai consumi
Cari concittadini (lavoratori, studenti, pensionati, disoccupati…) giustamente stufi e al limite della sopportazione, condividendo la preoccupazione di chi è sceso in piazza ed evitando considerazioni personali sul colore delle manifestazioni (fermo restando il rifiuto della violenza, aspetto che vogliamo ribadire), vorremmo solo condividere alcune riflessioni con voi. Siamo pienamente in sintonia con le motivazioni alla base della protesta (corruzione e sbando della classe politica, globalizzazione, finanza e mercato selvaggi e senza limiti che strangolano il piccolo commercio locale, etc); riteniamo, tuttavia, che un’alternativa migliore debba partire da noi e che il cambiamento di questo sistema economico deve essere attuato con azioni concrete.Con il massimo rispetto e pienamente consci della diversità delle situazioni che ognuno sta vivendo e dei drammi personali, vogliamo porre – anche in maniera provocatoria – alcune domande. Perché il punto fondamentale è chiedersi quale futuro (e quale modello di società) auspichiamo. Commercianti, artigiani, piccoli imprenditori, è evidente quanto la crisi che stiamo vivendo si sia abbattuta su di voi con violenza; ma vi chiediamo, quando chiudete il vostro negozio la sera, dove andate a comprare il pasto duramente sudato? All’ipermercato o in un piccolo negozio a km0 o magari da un gruppo di acquisto solidale che si rifornisce da piccoli contadini? Sapete che buona parte delle arance e dei pomodori che trovate nei supermercati sono raccolte da persone in condizioni di schiavitù, vendute ad un prezzo ridicolo dal produttore alla grande distribuzione che poi le rivende negli ipermercati vicino a casa?Cittadini e lavoratori, anche noi, seppure sosteniamo la riduzione della giornata lavorativa (“lavorare meno, lavorare tutti”), l’autoproduzione e la riduzione dei consumi, abbiamo bisogno di andare a lavorare, ci scontriamo con la precarietà e abbiamo il timore che i soldi che ci vengono versati in contributi non li vedremo mai; ma quando chiamiamo un elettricista o andiamo dal barbiere, chiediamo la ricevuta fiscale? Abbiamo il coraggio di spendere 20 euro in più o di rinunciare a qualche consumo – magari superfluo – scegliendo di pagare “il giusto” e premiare chi paga le tasse e contribuisce a sostenere le scuole, gli ospedali e il nostro sistema previdenziale? Scegliamo di orientare i nostri consumi verso chi paga le persone rispettando i diritti? Se scopriamo che il pub dove andiamo regolarmente paga i suoi baristi in nero, siamo disposti a cambiare per andare in un posto dove magari la birra costa 0,50€ in più ma dove la legalità è di casa? E se quei 50 centesimi in più fossero un problema sareste disposti a far massa critica con altre persone e chiedere insieme un prezzo più basso e/o competitivo?!Non cadiamo nel qualunquismo del “tutti rubano, tutti se ne fregano…”. Alzi la mano chi è disposto a comprare dell’olio da un gruppo di acquisto solidale pagandolo 3-4 euro in più al litro, invece di quello della grande distribuzione che, seppure prodotto in Italia, è ottenuto da olive che vengono da fuori l’Europa, mentre i nostri contadini sono allo stremo! A tutti coloro che ritengono come noi che la finanza sta distruggendo l’economia reale e le banche siano istituzioni corrotte e spesso immorali chiediamo: dove avete posto i vostri risparmi? Avete pensato di investirli nell’economia reale, nelle banche etiche o in mille altri luoghi dove non saranno oggetto di speculazione? Certo, non avremo il 3-4% di interesse come promettono (e probabilmente mantengono) alcune banche on-line… vi siete chiesti cosa se ne fanno dei vostri soldi?Anche noi, che nella vita di tutti giorni siamo presi dalle nostre difficoltà, speranze e mille impegni, vorremmo che la politica desse risposte ai nostri problemi. Ci piacerebbe vedere nei programmi politici come punti fondamentali diritti, ambiente, lotte alle speculazioni, alle mafie e tutti coloro che impediscono alle persone di poter realizzare il diritto a vivere senza patimenti e liberi di poter perseguire la propria felicità. Dopodiché, se questo non accade, dobbiamo imparare dalla frase di Gandhi “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Le cose possiamo cambiarle anche noi dal basso e subito senza chiedere niente a nessuno (senza per questo rinunciare al nostro diritto di manifestare e urlare la nostra rabbia se necessario). Domani forse inizia un altro giorno di proteste. Ma possiamo anche provare a informarci di più, cambiare le nostre abitudini e costruire un nuovo futuro a partire da noi stessi e dalle nostre scelte. Ora!(“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo! Una nostra riflessione sulle recenti manifestazioni di protesta”, lettera-appello a cura del Circolo Mdf di Torino, pubblicata dal sito del Movimento per la Decrescita Felice il 12 dicembre 2013).Cari concittadini (lavoratori, studenti, pensionati, disoccupati…) giustamente stufi e al limite della sopportazione, condividendo la preoccupazione di chi è sceso in piazza ed evitando considerazioni personali sul colore delle manifestazioni (fermo restando il rifiuto della violenza, aspetto che vogliamo ribadire), vorremmo solo condividere alcune riflessioni con voi. Siamo pienamente in sintonia con le motivazioni alla base della protesta (corruzione e sbando della classe politica, globalizzazione, finanza e mercato selvaggi e senza limiti che strangolano il piccolo commercio locale, etc); riteniamo, tuttavia, che un’alternativa migliore debba partire da noi e che il cambiamento di questo sistema economico deve essere attuato con azioni concrete.
