Archivio del Tag ‘prima guerra mondiale’
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Abolire le lezioni di storia: i docenti non insegnano niente
Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia ma non la sanno insegnare, e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41, e un imbecille di docente confessava come giustificazione: «Non riusciamo a farli studiare». Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere”, visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa. Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo. Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale. La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale.Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto-che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo? Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Gandhi, Sukarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello Stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge? Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a se stessa da almeno 60 anni. Sì, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre, nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) e il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla Prima Guerra Mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un etto la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie. Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il Sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali, eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina? Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane, l’elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medioevo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico? E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie, ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo. Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoà, ma non sarebbe più urgente e importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente? Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come il terrorismo jhadista.Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di economia, diritto, scienza della politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia e antropologia e, in cambio, una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi unìidea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro; che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo, e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico, dedicando di tanto in tanto qualche cenno di attenzione ai processi materiali. Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno idea di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)? Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.Già sento la risposta: «Dobbiamo rispettare i programmi ministeriali». Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica, ma di quella statale): un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse, è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati. Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi? Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “di tirare quattro paghe per il lesso”, ma se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici”, dal blog di Giannuli del 30 ottobre 2018).Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.
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I periodi di unipolarità? Sono sempre durati solo un attimo
Ai dirigenti, ai politici, agli opinion leader e agli ‘esperti’ americani piace parlare del “momento di unipolarità” e della posizione di “iper-potenza” di cui, nella loro immaginazione, godrebbero nel mondo gli Stati Uniti. Da questa fantasia vengono completamente esclusi tutti i fatti storici ad essa poco convenienti. Il momento unipolare degli Stati Uniti (ammesso e concesso che sia mai esistito) è durato meno di un decennio, dal disfacimento dell’Unione Sovietica, alla fine del 1991, al 15 giugno 2001. Il “momento” degli Stati Uniti è riuscito a malapena ad arrivare alle soglie del 21° secolo. In quel fatidico 15 giugno 2001 si erano verificati due eventi di grande importanza. Primo, il presidente americano George W. Bush aveva tenuto un discorso a Varsavia in cui dichiarava che l’obbiettivo strategico più importante degli Stati Uniti era l’integrazione nella Nato dei tre staterelli baltici, Estonia, Lettonia e Lituania. Nello stesso giorno, Russia e Cina davano vita, insieme ad altre quattro nazioni dell’Asia Centrale, allo Sco, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, la più popolosa e potente organizzazione per la sicurezza internazionale della storia. Quest’anno, lo Sco ha raddoppiato la sua popolazione grazie all’ingresso, in contemporanea, di India e Pakistan, due grandi potenze nucleari con una popolazione complessiva di 3 miliardi di persone, quasi il 40% della razza umana.Con la creazione dello Sco, destinato fin dalle origini a preservare e a proteggere un mondo multipolare dalla dominazione di un’unica potenza, il momento unipolare degli Stati Uniti si è ritrovato morto e sepolto. Questo dato di fatto era stato confermato tre mesi dopo, quando l’attacco terroristico di Al-Qaeda dell’11 settembre 2001 aveva causato la morte di circa 3000 persone. Quel giorno erano morti più americani che durante l’attacco giapponese a Pearl Harbor, nel 1941. George W. Bush avrebbe dovuto essere messo sotto impeachment per la sua grande incapacità. Invece la sua popolarità era salita alle stelle. Pensando che il momento (o l’era) unipolare fosse ancora nel suo pieno splendore, alla fine di quell’anno aveva invaso l’Afghanistan e, meno di due anni dopo, l’Iraq. Gli Stati Uniti sono ancora perennemente impantanati in quelle guerre di cui non si vede la fine. Gli schemi della storia, completamente ignorati dai media, dalla casta degli opinion leader e dal mondo politico americano, questa lezione, invece, ce la insegnano di continuo. Negli ultimi 1500 anni si sono verificati diversi momenti unipolari per quelle grandi potenze che cercavano di dominare il mondo, ma tutte sono collassate nel giro di pochi anni.Quando la Spagna degli Asburgo e i suoi alleati ebbero definitivamente sconfitto la grande flotta del potente Impero Ottomano nella Battaglia di Lepanto, nel 1571, il dominio imperiale della Spagna su tutta l’Europa sembrava assicurato. Ma la Spagna era già invischiata in una rivolta olandese che era iniziata nel 1588. Nei decenni successivi (questa ribellione) si sarebbe rivelata più massacrante degli attuali interventi americani in Afghanistan e in Iraq. Il sogno della dominazione spagnola di Re Filippo II sarebbe stato definitivamente seppellito solo 17 anni dopo Lepanto, nel 1588, con la distruzione dell’Invincibile Armada, la flotta che avrebbe dovuto conquistare l’Inghilterra. Poi era stato il turno della Francia. Il suo dominio sull’Europa sembrava essere stato sancito dalla Pace di Vestfalia, nel 1648. Ma, fra il 1660 e il 1670, Luigi XIV, il re pazzo per la gloria, soprannominato “Re Sole” aveva già ripetuto l’errore della Spagna e aveva impantanato la nazione in una serie di guerre che sarebbero durate quasi mezzo secolo in quelli che ora sono Belgio, Olanda e Germania meridionale. Il momento unipolare della Francia era durato meno di vent’anni.Dopo erano arrivati gli inglesi. Anche dopo aver vinto le guerre napoleoniche contro la Francia, si erano resi conto di non poter dominare il mondo da soli ed erano stati costreti a dividerlo con le assai più conservatrici grandi monarchie d’Europa: la Russia, l’Impero Austro-Ungarico e la Prussia. Nel 1848, i re di Francia, dell’Impero Austro-Ungarico e della Prussia avevano perso molti dei loro poteri o erano stati detronizzati da rivoluzioni popolari e liberali. A quel punto, gli inglesi avevano pensato, proprio come avevano fatto gli americani nel 1989-1991, che fosse finalmente arrivato il loro momento di unipolarità e che sarebbe durato per l’eternità. Il mondo intero avrebbe guardato a Londra per avere guida e saggezza. Non era andata così. Nel 1871, la Prussia, guidata dal suo Cancelliere di Ferro, Otto von Bismarck, aveva unificato la Germania, e sconfitto la Francia, alleata della Gran Bretagna, togliendo in modo umiliante all’Inghilterra ogni possibilità di potere e influenza sull’Europa continentale. Quando gli era stato chiesto che cosa avrebbe fatto se il minuscolo esercito inglese avesse per caso invaso la Germania del Nord, Bismarck aveva risposto che avrebbe mandato la polizia ad arrestarlo. Dopo la Sconfitta della Germania imperiale nella Prima Guerra Mondiale, alla Gran Bretagna era sembrato di poter godere di un altro momento di iper-potere.Gli Stati Uniti con il loro isolazionismo e l’Unione Sovietica [alle prese con i suoi problemi interni] si erano entrambi ritirati temporaneamente dalla scena mondiale. In ogni caso, questa fantasia britannica non era durata neanche fino all’ascesa di Hitler, nel 1933. Due anni prima, nel 1931, il Giappone imperiale aveva occupato la Manciuria, una grossa porzione dalla Cina nord-orientale: i capi militari inglesi erano stati costretti ad ammettere con il Primo Ministro, Ramsay MacDonald, che non c’era nulla che si potesse fare a riguardo. Il momento unipolare della Gran Bretagna era durato solo 12 anni, dal 1919 al 1931. Una volta capiti questi fatti storici, è facile rendersi conto del perché il momento unipolare degli Stati Uniti sia stato anche più breve di quello inglese del 20° secolo, meno di un decennio. Dal 2001 in poi, gli Stati Uniti si sono dissanguati e sfiniti, proprio come avevano fatto la Spagna degli Asburgo, la Francia borbonica e l’Inghilterra post-vittoriana in tentativi inutili, assurdi e ricoli per negare e cercare di opporsi agli inevitabili ricorsi della storia. Questo non dovrebbe sorprenderci, del resto Friedrich Hegel ci aveva avvertito: «L’unica cosa che impariamo dalla storia è che dalla storia non impariamo nulla».(Martin Sieff, “I periodi di unipolarità sono sempre durati solo un momento”, da “Strategic Culture” del 22 settembre 2018, tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Ai dirigenti, ai politici, agli opinion leader e agli ‘esperti’ americani piace parlare del “momento di unipolarità” e della posizione di “iper-potenza” di cui, nella loro immaginazione, godrebbero nel mondo gli Stati Uniti. Da questa fantasia vengono completamente esclusi tutti i fatti storici ad essa poco convenienti. Il momento unipolare degli Stati Uniti (ammesso e concesso che sia mai esistito) è durato meno di un decennio, dal disfacimento dell’Unione Sovietica, alla fine del 1991, al 15 giugno 2001. Il “momento” degli Stati Uniti è riuscito a malapena ad arrivare alle soglie del 21° secolo. In quel fatidico 15 giugno 2001 si erano verificati due eventi di grande importanza. Primo, il presidente americano George W. Bush aveva tenuto un discorso a Varsavia in cui dichiarava che l’obbiettivo strategico più importante degli Stati Uniti era l’integrazione nella Nato dei tre staterelli baltici, Estonia, Lettonia e Lituania. Nello stesso giorno, Russia e Cina davano vita, insieme ad altre quattro nazioni dell’Asia Centrale, allo Sco, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, la più popolosa e potente organizzazione per la sicurezza internazionale della storia. Quest’anno, lo Sco ha raddoppiato la sua popolazione grazie all’ingresso, in contemporanea, di India e Pakistan, due grandi potenze nucleari con una popolazione complessiva di 3 miliardi di persone, quasi il 40% della razza umana.
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Occhio ai “custodi” della democrazia non eletti da nessuno
Dopo il summit Salvini-Orbán (e gli scontri etnici in Germania), Paolo Mieli ha ripetuto sul “Corriere della Sera” che i partiti populisti a caccia di leadership definitiva in Europa sono nulla più che sovversivi «barbari alle porte». Sulle stesse colonne, Sabino Cassese continua a vedere la coalizione di governo italiana come uno scivolo verso la «democrazia illiberale». L’immagine di fondo, cioè la sintesi storico-politica degli argomenti, rimanda puntualmente agli anni Venti e Trenta del secolo scorso in Italia, Germania, Ungheria e Austria, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”. La dittatura (“fascista” e prodromica alla guerra) è sempre in agguato, e si può fare strada senza difficoltà anche fra le urne: ogni suo simulacro più o meno presunto va quindi respinto e combattuto in via pregiudiziale, assoluta, dalla “democrazia legittima”. «E’ lo stesso atteggiamento dei politici, intellettuali e media Usa che da due anni osteggiano “a prescindere” la presidenza di Donald Trump», osserva Berti: l’establishment la dipinge infatti «come un incidente della storia, un pericolo mortale per la democrazia americana», un “mostro” «da annientare al più presto con ogni mezzo (a cominciare dalla via giudiziaria, rispolverando esplicitamente il modello italiano di Mani Pulite)».Salvini e Orbán, nondimeno, hanno dato ennesima sintesi alla loro polemica sull’Europa, incarnandola in un “barbaro” da combattere, anzi da espellere: si tratta del supermassone neo-aristocratico George Soros, finanziere di origine ungherese, noto fra l’altro per il devastante attacco speculativo alla lira italiana del 1992. E’ lui, scrive Berti, ad apparire un attendibile “cosmocrate” dei nostri tempi: un europeo trapiantato a Wall Street per lanciare dalla trincea americana la “guerra mondiale” della globalizzazione finanziaria, «quella che avrebbe brutalmente sostituito – principalmente in Europa – la politica con la tecnocrazia, finendo con l’assegnare all’oligopolio bancario apolide (travestito da “libero mercato”) le leve ultime sui destini degli ex Stati nazionali». Gestore di mega-hedge fund, nonché filosofo e mecenate di fondazioni politico-culturali mondialuste, rivestirebbe dunque con speciale verosimiglianza i panni del “dittatore” contemporaneo: il Grande Fratello di un capitalismo finanziario globalizzato «che non avrebbe più bisogno, come cent’anni fa, di un Hitler o di un Mussolini», dal momento che gli bastano un Obama truccato da progressista e l’ideologia politically correct «per preservare la propria egemonia dopo “l’incidente” del 2008 sui mercati finanziari».Chi è il vero barbaro? E chi può dare veramente del “barbaro” a chi? «Nell’Italia, nell’Europa, negli Usa del 2018 – scrive Berti – il solo porre la questione offre ormai il fianco ad accuse di connivenza con la “barbarie”». Ma la questione sostanziale, aggiunge l’analista, è questa: se il richiamo al primo dopoguerra mondiale è lecito, il rischio massimo risiede nel rifiuto di affrontare i nodi reali posti dalla storia. «Esattamente cent’anni fa l’Europa – dopo che tutti i contendenti continentali avevano più o meno perso la guerra – perse anche la pace, e in molti paesi la libertà, preparando un nuovo e più distruttivo conflitto. Questo – aggiunge Berti – avvenne perché governi ed establishment nazionali gestirono con categorie ottocentesche il dopoguerra, che segnava invece l’inizio del Novecento: sia all’interno dei sistemi-paese che nelle relazioni internazionali». Solo gli Stati Uniti, rileva l’analista, riuscirono ad attraversare il vero momento di passaggio, cioè la Grande Depressione del 1929, «senza stravolgere il loro sistema, e ridisegnando un archetipo di successo della democrazia mista di mercato».Il cambio di paradigma politico-economico del New Deal, sottolinea sempre Berti nella sua analisi, fu comunque drastico almeno quanto brutale fu la Grande Recessione: e sarebbe interessante rivedere chi, in quegli anni, dava del “barbaro” a chi, in America (al Congresso, sui media e nelle università). «Quarant’anni dopo, comunque, il paradigma fu di nuovo rovesciato su scala globale dal thatcherismo-reaganismo: e molti difensori odierni del “legittimismo democratico-liberista” erano fra i supporter del “sano sovversivismo” portato dalla nascente finanza di mercato (l’etichetta mediatica “barbarian at the gates” fu coniata in occasione dell’Opa Nabisco, il primo assalto riuscito da parte di hedge fund e junk bond all’industria tradizionale, alla fine degli anni Ottanta)». E’ in quella transizione “magnifica e progressiva”, continua Berti, che, fra l’altro, tre piccole agenzie private si affermano come decisori sovranazionali del rating, del merito finanziario di chiunque sul pianeta. «Dieci anni dopo il crack Lehman – il suo più clamoroso fallimento tecnico-politico – il rating detta ancora letteralmente legge: i voti delle tre agenzie di Wall Street, le stesse di allora, rimangono parte integrante della regolamentazione bancaria nell’Eurozona». Ma sono sempre più numerosi coloro che, per usare la terminologia di Cassese, denunciano come “mercato illiberale” quello creato dalla globalizzazione e oggi tenacemente difeso dai istituzioni finanziarie “too big” per essere controllabili dalle democrazie.«Roosevelt, il salvatore dell’Europa democratica – ricorda Berti – è stato l’unico presidente Usa ad essere stato eletto quattro volte: una “dittatura democratica” lunga 13 anni, successivamente vietata dalla legge». Gli succedette Eisenhower, che da militare aveva condotto la guerra di liberazione in Europa, e da presidente «governò con la guerra fredda e il terrore nucleare, tollerando inizialmente una “caccia alle streghe” nella politica interna». Kennedy? «Fu assassinato perché lottava per i diritti civili e l’integrazione razziale, ma aveva deciso anche la guerra in Vietnam». La “democrazia (sociale) di mercato” non è mai stata un “tipo ideale” neppure in quella che è considerata la sua patria, dice Berti. «E se deve guardarsi da scivolamenti e corruzioni non può neppure trasformarsi in ideologia né essere tutelata nella presunta ortodossia da custodi autonominati, né divenire arma di scontro politico». Ineccepibile, il ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, nel ricordare – al meeting di Rimini – che l’Italia deve rispettare lo “Stato di diritto europeo”, partecipando al bilancio Ue. Gli fa eco il ministro dell’economia Giovanni Tria, sul rispetto dei parametri Ue per l’adesione all’Eurozona. Ma, aggiunge Berti, «non ha torto neppure chi sostiene che – proprio in democrazia – ogni norma è riformabile, anzi: è fatta per essere riformata. E non può essere imposto, dogmaticamente, un coefficiente numerico fissato un quarto di secolo prima». Il rapporto al 3% fra deficit e Pil? «Non è equivalente al 51% del principio democratico universale scolpito ad Atene 2.500 anni fa». Conmclude Berti: «La democrazia, fortunatamente, è antichissima. E, come sosteneva il “dittatore” britannico Winston Churchill, resta “il peggiore sistema politico, salvo tutti gli altri”».Dopo il summit Salvini-Orbán (e gli scontri etnici in Germania), Paolo Mieli ha ripetuto sul “Corriere della Sera” che i partiti populisti a caccia di leadership definitiva in Europa sono nulla più che sovversivi «barbari alle porte». Sulle stesse colonne, Sabino Cassese continua a vedere la coalizione di governo italiana come uno scivolo verso la «democrazia illiberale». L’immagine di fondo, cioè la sintesi storico-politica degli argomenti, rimanda puntualmente agli anni Venti e Trenta del secolo scorso in Italia, Germania, Ungheria e Austria, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”. La dittatura (“fascista” e prodromica alla guerra) è sempre in agguato, e si può fare strada senza difficoltà anche fra le urne: ogni suo simulacro più o meno presunto va quindi respinto e combattuto in via pregiudiziale, assoluta, dalla “democrazia legittima”. «E’ lo stesso atteggiamento dei politici, intellettuali e media Usa che da due anni osteggiano “a prescindere” la presidenza di Donald Trump», osserva Berti: l’establishment la dipinge infatti «come un incidente della storia, un pericolo mortale per la democrazia americana», un “mostro” «da annientare al più presto con ogni mezzo (a cominciare dalla via giudiziaria, rispolverando esplicitamente il modello italiano di Mani Pulite)».
