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Archivio del Tag ‘Paolo Romani’

  • Pd e Forza Italia sono finiti: i loro elettori non torneranno

    Scritto il 28/3/18 • nella Categoria: idee • (6)

    Berlusconi è tecnicamente finito: incassato il “no” dei 5 Stelle, sperava di far eleggere Romani al Senato con l’aiuto di Renzi, per poi varare un governo Salvini protetto dall’astensione del Pd. «Un esito del genere della battaglia dei presidenti di Camera e Senato non era lontanamente prevedibile, e il Cavaliere ha fatto di tutto per aggravare la sua posizione», riassume Aldo Giannuli. Salvini e Di Maio «avevano già un accordo alle spalle e hanno reagito alla melina del Cavaliere con brutalità», Salvini votando in prima battuta la Bernini (e con essa, l’illusione del Cavaliere di essere ancora lui il “regista del centrodestra”). «Berlusconi ha perso la testa dichiarando rotta la coalizione, ma ci son volute poche ore per spiegargli che non era cosa che potesse permettersi, perché avrebbe accelerato le nuove elezioni che l’avrebbero visto (e lo vedranno) fatto a pezzi», aggiunge Giannuli. Salvini è comunque quello con più voti, ha più probabilità di tirare dalla sua “Fratelli d’Italia” ed essere il rivale dei 5 Stelle in caso di elezioni, «ma soprattutto ha un vantaggio di 40 anni su Berlusconi e può anche aspettare 4-5 anni per una rivincita, Berlusconi no». Il Cavaliere può “suicidarsi” correndo da solo o in tandem con l’altro sconfitto, Renzi. Invece, 5 Stelle e Lega «andranno avanti come carri armati verso il loro governo di scopo per una nuova legge elettorale e nuove elezioni-plebiscito in autunno».
    Nonno Silvio resterà solo, profetizza Giannuli: ha continuato a muoversi come se fosse ancora lui il condottiero del centrodestra, «mentre i suoi alleati semplicemente lo ignorano e pochissimi cortigiani continuano ad attorniarlo confermandogli tutte le illusioni: ormai sembra la caricatura di Hitler nel bunker che dà ordini a divisioni inesistenti». Non sta meglio il suo dirimpettaio Renzi, «che continua a sognare improbabili rivincite», cominciando con l’idea di «liberarsi delle sue minoranze». In caso contrario, cioè col Pd unito, nuove elezioni – secondo Giannuli – potrebbero far crollare il partito sotto il 12%. Ma nessuno sembra rendersene conto: «A volte le illusioni sono indistruttibili», scrive Giannuli, ricordando – da storico – che i nostalgici della monarchia italiana fecero un partito che, dopo un momentaneo e modesto successo nel 1953 (40 deputati) finì con appena 6 seggi nel giro di dieci anni. E’ la stessa fine che rischiano di fare Forza Italia e il Pd. «Non riescono ad accettare di non essere più partiti “sovrani” (cioè capi di coalizione) e di essere diventati partiti “cadetti” (cioè “cespugli” minori di fiancheggiamento) e sognano una cosa che non esiste: che gli elettori che li hanno “traditi” tornino, dopo questa momentanea “scappatella”. Non hanno capito niente».
    «Può darsi che i 5 Stelle e la Lega deludano e perdano i consensi appena presi – e ci sono ottime ragioni per pensare che questo possa accadere – ma gli elettori che li hanno abbandonati probabilmente voterebbero nuovi partiti, forse sceglierebbero quelli più estremi ora esistenti, forse si asterrebbero o preferirebbero il suicidio: tutto, ma non il ritorno alle basi di partenza». Pd e Forza Italia si mettano l’anima in pace, insiste Giannuli: sono defunti. «Il problema è che ogni partito ha una sua “formula base”, che include l’area sociale di riferimento e il suo ordinamento, la soluzione organizzativa e la catena di comando, la cultura politica, l’area di possibili alleanze più o meno allargata, i punti di forza, l’insediamento territoriale». Quando questa formula crolla, «la crisi investe contemporaneamente diversi suoi componenti, non c’è niente da fare: il partito è da buttare via». Per assurdo, aritmetica alla mano, a Pd e Forza Italia converrebbe (si fa per dire) fondersi in un nuovo “partito della “nazione”. «Potrebbero chiamarlo Als, Alleanza Limoni Spremuti». E’ davvero la fine, il capolinea: signori, si scende.

