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Gros: scordatevi la ripresa, la Germania la impedirà
Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannamdo il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».Non sarà mai sconfessata «la linea della Germania, di contrasto alla crisi del debito», prende nota il blog di Gad Lerner commentando l’intervista a “Repubblica” concessa da Gros all’indomani del vertice dell’Ecofin e dell’Eurogruppo a Milano il 13 settembre, riunioni caratterizzate dal duello tra il premier italiano e Katainen, vicepresidente in pectore della Commissone Europea presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, nominato dalla Merkel. L’incontro di Milano sarà da ricordare, dice Gros, perchè «probabilmente rappresenta la fine delle speranze dell’Italia di ottenere questo sospirato allentamento da parte della Germania». La prova, secondo Daniel Gros, è la nuova manovra di bilancio approntata da Berlino: la grande coalizione tra Angela Merkel e i socialdemocratici dell’Spd ha ridotto gli investimenti pubblici per realizzare una finanziaria senza nuovi debiti, «un obiettivo condiviso praticamente da tutti i partiti tedeschi presenti al Bundestag, con l’eccezione della sinistra radicale», la Linke. Una manovra che «spegne le richieste di chi chiedeva a Berlino la maggior mobilitazione di risorse pubbliche al fine di stimolare la crescita nell’Eurozona».«Da questa posizione di ortodosso rispetto del rigore la Germania non si muoverà», osserva Lerner, e secondo Daniel Gros la composizione della nuova Commissione Juncker evidenzia come non è possibile attendersi alcuna svolta. «I toni concilianti dell’Ecofin sono poco credibili, almeno quanto le rassicurazioni italiane», dice il tecnocrate tedesco. «Certo, la Germania non ammette neanche un intervento d’emergenza, ma l’Italia, come la Francia che forse preoccupa anche di più, non aiuta con i comportamenti la comprensione reciproca». L’Italia ha un debito pubblico al 136%? «Non so come faccia a poter spendere di più: potrebbe anche smetterla di chiedere aperture o flessibilità”». Quanto al ricatto delle “riforme” neoliberiste, ispirate dal mercantilismo neoclassicista dell’export – massima competitività derivante dalla compressione salariale per tagliare i costi di produzione, sacrificando alla legge dell’export i consumi interni e il benessere sociale della nazione – per il dottor Gros si tratta di una speranza vana, perché il “no” della Germania non cambierebbe. «Non credo che la risposta di Berlino sarebbe diversa da quella di oggi. Il passato continuerebbe a pesare come un macigno. Per questo mi sembrano ipocriti tutti questi abbracci alla Spagna, un paese che ha il 25% di disoccupazione, solo per un paio di riforme fatte».Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannando il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».
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Il mondo produce beni, loro dollari. O così, o è guerra
Nel 1974 Richard Nixon strinse un accordo con l’Arabia Saudita, che potremmo definire come la più grande truffa nella storia degli Stati Uniti. In cambio di armi e di protezione, i sauditi avrebbero dovuto vendere il loro petrolio in dollari, che poi avrebbero dovuto di nuovo investire negli Stati Uniti. Si trattava di una questione di vita o di morte per il dollaro, in quel momento. Nixon aveva chiuso la finestra del sistema aureo tre anni prima, e ne era seguita una massiccia svalutazione del dollaro. Garantirsi che tutte le merci che venivano scambiate nel mondo e che sarebbero state commerciate in dollari, pagate in dollari, era l’unico sistema in grado di poter veramente puntellare il valore della valuta. Guardando indietro, fu