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Traditi dal sistema: ma questa è rabbia, non rivoluzione
I forconi, il vuoto e la rivoluzione. La protesta sale? Buon segno: vuol dire che «molti italiani cominciano a capire che devono difendersi», dice Giulietto Chiesa, che però aggiunge: «Molti parlano di rivoluzione, senza sapere cos’è una rivoluzione: e questo non è bene, perché poi subentra la delusione». Quella dei “forconi”? «Per ora è solo protesta: senza una guida, senza obiettivi ben definiti». Verranno «inesorabilmente» momenti successivi, che richiederanno «obiettivi comuni ben meditati». Non mancano «furbi e mestatori che già stanno pensando di usare la protesta e di stravolgerla ai loro fini e nei loro interessi»? Ovvio, perché «in politica il vuoto non esiste: qualcuno cerca sempre di riempirlo. Tutto dipende da chi ci riesce». Concorda Marco Bersani, di Attac, sempre su “Megachip”: queste istanze di ribellione sono facilmente pilotabili, proprio perché «non portano con sé alcuna intuizione di futuro diverso, ma solo la drammatica rabbia per l’insopportabilità del presente».Mentre i movimenti per i beni comuni «hanno da tempo interiorizzato il conflitto di sistema, ovvero vogliono cambiare la società e lo fanno a partire da un conflitto tematico come paradigma (acqua, grandi opere etc.)», la ribellione di questi giorni «è portata avanti dai delusi dal sistema, ovvero da coloro che hanno profondamente creduto che il modello neoliberale li avrebbe tutelati e che oggi si ritrovano la rabbia dell’essere stati abbandonati, senza l’idea che sia possibile un altro modello sociale». Detto questo, per Bersani è obbligatorio cercare di parlare al “popolo” sceso in piazza, «sia perché molti di loro sono accompagnati da una condizione sociale di vera disperazione, sia perché nell’acuirsi del binomio crisi sociale/crisi della democrazia è evidente che le esplosioni di rabbia non possano presentarsi come lineari e compiute», bensì come «moti tanto drastici quanto confusi».Per Bersani, il carattere della protesta dimostra «l’assenza di un vero pensiero rivoluzionario nella società», e ancora una volta «rischiano di gongolare i poteri finanziari: nessuna banca è stata assaltata, nessun obiettivo finanziario è stato messo in campo e si paventa la “marcia su Roma”, non su Piazza Affari». Che fare, dunque? Innanzitutto, serve «una coalizione sociale ampia fra i movimenti per i beni comuni e i diritti». Alleanza oggi ancor più necessaria, «sia perché le singole lotte hanno bisogno di una forza maggiore, sia perché pezzi di società che non reggono più (è successo in questi giorni, ma aspettiamocene altre in forme e modi che non comprendiamo) devono potersi sintonizzare con un percorso di conflitto in atto, ma che abbia il respiro largo e sappia suggerire che all’insopportabilità del presente c’è una possibile risposta collettiva».I forconi, il vuoto e la rivoluzione. La protesta sale? Buon segno: vuol dire che «molti italiani cominciano a capire che devono difendersi», dice Giulietto Chiesa, che però aggiunge: «Molti parlano di rivoluzione, senza sapere cos’è una rivoluzione: e questo non è bene, perché poi subentra la delusione». Quella dei “forconi”? «Per ora è solo protesta: senza una guida, senza obiettivi ben definiti». Verranno «inesorabilmente» momenti successivi, che richiederanno «obiettivi comuni ben meditati». Non mancano «furbi e mestatori che già stanno pensando di usare la protesta e di stravolgerla ai loro fini e nei loro interessi»? Ovvio, perché «in politica il vuoto non esiste: qualcuno cerca sempre di riempirlo. Tutto dipende da chi ci riesce». Concorda Marco Bersani, di Attac, sempre su “Megachip”: queste istanze di ribellione sono facilmente pilotabili, proprio perché «non portano con sé alcuna intuizione di futuro diverso, ma solo la drammatica rabbia per l’insopportabilità del presente».