    Berlusconi è tecnicamente finito: incassato il “no” dei 5 Stelle, sperava di far eleggere Romani al Senato con l’aiuto di Renzi, per poi varare un governo Salvini protetto dall’astensione del Pd. «Un esito del genere della battaglia dei presidenti di Camera e Senato non era lontanamente prevedibile, e il Cavaliere ha fatto di tutto per aggravare la sua posizione», riassume Aldo Giannuli. Salvini e Di Maio «avevano già un accordo alle spalle e hanno reagito alla melina del Cavaliere con brutalità», Salvini votando in prima battuta la Bernini (e con essa, l’illusione del Cavaliere di essere ancora lui il “regista del centrodestra”). «Berlusconi ha perso la testa dichiarando rotta la coalizione, ma ci son volute poche ore per spiegargli che non era cosa che potesse permettersi, perché avrebbe accelerato le nuove elezioni che l’avrebbero visto (e lo vedranno) fatto a pezzi», aggiunge Giannuli. Salvini è comunque quello con più voti, ha più probabilità di tirare dalla sua “Fratelli d’Italia” ed essere il rivale dei 5 Stelle in caso di elezioni, «ma soprattutto ha un vantaggio di 40 anni su Berlusconi e può anche aspettare 4-5 anni per una rivincita, Berlusconi no». Il Cavaliere può “suicidarsi” correndo da solo o in tandem con l’altro sconfitto, Renzi. Invece, 5 Stelle e Lega «andranno avanti come carri armati verso il loro governo di scopo per una nuova legge elettorale e nuove elezioni-plebiscito in autunno».