una mossa strategica estremamente brillante. Il resto dell’Opec seguì lo stesso sistema e questo fu l’affare che ha determinato la supremazia finanziaria, politica e militare degli Stati Uniti per decenni. Erano nati i petrodollari.Oggi, il petrolio resta il bene largamente più commercializzato in tutto il mondo. E dato che tutte le nazioni acquistano o vendono petrolio, questo significa che ogni nazione deve possedere dei dollari. Però, per comodità, le banche estere, i governi e le banche centrali, anziché starsene sedute a controllare montagne di banconote, hanno preferito comprare dei buoni del Tesoro Usa, cioè hanno comprato un pezzetto del debito degli Stati Uniti. Ma questo significa anche che il governo degli Stati Uniti ha una scorta quasi illimitata di stranieri che vogliono impegnarsi e comprare i suoi dollari, i suoi debiti e il suo deficit. Tutto il resto del mondo deve faticare per produrre qualcosa: lavorano nei campi, fabbricano prodotti industriali, estraggono petrolio o gas dal terreno. Gli Stati Uniti, invece dal canto loro, stampano dollari. E poi usano questa carta per scambiarla con la roba che gli stranieri hanno prodotto e per la quale hanno dovuto lavorare veramente.E’ una truffa incredibile. Si sarebbe tentati di pensare che il governo degli Stati Uniti dovrebbe essere grato, e dovrebbe inviare almeno un cesto di frutta a tutti i paesi stranieri del mondo, trattandoli come amici a cui dare sempre il benvenuto. Ma non è questo, quello che fanno. In modo arrogante, il governo degli Stati Uniti dà ordini a tutte le banche del mondo che devono far riferimento all’Irs, buttano le bombe, mandano i droni e invadono paesi stranieri. Spiano sia i loro nemici che gli alleati, congelano i beni gestiti fuori dal sistema bancario Usa e multano le banche straniere che si permettono di fare affari con paesi “non graditi”. E’ una cosa incredibilmente stupida, è un comportamento che praticamente implora gli stranieri di abbandonare il sistema del dollaro e degli Stati Uniti. E questo sta cominciando ad accadere, proprio davanti ai nostri occhi.Gli Stati Uniti hanno dimostrato di essere disposti ad andare in guerra pur di sostenere questo sistema basato sui petrodollari (Saddam Hussein ebbe il sostegno delle Nazioni Unite nei primi anni 2000 per vendere il suo petrolio in euro, ma poco dopo… se n’era andato). Quindi il fatto che in questo momento si cominci a intravedere un certo rilassamento della situazione è molto preoccupante, particolarmente se si considera che il campo di battaglia è già pronto in Ucraina.(Simon Black, “L’ultima volta che è successo, gli Usa entrarono in guerra per “difendere” i loro interessi”, da “Sovereign Man” del 6 settembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nel 1974 Richard Nixon strinse un accordo con l’Arabia Saudita, che potremmo definire come la più grande truffa nella storia degli Stati Uniti. In cambio di armi e di protezione, i sauditi avrebbero dovuto vendere il loro petrolio in dollari, che poi avrebbero dovuto di nuovo investire negli Stati Uniti. Si trattava di una questione di vita o di morte per il dollaro, in quel momento. Nixon aveva chiuso la finestra del sistema aureo tre anni prima, e ne era seguita una massiccia svalutazione del dollaro. Garantirsi che tutte le merci che venivano scambiate nel mondo e che sarebbero state commerciate in dollari, pagate in dollari, era l’unico sistema in grado di poter veramente puntellare il valore della valuta. Guardando indietro, fu una mossa strategica estremamente brillante. Il resto dell’Opec seguì lo stesso sistema e questo fu l’affare che ha determinato la supremazia finanziaria, politica e militare degli Stati Uniti per decenni. Erano nati i petrodollari.