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Zuesse: Bannon sfida Soros ma non fidatevi, vuole l’Europa
Scrive Eric Zuesse, su “Strategic-culture.org”, che due schieramenti politici – uno guidato da George Soros e l’altro creato dal nuovo arrivato, Steve Bannon – sono entrati in competizione per il controllo politico dell’Europa. Soros ha guidato a lungo i grandi capitalisti liberal americani verso l’egemonia europea, mentre Bannon sta ora organizzando una squadra di miliardari (altrettanto conservatori) per strappare la vittoria ai liberal attraverso la leva del populismo sovranista. Lo scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, sintetizzando la panoramica geopolitica fornita da Zuesse, scrittore e analista statunitense. Bannon contro Soros? Attenzione: «Nessuno di loro è progressista o populista di sinistra», avverte Zuesse. «L’unico populismo che attualmente ogni capitalista promuove è quello della squadra di Bannon. Comunque – aggiunge Zuesse – entrambe le squadre si demonizzano a vicenda, sia per il controllo del governo degli Stati Uniti che, a livello internazionale, per il controllo del mondo intero, opponendo due diverse visioni del mondo: liberale e conservatrice, o meglio globalista e nazionalista». Entrambi dicono di sostenere la democrazia? Sì, ma magari con le rivoluzioni colorate di Soros (Ucraina, Medio Oriente) o le guerre “democratiche” (Iraq) e i “regime change” (Egitto, Tunisia, Libia, Siria).
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Moriranno 6 milioni di ebrei: strana “profezia”, già nell’800
C’è il fatto che noi dobbiamo credere vere tutta una serie di cose, e le dobbiamo credere vere senza porci delle domande, perché alle volte il porci delle domande significa avere dei dubbi, che sono secondo me l’unica vera forma di libertà. Quando Gesù diceva “la verità vi renderà liberi”, non intendeva ciò che gli viene attribuito, sapete, perché se c’è una cosa che rende schiavi è proprio la verità. Guardate tutti quelli che sono convinti di avere una verità: sono schiavi di quella verità, non sono più liberi neppure di provare a pensare diversamente. C’è la verità filosofica, ben diversa da quella teologica, ma ciò che rende veramente liberi è il dubbio. Ed è per questo che chi governa non vuole mai che noi si abbia dei dubbi. Perché se abbiamo dei dubbi poniamo delle domande, così come io adesso porrò alcune domande (stando bene attento cosa dico, per non finire in tribunale). Il più volte ho detto, nelle conferenze, che il discorso dei 6 milioni di ebrei morti nella Shoah era conosciuto dalla seconda metà del 1800 ed era già scritto nelle riviste giudaiche della seconda metà del 1800. Era anche scritto nei all’inizio del ‘900 nei più importanti quotidiani americani, statunitensi e e canadesi, dove si parlava esattamente di 6 milioni di ebrei che stavano morendo o “dovevano” morire nel sud-est dell’Europa.Ora, io non sto mettendo in discussione la Shoah: sto solo ponendo delle domande, che forse sono più pesanti ancora. Perché, sapete, che siano 6 milioni o 5 oppure 600.000, cosa cambia? Voglio dire: se c’è un crimine, quello rimane. Il problema è stabilire chi l’ha veramente voluta, la Shoah: chi l’ha decisa, chi l’ha programmata. Perché sono sempre 6 milioni di ebrei? Ad esempio, il “New York Times” nel 1919 e poi nel 1920 scrive: “In Ucraina, 6 milioni di ebrei sono in pericolo”. E poi: “Sei milioni di ebrei in Ucraina in Polonia hanno ricevuto la notizia che stanno per essere completamente sterminati”. Ma nel 1919 Hitler aveva appena finito di fare la staffetta nella Prima Guerra Mondiale… Nel 1915 leggiamo: “Sei milioni di ebrei in Russia sono perseguitati, cacciati, umiliati, torturati, fatti morire di fame a migliaia, massacrati e oltraggiati, depredati”. Dalla metà del 1800 fino al 1900, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, sono sempre 6 milioni di ebrei. Un popolo che viene massacrato diminuisce di numero: noi conosciamo la storia dei nativi americani, sterminati dai cristiani spagnoli in nome dell’amore di Cristo. La stessa storia: perseguitati, cacciati, umiliati, torturati, fatti morire di fame, massacrati, oltraggiati, depredati. Cioè: se togliamo “ebrei” e ci scriviamo “nativi americani” è esattamente la stessa roba. Solo che sono passati da 80 milioni a 10. E i soli abitanti del Messico sono passati da 20 milioni a 2. Gli ebrei invece rimangono sempre 6 milioni, per 70 anni.Sempre 6 milioni: uno ha diritto di farsi una domanda? Ecco in Rete mi è stato sempre detto pubblicamente che io non ho il diritto di coltivare questa curiosità. Non ne ho il diritto, perché è una curiosità che non deve essere coltivata. Io collaboro con una persona (di cui per ora non faccio il nome, per prudenza) che è una laureata in legge e, in questo momento, sta esaminando circa 5.000 documenti del secolo scorso. Vengono fuori siti ebraici di rabbini dove c’è scritto che è già presente nella Bibbia il fatto che 6 milioni di ebrei dovessero morire per consentire agli ebrei di tornare in Israele. Ed è presente proprio dove si parla del ritorno degli ebrei. Per esempio, nel sito di Solomon Cohen “La nostra agenda giudaica” c’è scritto che «è proprio a causa di questa profezia che noi abbiamo anticipato che 6 milioni della nostra gente devono morire prima che a noi sia permesso di tornare in Israele». Questa roba qui è scritta nel “New York Times” del 6 novembre 1900, quando Hitler aveva da poco ho finito di succhiare il latte. Quindi, ripeto: non sto negando la Shoah, non posso certo essere messo sotto processo per negazionismo. Le fonti scrivono che, nel Levitico, alla parola che significa “ritornerete” manca una lettera, la “vav”, che ha valore numerico 6. E dicono che, siccome manca questa lettera, significa che 6 milioni di ebrei non potranno tornare in Israele.Ora, io non sto dicendo che questa sia una profezia vera (nella Bibbia, le profezie sono costruite ex-post). Ma loro scrivono che 6 milioni devono morire prima che agli ebrei sia concesso di ritornare. E dicono, in base al conteggio numerico “ghematrico” che addirittura la Bibbia contiene la data del ritorno in Israele – il 1948 – dopo che saranno morti 6 milioni di ebrei. Questa cosa qui la fanno addirittura risalire al “Sefer ha Zohar”, cioè il libro dello Zohar o Libro dello Splendore, che è una delle Bibbie della Cabala ebraica scritta del 1200. Un testo molto discusso: per alcuni è una vera cialtroneria, per altri invece è un testo che contiene antica saggezza (è scritto in aramaico antico, come se fosse stato scritto prima). Comunque, quello c’è scritto: l’assenza di quella famosa “vav” nel Levitico indicherebbe che, prima che gli ebrei possono tornare, ne devono morire, scomparire, 6 milioni. Lo scrivono anche nei loro siti. Benjamin Netanyahu, nella “Rivista del Mondo Giudaico”, avverte Putin che l’Iran vuole uccidere 6 milioni di ebrei. La giornalista e intellettuale ebrea Elena Loewenthal, due anni fa, ha scritto sulla “Stampa”: «Finalmente gli ebrei di Israele hanno di nuovo superato i 6 milioni».Allora, mi dico, uno ha il diritto di porsi delle domande e di coltivare delle curiosità, anche se so bene che le risposte a certe domande possono essere estremamente pesanti. Perché vuol dire capire chi è che sulla base di questa profezia, vera o presunta che sia – peggio ancora se è presunta, perché vuol dire che lo si è costruito appositamente. Vuol dire che, sulla base di questo, qualcuno ha deciso che, prima ancora che Hitler nascesse, 6 milioni di ebrei comunque dovevano morire. Sono domande alle quali poi devono rispondere gli storici, certo non io. Però queste cose ci possono aiutare a capire in che mondo viviamo, se 6 milioni di ebrei morti erano il “passaporto” per Israele: un “passaporto” che sarebbe stato previsto già dalla Bibbia, addirittura – o, se la Bibbia non l’ha previsto, hanno fatto in modo di farlo prevedere alla Bibbia. Chi e perché? Questo ce lo devono spiegare loro: io mi limito a leggere le loro fonti. Non so se questa “profezia” sia vera oppure no, ma se non è vera è ancora più grave, perché vuol dire che si è inventata una cosa per metterne in piedi una drammatica. E’ così, dunque, o sono io che faccio ragionamenti da mentecatto? Diciamo che faccio ragionamenti in libertà su argomenti di cui non dovrei parlare. Capite allora che, di fronte a certi discorsi, bisogna veramente avere la mente molto aperta e avere la voglia di porsi delle domande.(Mauro Biglino, dichirazioni rilasciate nell’ambito della conferenza pubblica tenuta a Reggio Emilia il 20 giugno 2018, ripresa su YouTube – minuti 45-58).C’è il fatto che noi dobbiamo credere vere tutta una serie di cose, e le dobbiamo credere vere senza porci delle domande, perché alle volte il porci delle domande significa avere dei dubbi, che sono secondo me l’unica vera forma di libertà. Quando Gesù diceva “la verità vi renderà liberi”, non intendeva ciò che gli viene attribuito, sapete, perché se c’è una cosa che rende schiavi è proprio la verità. Guardate tutti quelli che sono convinti di avere una verità: sono schiavi di quella verità, non sono più liberi neppure di provare a pensare diversamente. C’è la verità filosofica, ben diversa da quella teologica, ma ciò che rende veramente liberi è il dubbio. Ed è per questo che chi governa non vuole mai che noi si abbia dei dubbi. Perché se abbiamo dei dubbi poniamo delle domande, così come io adesso porrò alcune domande (stando bene attento cosa dico, per non finire in tribunale). Il più volte ho detto, nelle conferenze, che il discorso dei 6 milioni di ebrei morti nella Shoah era conosciuto dalla seconda metà del 1800 ed era già scritto nelle riviste giudaiche della seconda metà del 1800. Era anche scritto nei all’inizio del ‘900 nei più importanti quotidiani americani, statunitensi e e canadesi, dove si parlava esattamente di 6 milioni di ebrei che stavano morendo o “dovevano” morire nel sud-est dell’Europa.