  • Magaldi: cari Di Maio e Salvini, tocca a voi sfidare Bruxelles

    Scritto il 27/3/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».
    Di Maio e Salvini potrebbero imboccare «una strada coraggiosa, coerente con quello che gli elettori hanno loro chiesto». Ovvero: «Tener ferme certe posizioni rispetto ai gestori di questa Unione Europea e di questa Eurozona». Attenzione: sarebbe davvero un’impresa «titanica, eroica», contro la quale infatti «si stanno già muovendo molte forze per sterilizzare qualunque istanza innovativa». Se Lega e 5 Stelle terranno duro, dice Magaldi, il Movimento Roosevelt (da lui presieduto, con accanto un economista come Nino Galloni) è pronto a fornire supporto, in termini di risorse, idee e know-how. Il punto centrale, ovviamente, è proprio «la volontà politica di inaugurare un nuovo corso». Si può sperare che accada davvero qualcosa di buono? Magaldi “promuove” a pieni voti l’economista Alberto Bagnai, candidato dalla Lega: «Credo sia una delle persone migliori elette in questo Parlamento. E’ vero, aveva profetizzato il crollo dell’Eurozona (che non è crollata), forse mancandogli una completa visione delle forze politiche e metapolitiche, palesi e occulte, che fanno in modo che l’Eurozona perduri, al di là del fallimento economico ben evidenziato da Bagnai». In ogni caso, il professore «è un eccellente post-keynesiano: ha una visione lucida, sa bene in cosa va criticata l’Eurozona e sa demistificare i dogmatismi che hanno puntellato il paradigma neoliberista nella versione europeista, quindi sarebbe senz’altro un eccellente ministro».
    Magaldi propone un approccio laico e pragmatico, per non sprecare l’esito delle urne e le grandi aspettative espresse dagli elettori. Uno sguardo disincantato, a cominciare dalle nuove presidenze di Camera e Senato. «Un affronto a Berlusconi, la nuova presidenza del Senato? Errore: la Casellati era stata individuata da tempo, ben prima che scoppiasse la pantomima dello scontro con Salvini», rivela Magaldi. «Come al solito, nel “back office” si decidono cose che poi vengono rappresentate in termini teatrali, a beneficio dell’opinione pubblica. L’elezione della Casellati non crea la minima difficoltà a Berlusconi, che ha invece iniziato a mettere “a riposo” alcuni personaggi ormai inadeguati». Elisabetta Casellati è una berlusconiana di ferro, «probabimente anche più gestibile di Paolo Romani». Tutt’altro che sconfitto, il Cavaliere: «Da tempo Forza Italia vuole ringiovanire i testimonial e puntare sulle donne». Le dichiarazioni a caldo contro Salvini? «Solo teatro». La neoeletta, in realtà, era la vera candidata fin dall’inizio. «Credo che gestirà il Senato senza infamia né lode. Del resto il suo predecessore è stato Grasso: non è che queste cariche trasformino i ronzini in purosangue. Semmai – insiste Magaldi – in questo asse tra 5 Stelle e Lega che ha portato all’elezione di Casellati e Fico c’è una chance: declinare un paradigma diverso, nel rapporto con l’Europa e l’economia, riguardo al benessere di milioni di italiani. Vedremo».
    Certo, «Berlusconi gioca su più tavoli, come al solito». E nel teatrino inscenato dopo la bocciatura di Romani, ampiamente prevista, è riuscito a dire tutto e il contrario di tutto, nel giro di 24 ore. Il Cavaliere «non vuole il “partito unico” del centrodestra, che ormai sarebbe egemonizzato dalla Lega, e adesso giura di fidarsi di Salvini, a cui lascia semmai l’onere del tradimento dell’alleanza». Ma non è neppure quello, il problema: il vero scoglio, per Magaldi, è la disponibilità del Movimento 5 Stelle a convivere con un Berlusconi ancora abbastanza “visibile”, nell’eventuale intesa governativa con il centrodestra. Quanto ai grandi vecchi, l’ultimo passaggio parlamentare ha regalato l’ennesimo minuto di gloria mediatica all’ineffabile Napolitano. «Ha avuto la responsabilità degli ultimi (pessimi) governi italiani, e l’ha scaricata sugli altri – come se lui fosse stato nell’Empireo – ergendosi come al solito ad accusatore che punta il dito, con atteggiamento ierocratico. Ineffabilità e, come al solito, indisponibilità all’autocritica, pur con l’amarezza di aver sbagliato anche lui le previsioni sull’esito delle sue manovre degli anni scorsi».