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Della Luna: moneta sovrana per legge, in Costituzione
La Camera approva ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. Per il fabbisogno della Repubblica, lo Stato emette direttamente moneta legale in forma cartacea o metallica, senza contrarre debito e senza emissione di titoli di debito. Lo Stato non riconosce altra moneta legale che questa. L’emissione avviene attraverso un apposito istituto nazionale, detto Istituto per la Moneta e il Credito, nei tempi e nelle quantità stabilite da una apposita commissione bicamerale paritetica permanente presieduta dal Ministro del Tesoro, il cui voto vale doppio in caso di parità. L’offerta monetaria primaria e i pubblici investimenti dovranno essere regolati e orientati all’incremento della produzione utile di beni e servizi secondo criteri di efficienza della spesa in funzione del risultato produttivo.Dovranno tendere alla piena occupazione e all’attivazione del potenziale produttivo nazionale, avendo riguardo alla tutela del potere d’acquisto reale dei redditi e del risparmio, alla moderazione delle spinte inflazionistiche, nonché alla sostenibilità ecologica al perseguimento del costante ammodernamento scientifico e tecnologico. Il predetto istituto, sotto la direzione della predetta commissione bicamerale, vigila e regola l’attività bancaria e creditizia, assicurando l’adeguata disponibilità di mezzi monetari nel Paese e l’accesso al credito a condizioni eque e sostenibili da parte dei soggetti economici, nonché contrastando la formazione di monopoli e cartelli. A tali fini, possono essere istituite banche di credito di capitale pubblico e di diritto pubblico.I soggetti abilitati all’esercizio del credito e alla raccolta del risparmio non possono esercitare in proprio, nemmeno attraverso altre imprese o attraverso persone fisiche o giuridiche, attività di speculazione finanziaria o di arbitraggio o trading. I depositi bancari, salva diversa pattuizione, avranno la natura giuridica di depositi regolari. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.(Marco Della Luna, estratto dalla “Proposta di Costituzione 2014” – Art. 81 Sovranità monetaria e assicurazione della liquidità necessaria al Paese – presentata sul blog di Della Luna il 3 agosto 2014).La Camera approva ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. Per il fabbisogno della Repubblica, lo Stato emette direttamente moneta legale in forma cartacea o metallica, senza contrarre debito e senza emissione di titoli di debito. Lo Stato non riconosce altra moneta legale che questa. L’emissione avviene attraverso un apposito istituto nazionale, detto Istituto per la Moneta e il Credito, nei tempi e nelle quantità stabilite da una apposita commissione bicamerale paritetica permanente presieduta dal Ministro del Tesoro, il cui voto vale doppio in caso di parità. L’offerta monetaria primaria e i pubblici investimenti dovranno essere regolati e orientati all’incremento della produzione utile di beni e servizi secondo criteri di efficienza della spesa in funzione del risultato produttivo.
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La nostra economia difettosa è progettata solo per i ricchi
Esistono diverse teorie economiche, ma ancor prima di ciò esistono classi sociali di cui gli economisti – ben lungi dall’essere scienziati apolitici – difendono gli interessi consolidati. E’ questa, purtroppo, l’evidenza che è emersa nel dibattito scatenato dal libro di Thomas Piketty “Capital in the Twenty-First Century”, nel quale si mettono in evidenza le ragioni e i pericoli delle disuguaglianze, le distorsioni conseguenti la crescita delle rendite e l’ingiustizia insita nell’ereditarietà del capitale. L’esempio migliore di questo bias classista lo fornisce Gregory Mankiw, noto economista conservatore ed autore di uno dei manuali di economia più diffusi. In un recente articolo per il “New York Times”, Mankiw ha cercato di demolire la tesi di Piketty: «Poiché il capitale è soggetto a rendimenti decrescenti, un aumento della sua offerta causa il fatto che ogni unità di capitale renda di meno. E poiché l’aumento del capitale aumenta la produttività del lavoro, i lavoratori godono di salari più alti».