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Se la Comunità fronteggia il Privante che mangia lo Stato
Non abbiamo la minima idea di come andrà a finire. Ma sappiamo che in questo momento – oggi, non nel futuro – sta volgendo a termine un complesso di vita che potremmo definire nel seguente modo: io studio, in buona parte per imparare a fare un lavoro per qualcun altro; questo qualcun altro ha bisogno di me perché guadagna vendendo le cose che faccio con il mio lavoro; prestando il mio lavoro, guadagno abbastanza soldi da avere un tetto, mangiare e mettere su famiglia – tutte cose che richiedono un minimo di pianificazione e hanno a che fare con un’idea di lunga durata. E anche per pagare le tasse con cui un ente in sé immaginario, una pura astrazione – lo Stato – mi assicura salute, sicurezza, scuola e pensione, e almeno in teoria esegue i miei voleri, espressi attraverso i miei rappresentanti politici. Se ragioniamo in termini di complesso di vita, sostiene Miguel Martinez, ci rendiamo conto della portata storica di questa fase: è «l’agonia dell’intero complesso di vita, strutturato sui poli del Cittadino, del Lavoro e dello Stato».Questo dato di fatto è talmente enorme e pauroso, che – almeno in Europa e soprattutto in Italia – le persone pensanti «tendono a cercare rifugio in discorsi che hanno quasi sempre tre caratteristiche: sono rivolti al passato, sono idealistici e sono paralleli», osserva Martinez in un post su “Kelebeklerblog”, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ci rifugiamo nel passato perché «tutti i riferimenti, sia per indicare ciò che va demonizzato, sia per indicare ciò che va esaltato, si trovano in storie di cui abbiamo perso completamente il senso. Che si tratti della cristianità, del nazismo, dello stato liberale e/o sociale o del comunismo, ogni argomentare sul passato – che pure è un tema affascinante – nasconde false piste su come agire nel presente». Sicché, dalla fine di un complesso di vita deriva un elemento molto concreto: lo svuotamento dello Stato dal basso verso l’alto. «In apparenza, lo Stato non solo ancora esiste, ma alla testa assume forme sempre più totalizzanti: andiamo sempre più verso la costruzione di un unico massiccio dispositivo, cui si è scelto di dare il nome di “Europa”. Sotto questo unico dispositivo, altri reggono più o meno bene. Pensiamo, in Italia, al dispositivo militare; oppure all’immenso sistema Tav, cioè il geniale meccanismo inventato dopo Tangentopoli per permettere alla Fiat, alle grandi cooperative dette “rosse” e alla mafia di continuare ad arricchirsi con i soldi pubblici».Dove emerge invece in modo evidente la dissoluzione dello Stato è in basso: «Ogni giorno, quando ci guardiamo attorno, vediamo un altro pezzo che scompare. Che sia il consultorio di quartiere venduto per fare velocemente quattrini, il vigile che non controlla più, il custode o le saponette che mancano nella scuola, la ludoteca che perde un operatore, l’autobus che non passa più». Di questo passo, «tra qualche mese, gli anziani che si recavano all’Asl a due passi da qui dovranno prendere due autobus per recarsi all’altro capo della città, perché il presidio chiude (il Comune dice che è colpa della Regione, tiè). Sono storie che tutti conosciamo, avvengono lentamente, ciascuna da sola sembra evitabile, attribuibile quindi a un errore o a una debolezza. Ma se un giorno riuscissimo a metterle tutte insieme, vedremmo che se lo Stato negli ultimi anni si è ridotto in alto – poniamo, tanto per sparare qualche cifra del tutto inventata – del 10%, in basso si è ormai ridotto del 50%. E a quel punto capiremo che si tratta di storia, non di questo o quell’assessore».In questo vuoto, secondo Martinez si inseriscono due attori, il Privante e la Comunità Attiva. «Il Privante (meglio noto come “il privato”, con un curioso contorcimento semantico) raramente sostituisce le funzioni dello Stato, salvo in qualche caso come gli asili nido». Di solito, il Privante «occupa gli spazi dello Stato per nuovi fini, come le caserme in dismissione che le finanziarie stanno acquistando per fare grandi alberghi». Succede come con lo Stato: «In alto ci sarà pure un po’ di “crisi”, ma i soldi continuano a girare in quantità che superano la possibilità di consumo degli stessi ricchi. E quindi non mancano i clienti per i grandi alberghi, i ristoranti o le Ferrari. Casomai, nella stessa città, sono i non ricchi la cui sopravvivenza viene minacciata direttamente». Il Privante, come dice il nome, priva: «Esclude gli altri cioè da quelli che in passato erano in qualche maniera spazi sociali». Viceversa, «ovunque in Italia emergono quelle che possiamo chiamare le Comunità Attive, innumerevoli associazioni e soprattutto comitati che nascono ogni giorno». Soggetti collettivi, che «suppliscono alla scomparsa dello Stato» e di fatto «si organizzano da sé e al di fuori delle istituzioni», spesso lavorando «in quello che viene chiamato con disprezzo il “proprio orticello”».In questi anni, le Comunità diventate un elemento sempre più importante: «Credo che ciò spieghi in buona parte lo straordinario risultato ottenuto da Beppe Grillo alle elezioni, una cosa che forse sfugge ai grandi media che trascurano le mille realtà locali di questo paese». Il successo di Grillo, che non ha precedenti nella storia italiana, «è stato costruito totalmente al di fuori e contro i media, grazie a migliaia e migliaia di singole persone, che quasi sempre riflettevano le confuse e varie esigenze dei comitati che ovunque combattevano per cause non rappresentate dalle istituzioni, dalla lotta contro gli inceneritori a quella contro il Tav». Milioni di persone, che «si sono sentite talmente libere dal rispetto dovuto alle istituzioni e ai partiti da scegliere qualcosa di totalmente innovativo nel panorama politico italiano». Secondo Martinez, «c’è una convergenza di forze travolgenti, che sta cambiando in maniera irriconoscibile il mondo. Questa convergenza sta già portando alla crisi lenta ma irreversibile del triangolo Cittadino, Lavoro, Stato, e quindi alla fine di tutto il complesso di vita in cui siamo cresciuti e che forma il nostro modo di vedere le cose».Proprio perché la crisi è convergente, aggiunge Martinez, non possiamo sperare in una “soluzione”: «Si fa benissimo a resistere dove si può – a chiedere un metro in meno di un tunnel in val di Susa e un bidello in più nella scuola elementare». Ma attenzione: «Non illudiamoci che l’argine terrà», perché questa crisi «implica in particolare lo svuotamento, a partire dal basso, dello