    Napolitano? «Un avversario, di cui non condivido nulla», dice Magaldi. «Gli riconosco una grande capacità di durata: è un uomo che ha vissuto sempre per il potere, che ha cambiato mille volte ideologia apparendo sempre granitico nel sostenere le idee che, di volta in volta, cambiava». Gli si può augurare lunga vita, «se non altro per meditare sui suoi tanti errori, sulla sua incorenza e sulle conseguenze così negative, per l’Italia, che il suo operato ha prodotto». Desta comunque ammirazione, aggiunge Magaldi, la sua capacità di stare in scena: «E’ un altro grande teatrante, al pari di Berlusconi. Dietro il teatro, però, c’è una sostanza spregiudicata e indifferente al copione – purché, appunto, ci sia la scena». L’ultima partita persa da Napolitano probabimente si chiama Matteo Renzi: è il vero, grande perdente del 4 marzo. «Si è sconfitto da solo, in modo stolto, con una vocazione al “cupio dissolvi” sin dai tempi del referendum costituzionale: la sua strampalata coerenza non aveva contenuti tali da passare alla storia. E anche dopo – aggiunge Magaldi – ha continuato a insistere su una narrazione astratta, non realistica, del tipo “va tutto bene, madama la marchesa”. E’ stato vittima di se stesso: convinto di aver ben governato, pensava che il popolo italiano avrebbe dovuto riconoscerlo».
    Certo, i 5 Stelle e la Lega hanno saputo senz’altro convincere un elettorato mobile, che prima aveva creduto nella narrativa renziana. Uno tsunami da cui lo stesso Berlusconi esce fortemente ridimensionato, come “capostipite” dell’infelice Seconda Repubblica, il cui ultimo epigono è stato proprio Renzi. «Con la differenza che Berlusconi ha sette vite (come i gatti) e quindi potrà ancora recitare un ruolo, mentre Renzi subirà un’inevitabile resa dei conti nel Pd». E anche adesso, invece di fare autocritica ammettendo i propri errori, «si propone dinnanzi a tutti come una sorta di bambino malmostoso che si porta via il pallone perché gli hanno segnato troppi goal». Oggi il Pd è fuori gioco «per colpa di Renzi, accecato dalla sventura che lui stesso ha prodotto per insipienza e arroganza». Per dire: poteva giocare di sponda, fin dall’inizio, coi 5 Stelle. E invece manca un leader, nel Pd sequestrato da Renzi, che si è circondato di mezze calzette: «Renzi ha eliminato dei catafalchi, ed è stato il suo unico merito: i “rottamati” erano anche peggio di lui, pur avendo almeno una fisionomia politica». Non resta che il deserto, per ora: «Nessuno in vista, a quanto pare, che sia capace di ergersi sugli altri e tentare una rotta diversa».
    Un naufragio, quello del centrosinistra, che coinvolge anche i sindacati: «Anacronistica la battaglia sull’articolo 18, che tutela solo chi già lavora». La sfida, oggi, sta nel creare lavoro per chi non ce l’ha: e lo si può fare, insiste Magaldi, costituzionalizzando il diritto al lavoro. «In un mondo che non ha mai prodotto tanta ricchezza come oggi, e che però la gestisce malissimo (mai come oggi è grande il divario tra i pochi ricchi e i moltissimi cittadini in difficoltà economiche) si può tranquillamente rendere costituzionale il diritto al lavoro». Il reddito di cittadinanza? «Una misura che in Italia che si può adottare». Ma il cittadino italiano, aggiunge Magaldi, «deve nascere con il diritto a poter lavorare in base alle proprie capacità». Come? «Bisogna istituire un’alta autorità per la piena occupazione, che in base alla formazione e al talento dirotti i futuri lavoratori in ambito pubblico o privato: nessuno può essere lasciato senza un lavoro». Magaldi ci crede: «Sarebbe una misura rivoluzionaria e al tempo stesso social-liberale, coerente con l’economia di mercato, capace di assicurare prosperità al sistema nel suo complesso». Ottimismo: «Prima o poi vinceremo», scommette Magaldi, che pensa al nuovo partito democratico-progressista, il Pdp, da mettere in campo per fare forza al “cambio di paradigma” a cui già il prossimo governo potrebbe inziare a dare corso, se Di Maio e Salvini avranno il coraggio di non piegarsi agli oligarchi dell’Unione Europea.

    Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».

  • Questi complottisti a orologeria, che poi votano la Casellati

    Scritto il 26/3/18 • nella Categoria: idee • (12)

    «Complottisti a orologeria: pensano che la passi sempre liscia, chi opera nell’ombra a spese degli altri. Ma l’arresto di Sarkozy li smentisce nel modo più clamoroso». Un pensiero in controluce, quello che Gianfranco Carpeoro offre all’idomani della caduta dell’ex capo dell’Eliseo: «Un evento che, lo ammetto, mi ha fatto veramente godere», confida il saggista e simbologo, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Sarkozy è un politico pessimo, il peggior esempio di voltagabbana: ha chiesto soldi a Gheddafi e poi lo ha fatto assassinare, ha bombardato la Libia senza l’ok dell’Onu e inoltre ha fatto parte della “Hathor Pentalpha”, superloggia implicata nel terrorismo, a cominciare dal maxi-attentato dell’11 Settembre». Eppure, lo scudo della “Hathor” (fondata dai Bush) non è valso a proteggerlo. «Prendano nota, certi cospirazionisti nostrani che ragionano da orologiai: nel mondo, persino in quello dorato di Sarkozy, c’è anche l’imprevisto, la rovina». Il che non significa che, spesso, il complottismo non abbia ragione: «Un uomo come Eugenio Cefis, il capo dell’Eni dopo Mattei, è morto serenamente nel suo letto, a Montecarlo. In tanti la fanno franca, a quei livelli, dopo aver gestito il massimo potere. Poi però ci sono anche quelli come Licio Gelli, che è pur sempre stato arrestato (in Svizzera) e a cui è stata confiscata la casa, lingotti d’oro compresi».
    In altre parole: esistono, eccome, le grandi piramidi di potere – ma non garantiscono sempre l’impunità. Vale per Sarkozy, ma anche per Gelli, «che pure era legatissimo al generale Giuseppe Santovito, capo supremo dei servizi segreti italiani», all’epoca della strategia della tensione. Spesso il complotto esiste, ma se i complottisti prendono lucciole per lanterne – sostiene Carpeoro – i veri autori della cospirazione restano al sicuro, lontano dai riflettori. «Per esempio: nessuno ha mai meditato sul nome della P2, dove l’iniziale sta per “propaganda”. Discende da un intento iniziale, originario, della massoneria: dare lustro all’associazione, raggruppando in una loggia i “fratelli” particolarmente benemeriti, da esibire: grandi scienziati, intellettuali, banchieri, sindacalisti (come Luciano Lama, che era massone)». Ma le cose poi non sono andate secondo i piani: e nei guai è finita la P2, una loggia coperta. «Che senso ha chiamare “propaganda” una cellula segreta? E perché contrassegnarla col numero 2?». Carpeoro s’è dato la seguente risposta: «C’era già allora un’entità supeirore – la Loggia P1 – e il suo capo era proprio Cefis». Esiste ancora, la P1? «Certo, e gestisce i piani alti del potere. Lo fa in modo indisturbato: tanti complottisti stanno ancora a parlare della P2, mentre la magistratura ormai dà la caccia alla P6. Ecco perché la P1 resta dov’è, senza che nessuno la disturbi».
    Un errore ottico frequente, sempre lo stesso: puntare il bersaglio apparente, mancando quello giusto. Si ripercuote ovunque, anche in politica, dove al posto di Paolo Romani viene eletta presidente del Senato – coi voti dei grillini, per motivi tattici – una personalità come quella di Maria Elisabetta Alberti Casellati, anche lei di Forza Italia, vicinissima al Cavaliere. «I 5 Stelle hanno bocciato la candidatura di Romani per una vecchia storia di poco conto: permise alla figlia di usare il suo telefono, a spese dello Stato. Ma un’altra figlia – quella della Casellati – fu piazzata dalla madre in un ministero», ricorda Carpeoro. All’epoca, aggiunge, i grillini protestarono: assunzione fatta senza un concorso e senza che la candidata avesse i titoli necessari. «Ora invece i 5 Stelle tacciono: perché?». Attenzione: «Prima ancora del giudizio del tribunale, Romani provvide a pagare il conto delle chiamate della figlia», ammettendo la colpa e risarcendo lo Stato. «Dunque, cari grillini, cos’è più grave: qualche telefonata a Copenaghen o lo stipendio che ogni mese paghiamo tuttora alla figlia della neopresidente del Senato?».

    «Complottisti a orologeria: pensano che la passi sempre liscia, chi opera nell’ombra a spese degli altri. Ma l’arresto di Sarkozy li smentisce nel modo più clamoroso». Un pensiero in controluce, quello che Gianfranco Carpeoro offre all’indomani della caduta dell’ex capo dell’Eliseo: «Un evento che, lo ammetto, mi ha fatto veramente godere», confida il saggista e simbologo, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Sarkozy è un politico pessimo, il peggior esempio di voltagabbana: ha chiesto soldi a Gheddafi e poi lo ha fatto assassinare, ha bombardato la Libia senza l’ok dell’Onu e inoltre ha fatto parte della “Hathor Pentalpha”, superloggia implicata nel terrorismo, a cominciare dal maxi-attentato dell’11 Settembre». Eppure, lo scudo della “Hathor” (fondata dai Bush) non è valso a proteggerlo. «Prendano nota, certi cospirazionisti nostrani che ragionano da orologiai: nel mondo, persino in quello dorato di Sarkozy, c’è anche l’imprevisto, la rovina». Il che non significa che, spesso, il complottismo non abbia ragione: «Un uomo come Eugenio Cefis, il capo dell’Eni dopo Mattei, è morto serenamente nel suo letto, a Montecarlo. In tanti la fanno franca, a quei livelli, dopo aver gestito il massimo potere. Poi però ci sono anche quelli come Licio Gelli, che è pur sempre stato arrestato (in Svizzera) e a cui è stata confiscata la casa, lingotti d’oro compresi».