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Fusione Bayer-Monsanto: l’inferno che attende l’umanità
In che universo è possibile che a due delle corporations mondiali più moralmente corrotte, Bayer e Monsanto, venga permesso di unire le forze, in quello che promette di essere il prossimo stadio nell’acquisizione delle risorse agricole e farmaceutiche del pianeta?Attenzione, anticipo della trama. In questa horror-story di epiche proporzioni non si trova un Mr. Hyde: c’è solo il Dr. Jeckyll. Come nella sceneggiatura di un horror di David Lynch, la Bayer Ag, famosa per i suoi gas venefici, ha finalizzato (per la cifra di 66 miliardi di dollari) l’acquisizione di Monsanto, la multinazionale agro-chimica che dovrebbe essere sul banco degli imputati nel carcere di Guantanamo e appellarsi al Quinto Emendamento [la facoltà di rifiutarsi di rispondere alle domande], invece di godere dell’equivalente societario di protezione ed impunità per i suoi crimini contro l’umanità. Questi sono i privilegi che derivano dall’essere una corporation trasnazionale al di sopra della legge. Com’era prevedibile, la prima cosa che ha fatto Bayer dopo l’acquisizione di Monsanto, carica com’è di bagaglio extra e irregolarità etiche, è stata quella di dare inizio ad una campagna per il miglioramento dell’immagine. Come un cattivo di Hollywood, che cade in un crogiuolo di acciaio fuso e riappare più tardi sotto un’altra forma, la Monsanto è stata orwellianamente ribattezzata “Bayer Crop-Science Division”, il cui motto è: “La scienza per una vita migliore.”E comunque, la stessa Bayer è uno schermo protettivo ben piccolo per la Monsanto, considerando che lei stessa ha una storia costellata di malpratiche corporative. Oltre al suo ben noto business in rimedi per l’emicrania, questa azienda tedesca ha avuto un ruolo significativo nell’introduzione dei gas venefici sui campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale. Nonostante il divieto all’uso di armi chimiche risalisse alla Convenzione dell’Aia del 1907, l’amministratore felegato della Bayer, Carl Duisberg, che faceva parte di una speciale commissione istituita dal ministero tedesco per la Guerra, sapeva riconoscere un’opportunità di affari, quando ne vedeva una. Duisberg aveva assistito ai primi test con i gas venefici ed era rimasto favorevolmente impressionato dalla nuova, terribile arma: «Il nemico non saprà neanche se una certa area sarà stata irrorata oppure no, e rimarrà tranquillamente al suo posto fino all’apparire dei sintomi». La Bayer, che aveva appositamente istituito un dipartimento per la ricerca e lo sviluppo degli agenti gassosi, aveva continuato a mettere a punto armi chimiche sempre più letali, come il fosgene e il gas mostarda. «Questo fosgene, che io sappia, è l’arma peggiore», aveva rimarcato Duisberg, con uno stupefacente disprezzo per la vita, quasi stesse parlando dell’ultimo tipo di insetticida. «Raccomando caldamente di utilizzare l’opportunità di questa guerra per provare anche le granate a gas».Duisberg aveva coronato il suo demoniaco desiderio. La possibilità di usare il campo di battaglia come laboratorio e i soldati come cavie era arrivata nella primavera del 1915, quando la Bayer aveva inviato al fronte circa 700 tonnellate di armi chimiche. E’ stato stimato che, il 22 aprile 1915 ad Ypres, Belgio, siano state usate, per la prima, volta circa 170 tonnellate di cloro gassoso contro le truppe francesi. Nell’attacco erano morti quasi 1000 soldati e molte migliaia erano rimasti intossicati. In totale, circa 60.000 persone erano morte nella Prima Guerra Mondiale per l’utilizzo, iniziato dalla Germania, delle armi chimiche prodotte dall’azienda di Leverkusen. Secondo Axel Koehler-Schnura, della “Coalition against Bayer dangers” [Coalizione contro i pericoli della Bayer], «il marchio Bayer richiama alla mente, in modo particolare, lo sviluppo e la produzione di gas venefici. Nondimeno, l’azienda non si è mai ravveduta del suo coinvolgimento negli orrori della Prima Guerra Mondiale. La Bayer non ha neanche preso le distanze dai crimini di Carl Duisberg».Questo comportamento pseudocriminale è continuato praticamente fino in tempi moderni. Mike Papantonio, procuratore degli Stati Uniti e presentatore televisivo, aveva parlato di una delle azioni più esecrabili di questa azienda chimica durante il programma di Thomas Hartmann, “The Big Picture”: «Negli anni ‘80 producevano un agente coagulante per emofiliaci chiamato Fattore VIII. Questo agente coagulante era risultato contaminato da Hiv, e poi, dopo il divieto governativo a venderlo qui, lo avevano esportato in tutto il mondo, infettando gente in tutto il mondo. Questa è solo una parte della storia della Bayer». Papantonio, citando il resoconto annuale della Bayer per il 2014, afferma che sull’azienda pendono 32 differenti procedimenti giudiziari in tutto il mondo. Prima di buttare nel gabinetto i vostri prodotti Bayer e tirare lo sciacquone, mettete magari da parte un’aspirina o due, perché la storia è ancora più brutta. Una delle conseguenze dirette del mostro “Baysanto” sarà un’impennata dei prezzi per gli agricoltori, che hanno già dovuto ridurre il loro tenore di vita a causa di costi insostenibili. «Gli agricoltori, negli ultimi anni, hanno già sperimentato aumenti di prezzo del 300% su ogni cosa, dalle sementi ai fertilizzanti, tutti controllati dalla Monsanto», ha riferito Papantonio ad Hartmann. «E tutti gli analisti sono del parere che questi prezzi sono destinati a salire ancora più in alto a causa di questa fusione».E comunque è difficile immaginare che la situazione possa peggiorare ancora per gli agricoltori americani, che attualmente hanno la percentuale di suicidi più alta di tutte le professioni del paese. Il tasso di suicidi per gli americani impiegati in agricoltura, pesca e silvicoltura è di 84,5/100.000 persone, più del quintuplo di quello di tutta la popolazione in generale. Questa tragica tendenza ricorda quella dell’India dove, una decina di anni fa, milioni di agricoltori avevavno iniziato la transizione dalle tecniche di agricoltura tradizionale a quelle che invece utilizzavano le sementi geneticamente modificate della Monsanto. In passato, seguendo una tradizione millenaria, gli agricoltori conservavano, come sementi, una parte del raccolto e lo riseminavano l’anno successivo. Quell’epoca, dove si seguivano gli schemi e i ritmi ben collaudati della natura, è ormai praticamente finita. Oggi, le sementi geneticamente modificate della Monsanto contengono la cosiddetta tecnologia-Terminator, e le coltivazioni risultanti sono sterili e non più in grado di germinare. In altre parole, la società produttrice delle sementi sta letteralmente giocando a fare Dio con la natura e con le nostre vite. Così, gli agricoltori indiani sono obbligati, ogni anno, a ricomprare a costi proibitivi una nuova fornitura di sementi (insieme al pesticida della Monsanto, il Round-Up).Ma il mondo avrebbe dovuto forse aspettarsi qualcosa di diverso dalla stessa azienda che è stata coinvolta nella produzione dell’agente Orange, usato dall’esercito (americano) nella guerra del Vietnam (1961-1971)? Più di 4,8 milioni di vietnamiti hanno sofferto di patologie connesse al defoliante, sparso su vaste estensioni di terreno coltivabile durante la guerra, che ha distrutto la fertilità del terreno e la produzione agricola del Vietnam. Circa 400.000 vienamiti sono morti a causa dall’uso da parte dell’esercito americano dell’agente Orange, mentre milioni hanno sofferto per la fame, le malattie invalidanti e le malformazioni congenite. Questa è l’azienda a cui abbiamo permesso, insieme alla Bayer, di controllare un quarto delle risorse alimentari del mondo intero. Tutto questo porta a chiedersi: chi è più pazzo? Bayer e Monsanto, o noi, la gente? E’ importante ricordare che la fusione Bayer-Monsanto non avviene in un vuoto corporativo. Fa parte della gara delle aziende agrochimiche mondiali per accaparrarsi le risorse alimentari del mondo. ChemCina ha acquisito la svizzera Syngenta per 34 miliardi di dollari, per esempio, mentre Dow e DuPont hanno costituito un loro impero da 130 miliardi di dollari. In ogni caso, nessuna di queste aziende ha un’immagine lorda di sangue come Bayer e Monsanto, un matrimonio diabolico che minaccia tutta la vita sulla Terra.(Robert Bridge, “Un matrimonio infernale: la fusione Bayer-Monsanto segna la condanna a morte per l’umanità”, da “Strategic Culture” del 30 giugno 2018, tradotto da “Markus” per “Come Don Chisciotte”).In che universo è possibile che a due delle corporations mondiali più moralmente corrotte, Bayer e Monsanto, venga permesso di unire le forze, in quello che promette di essere il prossimo stadio nell’acquisizione delle risorse agricole e farmaceutiche del pianeta?Attenzione, anticipo della trama. In questa horror-story di epiche proporzioni non si trova un Mr. Hyde: c’è solo il Dr. Jeckyll. Come nella sceneggiatura di un horror di David Lynch, la Bayer Ag, famosa per i suoi gas venefici, ha finalizzato (per la cifra di 66 miliardi di dollari) l’acquisizione di Monsanto, la multinazionale agro-chimica che dovrebbe essere sul banco degli imputati nel carcere di Guantanamo e appellarsi al Quinto Emendamento [la facoltà di rifiutarsi di rispondere alle domande], invece di godere dell’equivalente societario di protezione ed impunità per i suoi crimini contro l’umanità. Questi sono i privilegi che derivano dall’essere una corporation trasnazionale al di sopra della legge. Com’era prevedibile, la prima cosa che ha fatto Bayer dopo l’acquisizione di Monsanto, carica com’è di bagaglio extra e irregolarità etiche, è stata quella di dare inizio ad una campagna per il miglioramento dell’immagine. Come un cattivo di Hollywood, che cade in un crogiuolo di acciaio fuso e riappare più tardi sotto un’altra forma, la Monsanto è stata orwellianamente ribattezzata “Bayer Crop-Science Division”, il cui motto è: “La scienza per una vita migliore”.
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Attali, rassegnati: è la tua Ue a far vincere Di Maio e Salvini
No, caro Attali, Matteo Salvini non è Marine Le Pen e Luigi Di Maio non è Jean-Luc Mélenchon. E soprattutto l’Italia non è la Francia. Riepiloghiamo a beneficio del lettore: Jacques Attali è uno degli uomini più potenti di Francia (è colui, tanto per intenderci, che si vanta pubblicamente di aver creato dal nulla Macron) ed è uno dei massimi rappresentanti dell’establishment globalista. Ieri era al Salone di Torino, intervistato, ça va sans dire, dal direttore di “Repubblica” Mario Calabresi e, ça va sans dire, ha criticato il (spero) nascente governo Lega-5 Stelle, ricorrendo a due classici dello spin, la demonizzazione personale e l’appello a imprecisati valori condivisi onde evitare lo spettro di una nuova guerra sul Vecchio Continente. Secondo l’illustre ospite francese la possibile alleanza Salvini-Di Maio, «in Francia e in Europa fa lo stesso effetto di un governo Le Pen-Melanchon a Parigi. Per questo l’Italia deve rapidamente rassicurare l’Europa sui programmi di governo. Per evitare di diventare il luogo in cui si scaricano le preoccupazioni del continente», ha affermato, aggiungendo che «siamo tornati al clima che si respirava in Europa nel 1913. Quando le innovazioni tecnologiche sembravano aprire un orizzonte positivo per l’umanità. Vinsero invece i particolarismi e un anno dopo scoppiò la guerra mondiale».Ma queste tecniche non funzionano più. Vede, caro Attali, oggi in Italia nessuno, a parte forse i lettori di “Repubblica”, vede Salvini come la Le Pen, bensì come un leader maturo, dalle idee chiare ma non estremiste, che non indossa più la felpa ma l’abito intero e che per questo è diventato rapidamente il leader di tutto il centrodestra; forte ma rassicurante. E Di Maio non ha proprio nulla in comune con Melenchon, non è un estremista di sinistra, ma il capo di un movimento che è diverso rispetto alle origini (secondo alcuni addirittura fin troppo) e che ha saputo occupare lo spazio lasciato gentilmente vuoto dal Partito democratico. E in Italia nessuno pensa che la difesa degli interessi nazionali rappresenti il prodromo di un nascente nazionalismo imperialista. Siamo seri: oggi né l’Italia né la Francia hanno ambizioni egemoniche e militari, che appartengono a un’altra epoca; nutrono, invece, l’ambizione, anzi la necessità, di costruire un futuro davvero migliore, di ritrovare stabilità economica, di ridare speranza alle nuove generazioni, di smettere di essere soffocati da un’imposizione fiscale stratosferica che negli ultimi 15 anni non solo non è servita a ridurre il debito pubblico, ma ha reso sempre più povero il paese fino a provocare la deflazione salariale.Siccome l’Unione Europea non ha saputo, né voluto, dare ascolto al crescente malessere delle masse, queste oggi cercano legittimamente nuove risposte. Io non so come andranno a finire le trattative, però anche in queste ore Lega e 5 Stelle stanno dando dimostrazione che è possibile una nuova politica. Quando mai si sono visti due partiti che, nella massima trasparenza, trascorrono ore seduti a un tavolo negoziale, non per spartirsi prioritariamente le poltrone, ma innazitutto per trovare concretamente e pragmaticamente soluzioni attuabili, di ragionevole compromesso? Che differenza rispetto a riti criptici come i Patti del Nazareno o alle regole opacissime della gestione del potere a Bruxelles, tanto care ad Attali, che proprio non capisce. Gli italiani guardano alla Lega e al Movimento 5 Stelle proprio perché questa Europa e i leader italiani che l’hanno rappresentata, finora sono stati ciechi, sordi, esasperatamente autorefenziali, come capita da sempre quando le élite al potere smarriscono il senso della realtà. Salvini e Di Maio piacciono non perché sono due pericolosi estremisti ma perché sanno offrire una parola sconosciuta all’establishment: la speranza, la voglia di sevire davvero il proprio paese, di offrire soluzioni davvero alternative rispetto a quelle retoriche e inefficienti reiterate in questi anni.No, caro Attali, Matteo Salvini non è Marine Le Pen e Luigi Di Maio non è Jean-Luc Mélenchon. E soprattutto l’Italia non è la Francia. Riepiloghiamo a beneficio del lettore: Jacques Attali è uno degli uomini più potenti di Francia (è colui, tanto per intenderci, che si vanta pubblicamente di aver creato dal nulla Macron) ed è uno dei massimi rappresentanti dell’establishment globalista. Ieri era al Salone di Torino, intervistato, ça va sans dire, dal direttore di “Repubblica” Mario Calabresi e, ça va sans dire, ha criticato il (spero) nascente governo Lega-5 Stelle, ricorrendo a due classici dello spin, la demonizzazione personale e l’appello a imprecisati valori condivisi onde evitare lo spettro di una nuova guerra sul Vecchio Continente. Secondo l’illustre ospite francese la possibile alleanza Salvini-Di Maio, «in Francia e in Europa fa lo stesso effetto di un governo Le Pen-Melanchon a Parigi. Per questo l’Italia deve rapidamente rassicurare l’Europa sui programmi di governo. Per evitare di diventare il luogo in cui si scaricano le preoccupazioni del continente», ha affermato, aggiungendo che «siamo tornati al clima che si respirava in Europa nel 1913. Quando le innovazioni tecnologiche sembravano aprire un orizzonte positivo per l’umanità. Vinsero invece i particolarismi e un anno dopo scoppiò la guerra mondiale».