Stato», a beneficio del Privante e della Comunità Attiva. «Chiaramente, il Privante ha immensi vantaggi. Non solo ha più soldi; soprattutto, i soldi permettono di costruire rapporti contrattuali a lungo termine, molto più solidi dei rapporti affettivi su cui si fonda la Comunità». Per questo, «è più facile che il futuro sia quindi “neofeudale” che comunitario». Per fortuna, però, si va espandendo anche la Comunità, che spesso nasce come struttura di autodifesa contro il Privante. «Le cose cambiano – conclude Martinez – se mi pongo un altro tipo di domanda: in che modo posso fare qualcosa lì dove mi trovo, oggi, con le persone e le storie che ci sono realmente? Qui c’è lo spazio della libertà, in cui le nostre scelte possono contare qualcosa».Non abbiamo la minima idea di come andrà a finire. Ma sappiamo che in questo momento – oggi, non nel futuro – sta volgendo a termine un complesso di vita che potremmo definire nel seguente modo: io studio, in buona parte per imparare a fare un lavoro per qualcun altro; questo qualcun altro ha bisogno di me perché guadagna vendendo le cose che faccio con il mio lavoro; prestando il mio lavoro, guadagno abbastanza soldi da avere un tetto, mangiare e mettere su famiglia – tutte cose che richiedono un minimo di pianificazione e hanno a che fare con un’idea di lunga durata. E anche per pagare le tasse con cui un ente in sé immaginario, una pura astrazione – lo Stato – mi assicura salute, sicurezza, scuola e pensione, e almeno in teoria esegue i miei voleri, espressi attraverso i miei rappresentanti politici. Se ragioniamo in termini di complesso di vita, sostiene Miguel Martinez, ci rendiamo conto della portata storica di questa fase: è «l’agonia dell’intero complesso di vita, strutturato sui poli del Cittadino, del Lavoro e dello Stato».
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Il Grillo no-euro pensa ai giovani: non emigrate, cospirate
Non c’è ancora una ricetta precisa – sull’euro “solo” un referendum – ma il nemico è finalmente messo a fuoco: la vera casta, quella di Bruxelles, che emana i peggiori diktat (Fiscal Compact e pareggio di bilancio) per volontà della Commissione Europea, cioè di un governo-fantasma e onnipotente, che nessuno ha mai eletto. E’ la svolta genovese di Grillo, quella del terzo V-Day: la colpa principale della nomenklatura italiana non è più la sua endemica corruzione, ma l’accondiscendenza criminosa verso il potere “nemico” che ha usurpato l’orizzonte europeo per trasformare l’Unione in una sorta di dittatura, ben decisa a rovinare un paese come l’Italia. Balza agli occhi il dato generazionale della piazza grillina, osserva Anna Lami: il popolo di Grillo ha un’età media di trent’anni, è fatto di giovani coppie, studenti, famiglie con bambini. «A differenza delle primarie del Pd, delle convention berlusconiane e della gran parte dei ritrovi di quello che resta della sinistra anticapitalista, i pensionati nella piazza pentastellata sono una sparuta minoranza».«Chi negli anni a venire porterà sulle spalle il peso dei disastri che questo sistema sta producendo – aggiunge Anna Lami nel suo reportage su “Megachip” – attualmente guarda ai 5 Stelle con speranza». E il V-Day di Genova segna un salto significativo nel profilo politico del movimento grillino: si riducono i meri attacchi alla casta politica e crescono quelli all’Europa dell’austerità e dell’euro. «Si tenta anche di delineare i primi tratti che dovrebbero caratterizzare in positivo la società del futuro (citati gli esempi di Correa, Morales e Maduro), in maniera a tratti confusa, ma indice di un significativo progresso che, probabilmente, Grillo e Casaleggio intendono innestare nella coscienza del “loro” popolo». Parole dirette, emergenze stringenti: povertà («ci sono 8 milioni di poveri, non possiamo continuare a far finta che non esistano»), precarietà occupazionale («c’è troppa gente costretta ad accettare qualsiasi ricatto per sopravvivere»), allargamento del divario tra ricchi e poveri. Napolitano? Merita l’impeachment: «Rimarrai solo», tuona Grillo, rivolto all’uomo del Colle. «La tradirai da solo, l’Italia».“Oltre”, la parola chiave del meeting, è soprattutto «andare oltre il concetto di quest’Europa, a cui non credono più neanche i bambini». In sette punti, ecco delineata la politica estera europea del “populista arrabbiato”. Innanzitutto un referendum sull’euro: «Siamo stati truffati quando siamo entrati, e ora ci troviamo a competere in un mercato schizofrenico». Deve pur esserci un piano-B, perché di questo passo c’è solo il collasso dell’Italia. Gli eurobond, per imporre alla Bce di sostenere i debiti sovrani? «Non li accetteranno mai, ma li chiederemo lo stesso». Come? Stringendo un’alleanza coi paesi mediterranei: «Non dobbiamo parlare con la Merkel, ma con i paesi simili a noi, con problemi simili ai nostri». Cioè Francia, Spagna, Grecia, Portogallo. «Gli economisti mi criticheranno? Sono loro la rovina di questo paese, in cinquant’anni non ne hanno azzeccata una». Il resto sono conseguenze, ben esplicitate. Come il no al pareggio di bilancio: «Vedremo noi se e come sforare, e non per diritto costituzionale. Abbiamo perso la sovranità monetaria, quella economica, quella dei nostri figli». Idem per il Fiscal Compact, da abolire: «Non possiamo accettare un contratto per il quale dovremo tagliare 50 miliardi l’anno per vent’anni». Ai giovani, protagonisti della piazza, un’esortazione forte: «Non dovete emigrare, dovete cospirare!».Non c’è ancora una ricetta precisa – sull’euro “solo” un referendum – ma il nemico è finalmente messo a fuoco: la vera casta, quella di Bruxelles, che emana i peggiori diktat (Fiscal Compact e pareggio di bilancio) per volontà della Commissione Europea, cioè di un governo-fantasma e onnipotente, che nessuno ha mai eletto. E’ la svolta genovese di Grillo, quella del terzo V-Day: la colpa principale della nomenklatura italiana non è più la sua endemica corruzione, ma l’accondiscendenza criminosa verso il potere “nemico” che ha usurpato l’orizzonte europeo per trasformare l’Unione in una sorta di dittatura, ben decisa a rovinare un paese come l’Italia. Balza agli occhi il dato generazionale della piazza grillina, osserva Anna Lami: il popolo di Grillo ha un’età media di trent’anni, è fatto di giovani coppie, studenti, famiglie con bambini. «A differenza delle primarie del Pd, delle convention berlusconiane e della gran parte dei ritrovi di quello che resta della sinistra anticapitalista, i pensionati nella piazza pentastellata sono una sparuta minoranza».