  • La tripletta di Renzi: Italia senza Senato, Unità e Fiat

    Scritto il 15/8/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Renzi pensa molto di sé ma neppure lui avrebbe creduto a un simile colpo: liberare l’Italia negli stessi giorni, del Senato, dell’Unità e della Fiat. Non era facile perché non c’è apparente legame fra i tre grandi scomparsi, una istituzione, un giornale-memoria e una azienda che, da sola, rappresentava e garantiva l’Italia come paese industriale. Non ditemi che mettere insieme le tre chiusure (o partenze per sempre) è solo una trovata polemica. Renzi è bravo, come dicono tutti (chiamandolo continuamente Matteo perché è così giovane, e dandogli ideali pacche sulle spalle) e se si chiude il Senato è solo per una sua decisione (il perché, dovremo estrarlo dalle macerie); se chiude l’“Unità”, ciò che resta di un pezzo glorioso del suo partito, è perché tutto quel passato di altri gli dà noia; se se ne va la Fiat, un esodo unico in Europa e mai accaduto in un grande paese, è perché il suo disinteresse per ciò che non controlla  – o lui o la Boschi – lo innervosisce e, francamente, non gli interessa.
    Nella loro diversa pesantezza e dimensione, tutti e tre gli eventi hanno un loro aspetto non chiaro (e anzi, misterioso) e stupisce che così tanta parte dei media italiani si prestino a celebrare due degli eventi e a ignorare il terzo. Nonostante la memoria corta di un mondo su cui piovono Twitter e hashtag come la cenere dopo Hiroshima, credo che si ricorderà la fine del Senato. Perché non se ne conosce la ragione; perché c’erano cose ben più urgenti da fare; perché ha sradicato in modo rozzo e violento i molti legami, ascendenze e conseguenze nella Costituzione; perché, come ha detto bene, chiaro e al momento giusto, il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani, questa legge porta due firme: quella di Matteo Renzi e quella di Silvio Berlusconi. Lo testimonia un’immagine destinata a restare come quelle dei Marines di Iwo Jima: Maria Rosaria Rossi, di casa Berlusconi, abbraccia Maria Elena Boschi, di casa Renzi, con il furore femminile di poche grandi occasioni della vita.
    La commenta bene, in un desolato e bellissimo testo, sul “Corriere della Sera” (7 agosto) Corrado Stajano: «Perché, ci si chiede, discutere della legge fondamentale della Repubblica in modo così affannoso e dilettantesco, con il ritmo di una tappa a cronometro su pista, tra minacce e blandizie?». Nell’entusiasmo del momento si erano persino dimenticati che Giorgio Napolitano, a un certo momento, avrebbe dovuto diventare senatore a vita. E la Finocchiaro è dovuta correre indietro a inserire un’eccezione per ex presidenti della Repubblica, che restano d’ora in poi i soli senatori a vita. Ma dove? Nel festoso suk di portatori di interessi nominati dalle Regioni.
    Intanto Renzi ha chiuso “L’Unità”. Ma quando mai?, ti direbbero al Nazareno, se ti accogliessero e non temessero che qualcuno gli guardi le carte sul tavolo. “L’Unità”, ti direbbero, ha finito la corsa, punto e basta. Svelto com’è, Renzi non ha neanche perduto tempo a verificare se e come l’organo del Partito Democratico svolge il suo ruolo. Sì, qualche volta avrà notato con la coda dell’occhio, che non era tutto scritto da lui, che non c’entrava, neppure dopo anni di Ds e poi di Pd remissivo e sempre pronto a qualche pacificazione, con la nuova vita insieme, lui e Berlusconi, Berlusconi e lui. Non tutti cambiano radicalmente in una o due assemblee, come i membri di direzione del suo partito. Dopo tutto quel giornale ha mai aperto con grande foto del sorriso fisso sulla non realtà della Boschi o della incompetente e dannosa gentilezza della Madia?