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Della Luna: il ruolo del Colle nella colonia-Italia, non da oggi
L’operato degli ultimi inquilini del Quirinale «manifesta che il presidente della Repubblica non è un’istituzione italiana, è un organo dell’ordinamento sovranazionale preposto ad assicurare l’obbedienza dei governi italiani agli interessi stranieri egemoni, cioè al vero sovrano». Parola dell’avvocato Marco Della Luna, autore di saggi come “Euroschiavi”, “Cimiteuro” e “Oligarchia per popoli superflui”. Mattarella avverte Di Maio, ma soprattutto Salvini, che starà a lui – e non ai parlamentari eletti dal popolo – scegliere il nome del futuro premier, nonché di un ministro dell’economia “amico” di Bruxelles e di un ministro degli esteri “non amico” della Russia? Persino ovvio, per Della Luna, secondo cui ormai da molti anni il Quirinale – vedasi Ciampi e Napolitano – tutela soprattutto i grandi architetti del sistema eurocratico. Mattarella? Mette i bastoni tra le ruote ai 5 Stelle e alla Lega, che le elezioni le hanno vinte, ma è stato eletto dal Pd ora sconfitto, attraverso un Parlamento dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale di cui proprio Mattarella era autorevole esponente. Così adesso per Della Luna «abbiamo questa curiosa situazione, grottescamente anti-democratica, in cui i rappresentanti della maggioranza del popolo “sovrano” devono subire volere contrario del presidente scelto dalla controparte politica, nominato da una maggioranza illegittima e non più esistente».Un presidente, scrive Della Luna nel suo blog, il quale «si riserva di approvare, se non anche di designare (con operazioni a porte chiuse e su cui intervengono cancellerie straniere contrarie a una politica indipendente dell’Italia) il capo del governo, i ministri, le stesse linee politiche di fondo, imponendo in particolare l’adesione del progetto europeista e alle regole già prescritte dall’eurocrazia – ossia, compiendo una scelta politica autoritaria al fine di vincolare la maggioranza e il governo, contro la maggioranza parlamentare e del paese, che ha una posizione critica nei confronti di quel progetto e di quelle regole eurocratiche, che vuole rinegoziarle a fondo, alla luce dei loro accertati effetti sfavorevoli soprattutto sull’Italia». Rinegoziare le regole Ue? «Una volontà che il “sovrano” straniero non accetta e che contrasta attraverso il Colle – che non è Italia». Per questo, Mattarella ha ammonito «i rappresentati della maggioranza sovranista degli italiani: sbagliate ad essere euroscettici, dovete smetterla». E se l’Unione Europea si è consegnata alla finanza, divenendo «una centrale di controllo bancario sulle nazioni, di concentrazione del reddito e del potere nelle mani di un’élite finanziaria parassitaria e antisociale, che toglie diritti, lavoro, reddito e sicurezza alla gente», per Della Luna tutto questo avviene «per il tornaconto di una classe finanziaria globale detentrice del vero potere», ben decisa a «riformare la società e il diritto a proprio vantaggio».Un piano che, insiste Della Luna, «i presidenti italiani devono assecondare». Al di là della retorica europeista – alla quale gli elettori non credono più, come si è visto il 4 marzo – la verità è che «l’establishment del paese più forte, cioè della Germania, spalleggiato da qualche complice come la Francia, che riceve benefici, scarica i suoi costi del superamento delle difficoltà sui paesi più deboli». Questa è la realtà dell’Ue: «Certo, sarebbe bello essere uniti e solidali per affrontare le difficoltà, ma le cose non vanno a questo modo». Attenzione: «Ogni presidente lo sa perfettamente, ma deve fingere», sostiene Della Luna. «L’inesistente mondo della solidarietà nei rapporti internazionali e dell’unione che fa la forza è solo una dissimulazione del fatto che gli alti interventi dei presidenti sono atti di obbedienza a interessi di potenze straniere dominanti, come quando uno di essi, violando la Costituzione, ci mandò in guerra contro la Libia e a nostro danno, al servizio di interessi soprattutto francesi; o come quando ci impose Monti e le sue politiche a beneficio dei banchieri speculatori franco-tedeschi». Della Luna lo ripete da anni: «La funzione reale del presidente, nell’ordinamento costituzionale e internazionale reale – ripeto: reale – è quella di assicurare alle potenze dominanti sull’Italia, paese sconfitto e sottomesso, l’obbedienza del governo e delle istituzioni elettive».Affinché possa svolgere quel ruolo, il Quirinale «è posto al riparo della realtà e delle responsabilità politiche, analogamente a come, nelle monarchie, il re è protetto da esse, perché egli è la fonte ultima di legittimazione del potere costituito e degli interessi che esso serve», aggiunge Della Luna. «Solo che nelle vere monarchie il re era protetto nell’interesse del suo paese, mentre nel protettorato-Italia il presidente è protetto nell’interesse del sovrano straniero». Inoltre nelle monarchie contemporanee il sovrano non governa direttamente, e così salva sempre la faccia alla corona in caso di malgoverno. «Esistono persino norme che puniscono penalmente chi attribuisca al monarca la responsabilità politica di atti del governo», puntualizza Della Luna, sebbene il monarca «sovente scelga il primo ministro e indirizzi l’azione del governo mediante vari strumenti, a cominciare dai discorsi pubblici, dalla “moral suasion”, e passando attraverso i servizi segreti e la sua partecipazione al sistema bancario centrale». Nell’ordinamento repubblicano italiano, secondo l’analista, vi sono residui più o meno forti di questa dualità: da un lato istituzioni e poteri protetti, e dall’altro istituzioni e poteri logorabili. «Le istituzioni protette sono principalmente il Capo dello Stato, i magistrati, il sistema bancario; non più il Parlamento (che è composto perlopiù da nominati delle segreterie partitiche, privi di reale e autonomo potere, aventi funzione sostanzialmente di ratificatori e di figuranti)».Capo dello Stato e potere giudiziario sono detti “poteri neutri”, scrive Della Luna, «anche se palesemente non sono neutri né neutrali», mentre le istituzioni «esposte al logorio, al biasimo, alle responsabilità, all’insuccesso, alla verifica dell’efficacia-inefficacia del loro operato, sono invece quelle politiche: il Parlamento e, soprattutto, il governo». Proprio ora il tribunale di sorveglianza ha riabilitato Berlusconi con un mese di anticipo, «così che adesso Silvio può rientrare in Parlamento e scompigliare i giochi». C’è chi vede in questa mossa «un ulteriore intervento politico di un potere protetto e falsamente neutro – quello giudiziario – per boicottare un governo Lega-M5S pericoloso per gli interessi “europei” sull’Italia». Da noi, aggiunge Della Luna, il presidente della Repubblica esercita poteri anche di indirizzo governativo e legislativo, «ma non è esposto a logorio, a delegittimazione, a biasimo, al perdere la faccia, anche quando interviene su chi è esposto». Di fatto, «il presidente non ha mai torto, è sempre saggio: tutti elogiano le sue affermazioni, manifestando ammirazione e consenso per esse, anche quando sono banali o faziose o false». Per converso, «chi si oppone e le critica, appare come un estremista». Il presidente? «Non ha un passato rimproverabile, o lo ha ma non se ne deve parlare. I mass media lo rispettano».E’ un potere palesemente temuto, quello del Quirinale, «dotato di efficaci e poco regolamentati strumenti per delegittimare e mettere in crisi l’azione sia dei poteri politici che degli organi giudiziari», scrive Della Luna. «Strumenti che agiscono sottobanco, senza trasparenza. Strumenti per sostenere o attaccare e per bloccare attacchi e indagini». Il Quirinale «dispone di un numeroso personale (oltre 800 persone) e di molto denaro, che può usare senza specificare per che cosa». Tutti, quindi, si guardano dal criticare il presidente della Repubblica. «Al più si può fingere che le sue parole abbiano significati e implicazioni che non hanno, per tirare la sua autorevolezza dalla propria parte, o per fare apparire le sue esternazioni come meno critiche di quello che in realtà intendono essere». Per Della Luna, in ogni caso, si tratta di caratteristiche storiche: l’operato dei presidenti, sostiene, «non è libero, ma è conseguenza della posizione subordinata e servile che l’Italia ha e ha sempre avuto, sin dalla sua creazione come Stato unitario». Una posizione dalla quale l’Italia «ha ripetutamente e invano tentato di uscire, per elevarsi alla parità con le altre potenze, dapprima mediante le conquiste coloniali, poi mediante la partecipazione alla I Guerra Mondiale, indi alla II Guerra Mondiale».La capitolazione del 1943 «l’ha ridotta a un livello ancora più subordinato», e i successivi tentativi di praticare politiche di interesse nazionale, anche in settori limitati, «sono stati stroncati in vario modo: si pensi a Mattei, a Moro, a Craxi, per finire col “colpo di Stato” del 2011», attraverso il quale l’élite europea ha insediato Monti a Palazzi Chigi tramite Napolitano. Posto che un giorno l’Italia si liberi dall’egemonia straniera e che provi davvero a fare qualche riforma in senso democratico «per porre fine alle interferenze sottobanco di poteri non delimitati», secondo Della Luna «quel giorno l’istituto del presidente della Repubblica andrà sostanzialmente modificato: o ne si fa un capo politico, politicamente responsabile e criticabile, eletto dal popolo – cioè si fa una repubblica presidenziale o semi-presidenziale – oppure ne si fa un notaio senza poteri politici». Ma allora, conclude Della Luna, occorre un sistema elettorale che formi direttamente la maggioranza di governo attraverso un ballottaggio per assegnare il premio di maggioranza, e che elegga pure direttamente il primo ministro attraverso il suo abbinamento alla lista: un cancelliere con facoltà di nominare e revocare i ministri, dettare l’indirizzo di governo e persino sciogliere le Camere. Orizzonti oggi impensabili, in quest’Italia ancora al guinzaglio della concorrenza europea e anti-italiana, che si nasconde dietro l’alibi comunitario di Bruxelles.L’operato degli ultimi inquilini del Quirinale «manifesta che il presidente della Repubblica non è un’istituzione italiana, è un organo dell’ordinamento sovranazionale preposto ad assicurare l’obbedienza dei governi italiani agli interessi stranieri egemoni, cioè al vero sovrano». Parola dell’avvocato Marco Della Luna, autore di saggi come “Euroschiavi”, “Cimiteuro” e “Oligarchia per popoli superflui”. Mattarella avverte Di Maio, ma soprattutto Salvini, che starà a lui – e non ai parlamentari eletti dal popolo – scegliere il nome del futuro premier, nonché di un ministro dell’economia “amico” di Bruxelles e di un ministro degli esteri “non amico” della Russia? Persino ovvio, per Della Luna, secondo cui ormai da molti anni il Quirinale – vedasi Ciampi e Napolitano – tutela soprattutto i grandi architetti del sistema eurocratico. Mattarella? Mette i bastoni tra le ruote ai 5 Stelle e alla Lega, che le elezioni le hanno vinte, ma è stato eletto dal Pd ora sconfitto, attraverso un Parlamento dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale di cui proprio Mattarella era autorevole esponente. Così adesso per Della Luna «abbiamo questa curiosa situazione, grottescamente anti-democratica, in cui i rappresentanti della maggioranza del popolo “sovrano” devono subire volere contrario del presidente scelto dalla controparte politica, nominato da una maggioranza illegittima e non più esistente».
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Lo 007 del Papa che fece affondare due corazzate italiane
E se Ratzinger avesse scelto quel nome pontificale, Benedetto, per alludere al pericolo del nuovo ordine mondiale che incombe sul pianeta? Ipotesi suggestiva, lanciata da una ricercatrice indipendente come Lara Pavanetto, intervenuta nella tramissione web-radio “Forme d’Onda”. Il predecessore omonimo del Papa tedesco, Benedettto XV, eletto al soglio pontificio nel fatidico 1914, passò alla storia come fermo oppositore della Grande Guerra, che di lì a poco avrebbe “rottamato” lo statico assetto europeo incarnato dagli imperi centrali. C’è la paura di un cambiamento teoricamente rovinoso, nel ricorrere dello stesso nome che – a distanza di quasi un secolo – due pontefici decidono di adottare, alla vigilia dello sconvolgimento epocale del mondo in cui vivono? Citando il saggio di Annibale Paloscia “Benedetto fra le spie”, pubblicato nel 2007 da Editori Riuniti, Lara Pavanetto mette a fuoco il ruolo anti-italiano del Vaticano, preoccupatissimo – all’alba del primo conflitto mondiale – che Roma potesse dichiarare guerra all’Austria-Ungheria. Non solo politica: gli studiosi svelano una vera propria “guerra delle spie”, che portò al clamoroso affondamento delle due corazzate Benedetto Brin e Leonardo Da Vinci, vanto della nostra marina militare. Bilancio: oltre 600 marinai uccisi. Presunto regista del doppio sabotaggio: il prelato bavarese Rudolph Gerlach, “cameriere segreto” del Papa e vero e proprio 007 vaticano.L’imponente nave da battaglia Benedetto Brin, lunga 130 metri e dotata di 44 cannoni, cola a picco il 27 settembre 1915 dopo essere esplosa in rada, a Brindisi, trasformandosi in una tomba per 456 uomini, tra marinai e ufficiali. Il referto delle autorità: semplice incidente, causato da uno scoppio nella santabarbara stipata di munizioni. «Si può capire la prudenza del governo», spiega Lara Pavanetto: «Mezza Italia, nel 1915, non aveva ancora digerito la decisione di rompere la neutralità con l’Austria. E tra gli stessi militari, molti ufficiali di alto livello non erano stati così contenti dell’abbandono della Triplice Alleanza». L’immancabile commissione d’inchiesta si affretta ad escludere che l’affondamento della Brin sia dovuto a un attentato. La marina militare rassicura il ministero dell’interno: non c’è stato alcun sabotaggio. Ma il capo della polizia, Giacomo Vigliani, non ci crede. E infiltra agenti segreti nelle reti dello spionaggio austriaco a Zurigo e Lucerna. Uno di questi è un avvocato tarantino, Archita Valente: si dichiara “socialista rivoluzionario” ma in realtà lavora per l’Ufficio Affari Riservati. L’altro infiltrato è un fruttivendolo napoletano, Enea Vincenzi, esperto di controspionaggio con alle spalle attività nell’intelligence della marina militare. In Svizzera, Vincenzi farà il doppio gioco: verrà coperto di soldi e incaricato dagli austriaci di sabotare la flotta italiana. Detto fatto: Vincenzi fa sapere ai tedeschi che l’esplosivo sarà introdotto a bordo dell’altra corazzata, la Leonardo, nascosto in un carico di frutta.La grande nave (quasi 170 metri, armata con 52 cannoni) è in servizio da appena due anni quando salta in aria, il 2 agosto 2016, alla fonda nel Mare Piccolo di Taranto. Altra catastrofe: 249 militari uccisi. Di nuovo, il governo minimizza il disastro e impone la censura alla stampa: «Nessun giornale parlerà del disastro della Leonardo». Nuova commissione d’inchiesta: le conclusioni sono “riservatissime” e firmate da Augusto Righi, maestro di Marconi, formulate solo nel 1917: «Un’azione delittuosa, favorita da un deplorevole stato di abbandono in conseguenza del quale, a bordo, non si vegliava». Al che, polizia e servizi italiani capiscono che Vincenzi ha fatto il