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Macché Renzi, la carta di Napolitano si chiama Draghi
Non fatevi incantare dal talent show per la scalata del Pd: nessuno dei partecipanti ha il cosiddetto x factor. Uno dei tre moschettieri, quasi certamente Renzi, riuscirà a conquistare il partito. Ma per andare al governo dovrà attendere il 2015. Non perché Letta reggerà fino a quel momento. Ma proprio perché Letta, «come il latte, è già scaduto». Mentre alle sue spalle «s’avanza un altro bidone di latta e di governo, con la convocazione del Quirinale in tasca». Secondo Gianni Petrosillo, «sta per rientrare dall’estero il miglior fusto made in Italy che c’è in circolazione», ovvero Mario Draghi. Napolitano? «Tirerà presto fuori questo coniglio dal cilindro, per saldare definitivamente i pezzi del suo piano», che dopo la decadenza di Berlusconi ha di fronte una vistosa accelerazione. Infatti, la maggioranza in Parlamento è cambiata: i numeri più risicati «richiedono l’investitura di un condottiero di maggior spessore e prestigio». Meglio: «Un portatore di grandi interessi internazionali (tanto di cerchie finanziarie che di potenze globali) ai quali deputati e senatori non possono opporsi». Letta? «Non è adatto alla nuova “impresa”».Quindi, prima ancora di vedersela con gli elettori italiani e con «il prossimo burattino di Berlusconi, si tratti di un figlio o di un altro figlioccio», il nuovo segretario del Pd «si troverà davanti uno scenario prefabbricato, puntellato da soluzioni imprescindibili ed impegni ineludibili e già sottoscritti, rispetto ai quali non avrà nessun potere decisionale», scrive Petrosillo in un post su “Conflitti e Strategie”, ripreso da “Come Don Chisciotte”. In altre parole, il futuro segretario Pd «non potrà mettere becco in niente e dovrà limitarsi ad amministrare l’esistente, cioè la devastazione e la desolazione totale». Perché «l’uomo del miracolo», al contrario, cioè «il profeta che sta per approdare sulle nostre coste, ha il nome di un mostro mitologico che sputa fuoco e prescrizioni dell’Ue». A lui, l’uomo che cena a casa di Eugenio Scalfari in compagnia di Letta e dell’uomo del Colle, «toccherà il compito di ingabbiare la nazione secondo i diktat di Bruxelles e di svendere il patrimonio pubblico secondo dettami che provengono da molto più lontano».Il super-curriculum del presidente della Bce «è garanzia di servilismo e sottomissione ai nostri tradizionali padroni, continentali e soprattutto extracontinentali», sostiene Petrosillo, alludendo evidentemente al ruolo-chiave di Draghi all’epoca delle grandi privatizzazioni degli anni ’90 pianificate con la lobby britannica degli “Invisibili” e poi il ruolo di stratega della Goldman Sachs e privatizzatore del sistema bancario italiano. «Tra qualche giorno si aprirà ufficialmente la crisi e i draghi invaderanno i nostri cieli per toglierci tutto quello che abbiamo», continua Petrosillo. «Questa non è una profezia, questa è la soluzione pro-zio-Sam trovata dal nostro sovrano Napolitano». Fantapolitica? «Può essere, ma è sempre meglio farsi trovare preparati dopo quanto successo in questi ultimi miserabili vent’anni». Questa volta «potrebbe trattarsi dell’assalto finale alla nostra sovranità nazionale», ovvero «pene nuove, che si assommano a dolori atavici».Non fatevi incantare dal talent show per la scalata del Pd: nessuno dei partecipanti ha il cosiddetto x factor. Uno dei tre moschettieri, quasi certamente Renzi, riuscirà a conquistare il partito. Ma per andare al governo dovrà attendere il 2015. Non perché Letta reggerà fino a quel momento. Ma proprio perché Letta, «come il latte, è già scaduto». Mentre alle sue spalle «s’avanza un altro bidone di latta e di governo, con la convocazione del Quirinale in tasca». Secondo Gianni Petrosillo, «sta per rientrare dall’estero il miglior fusto made in Italy che c’è in circolazione», ovvero Mario Draghi. Napolitano? «Tirerà presto fuori questo coniglio dal cilindro, per saldare definitivamente i pezzi del suo piano», che dopo la decadenza di Berlusconi ha di fronte una vistosa accelerazione. Infatti, la maggioranza in Parlamento è cambiata: i numeri più risicati «richiedono l’investitura di un condottiero di maggior spessore e prestigio». Meglio: «Un portatore di grandi interessi internazionali (tanto di cerchie finanziarie che di potenze globali) ai quali deputati e senatori non possono opporsi». Letta? «Non è adatto alla nuova “impresa”».