«In altre parole, risparmiando invece di spendere, chi lascia una proprietà agli eredi causa una redistribuzione non intenzionale dei redditi da altri proprietari di capitali verso i lavoratori. La morale della favola è che la ricchezza ereditata non è una minaccia economica. Coloro che hanno conseguito proventi straordinari naturalmente vogliono condividere la loro fortuna con i loro discendenti. Quelli di noi che non hanno la fortuna di nascere in una di queste famiglie ne beneficiano comunque, poiché la loro accumulazione di capitale aumenta la nostra produttività, i salari e il tenore di vita». E’ evidente però che non è questo che è accaduto negli ultimi decenni. Nonostante gli incrementi di produttività, i salari reali sono rimasti stagnanti. Il che significa semplicemente che la quota di ricchezza aggiuntiva prodotta è andata sempre più alle altre classi sociali e non ai lavoratori, in particolare a quell’1% contro il quale nacque il movimento “Occupy Wall Street”.Mankiw non fa altro che ripetere la ben nota ideologia della “trickle-down economics”. E’ però interessante scoprire perché, nonostante l’evidenza contraria, un economista può ancor oggi permettersi di sostenere la tesi secondo la quale l’arricchimento dei più abbienti ha un riflesso positivo sui lavoratori. Cosa c’è nella teoria economica che giustifica questo risultato così in contrasto con la realtà? Lo spiega bene Peter Domar, economista e autore del noto blog “Econospeak”. Affinché sia vero quanto sostenuto da Mankiw, devono infatti essere verificate numerose e improbabili condizioni. In particolare, l’aumento dell’offerta di capitale deve rendere tale fattore della produzione meno remunerativo. Un’ipotesi che nel secolo delle tecnologie di rete diventa ogni giorno sempre meno vera: ad esempio, entro un margine molto ampio, ogni antenna di telefonia mobile installata da un operatore rende tutto il capitale di antenne già installate più redditizio, poiché permette di raggiungere più clienti che potranno telefonare ai clienti dei territori già coperti. Lo stesso discorso vale per molti altri servizi a rete e per il software.E non basta. Affinché Mankiw abbia ragione occorre ipotizzare anche: che i fattori produttivi siano pienamente impiegati (ovvero che non vi sia disoccupazione dei lavoratori e sottoutilizzazione degli impianti); che il maggiore risparmio abbassi il tasso di interesse stimolando così l’investimento (il modello che Keynes smonta nella Teoria Generale); che tutti gli atti di risparmio e investimento si verifichino all’interno dello stesso sistema economico (per esempio, i ricchi non guadagnano proventi da investimenti all’estero); che non vi siano esternalità non compensate ad incrementare “ingiustamente” i margini di guadagno delle imprese (si pensi all’inquinamento); che non vi siano monopoli tecnologici e anzi che non vi sia alcun cambiamento tecnologico, in quanto altererebbe le produttività marginali del lavoro e del capitale. Insomma, Mankiw non sta parlando del mondo reale, ma di quello immaginario descritto dai manuali di economia. Come il suo.(“Le fallacie dell’economia per i ricchi”, da “Keynesblog” del 15 luglio 2014).Esistono diverse teorie economiche, ma ancor prima di ciò esistono classi sociali di cui gli economisti – ben lungi dall’essere scienziati apolitici – difendono gli interessi consolidati. E’ questa, purtroppo, l’evidenza che è emersa nel dibattito scatenato dal libro di Thomas Piketty “Capital in the Twenty-First Century”, nel quale si mettono in evidenza le ragioni e i pericoli delle disuguaglianze, le distorsioni conseguenti la crescita delle rendite e l’ingiustizia insita nell’ereditarietà del capitale. L’esempio migliore di questo bias classista lo fornisce Gregory Mankiw, noto economista conservatore ed autore di uno dei manuali di economia più diffusi. In un recente articolo per il “New York Times”, Mankiw ha cercato di demolire la tesi di Piketty: «Poiché il capitale è soggetto a rendimenti decrescenti, un aumento della sua offerta causa il fatto che ogni unità di capitale renda di meno. E poiché l’aumento del capitale aumenta la produttività del lavoro, i lavoratori godono di salari più alti».