doppio gioco. Da allora, l’ex “fruttivendolo” sparisce dalla faccia della terra: forse eliminato dagli italiani come traditore, o liquidato dagli stessi tedeschi (in un campo di detenzione in Boemia?) per non lasciare in vita un testimone scomodo. Affondata anche la seconda corazzata, l’intelligence della marina militare cambia politica e passa al contrattacco, impossessandosi della cassaforte dei servizi austro-tedeschi a Zurigo. Le carte sull’affondamento della Leonardo arrivano nelle mani del futuro diplomatico fascista Pompeo Aloisi: i fratelli Nello e Carlo Rosselli sospetteranno che abbia tenuto per sé la vera storia dell’affondamento della corazzata – realizzato con la complicità di alti gradi della Regia Marina, contrari (come il Vaticano) alla guerra contro l’Austria?A complicare l’intreccio, aggiunge Lara Pavanetto, provvede la vicenda – parallela – dell’altra spia, l’avvocato Archita Valente, «un avventuriero affamato di soldi», sul quale il capo della polizia puntava per scoprire il ruolo del Vaticano, tramite Rudolph Gerlach, nell’organizzazione spionistica che aveva portato all’affondamento delle due corazzate. «Vigliani era convinto che le notizie sulla flotta italiana arrivassero ai tedeschi tramite Gerlach», cioè il dignitario pontificio più vicino al Papa. Giacomo della Chiesa, in arte Benedetto XV, non vuole la guerra contro Vienna. Il capo della Chiesa teme che, crollando l’Impero Austro-Ungarico (grande finanziatore di un Vaticano ancora gelido col governo italiano, dai tempi della Breccia di Porta Pia) possa preludere all’ulteriore indebolimento del potere cattolico. Il diletto Gerlach, tedesco, è il suo uomo di fiducia. Secondo la polizia italiana, è anche un abilissimo uomo di intelligence: “merito” suo se i servizi austro-germanici sono riusciti a colare a picco le due ammiraglie della marina militare. «Va fermato, quel Gerlach». Come? «Usando l’avvocato Valente», pensa Vigliani. «L’avvocato viene spedito a Lucerna per spiare i servizi tedeschi, ma anche lui – sempre a corto di soldi – diventa un doppiogiochista, fino a rivelarsi un anello importantissimo nel caso Gerlarch».Archita Valente, riassume Lara Pavanetto, dovrà foraggiare politici e giornalisti italiani con soldi tedeschi, per amorbidire le loro posizioni verso la Germania e l’Austria: e lo farà tramite i buoni uffici del potentissimo Rudolph Gerlach, l’uomo del Papa, di fatto un decisivo operatore dell’intelligence. Anche stavolta il capo della polizia, Vigliani, intuisce il doppio gioco della spia italiana, ma lascia correre: spera di avvicinarsi il più possibile a Gerlach, scoprendolo “cassiere occulto” di Archita Valente per conto dei tedeschi. Poi però i tedeschi bombardano Venezia, e l’Italia – per rappresaglia – il 25 agosto 1916 occupa e confisca Palazzo Venezia, sede dell’ambasciata austriaca, dichiarando guerra anche alla Germania. «La situazione politica precipita: ma mentre il socialista Leonida Bissolati insulta i cattolici accusandoli di collaborazionismo, di fronte alle vibranti proteste del Papa il governo guidato da Paolo Boselli – al culmine della crisi diplomatica con l’Oltretevere – decide di rivelare segreti militari alla Santa Sede». Pazzesco, ma molto “italiano”: «A Gerlach, uomo dei tedeschi, viene inviato un dossier segretissimo che rivela i feroci contrasti, sulla conduzione della guerra, tra il capo di stato maggiore Luigi Cadorna e una parte del governo».Tensione allentata fino a quando, a novembre, muore l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe. Il Papa osa piangerlo e augurare prosperità all’Austria? Per rappreseglia, la polizia di Vigliani arresta Giuseppe Ambrogetti, strettissimo collaboratore di Benedetto XV, che lo chiama “Peppino carissimo”. «Alla notizia, pare che il Papa abbia pianto per giorni, chiuso nei suoi appartamenti». Nel frattempo è stato arrestato (senza clamore, però) lo stesso Archita Valente. E dopo quello di Ambrogetti, il Vaticano teme che si arrivi all’arresto di Gerlach: per evitarlo, aggiunge Lara Pavanetto, «si avviano trattative segrete tra governo italiano, Vaticano e forse anche casa Savoia». Gerlach riuscirà infatti a mettersi al sicuro, riparando in Svizzera. Finirà sotto processo nel gennaio 1917, ma sarà giudicato soltanto in contumacia. E il doppiogiochista Archita Valente? «E’ riconosciuto colpevole di tradimento – scrive Lara Pavanetto nel suo blog – ma scampa alla fucilazione: gli sono riconosciute le attenuanti di non aver provocato gravi danni alle forze armate, e di aver manifestato sintomi di alterazioni psicopatiche». Viene rinchiuso nelle carceri di Avellino, dove ufficialmente muore nel novembre del 1918. «Tuttavia, quando nel settembre 1935 il vice capo della polizia Carmine Senise trasmette nota alla prefettura di Taranto, dove Valente era nato, con la richiesta di fare accertamenti sulla sua morte, la prefettura risponde al Viminale che nessuna comunicazione era giunta al Comune nel 1918».E come mai Archita Valente era finito nel carcere di Avellino, considerato un luogo infernale? In prigione, scrive Pavanetto, «Archita riceveva giornalmente la visita della bella moglie Elvira Pesapane, che ogni mese riceveva un assegno mensile di 250 lire dal Vaticano: un sussidio illimitato». Ovvero: «Il Vaticano pagava ad Archita Valente il suo silenzio sul coinvolgimento di alti prelati della Santa Sede nelle operazioni di spionaggio condotte da Gerlach?». Il suo decesso – che per il Comune di Avellino è avvenuto il 6 novembre 1918 – non è stato comunicato al tribunale né procura, cui spettava anche di disporre l’eventuale autopsia. «Nemmeno la locale questura comunica la morte della spia alla direzione generale della Ps, che pure l’aveva avuta alle sue dipendenze». Le circostanze di quella morte sono tutt’oggi oscure, aggiunge Lara Pavanetto, anche perché la documentazione del carcere di Avellino anteriore agli anni Venti è andata perduta. «Sappiamo però che la morte di Archita Valente generò una particolare attenzione nelle autorità ecclesiastiche, dalle quali ricevette un trattamento speciale». Il corpo di Archita Valente, infatti, «sarà seppellito non in terra comune, ma nella cappella del Carmine, tra i marmi di uno dei più antichi monumenti sepolcrali del cimitero di Avellino».Il sepolcro apparteneva alla parrocchia del Carmine, la più importante di Avellino, «per l’altissima devozione con cui era venerata dagli avellinesi la Madonna del Carmine». Accoglieva tombe con i resti di alti prelati o di laici che si erano distinti per opere di carità e per donazioni alla Chiesa. Altra anomalia: «Nei registri della parrocchia si conservano i dati sui lasciti dei cittadini che hanno avuto il privilegio di una tomba nella chiesa madre o nella cappella del Carmine, ma non c’è alcun riferimento all’inumazione di Archita Valente». Qualcuno dal Vaticano «doveva essere per forza intervenuto direttamente, perché era un caso eccezionale che fosse stata concessa a un condannato la sepoltura in una cappella parrocchiale tra i benemeriti della Chiesa». Un caso che ricorda da vicinissimo quello di Enrico De Pedis, il “Renatino” della Banda della Magliana, ritenuto responsabile di sequestri di persona, traffico di droga e affari con Cosa Nostra: assassinato in un regolamento di conti e poi sepolto nella basilica di Sant’Apollinare in Classe a Roma, a fianco della tomba di un cardinale. «Nel caso di De Pedis, l’autorizzazione fu data dal cardinale Poletti, in considerazione delle opere di bene fatte dal bandito. Il che conferma che in questi casi assai rari, le scelte sono fatte dall’alto».Allo stesso modo, continua Lara Pavanetto, «si può presumere che la Santa Sede avesse riconosciuto ad Archita Valente la benemerenza di non aver tradito». Ma non è tutto: «C’è anche chi pensa che in realtà fosse stata orchestrata una finta morte della spia, vista la strana destinazione di un ‘nevrastenico’ in un carcere durissimo». In effetti, dal carcere di Avellino c’era stato qualche caso di evasione, con la complicità di agenti di custodia. «Certo è che ancora nel 1943, vi fu qualcuno al ministero dell’interno che si chiese che fine avesse fatto realmente Archita Valente: uno scrupoloso funzionario si era forse accorto che il fascicolo della spia non era mai stato aggiornato con la data della morte». Il Viminale chiese notizie alla prefettura di Taranto e alla questura di Roma. Ad oggi il mistero non è stato risolto. E si può comunque osservare che «determinati accadimenti nella storia italiana si ripetono, significativamente», conclude Lara Pavanetto, illuminando la vicenda della “doppia spia” che lavorò con Gerlach, lo 007 del Vaticano, coinvolto nella rete di spionaggio che portò all’affondamento di due corazzate italiane. Tifava per l’Austria, il Papa, mentre i soldati italiani morivano come mosche sul Piave e sul Carso. Temeva che, con Vienna, crollasse anche la Santa Sede e il mondo che rappresentava. Aveva paura che si instaurasse un nuovo ordine mondiale, Papa Benedetto. Dimostrava di temerlo anche Ratzinger, quasi cent’anni dopo, nell’adottare il suo stesso nome?E se Ratzinger avesse scelto quel nome pontificale, Benedetto, per alludere al pericolo del nuovo ordine mondiale che incombe sul pianeta? Ipotesi suggestiva, lanciata da una ricercatrice indipendente come Lara Pavanetto, intervenuta nella tramissione web-radio “Forme d’Onda”. Il predecessore omonimo del Papa tedesco, Benedettto XV, eletto al soglio pontificio nel fatidico 1914, passò alla storia come fermo oppositore della Grande Guerra, che di lì a poco avrebbe “rottamato” lo statico assetto europeo incarnato dagli imperi centrali. C’è la paura di un cambiamento teoricamente rovinoso, nel ricorrere dello stesso nome che – a distanza di quasi un secolo – due pontefici decidono di adottare, alla vigilia dello sconvolgimento epocale del mondo in cui vivono? Citando il saggio di Annibale Paloscia “Benedetto fra le spie”, pubblicato nel 2007 da Editori Riuniti, Lara Pavanetto mette a fuoco il ruolo anti-italiano del Vaticano, preoccupatissimo – all’alba del primo conflitto mondiale – che Roma potesse dichiarare guerra all’Austria-Ungheria. Non solo politica: gli studiosi svelano una vera propria “guerra delle spie”, che portò al clamoroso affondamento delle due corazzate Benedetto Brin e Leonardo Da Vinci, vanto della nostra marina militare. Bilancio: oltre 600 marinai uccisi. Presunto regista del doppio sabotaggio: il prelato bavarese Rudolph Gerlach, “cameriere segreto” del Papa e vero e proprio 007 vaticano.
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Paolo Rumor: un potere segreto ci domina da 12.000 anni
Un’entità clandestina, sinistra perché invisibile. Segretamente dominante, e molto antica: vecchia di millenni, addirittura. «Mi addolora, aver scoperto l’esistenza di un’Europa nascosta e parallela: interviene nella politica e anche nella cultura, condizionando il nostro mondo». E’ qualcosa di proto-storico, quasi eterno: oggi, attraverso i suoi emissari, questa entità fantasma «agisce accorpando fattori monetari e produttivi, di cui paghiamo le conseguenze sulla nostra pelle», come si è visto nella débacle dell’ultimo decennio. «La distruzione dell’equilibrio monetario europeo è frutto di queste persone». Una cupola misteriosa di origine antichissima: addirittura 12.000 anni. Paolo Rumor la chiama, semplicemente, “la Struttura”. Risalirebbe alla notte dei tempi, nel territorio che vide fiorire la civiltà sumera e poi quella egizia. Ne parlò a suo padre, Giacomo Rumor, l’esoterista e politico francese Maurice Schumann, tra i fondatori del gollismo: gli rivelò, per iscritto, l’esistenza plurimillenaria della “Struttura”. Una conferma viene dal cardinale Montini, futuro Papa Paolo VI e amico di Giacomo Rumor, coinvolto dal Vaticano nella gestazione dell’unità europea per bilanciarne l’esuberante componente massonica.Nomi che ricorrono: il padre di Paolo Rumor era cugino del più celebre Mariano Rumor, esponente della Dc e per 5 volte primo ministro italiano. Lo Schumann menzionato, invece, non ha nulla a che vedere con l’altro Schuman (sempre francese, ma con una sola “enne” nel cognome), cioè l’eurocrate Robert, considerato – insieme al connazionale Jean Monnet – tra i padri fondatori dell’Ue. La notizia? Questo potere oligarchico si considera discendente di una filiera ininterrotta di dominatori, lunga qualcosa come 12 millenni. E’ la verità, piuttosto scioccante, contenuta nel saggio “L’altra Europa”, edito da Panda. Libro che Paolo Rumor ha scritto con l’aiuto del politologo Giorgio Galli, grande conoscitore del ruolo occulto dell’esoterismo nella politica, e dell’architetto Loris Bagnara, studioso dell’archeo-astronomia egizia della piana di Giza. La tesi: un’unica piramide di potere si “passa il testimone” attraverso le epoche, all’insaputa dei popoli che governa – ieri per mezzo di sovrani e condottieri, oggi più prosaicamente attraverso i politici, il più delle volte inconsapevoli del “grande gioco”. Una visione che fa impallidire l’élite “feudale” denunciata da Paolo Barnard, risalente “soltanto” al medioevo, o l’intreccio delle potentissime Ur-Lodges messe clamorosamente in piazza da Gioele Magaldi.