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Pallante: monasteri del terzo millennio, così ci salveremo
Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.Se il regime di Wall Street e Bruxelles impone un nuovo feudalesimo senza più diritti, proprio dal cuore del medioevo Pallante ripesca una lezione dimenticata e attualissima: quella del sistema socio-economico cooperativo. “Monasteri del terzo millennio”, mini-saggio comparso per la prima volta diversi anni fa grazie al “Manifesto”, si ripresenta oggi per i tipi di Lindau in una versione aggiornata, e arricchita di nuovi contributi. Quei “monasteri” non invecchiano, tutt’altro: orto, comunità e fede restano le tre parole-chiave per tornare a respirare, verso un futuro credibile. Sovranità alimentare e cibo per tutti, relazioni sociali collaborative e liberate dalla mercificazione industriale. La “fede” di ieri si traduce oggi in un impianto ideologico che diventa una “contro-narrazione del mondo”. Televisione e pubblicità hanno desertificato il nostro immaginario di neo-schiavi compulsivi, ora frustrati anche dal ritrovarci in bolletta? La lezione dei monaci è chiara: contemplare la bellezza (letteralmente: racchiuderla in un tempio) è un “motore” potente, per animare un’umanità responsabile e vitale, non ostile, capace di produrre economia sana grazie al sistema della mutualità.A un quarto di secolo dal visionario “Comitato per l’uso razionale dell’energia”, fondato insieme a scienziati come Tullio Regge, il fondatore del Movimento per la Decrescita Felice torna a scommettere sui “suoi” monasteri, oggi reincarnati in casali di collina, borgate di montagna, quartieri “solidali”, orti urbani, co-housing, gruppi di acquisto solidale, finanza etica. «La potenza raggiunta dalla megamacchina industriale sta esaurendo gli stock di risorse non rinnovabili ed emette quantità crescenti di scarti», cioè residui liquidi, solidi e gassosi «non metabolizzabili dalla biosfera». Per questo, occorre cominciare a pensare a un “nuovo rinascimento” fondato su modelli economici praticabili e concreti, alternativi e funzionali. Solo «relazioni umane fondate sulla collaborazione e la solidarietà» hanno il potere di «promuovere l’autosufficienza, soprattutto alimentare ed energetica, delle comunità locali». Si comincia dal posto in cui si vive, ma l’obiettivo è il mondo: si tratta di «realizzare forme più eque di redistribuzione delle risorse tra i popoli», in modo da «garantire il futuro delle generazioni a venire», respingendo definitivamente il totem bugiardo della crescita indiscriminata di un valore-spazzatura come il Pil.Rivoluzione dolce, la chiama Pallante, citando Gandhi: «Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo». La crescita incessante della produzione di merci, aumentata in modo esponenziale dalle innovazioni tecnologiche, «ha indotto a confondere il ben-essere col tanto-avere», e a utilizzare come unico indicatore il prodotto interno lordo, «ovvero il valore monetario degli oggetti e dei servizi scambiati con denaro». Così, i beni (quelli veri) sono finiti nel magma su cui galleggiano le merci (comprese quelle usa e getta, senza valore) e «le cose sono diventate più importanti delle relazioni». Scenari più che allarmanti: entro il 2050, il 75% dell’umanità si ammasserà nelle aree urbane, 27 delle quali supereranno i venti milioni di abitanti, e qualcuna i trenta. Risultato: dipendenza totale dai servizi, nessuna capacità di procurarsi cibo. Mai l’umanità è stata così vulnerabile. Milioni di persone (miliardi) lavorano in modo cieco, per servizi alienanti e prodotti di dubbia utilità, che non controlleranno mai. Pallante richiama l’attenzione sui monasteri medievali, vere e proprie “aziende” per comunità autosufficienti, a chilometri zero. «Se il lavoro che svolgi risponde davvero a un bisogno umano, questo attenua il disagio, riduce la fatica e migliora il rendimento, la comunicazione, la qualità della vita».Coi politici, è un dialogo tra sordi: non uno di loro rinuncia a parlare, ancora, di “crescita”. E’ un tragico equivoco: l’impennarsi del Pil è fatto anche di rifiuti, gas di scarico, auto in coda, case-colabrodo non protette dal freddo. Oggi, “crescita” è esattamente l’opposto di “progresso”. In più, ormai anche il mitico Pil sta franando. «Se la causa della crisi è la crescita, tutti i tentativi di superare la crisi rimettendo in moto la crescita sono destinati a fallire: non si può risolvere un problema aggravando le cause che l’hanno generato». La grande eresia della decrescita – ridurre gli sprechi velenosi, per pesare meno sulla Terra e vivere meglio, impedendo alla grande crisi di travolgerci – si sta facendo faticosamente strada, “aiutata” dal disastro che avanza: collasso energetico, climatico, economico-finanziario. Spesso, chi invoca una svolta sovranista e democratica per opporsi all’oligarchia del super-potere trascura il quadro mondiale, vicino all’implosione per raggiunti limiti di espansione e saturazione delle capacità di consumo. Intanto, cresce una foresta silenziosa di individui e gruppi, decisi a resistere ma non ancora rappresentati. Se il “monastero” potesse anche votare, e dotarsi di propri portavoce, probabilmente la “rivoluzione dolce” potrebbe davvero cominciare, col necessario sostegno di politiche strategiche, capaci di rilanciare l’occupazione “utile”: l’unica possibile, quella del futuro.(Il libro: Maurizio Pallante, “Monasteri del terzo millennio”, Lindau, 176 pagine, 13 euro).Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.