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La tripletta di Renzi: Italia senza Senato, Unità e Fiat
Renzi pensa molto di sé ma neppure lui avrebbe creduto a un simile colpo: liberare l’Italia negli stessi giorni, del Senato, dell’Unità e della Fiat. Non era facile perché non c’è apparente legame fra i tre grandi scomparsi, una istituzione, un giornale-memoria e una azienda che, da sola, rappresentava e garantiva l’Italia come paese industriale. Non ditemi che mettere insieme le tre chiusure (o partenze per sempre) è solo una trovata polemica. Renzi è bravo, come dicono tutti (chiamandolo continuamente Matteo perché è così giovane, e dandogli ideali pacche sulle spalle) e se si chiude il Senato è solo per una sua decisione (il perché, dovremo estrarlo dalle macerie); se chiude l’“Unità”, ciò che resta di un pezzo glorioso del suo partito, è perché tutto quel passato di altri gli dà noia; se se ne va la Fiat, un esodo unico in Europa e mai accaduto in un grande paese, è perché il suo disinteresse per ciò che non controlla – o lui o la Boschi – lo innervosisce e, francamente, non gli interessa.Nella loro diversa pesantezza e dimensione, tutti e tre gli eventi hanno un loro aspetto non chiaro (e anzi, misterioso) e stupisce che così tanta parte dei media italiani si prestino a celebrare due degli eventi e a ignorare il terzo. Nonostante la memoria corta di un mondo su cui piovono Twitter e hashtag come la cenere dopo Hiroshima, credo che si ricorderà la fine del Senato. Perché non se ne conosce la ragione; perché c’erano cose ben più urgenti da fare; perché ha sradicato in modo rozzo e violento i molti legami, ascendenze e conseguenze nella Costituzione; perché, come ha detto bene, chiaro e al momento giusto, il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani, questa legge porta due firme: quella di Matteo Renzi e quella di Silvio Berlusconi. Lo testimonia un’immagine destinata a restare come quelle dei Marines di Iwo Jima: Maria Rosaria Rossi, di casa Berlusconi, abbraccia Maria Elena Boschi, di casa Renzi, con il furore femminile di poche grandi occasioni della vita.La commenta bene, in un desolato e bellissimo testo, sul “Corriere della Sera” (7 agosto) Corrado Stajano: «Perché, ci si chiede, discutere della legge fondamentale della Repubblica in modo così affannoso e dilettantesco, con il ritmo di una tappa a cronometro su pista, tra minacce e blandizie?». Nell’entusiasmo del momento si erano persino dimenticati che Giorgio Napolitano, a un certo momento, avrebbe dovuto diventare senatore a vita. E la Finocchiaro è dovuta correre indietro a inserire un’eccezione per ex presidenti della Repubblica, che restano d’ora in poi i soli senatori a vita. Ma dove? Nel festoso suk di portatori di interessi nominati dalle Regioni.Intanto Renzi ha chiuso “L’Unità”. Ma quando mai?, ti direbbero al Nazareno, se ti accogliessero e non temessero che qualcuno gli guardi le carte sul tavolo. “L’Unità”, ti direbbero, ha finito la corsa, punto e basta. Svelto com’è, Renzi non ha neanche perduto tempo a verificare se e come l’organo del Partito Democratico svolge il suo ruolo. Sì, qualche volta avrà notato con la coda dell’occhio, che non era tutto scritto da lui, che non c’entrava, neppure dopo anni di Ds e poi di Pd remissivo e sempre pronto a qualche pacificazione, con la nuova vita insieme, lui e Berlusconi, Berlusconi e lui. Non tutti cambiano radicalmente in una o due assemblee, come i membri di direzione del suo partito. Dopo tutto quel giornale ha mai aperto con grande foto del sorriso fisso sulla non realtà della Boschi o della incompetente e dannosa gentilezza della Madia?Diciamo la verità: il giornale stava nei ranghi ma non lo aveva ancora portato in trionfo. E poi, a certe scadenze, veniva fuori con certi ricordi e immagini e voci di cui non senti il bisogno, mentre condividi questa nuova Italia rinnovata e pacificata con Berlusconi. Intanto se i competenti del mondo fanno notare le tue disattenzioni