«Il progetto iniziale non era di unire l’Europa ma il bacino del Mediterraneo, dove allora si era sviluppata la civiltà», premette Paolo Rumor nella lunga intervista concessa a Fabio Frabetti ai microfoni di “Border Nights”. Tutto nasce dopo la morte del padre, Giacomo Rumor, nel 1981. Il figlio era al corrente del lavoro “diplomatico” condotto dal genitore quarant’anni prima. Brillante avvocato e fervente cattolico, impegnato nella Resistenza, Giacomo Rumor era stato coinvolto nel gruppo di studi promosso dallo stesso presidente americano Roosevelt per preparare l’Europa antifascista del dopoguerra. Erano incontri discreti, spesso clandestini: «Mio padre andava e veniva da Vienna o dal Sud della Francia viaggiando sotto falso nome. In tempo di guerra può sembrare pazzesco, eppure dovevano aver trovato un sistema per evitare controlli». Giacomo Rumor entra in stretto contatto con Maurice Schumann, futuro segretario di Stato francese, che lo mette a parte della verità indicibile. Rumor ne rimane scosso: «Mio padre era un cattolico convinto, e come tale provava fastidio per l’esoterismo», racconta il figlio. La componente esoterica era evidente in Schumann, e a Giacomo Rumor non piaceva. «In effetti dopo un po’ mio padre ha rinunciato all’incarico, rendendosi conto che l’Europa nasceva con un consistente lascito massonico».A Simone Leoni, della rivista “Fenix”, Paolo Rumor riassume l’origine (sconcerante) del libro. «Mio padre non aveva intenzione di pubblicare gli incartamenti in suo possesso, né di rendere noto ciò che aveva conosciuto», premette. «Riteneva che il pubblico non fosse in grado di accettare ciò che lui era venuto a sapere dai suoi privilegiati interlocutori francesi». In sostanza, Giacomo Rumor «pensava che il mondo non fosse ancora maturo per sostenere l’impatto emotivo che possono provocare gli eventi storici reali, quelli mai divulgati al pubblico». Poi, però, all’inizio deglo anni ‘90, Paolo Rumor si accorge che molti indizi stanno ormai venendo a galla, e quindi decide di pubblicare «gran parte di ciò che possedevo». E aggiunge: «Mi sono sentito liberato da un peso che mi gravava sulla coscienza: quello di trattenere notizie che in definitiva appartengono alla collettività e alla storia».Forme di unità continentale sono state l’Impero Romano e poi il Sacro Romano Impero. Ma, secondo Rumor (in base alle carte di suo padre, ottenute da Schumann) l’attuale Unione Europea sarebbe figlia di un progetto molto più antico: il primo disegno organico, scrive, è databile nel II secolo dopo Cristo. Ma risalirebbe in realtà a una determinazione stabilita addirittura attorno al 10.000 avanti Cristo. Ufficialmente, ricorda Rumor, il moderno progetto-Europa è nato dal Mouvement Européen francese, nei primi decenni del 1900. Ma è stato “incubato” da un cenacolo esclusivo del ‘700, l’Ordine delle Ardenne (o di Stenaj), a sua volta risalente al potere imperiale di Roma. La “Struttura” descritta nel libro «non risulta possedere un nome definito», spiega l’autore: «Si maschera dietro altre compagini associative, dinastiche e religiose». Nell’elenco custodito da suo padre, «figura risalire fino al 136 dopo Cristo, ma si parla di un’antecedenza molto maggiore». In altre parole: «Possiamo ritenere che essa esistesse anche durante il periodo romano e alessandrino, evidentemente con scopi diversi da quello prettamente ufficiale, cioè l’unificazione del bacino mediterraneo, in quanto a quel tempo era stata di fatto raggiunta tramite la dominazione romana».Nello scritto che Schumann consegnò a Giacomo Rumor verso la fine degli ani ‘40, «si enunciava un’antecedenza della cosiddetta “Struttura” al decimo millennio avanti Cristo». E’ precisa anche l’ubicazione dell’entità di potere, «centrata prevalentemente nel basso corso del Nilo, nel Golfo Persico (ma in aree oggi sommerse), nel Golfo di Cambaj, a Galonia Laeta, nel “continente di Colba” (non identificabile) e in altri siti di incerta collocazione». Sono dunque così remoti, gli antenati del grande potere oggi alle prese con il “nuovo ordine mondiale” globalista? L’idea di un “nuovo ciclo storico”, spiega Paolo Rumor, «trae origine da concezioni simili, proprie della religione e della visione cosmica dell’antico Egitto dinastico o di altre civiltà del Mediterraneo». L’autore ritiene che vi siano «reali e precise coincidenze tra la collocazione dei siti e la descrizione degli eventi di cui parlano gli incartamenti di monsieur Schumann». Coincidenze peraltro «avvalorate dalla ricerca paleografica avvenuta negli ultimi anni».Le cartografie conservate da Rumor «descrivono la derivazione della prima compagine organizzata in modo civile della storia». E’ la stessa dinamica illustrata nel saggio “Dominio” dall’intellettuale triestino Francesco Saba Sardi: la nascita dell’attuale modello di potere, con l’avvento del neolitico e la scoperta dell’agricoltura, da cui l’inedita necessità di controllare militarmente territori coltivabili. E’ allora che, insieme alla guerra, nasce la figura del re-sacerdote, il detentore di conoscenze supeirori su come ottenere i raccolti. Nascono anche altri soggetti sociali, assenti tra le popolazioni nomadi del paleolitico: i servi, contadini e soldati. I loro compiti: coltivare i campi, conquistarli, difenderli. Nasce, in altre parole, questo potere – configurato in forma di dominio, per la prima volta nella storia dell’umanità. Una dinamica che il libro di Paolo Rumor – inseguendo i primordi del supremo potere in forma di casta – mappa con precisione, «a partire dal noto sito di Menfi o dalla collina rocciosa ove è ubicata la Sfinge, alla periferia del Cairo odierno, fino alla sua precedente collocazione lungo gli originari siti fluviali del Tigri e dell’Eufrate, nell’Iraq meridionale, e all’interno di quello che adesso è il Golfo Persico e che, precedentemente, in un periodo che si aggira sull’8000 avanti Cristo, era ancora una pianura abitabile, non sommersa dal mare».In quest’ultima zona, tra le spiagge dell’Iraq e quelle dell’Iran, si sarebbe formato il primo nucleo che avrebbe fatto da culla alla società cui apparteneva la “Struttura” vera e propria, prima che il mare, invadendo le coste, costringesse i proto-Sumeri a spostarsi nella Mesopotamia interna e poi in Egitto. Ne parla anche Graham Hancock in “Civiltà sommerse”, edito da Corbaccio. «Ritengo che la storia dell’Egitto arcaico – dice Rumor – racconti, nella versione del mito, l’evoluzione della specie umana più di ogni altra civiltà antica». Il mito del “nuovo ciclo storico” si è poi “travasato” con mille affluenti nella cultura delle epoche posteriori, fino ai tempi moderni (dall’uomo nuovo del comunismo all’antropologia odierna della plebe globalizzata senza più diritti). «Non sarebbe la prima volta che, cercando il mito, si raggiunge la realtà», dice Paolo Rumor. Lo stesso Mauro Biglino, autore di una rilettura letterale della Bibbia, ricorda che solo grazie alla sua fede nelle pagine dell’Iliade il tedesco Heinrich Schliemann giunse a scoprire le rovine di Troia.Tornando al francese Schumann e alla storia della “Struttura”, Paolo Rumor tratteggia un network potentissimo e invisibile, fatto di uomini politici ed esponenti del mondo della cultura, ricercatori scientifici e archeologi, etnologi, antropologi. Ma anche uomini di Chiesa e personaggi delle più disparate etnie. Nel ‘900, la maggior parte dei leader del network-fantasma è di estrazione francese, inglese e germanica. «Mano a mano che si arretra nel tempo – spiega Rumor – l’elenco contempla una prevalenza francese», mentre, continuando a ritroso, «nel periodo greco-romano la componente etnica è quasi esclusivamente ebraica». L’elenco di Maurice Schumann termina all’inizio dell’era cristiana, ma attenzione: «Esiste un secondo elenco, solamente enunciato a mio padre e non consegnatogli – aggiunge Paolo Rumor – che contiene l’ascendenza dei nominativi fino all’epoca di inizio della “Struttura”», nel decimo millennio avanti Cristo. Diecimila anni dopo, nel libro di Paolo Rumor, compare il fatidico termine “Illuminati”. «E’ usato per descrivere un gruppo o categoria di persone di stirpe giudaica, vissute in Palestina in un periodo antecedente il 136 dopo Cristo». Lo stesso termine, aggiunge l’autore, indica persone vissute anche nel basso Nilo, nello stesso periodo. Coincidenze?Si chiamano infatti “illuminati” anche i re pre-dinastici, probabilmente capi tribù egizi risalenti a prima del regno di Menes, cioè il sovrano che unificò i diversi territori tribali intorno al 3100 avanti Cristo ed eresse la sua capitale, Menfi. Sempre intervistato da Leoni per “Fenix”, Rumor prova a spiegare i possibili, vertiginosi collegamenti tra la valle del Nilo e i palazzi di Bruxelles. L’ambiente esoterico-politico che si era occupato delle prime fasi dell’Europa unita, premette, condivideva «la particolare convinzione di far parte di una consorteria la cui linea ininterrotta affondava asseritamente le proprie origini nell’antichità più remota», quella del Mediterraneo del 10.000 avanti Cristo. Che intenzioni aveva, quell’élite-ombra, cent’anni fa? In teoria, diceva di voler creare «una sorta di umanità nuova, diversa da quella dei secoli precedenti», lontana dagli orrori bellici del ‘900. Sulla carta, un’umanità «ispirata a criteri di fratellanza e ad un’etica civica rinnovata», verso «un mondo migliore». In realtà, la “Struttura” si è nascosta molto bene nei gangli istituzionali: interferisce nei maggiori eventi economici scavalcando gli Stati, come sappiamo. Quello che sbalordisce è leggere che questa entità era presente già nell’antichità.Secondo i documenti presentati da Rumor, intorno ai due secoli posti a cavallo dell’era cristiana, l’oligarchia-fantasma costituiva “un diffuso movimento non conformista”, «fortemente orientato in termini religiosi» ma al tempo stesso «vocato ad azioni militari per la salvaguardia della propria identità». All’epoca, aggiunge l’autore, la centrale di potere era collocata nella Giudea sotto la dominazione romana. Ma attenzione: verso la metà del primo secolo, la “Struttura” «ha subito una violenta scissione al suo interno, ad opera di agenti infiltrati dagli occupanti militari». Una buona parte del movimento, continua l’autore, è andata a originare «quella che poi diventerà l’organizzazione cristiana delle origini». Il Cristianesimo, dunque, come “format” politico creato da metà dell’élite, inizialmente unita. «Invece, la parte rimasta fedele alle proprie origini ideologiche e storiche ha continuato ad operare come prima, mimetizzandosi in una proliferazione di fazioni e società segrete», fino ad assumere un indirizzo comune all’interno del continente europeo.Ricapitolando: «L’ambiente politico che ha dato impulso all’Unione Europea appartiene ad una “consorteria” che, asseritamente, fa risalire sé stessa alla prima organizzazione sociale nata nell’Egitto protostorico attorno al diecimila avanti Cristo. Ne esistono le prove, anche se io stesso – ammette Rumor – ho fatto fatica a prestar fede ad un tale enunciato, che cozza contro la maggior parte delle conoscenze scientifiche in materia». Ma la vera e propria novità, «che l’ambiente esoterico-politico dei costruttori dell’Europa nasconde», secondo Rumor «consiste nel fatto che quello che noi oggi conosciamo come Cristianesimo è nato in realtà come un’opera di dissimulazione, frutto del tentativo di reazione della Roma antica a quell’ambiente giudaico che si tramandava l’antichissima consorteria». Paolo Rumor invita i lettori a consultare libri come “Il mistero del Mar Morto”, di Michael Baigent (Feltrinelli), giusto per orientarsi meglio fra tornanti storici sfuggenti. Altro consiglio di lettura: le opere di Theodor Reik sull’interpretazione della Bibbia e dei miti antichi, compresa l’origine del Cristianesimo dall’Ebraismo. «Queste letture dovrebbero “corazzare” ciascuno dal non cadere nella trappola dei miti moderni e dalla superficiale interpretazione delle opere religiose in genere».Quanto alla spiazzante rivelazione de “L’altra Europa”, fino ai misfatti degli attuali oligarchi, Rumor si esprime con la massima franchezza anche a “Border Nights”: «Uno dei modi per dirigere la politica internazionale è proprio l’accentramento delle proprietà monetarie e della produzione. Oggi l’economia conta più della politica: ed è in questo modo che agisce questa organizzazione segreta, diffusa a livello mondiale». E’ lecito chiamarli Illuminati? «E’ uguale: possiamo usare sinonimi, ma la sostanza è la stessa». E il network non ha limiti, non conosce frontiere né bandiere: «Abbiamo trovato la presenza di questa “Struttura” nella Chiesa cattolica, in molte associazioni filantropiche. Soprattutto l’abbiamo trovata nella scienza, negli ambienti universitari, nella ricerca». Fausto Carotenuto, già analista dei servizi segreti, parla di due “piramidi oscure” e concorrenti, i cui vertici però si toccherebbero: uno è massonico, l’altro cattolico (ma discendente da culti preesistenti: «A Roma, il Pontifex Maximus contava più dell’imperatore»). Spiega Paolo Rumor che la “Struttura” «ha avuto modo di diffondersi nell’ultimo secolo attraverso un sistema “a cellule”; collegate tra loro, si scambiano messaggi, conoscenze, impulsi da dare all’esterno».Quello delle “cellule”, dice Rumor, è uno schema perfetto: ognuno conosce direttamente solo il proprio superiore e il diretto sottoposto. «E’ un modo molto efficace per nascondersi, per non essere identificati: ottimale, visti gli scopi prefissi». E’ la piramide degli Invisibili: «Sui politici influisce in maniera subdola, indirizzando le aspettative delle persone e promuovendo idee politiche distorte». Ha uomini ovunque. Montini, per esempio: «Telefonò a mio padre per tentare di salvare il presidente dell’Eni, Enrico Mattei, dall’attentato che lo avrebbe ucciso. Il futuro Paolo Vi ne era al corrente, perché lavorava nel servizio segreto del Vaticano». Per l’unità europea, aggiunge Rumor, il vertice cattolico «è stato molto importante, un catalizzatore di rilievo». Era preoccupata, la Santa Sede, nell’immediato dopoguerra: vedeva nascere l’Europa unita sotto una forte egemonia massonica. L’esoterismo? E’ sempre stato «il linguaggio degli ambienti elitari», dice Rumor. «Cultura ed esoterismo in Europa sono sinonimi, perché hanno dovuto “sposarsi”, in un certo senso, per poter sopravvivere: per non essere fagocitati dalla Chiesa oppure dall’Islam».Fa impressione, comunque, “scoprire” che il potere di Bruxelles sia insediato da una “Struttura” che, a quanto pare, si considera erede dei sumeri e della Valle dei Re. Un filo segreto unisce l’unione bancaria europea di Mario Draghi al mitico Codice di Hammurabi? E Papa Francesco, oltre a essere il primo gesuita al Soglio di Pietro, è dunque anche l’ultimo discendente degli antichi “scissionisti” che, nella Giudea dell’Anno Zero, spaccarono in due la “Struttura” dando inizio a una feroce lotta, sommersa e plurisecolare? L’élite vaticana è stata infatti sfidata dalla corrente di formazione esoterica che, opponendosi all’assolutismo delle monarchie e all’oscurantismo teocratico, ha dato vita alle forme attuali della modernità democratica. Alla luce di queste rivelazioni si possono rileggere sotto altra luce vicende storiche drammatiche come quelle dei Catari e dei Templari? Singolari coincidenze: la primigenia “civiltà sommersa” cui allude Maurice Schumann sarebbe stata situata nel Golfo Persico, a due passi dal Gan Eden biblico da cui si propagò la stirpe di Caino, cacciata dal “paradiso terrestre”, per poi andare incontro al “diluvio”. La storia è interamente da riscrivere, ripetono ormai molti studiosi. E forse, aggiunge Biglino, vale la pena di prendere alla lettera i libri antichi, cosiddetti “sacri”. La stessa Bibbia racconta – testualmente – l’incontro coi misteriosi Elohim, potentissimi e in possesso di tecnologie fantascientifiche. Nessuno sa ancora spiegare l’improvvisa comparsa dell’avanzatissima civiltà dei sumeri. Ci nascondono qualcosa di fondamentale sulla nostra origine, gli intramontabili signori della “Struttura”?(Il libro: Paolo Rumor, Giorgio Galli, Loris Bagnara, “L’altra Europa. Miti, congiure ed enigmi all’ombra dell’unificazione europea”, Panda Edizioni, 370 pagine, euro 18,90).Un’entità clandestina, sinistra perché invisibile. Segretamente dominante, e molto antica: vecchia di millenni, addirittura. «Mi addolora, aver scoperto l’esistenza di un’Europa nascosta e parallela: interviene nella politica e anche nella cultura, condizionando il nostro mondo». E’ qualcosa di proto-storico, quasi eterno: oggi, attraverso i suoi emissari, questa entità fantasma «agisce accorpando fattori monetari e produttivi, di cui paghiamo le conseguenze sulla nostra pelle», come si è visto nella débacle dell’ultimo decennio. «La distruzione dell’equilibrio monetario europeo è frutto di queste persone». Una cupola misteriosa di origine antichissima: avrebbe addirittura 12.000 anni. Paolo Rumor la chiama, semplicemente, “la Struttura”. Risalirebbe alla notte dei tempi, nel territorio che vide fiorire la civiltà sumera e poi quella egizia. Ne parlò a suo padre, Giacomo Rumor, l’esoterista e politico francese Maurice Schumann, tra i fondatori del gollismo: gli rivelò, per iscritto, l’esistenza plurimillenaria della “Struttura”. Una conferma viene dal cardinale Montini, futuro Papa Paolo VI e amico di Giacomo Rumor, coinvolto dal Vaticano nella gestazione dell’unità europea per bilanciarne l’esuberante componente massonica.