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Un Comitato di Liberazione Nazionale contro le euro-tasse
Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.«La tragedia dell’economia attuale, quella del tuo reddito, del tuo mutuo e del futuro di tuo figlio – scrive Barnard nel suo blog – è che una generazione di miserabili economisti prezzolati a suon di parcelle dal Potere ha fatto dimenticare a tutti il Dna dell’economia per l’Interesse Pubblico, quella che veramente creò la ricchezza moderna. Così ci hanno guadagnato quattro porci di speculatori, sulla pelle di milioni». Ed è successo. «Immaginate: è come se Maria De Filippi, il Gabibbo, Jovanotti e Mammuccari ci avessero fatto dimenticare che il Dna della lingua italiana sono Dante, Petrarca, Foscolo, Carducci o Pavese e Moravia – infatti è successo anche questo, e la lingua che parliamo è una cosa abominevole». Barnard cita un economista democratico di 70 anni fa, Michal Kalecki: «Basterebbe ricordare che razza di genio illuminato era costui e che cuore aveva per l’interesse della gente». Meglio si capirebbe che «la penicillina della salvezza delle nostre vite economiche è stata annientata, nascosta, con risultati orripilanti sulla vita di tutti noi».Nel 2013, l’Italia si ritrova un governo «illegittimo», sorretto da un uomo come Napolitano, accusato di “cestinare” la Costituzione. «Il potere deve tornare ai cittadini», dice Barnard, attraverso un nuovo Cln come quello sorto nel 1943. Obiettivo, abbattere il “fascismo finanziario” di Bruxelles. Come? Con una sorta di rivolta fiscale. «Azione numero 1: Il reato di evasione fiscale è abolito. Lo decidono gli italiani per legittima difesa. Evaderemo tasse fino al raggiungimento del 9% di deficit, poiché le identità macroeconomiche dimostrano oltre ogni dubbio che il deficit dello Stato è la ricchezza di cittadini e aziende per la salvezza nazionale. O l’alza il governo (unitamente a un taglio delle tasse), o l’alziamo noi con l’evasione. Vita o morte dell’Italia è in gioco». Un appello che Barnard considera patriottico: «Nel nome della patria e della Costituzione italiana, oggi la salvezza del paese passa per l’evasione fiscale delle tasse dell’Economicidio impostoci dal fascismo tecnocratico europeo».Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.
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Liberarsi dall’euro, non-moneta fraudolenta e totalitaria
La nostra maledizione? Si chiama euro. «Più che una moneta, è un metodo di governo occulto, elitario, illegittimo, autoritario e antidemocratico». Una minaccia «che divide, anziché unire i popoli europei, col terrorismo della miseria (fuori dall’euro) e la promessa della prosperità (dentro l’euro)». Un mito, «falsificato in diverse varianti, a seconda della realtà socio-economica interna di ciascun paese». L’inizio della fine? Lo storico divorzio tra governi e banche centrali, dove queste ultime hanno cessato di fungere da “bancomat” degli Stati per sostenere la spesa pubblica. Di qui le “riforme strutturali” che prevedono stangate fiscali e misure recessive, privatizzazioni dei servizi, devastazione del lavoro con flessibilità, precarizzazione e licenziamenti facili. Era un piano preciso: togliere ossigeno agli Stati, azzoppando le economie democratiche a vantaggio delle élite. Lo spread? «Chiaramente pilotato dalla Bce, come “clava di ultima istanza” per costringere i governi periferici a imporre l’amara medicina».Obiettivo: smantellare lo Stato democratico – garante dei cittadini – per privatizzare tutto, a beneficio di pochi ricchissimi. E tutto questo, osserva Alberto Conti su “Megachip”, grazie a un alibi come il «falso dogma dell’indipendenza della politica monetaria ai fini della stabilità». Così, si è formata l’euro-burocrazia al servizio delle lobby economico-finanziarie, che di fatto si arrogano il diritto d’interpretare il processo di unificazione europea, «falsamente presentato con la persuasiva immagine progressista dei padri fondatori di un sogno, che in realtà si è trasformato in un incubo», soprattutto per paesi come l’Italia. Col maturare della crisi, «l’euro mostra sempre più la sua vera natura di moneta fraudolenta, con la funzione di idrovora della ricchezza pompata dal basso verso l’alto». Ma la cosa peggiore è che questi falsi ideologici «alimentano odio e false contrapposizioni d’interesse tra i popoli, in nome della “competitività nei liberi mercati”, senza mai specificare se fisici o finanziari, in una logica di commistione diabolica dove per salvare gli uni occorre distruggere gli altri».Che l’euro sia una non-moneta, continua Conti, lo testimonia il suo disegno strutturale fin dalla nascita (Maastricht, Bundesbank, Deutsche Bank), i cui esiti nefasti si stanno manifestando dopo poco più di un decennio