    Diciamo la verità: il giornale stava nei ranghi ma non lo aveva ancora portato in trionfo. E poi, a certe scadenze, veniva fuori con certi ricordi e immagini e voci di cui non senti il bisogno, mentre condividi questa nuova Italia rinnovata e pacificata con Berlusconi. Intanto se i competenti del mondo fanno notare le tue disattenzioni economiche e il rischio grave dell’Italia, sei già circondato di “grandi giornali” italiani detti indipendenti che si occupano di non dirlo. Infine deve avere notato che nessuno, anche tra i più miti redattori dell’“Unità”, era mai stato boy scout. Renzi ha imparato solo la prima parte del celebre motto: “Tutti per uno”. È svelto, e passa subito alla conclusione: chiudere, e farla finita, come gli dice Verdini da un pezzo, con la paccottiglia comunista. La Fiat, che era l’immagine dell’Italia industriale nel mondo e il punto di riferimento per l’industria italiana (se lo fa la Fiat, come fa la Fiat…) si è sfilata con agilità dalle tasse (paga a Londra), dai legami con l’Italia (ha sede amministrativa e legale in Olanda) e dalla produzione (che ha luogo alla periferia di Detroit).
    Di fronte a un evento di tale enormità i politici non c’erano, non al Parlamento di una o due Camere, non al governo. Renzi lavorava a cambiare verso, a cambiare l’Italia, a forgiare le riforme che tracciano qualche solco ma non si sa per dove. Anche perché gli hanno portato a Palazzo Chigi tre immensi gipponi, che sarebbero destinati alla produzione italiana (famosa nel mondo per la Cinquecento, ricordate?). Ma la produzione italiana non esiste. Piani, progetti e investimenti sono stati tenuti fermi. E gli operai della Fiat, noti nel mondo per il loro lavoro, ora sopravvivono in buon numero con la cassa integrazione di questa Repubblica, mentre la Casa Tudor-Marchionne paga al governo inglese. Renzi? Per lui va bene. Il paese gli sembra più fresco, più giovane. Senza Fiat, senza “Unità”, senza Senato, lui ci ha riportati come bambini al mattino di una giornata che ci promette bellissima. Se righiamo dritto, senza ostruzionismi e senza menarla sulla Costituzione.
    (Furio Colombo, “Renzi, la tripletta: via Senato, Unità e Fiat”, da “Il Fatto Quotidiano” dell’11 agosto 2014).

    Renzi pensa molto di sé ma neppure lui avrebbe creduto a un simile colpo: liberare l’Italia negli stessi giorni, del Senato, dell’Unità e della Fiat. Non era facile perché non c’è apparente legame fra i tre grandi scomparsi, una istituzione, un giornale-memoria e una azienda che, da sola, rappresentava e garantiva l’Italia come paese industriale. Non ditemi che mettere insieme le tre chiusure (o partenze per sempre) è solo una trovata polemica. Renzi è bravo, come dicono tutti (chiamandolo continuamente Matteo perché è così giovane, e dandogli ideali pacche sulle spalle) e se si chiude il Senato è solo per una sua decisione (il perché, dovremo estrarlo dalle macerie); se chiude l’“Unità”, ciò che resta di un pezzo glorioso del suo partito, è perché tutto quel passato di altri gli dà noia; se se ne va la Fiat, un esodo unico in Europa e mai accaduto in un grande paese, è perché il suo disinteresse per ciò che non controlla  – o lui o la Boschi – lo innervosisce e, francamente, non gli interessa.

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