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Giorgio Galli: magia, esoterismo e potere. La storia segreta
Il mago in politica? Conta, sì. Ma non ha l’ultima parola. Certo, esiste: anche se i giornali non ne parlano mai. E spesso, proprio con il mondo esoterico sono in contatto i servizi segreti. Lo rivela il professor Giorgio Galli, autorevole politologo, per lunghi anni docente all’università di Milano. Un monumento della cultura italiana contemporanea. Classe 1928, ha all’attivo quasi cento titoli: dal volume d’esordio sulla storia del Pci, risalente al ‘53, fino all’ultimo lavoro, “Il golpe invisibile” (Kaos, 2015), che spiega “come la borghesia finanziario-speculativa e i ceti burocratico-parassitari hanno saccheggiato l’Italia repubblicana fino a vanificare lo Stato di diritto”. Intervistato da Fabio Frabetti e Paolo Franceschetti a “Border Nights” sul ruolo dell’occultismo nella politica, il professore chiarisce: la deriva “magica” dell’esoterismo ha certamente condizionato importanti leader del passato, Hitler in primis. Ma poi il fenomeno si è attenuato. Perché parlarne, allora? Perché non ne parla mai nessuno, a livello di ufficialità, se non per liquidare l’argomento in modo sprezzante, come se il fenomeno non esistesse. Altrettanto sbagliato, secondo Galli, l’atteggiamento iper-complottista di chi considera onnipotenti le società iniziatiche, massoneria compresa: hanno il loro peso, senz’altro, ma non possono decidere tutto.La missione dello studioso: svelare retroscena occulti e, al tempo stesso, demifisticare – con l’occhio razionale dello storico – le tante mitologie connesse al presunto potere di grandi “maghi”, al fianco dei potenti della Terra. Nel mirino innnanzitutto il leader del nazismo. Un fenomeno al quale – tra Himmler e la società Thule – il professor Galli ha dedicato ben tre saggi. Il primo, “Hitler e il nazismo magico” (Rizzoli) risale al 2005. A seguire, “La svastica e le streghe”, una “intervista sul Terzo Reich, la magia e le culture rimosse dell’Occidente”, pubblicata da Hobby & Work nel 2009, quattro anni prima di “Hitler e la cultura occulta”, libro uscito nel 2013, pubblicato ancora da Bur-Rizzoli. Impossibile non notare il potere ipnotico che la retorica del dittatore esercitava su masse immense, durante le celebri adunate oceaniche del nazismo. Disponeva di tecniche occultistiche? «Intanto era nato a Braunau sull’Inn, paese che ha dato i natali a un numero di medium superiore alla norma: c’è chi ritiene che, in determinate zone della Terra, vi siano cariche magnetiche che conferiscano doti particolari, come quelle che caratterizzano i medium e i veggenti». Inoltre, aggiunge Galli, è noto che Hitler prese lezioni da Erik Jan Hanussen, famoso ipnotista austriaco che, «nei teatri, ipnotizzava gli spettatori, facendo creder loro che fossero reali fenomeni che erano solo immaginari».Lo stesso Hanussen, mago e illusionista, fu poi ucciso dai nazisti il 30 giugno del 1934 nella strage passata alla storia come la “notte dei lunghi coltelli”. Una buona occasione «per far sparire le tracce della formazione ipnotistica che Hitler aveva ricevuto». Ma una cosa è ammettere che Hitler credesse nell’occulto e si avvalesse di maghi come Hanussen, un’altra è pensare che il nazismo sia “esploso” in virtù della magia: «Mai, il nazismo, si sarebbe potuto affermare senza la sconfitta della Germania nel primo conflitto mondiale, senza la crisi del dopoguerra e senza la grande crisi del ‘29, tutti fenomeni che hanno determinato il destino del paese sino all’avvento del Terzo Reich». Quindi attenzione: «Io non sostengo che l’esoterismo sia la chiave interpretativa della storia», precisa Galli. «Dico che ne è una delle componenti (e non delle più importanti), che però è stata completamente trascurata». E’ chiaro che a partorire il nazismo è stata la crisi politica, sociale ed economica patita dalla Germania a partire dal 1914. «Le cause che gli storici hanno studiato permettono di capire la vicenda tedesca anche senza bisogno di studiare l’esoterismo. Però, appunto, c’è anche l’esoterismo: e ha avuto un ruolo importante nella formazione culturale di una parte dell’élite nazionalsocialista».La storia politica ed economica spiega tante cose, ribadisce Galli, ma «talvolta, in determinate circostanze, non spiega tutto». Secondo il gollista Maurice Schumann, gruppi esoterici presenti anche in Vaticano hanno influenzato la nascita della stessa Unione Europea: «E’ una componente sin qui trascurata, meno importante di altre, ma che va tenuta presente». Giorgio Galli ha scritto anche un’introduzione al recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini mette in luce il rapporto (rimasto in ombra) tra il fascismo e l’esoterismo, dal ruolo di Giuseppe Cambareri – il mago di tanti ufficiali dell’esercito mussoliniano – all’intervento della massoneria anglosassone agli esordi delle camicie nere, fino al drammatico epilogo di piazzale Loreto, «macabro sacrificio rituale per celebrare simbolicamente la caduta dell’ultimo Cesare». Magia e dittature, ma non solo: «Lo stesso Churchill, che era massone – racconta Galli – si consultò moltissimo con l’ambiente esoterico, prima di decidere l’atteggiamento da assumere con Hitler». Furono alcuni esoteristi a confermargli che occorreva opporsi strenuamente al Terzo Reich: impossibile conviverci, perché avrebbe trasformato l’Europa nel peggiore degli incubi.Esoterismo? «E’ una cultura che ha solide radici nella storia dell’Occidente», spiega Giorgio Galli al pubblico di “Border Nights”. «Bisogna risalire agli astrologi caldei, ai profeti ebraici, fino a personaggi molto recenti come René Guénon e Julius Evola». Si intitola “Occidente misterioso” un saggio del 1987, edito da Rizzoli, in cui Galli indaga tra “baccanti, gnostici, streghe”, ovvero “i vinti della storia e la loro eredità”. «E’ una corrente di pensiero che ha solide radici e si ripresenta anche in periodi di grande avanzamento scientifico». Per dire: erano esoteristi Cartesio e Newton. «Si tratta di una cultura che ha profonde radici nello sforzo umano verso la conoscenza: radici così solide che, dal ‘500 in poi, ha potuto resistere al grande avvento della rivolzione scientifica». Quella dell’esoterismo «è un tipo di conoscenza che prevede approcci diversi da quelli scientifico-razionali». Metodo analogico, pensiero simbolico. Com’è che i politici entrano in contatto col mondo esoterico? «Esistono gruppi e associazioni che mantengono viva questa tendenza». Secondo la cultura esoterica, aggiunge il professore, «sulla Terra sono esistite civiltà molto remote, in genere scomparse per catastrofi naturali: l’esempio più noto sono i riferimenti che Platone fa ad Atlantide».Giorgio Galli segnala un libro come “L’altra Europa”, nel quale l’autore – Paolo Rumor (figlio di Mariano, pluri-minustro Dc) – documenta «la convinzione che siano esistite civiltà terrestri delle quali sono rimaste tracce, e in cui affonderebbe le sue radici la politica che poi ha portato all’Unione Europea». Intorno all’anno Mille, dice Galli, in alcuni ambienti «era maturata quella convinzione», riguardo all’ancestrale discenza da civiltà estinte. E quindi «ci sarebbe un rapporto tra antichi assetti sociali e il progetto dell’Ue, che in realtà è nato molto prima di quanto si ritenga». Se qualcuno ha in mente solo Jean Monnet, la Cee e l’Unione Europea si sbaglia: «Documenti di Mariano Rumor – afferma il professore – dimostrano che questo progetto sarebbe maturato molto più in là nel tempo, in ambienti legati alla cultura esoterica e alla convinzione dell’esistenza di antiche civiltà scomparse, che avrebbero lasciato tracce nella nostra cultura». Sicché, periodicamente, «emergono piccoli cenacoli, che credono di essere gli eredi di un antico sapere». Gli approcci sono diversi, aggiunge Galli: «Alcune società esoteriche sono orientate verso la conoscenza: per loro, l’esoterismo è uno strumento del sapere. In altri gruppi, invece, si ritiene che possa anche essere uno strumento per il potere».Non ha molti segreti, per Giorgio Galli, la contaminazione esoterica della politica: ne parlava già nel 1995 in “Cromwell e Afrodite” (Kaos), o in libri come “La politica e i maghi, da Richelieu a Clinton”, pubblicato da Rizzoli nello stesso anno. Galli ha firmato studi sulla massoneria, su Fatima, sulla new age, sulle Torri Gemelle. Titoli accattivanti: “La venerabile trama”, del 2007 (Lindau), racconta “la vera storia di Licio Gelli e della P2”. In “Stelle rosse” (Alacran, 2007), mette a nudo “astrologia neo-illuminista a uso della sinistra”. Titoli espliciti: “Politica ed esoterismo alle soglie del 2000”, scritto con Rudy Stauder e pubblicato da Rizzoli nel 1992, e “Esoterismo e politica” (Rubbettino, 2010). E’ del 2004 il saggio “La magia e il potere”, ovvero “l’esoterismo nella politica occidentale”, edito da Lindau. Ma cos’è la magia? Solo superstizione? «E’ un approccio culturale che si è manifestato in una fase della storia umana», spiega il professore a “Border Nights”, rispondendo alle domande di “Maestro di Dietrologia”. «Non credo che esista una magia con un reale potere», aggiunge. «Credo però che sia una convinzione diffusa». L’esoterismo, dice, è anche questo: «La convinzione che, facendo determinate operazioni, o con certe liturgie, si possano ottenere determinati risultati. La cultura esoterica è legata a questa convinzione, che però non è la mia».I maghi, aggiunge Giorgio Galli, sono i rappresentanti di questo tipo di cultura: talvolta entrano in contatto col potere e talvolta no. «La rivoluzione scientifica ha reso meno sistematici quei rapporti: quelli che vengono chiamati Magi, astrologi e veggenti facevano parte normalmente del personale vicino al potere – a Roma e in Grecia, poi nelle corti medievali. Fino al ‘500-600 questi rapporti erano organici e continui, in seguito sono diventati più rari o soltanto occasionali». E i famosi maghi consultati da capi di Stato? «In alcuni casi – risponde Galli – ci sono società segrete che trasmettono questo tipo di cultura. Alcune – tedesche, francesi, inglesi – sono elencate in “Hitler e il nazismo magico”. Probabilmente ne esistono ancora, anche se adesso la loro influenza mi pare molto minore di quanto non fosse all’inizio del secolo scorso». Magia e potere, ma soprattutto stelle, oroscopi, tarocchi. «Quello che so – aggiunge Galli – è che molti politici, anche di rilievo, consultano abituamente astrologi e cartomanti: sono un aspetto popolare e diffuso di culture che hanno origini esoteriche, ma è anche un campo che si presta moltissimo alle truffe e alle manipolazioni».Da Roma, ha contattato il professore un gruppo di tradizione esoterica che si definisce “Evoliani a 5 Stelle”, dal nome di Evola. «Sono degli esoteristi di cultura evoliana, che si esprimono positivamente attorno al Movimento 5 Stelle», precisa Galli. Non che l’esoterismo sia del tutto estraneo, ad alcuni aspetti del mondo grillino: «Lo stesso cortometraggio di Gianroberto Casaleggio, “Gaia”, esprime una cultura che qualche rapporto con quella esoterica potrebbe averlo: è collegata con la cultura delle grandi catastrofi, che poi alla fine danno un risultato positivo». Ma quello dei 5 Stelle è un populismo destinato a trasformarsi nella vera avanguardia tecnocratica del neoliberismo globalista? Giorgio Galli lo esclude in modo categorico. «I 5 Stelle secondo me sono ancora in una fase magmatica, in cui convivono componenti dell’anticapitalismo di sinistra e componenti dell’anticapitalismo di destra. Penso che siano in una fase di trasformazione – conclude il politologo – ma non credo affatto che possano diventare i nuovi strumenti del grande capitale: rimarranno sempre un movimento indirizzato a cambiamenti che, nella loro cultura, ritengono positivi. Che poi riescano nel loro intento è un altro problema, ma non credo che si mettano al servizio del potere capitalistico».Il mago in politica? Conta, sì. Ma non ha l’ultima parola. Certo, esiste: anche se i giornali non ne parlano mai. E spesso, proprio con il mondo esoterico sono in contatto i servizi segreti. Lo rivela il professor Giorgio Galli, autorevole politologo, per lunghi anni docente all’università di Milano. Un monumento della cultura italiana contemporanea. Classe 1928, ha all’attivo quasi cento titoli: dal volume d’esordio sulla storia del Pci, risalente al ‘53, fino all’ultimo lavoro, “Il golpe invisibile” (Kaos, 2015), che spiega “come la borghesia finanziario-speculativa e i ceti burocratico-parassitari hanno saccheggiato l’Italia repubblicana fino a vanificare lo Stato di diritto”. Intervistato da Fabio Frabetti e Paolo Franceschetti a “Border Nights” sul ruolo dell’occultismo nella politica, il professore chiarisce: la deriva “magica” dell’esoterismo ha certamente condizionato importanti leader del passato, Hitler in primis. Ma poi il fenomeno si è attenuato. Perché parlarne, allora? Perché non ne parla mai nessuno, a livello di ufficialità, se non per liquidare l’argomento in modo sprezzante, come se il fenomeno non esistesse. Altrettanto sbagliato, secondo Galli, l’atteggiamento iper-complottista di chi considera onnipotenti le società iniziatiche, massoneria compresa: hanno il loro peso, senz’altro, ma non possono decidere tutto.