dalla sua entrata in vigore, precipitati e aggravati dalla crisi finanziaria globale che ha il suo epicentro a Wall Street. Basta un raffronto dell’euro col dollaro – i debiti sovrani europei e quello federale Usa – per capire le analogie e le differenze della “nostra” (si fa per dire) moneta con quella di riferimento globale, cioè il dollaro di Bretton Woods, dal 1971 divenuto «la principale arma di contrapposizione ostile e violenta dell’impero col resto del mondo». Quanto all’euro, «da promessa di simbolo e motore economico dell’Unione Europea», si è presto rivelato essere il suo esatto opposto, cioè «strumento di prevaricazione di pochi sempre più ricchi sulle masse impoverite». Una vera «forza disgregatrice dell’Unione Europea, dopo i primi illusori anni». La catastrofe della periferia, però, è di tali proporzioni da travolgere di seguito anche il centro, che però un risultato lo ha comunque ottenuto: consolidare l’economia della Germania riunificata, “stabilizzando” un alleato strategico degli Usa.«Si pronuncia euro, copyright della Bce, ma si legge “potere della finanza globale neoliberista”», realizzato «attraverso la longa manus di un sistema bancario privatizzato e asservito agli interessi dell’élite, come già le corporation che monopolizzano i mercati fisici e il sistema mediatico che disinforma e addormenta le masse». Dunque, che fare? Abbattere questo “mostro” o riformarlo, mettendolo al servizio dei popoli? Per Conti, «la natura non riformabile di questa sovrastruttura tecno-politica può pur sempre trasfigurare in positivo semplicemente abrogandone la sua caratteristica principale, il totalitarismo progressivamente istituzionalizzato, cioè il fatto di essere una “moneta unica” non nel senso che è comune (10 paesi dell’Ue non l’hanno mai adottata), ma nel senso che non ammette altre valute là dove invece è stata introdotta nel 2000». Tecnicamente basterebbe aggiungere in ogni paese dell’Eurozona una nuova moneta nazionale (Euro-lira, Euro-marco, Euro-pesetas), inizialmente nel rapporto 1:1 con l’euro; la nuova moneta sostituirebbe quella della Bce per la fiscalità e i pagamenti interni al paese, lasciando all’euro la funzione di pagamento nelle transazioni tra paesi diversi. Decisivo il rapporto dei cambi: andrebbe aggiornato periodicamente «sotto il controllo di un nuovo Parlamento Europeo, finalmente dotato della dignità di un vero governo di competenza strettamente confederale, che governa la Bce collegialmente».Questa misura, per avere il successo sperato e traghettare l’Europa fuori dalla crisi, dovrebbe essere accompagnata da un decalogo di cambiamento radicale. Mai più cessioni improprie di sovranità nazionale, a cominciare da quella monetaria interna. Mai più obbedienza cieca, sotto ricatto, ai diktat del circo della finanza globalizzata. Mai più salvataggi pubblici dei crack degli speculatori privati, grandi o piccoli. Mai più la primazia del profitto privato sulla difesa del lavoro. Mai più il contrasto alla recessione con misure recessive. E mai più libera circolazione di merci e capitali contro gli equilibri e gli interessi leciti dell’economia locale. Inoltre, aggiunge Conti, bisognerebbe bloccare gli attacchi speculativi eterodiretti alla valuta nazionale, impedire che i “debiti sovrani” finiscano fuori controllo. Mai più interferenze delle lobby, le grandi mafie che oggi dettano ai governi le misure da infliggere ai cittadini. Obiettivo possibile, a patto che risorga lo Stato democratico come “attore dell’economia”, con «funzioni di stimolo e di controllo sistemico». Dalla dignità dello Stato dipende quella dei cittadini, quindi la democrazia: serve «una forte volontà politica» per globalizzare i diritti, verso un futuro di pace che ci liberi dall’incubo.La nostra maledizione? Si chiama euro. «Più che una moneta, è un metodo di governo occulto, elitario, illegittimo, autoritario e antidemocratico». Una minaccia «che divide, anziché unire i popoli europei, col terrorismo della miseria (fuori dall’euro) e la promessa della prosperità (dentro l’euro)». Un mito, «falsificato in diverse varianti, a seconda della realtà socio-economica interna di ciascun paese». L’inizio della fine? Lo storico divorzio tra governi e banche centrali, dove queste ultime hanno cessato di fungere da “bancomat” degli Stati per sostenere la spesa pubblica. Di qui le “riforme strutturali” che prevedono stangate fiscali e misure recessive, privatizzazioni dei servizi, devastazione del lavoro con flessibilità, precarizzazione e licenziamenti facili. Era un piano preciso: togliere ossigeno agli Stati, azzoppando le economie democratiche a vantaggio delle élite. Lo spread? «Chiaramente pilotato dalla Bce, come “clava di ultima istanza” per costringere i governi periferici a imporre l’amara medicina».