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Hai un’opinione? Errore: ti è stata venduta, a tua insaputa
La colazione “egg and bacon”: una tradizione americana? No: fu una creazione a tavolino, inventata dai produttori di pancetta. Idem il fumo esteso alle donne: non una conquista femminista, ma solo l’ennesima operazione pianificata, in questo caso pagata dai produttori di tabacco. Grazie a chi? Al padre della propaganda moderna, Edward Bernays. Piaccia o no, i nostri pensieri sono quasi sempre condizionati, come le nostre azioni, da una manipolazione incessante, di cui non ci accorgiamo. La propaganda non è qualcosa di vago e indefinito, ma una vera e propria scienza, con leggi e regole precise: un manuale di istruzioni, che subiamo alla lettera. E Bernays, l’autore di quel manuale che oggi viene scientificamente applicato in modo sistematico, è considerato uno dei 100 uomini più influenti del XX secolo. Pochissimi lo conoscono? Ovvio: ogni scienziato della manipolaziome ama la penombra e scansa i riflettori. A maggior ragione se, come in questo caso, è il nipotino di Sigmund Freud, padre della psicanalisi e indagatore dei segreti più profondi del nostro inconscio. Lo zio li ha studiati, mentre il nipote è andato oltre: ha pensato a come sfruttarle, le nostre debolezze, per venderle al mercato e comprare noi, a milioni, come polli d’allevamento.Di origine ebraica, emigrato a New York verso la fine del 1800, Bernays fu amico di Franklin Delano Roosevelt e della First Lady, Eleanor Roosevelt, nonostante Felix Frankfurter, giudice della Corte Suprema – anch’egli di origine austro-ebraica – lo accusasse di essere «un avvelenatore professionista dei cervelli della gente», ricorda Federico Povoleri in una ricostruzione proposta dal blog “La Crepa nel Muro”. Consulente dell’ufficio propaganda durante la Prima Guerra Mondiale, Bernays ha dominato a lungo la scena della comunicazione in America. Un maestro, nel manipolare l’opinione pubblica anche nei periodi di crisi come la Grande Depressione del ‘29. Definito «il patriarca della persuasione occulta», aveva compreso «l’importanza dell’uso massiccio e spregiudicato dei media, che utilizzava per lanciare un prodotto, un candidato politico o una causa sociale». Nel 1933, Joseph Goebbels rivelò a un giornalista americano che il libro “Crystallizing Public Opinion”, pubblicato da Bernays nel 1923, fu utilizzato dai nazisti per le loro campagne. Una Bibbia per ogni politico, da Hitler a George Bush, fino a Obama. Primo comandamento: “Controlla le masse senza che esse lo sappiano”.Inizialmente, continua Povoleri, Bernays studiò l’opera di Gustav Le Bon, “Psicologia delle folle”, pubblicata nel 1895. Opera di riferimento per molti uomini politici, fu meticolosamnete studiata anche da Lenin, Stalin, Hitler, e Mussolini. Quest’ultimo commentò: «Ho letto tutta l’opera di Le Bon e non so quante volte abbia riletto la sua “Psicologia delle Folle”. E’ un’opera capitale, alla quale ancora oggi spesso ritorno». Migliaia di individui separati, spiega Le Bon, «in un dato momento, sotto l’influenza di violente emozioni – un grande avvenimento nazionale, per esempio – possono acquistare i caratteri di una folla psicologica». Un qualunque caso che li riunisca «basterà allora perché la loro condotta subito rivesta la forma particolare agli atti delle folle». Infatti, «in certe ore della storia, una mezza dozzina di uomini possono costituire una folla psicologica», cosa che invece non riuscirà a «centinaia di individui riuniti accidentalmente». Per le folle, secondo Le Bon, «l’illusione risulta essere più importante della realtà». E’ decisiva l’apparenza: «Le folle non si lasciano influenzare dai ragionamenti», scrive Le Bon. «Sono colpite soprattutto da ciò che vi è di meraviglioso nelle cose. Esse pensano per immagini, e queste immagini si succedono senza alcun legame».Per la folla, l’inverosimile non esiste: preferisce nutrirsi di suggestioni. E la prima suggestione formulata «s’impone, per contagio, a tutti i cervelli», stabilendo subito l’orientamento generale. Secondo Le Bon, non c’è differenza tra un celebre matematico e l’ultimo calzolaio: «Può esserci un abisso in termini intellettuali, ma quando essi facciano parte di una folla (una folla può essere composta anche da cinque persone, non è il numero che conta), agiranno nello stesso modo e reagiranno emotivamente e non più con la ragione». Si verifica cioè un appiattimento verso il basso, «perché la ragione e il raziocinio vengono totalmente eliminati». Bernays mise insieme le idee di Le Bon (e di altri studiosi come Wilfred Trotter) con le teorie sulla psicologia elaborate dal celebre zio Freud, «intuendo che la gente sarebbe stata sensibile a una manipolazione inconscia, basata sia sull’emotività, sia sull’uso massiccio di immagini simboliche».Bernays intuì con grande anticipo la potenza delle nuove tecnologie della comunicazione di massa, aggiunge Povoleri. E concluse che una manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse potesse svolgere un ruolo importante in una società democratica. Chi fosse stato in grado di padroneggiare questo dispositivo sociale – pensava Bernays – avrebbe costituito un potere invisibile capace di dirigere una nazione: «Quelli che manipolano il meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere che controlla», scrive Bernays nel libro “Propaganda”, uscito nel ‘29. «Noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare». E’ indispensabile, sostiene, per gestire un regime sociale democratico, una società politicamente “tranquilla”. «In quasi tutte le azioni della nostra vita, sia in ambito politico o negli affari o nella nostra condotta sociale o nel nostro pensiero morale – agiunge – siamo dominati da un relativamente piccolo numero di persone che comprendono i processi mentali e i modelli di comportamento delle masse. Sono loro che tirano i fili che controllano la mente delle persone. Coloro che hanno in mano questo meccanismo, costituiscono il vero potere esecutivo del paese».Bernays applicò con implacabile successo le sue leggi. Inventore delle relazioni pubbliche, diede anche origine alla figura professionale dello spin-doctor: le regole da lui scritte vengono oggi applicate in ogni ambito sociale e di comunicazione mediatica, dalla politica alla pubblicità. Sua l’invenzione – sempre nel 1929 – delle “brigate della libertà”, fiaccolata di donne con sigaretta tra le labbra. Un atto di sfida e di indipendenza, in una società che non riconosceva alla donna la parità dei diritti? Forse, ma non solo: «Ben poche femministe sanno che quella del “diritto al fumo”, fino ad allora riservato ai soli uomini, non fu affatto una ribellione spontanea delle donne, ma il risultato di un’operazione mediatica su larga scala, concepita orchestrata da Edward Bernays, che aveva ricevuto l’incarico dalla “American Tobacco Company”», ricorda Povoleri. Va da sé che la “brigata della libertà” conquistò le prime pagine, facendo esplodere il fatturato del tabacco. «Migliaia di donne iniziarono a emulare le ragazze newyorchesi della sfilata; il messaggio era stato recepito chiaramente: chi era anticonformista e indipendente non poteva non fumare». In pochi mesi, annota Povoleri, la Chesterfield triplicò le vendite. «E molti anni dopo la Philip Morris, memore di quell’evento, sfruttò lo stesso concetto inventando il cowboy della Marlboro per pubblicizzare le sue sigarette».Anche nel nuovo millennio, nei paesi in via di sviluppo, la sigaretta continua ad essere l’emblema dell’emancipazione femminile. Ma Bernays non si fermò qui: collaborò con l’Ama (Associazione Medici Americani) per produrre ricerche scientifiche che dimostrassero che il fumo “fa bene alla salute”. «Da allora – scrive Povoleri – è diventata prassi, per le multinazionali, finanziare ricerche scientifiche al fine di confermare la bontà dei prodotti che progettano di vendere». E l’ineffabile Bernays «suggeriva che vi fosse sempre una terza parte, indipendente, che garantisse la credibilità del prodotto o dell’immagine da promuovere». Esempio: chi mai crederebbe alla General Motors se fosse lei a a dire che il riscaldamento globale è “una bufala inventata dagli ambientalisti”? Ben altro impatto avrebbe, invece, un istituto di ricerca indipendente, chiamato ad esempio “Alleanza per il clima globale”. «Ecco perché Bernays mise in piedi una quantità impressionante di istituti e fondazioni, finanziati in segreto dalle stesse industrie i cui prodotti dovevano venirne valutati, per garantirne la qualità. Fu così che questi istituti sfornarono una moltitudine di rapporti scientifici, che poi la stampa rendeva pubblici, aiutando a creare l’immagine positiva del prodotto da lanciare».Lasciando un segno permanente, continua Povoleri, Bernays stupì il mondo degli affari statunitense per la sua capacità di controllare l’opinione pubblica su larga scala quando, assieme a Walter Lippman e su commissione del presidente Woodrow Wilson, fece una campagna tesa a spingere l’opinione pubblica ad accettare l’entrata nella Prima Guerra Mondiale, a fianco della Gran Bretagna, in un momento in cui la stragrande maggioranza del popolo americano era pacifista e isolazionista. «In soli sei mesi Bernays sovvertì completamente l’idea avversa della gente verso l’entrata in guerra, provocando una mastodontica ondata di isteria anti-tedesca, che impressionò profondamente (tra gli altri) anche Adolf Hitler, che sarebbe diventato un profondo conoscitore della sua opera». Nel ‘28, tra le pagine del saggio “L’ingegneria del consenso”, aveva scritto: «Se capisci i meccanismi e le logiche che regolano il comportamento di un gruppo, puoi controllare e irreggimentare le masse a tuo piacimento e a loro insaputa». Le idee di Bernays cambiarono il vecchio concetto che prevedeva che i bisogni venissero soddisfatti da politica, industria e finanza. Capovolse la gerarchia: prima di tutto, la creazione dei bisogni attraverso la manipolazione dell’opinione pubblica. Politica, industria e finanza non servono più a soddisfare bisogni, ma a controllare la società.Nascono così i luoghi comuni creati dalla persuasione occulta operata dalla rivoluzione di Bernays. Per lo scrittore americano Russ Kick, la lista è infinita. Esempio: i medicinali ridanno la salute, i vaccini rendono immuni. Gli americani scoppiano di salute, sono quellio che stanno meglio al mondo. Il virsu Hiv è la causa dell’Aids, il fluoro nell’acqua potabile protegge i nostri denti, la vaccinazione anti-influenzale previene l’influenza. Ancora: i dolori cronici sono una naturale conseguenza dell’età. La soia? E’ la più salutare fonte di proteine. «Per costruire queste illusioni sono stati spesi miliardi di dollari, grazie ai quali oggi milioni e milioni di persone la pensano allo stesso modo», sottolinea Povoleri. In “Trust Us, We’re Experts” i sociologi John Stauber e Sheldon Rampton hanno raccolto una serie di dati che descrivono la scienza della creazione dell’opinione pubblica in America. Sono assiomi, scaturiti dalla nuova scienza delle “pierre”. Tipo: la tecnologia è in se stessa una religione. Oppure: se la gente è incapace di formulare un pensiero razionale, la vera democrazia è pericolosa. Quindi: le decisioni importanti dovrebbero essere lasciate agli esperti. Consigli per il manipolatore: stai lontano dalla sostanza, limitati a creare delle immagini. E non affermare mai chiaramente un bugia dimostrabile.«Le parole stesse vengono selezionate in base al loro impatto emozionale: nelle nuove scienze delle pubbliche relazioni sono entrate prepotentemente le tecniche di controllo mentale, che sfruttano le basi della psicologia e le linee guida di Bernays con le tecniche dell’illusionismo». Immagine, simbologia, parole e perfino musica e suoni. «Cinema e televisione hanno un potere enorme (esteso ora a tutta l’industria dell’intrattenimento, compreso i moderni videogiochi) in quanto hanno la capacità di ricombinare tra loro tutti questi elementi», agiunge Povoleri. «Sono molti gli esempi di uso politico del potere della musica, utilizzata come strumento psicologico di persuasione di massa. Non è un caso che durante la Seconda Guerra Mondiale la “Bbc” proibisse la messa in onda della musica di Wagner, utilizzata invece in modo mirato e massiccio dal nazismo, o che la sigla di apertura della nota emittente fossero le note basse che richiamavano la celebre apertura della Quinta di Beethoven». Secondo il filosofo Theodor Adorno, la musica crea “riflessi condizionati” che riguardano l’inconscio. Lo ricorda il consulente psicologico Matteo Rampin nel saggio “Tecniche di controllo mentale”. Nel suo filone tedesco, la musica da camera (legata alla “Sonata”, «tipica creazione della società normativa aristocratica e poi borghese») ha una componente “agonistica” che «deriva dalla struttura concorrenziale della società borghese». E così, chi ascolta quella musica «assimila inconsciamente queste strutture fondanti».Per Rampin, «si codifica un modo di ascoltare musica classica disciplinato, senza battere i piedi, in silenzio assoluto, che è parte di una educazione alla “staticità”». Se la musica produce un’educazione alla postura dei corpi, c’è da chiedersi «quali effetti avrà nel tempo l’abitudine contemporanea di ascoltare la musica in maniera autistica, mentre si lavora, si cammina, si studia, attraverso cuffie individuali e dispositivi portatili». Sempre Rampin sottolinea come l’utilizzo del sistema “Sensorround” nel film “Terremoto” (di Mark Robson, 1974) abbia proposto frequenze inferiori a quelle percepibili dall’orecchio umano (16 Hertz), in modo da traumatizzare profondamente molti spettatori, senza che questi ne sapessero il motivo. «Una delle tecniche più utilizzate nella guerra psicologica e nel lavaggio del cervello era arrivata in aiuto al filone dei film catastrofici», spiega David Annan nel saggio “Catastrophe, The end of the cinema”, del ‘75. Fu Eisenstein a sostenere che gli elementi di una singola ripresa possono essere pensati in modo matematico, al fine di produrre uno shock emozionale: il cinema ha trasformato la cultura, la percezione e forse anche la struttura mentale di miliardi di individui. Poi è arrivata la televisione, il trionfo definitivo del non-pensiero di Bernays: «Non ci sintonizziamo per scoprire cosa succede (perché in generale succedono sempre le stesse cose) ma per passare del tempo in compagnia dei personaggi». Non si cerca un programma specifico: si accende il televisore. La tv distrugge il tempo, rimpiazza la famiglia. «Per molti di noi, vive al nostro posto».La colazione “egg and bacon”: una tradizione americana? No: fu una creazione a tavolino, inventata dai produttori di pancetta. Idem il fumo esteso alle donne: non una conquista femminista, ma solo l’ennesima operazione pianificata, in questo caso pagata dai produttori di tabacco. Grazie a chi? Al padre della propaganda moderna, Edward Bernays. Piaccia o no, i nostri pensieri sono quasi sempre condizionati, come le nostre azioni, da una manipolazione incessante, di cui non ci accorgiamo. La propaganda non è qualcosa di vago e indefinito, ma una vera e propria scienza, con leggi e regole precise: un manuale di istruzioni, che subiamo alla lettera. E Bernays, l’autore di quel manuale che oggi viene scientificamente applicato in modo sistematico, è considerato uno dei 100 uomini più influenti del XX secolo. Pochissimi lo conoscono? Ovvio: ogni scienziato della manipolaziome ama la penombra e scansa i riflettori. A maggior ragione se, come in questo caso, è il nipotino di Sigmund Freud, padre della psicanalisi e indagatore dei segreti più profondi del nostro inconscio. Lo zio li ha studiati, mentre il nipote è andato oltre: ha pensato a come sfruttarle, le nostre debolezze, per venderle al mercato e comprare noi, a milioni, come polli d’allevamento.