economiche e il rischio grave dell’Italia, sei già circondato di “grandi giornali” italiani detti indipendenti che si occupano di non dirlo. Infine deve avere notato che nessuno, anche tra i più miti redattori dell’“Unità”, era mai stato boy scout. Renzi ha imparato solo la prima parte del celebre motto: “Tutti per uno”. È svelto, e passa subito alla conclusione: chiudere, e farla finita, come gli dice Verdini da un pezzo, con la paccottiglia comunista. La Fiat, che era l’immagine dell’Italia industriale nel mondo e il punto di riferimento per l’industria italiana (se lo fa la Fiat, come fa la Fiat…) si è sfilata con agilità dalle tasse (paga a Londra), dai legami con l’Italia (ha sede amministrativa e legale in Olanda) e dalla produzione (che ha luogo alla periferia di Detroit).Di fronte a un evento di tale enormità i politici non c’erano, non al Parlamento di una o due Camere, non al governo. Renzi lavorava a cambiare verso, a cambiare l’Italia, a forgiare le riforme che tracciano qualche solco ma non si sa per dove. Anche perché gli hanno portato a Palazzo Chigi tre immensi gipponi, che sarebbero destinati alla produzione italiana (famosa nel mondo per la Cinquecento, ricordate?). Ma la produzione italiana non esiste. Piani, progetti e investimenti sono stati tenuti fermi. E gli operai della Fiat, noti nel mondo per il loro lavoro, ora sopravvivono in buon numero con la cassa integrazione di questa Repubblica, mentre la Casa Tudor-Marchionne paga al governo inglese. Renzi? Per lui va bene. Il paese gli sembra più fresco, più giovane. Senza Fiat, senza “Unità”, senza Senato, lui ci ha riportati come bambini al mattino di una giornata che ci promette bellissima. Se righiamo dritto, senza ostruzionismi e senza menarla sulla Costituzione.(Furio Colombo, “Renzi, la tripletta: via Senato, Unità e Fiat”, da “Il Fatto Quotidiano” dell’11 agosto 2014).Renzi pensa molto di sé ma neppure lui avrebbe creduto a un simile colpo: liberare l’Italia negli stessi giorni, del Senato, dell’Unità e della Fiat. Non era facile perché non c’è apparente legame fra i tre grandi scomparsi, una istituzione, un giornale-memoria e una azienda che, da sola, rappresentava e garantiva l’Italia come paese industriale. Non ditemi che mettere insieme le tre chiusure (o partenze per sempre) è solo una trovata polemica. Renzi è bravo, come dicono tutti (chiamandolo continuamente Matteo perché è così giovane, e dandogli ideali pacche sulle spalle) e se si chiude il Senato è solo per una sua decisione (il perché, dovremo estrarlo dalle macerie); se chiude l’“Unità”, ciò che resta di un pezzo glorioso del suo partito, è perché tutto quel passato di altri gli dà noia; se se ne va la Fiat, un esodo unico in Europa e mai accaduto in un grande paese, è perché il suo disinteresse per ciò che non controlla – o lui o la Boschi – lo innervosisce e, francamente, non gli interessa.
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Riforme progettate per noi, docile bestiame da decimare
Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.L’unico organo elettivo, cioè il Parlamento, ha poteri limitati, che preferisce non esercitare (non ha mai costretto la Commissione a un rendiconto), e la sua natura di cagnolino da passeggio è stata evidenziata da come è stato fatto votare il nuovo presidente dell’Ue: era ammesso un solo candidato – Juncker – e il voto era segreto. Per giunta, nessun elettore europeo, prima di votare, aveva saputo che sarebbe stato Juncker il candidato unico alla presidenza. Nessuna meraviglia se le medesime caratteristiche le ritroviamo anche nella urgente e irresistibile marcia delle riforme istituzionali di Renzi: queste riforme, appunto, diminuiscono la partecipazione e l’influenza degli elettori, ostacolano i referendum, danno al premier i poteri sia politico-legislativi, che di controllo (su se stesso) anche solo con un 22% dei consensi. Nessuna meraviglia: è chiaro che l’Italia e la sua Costituzione devono essere riformate in questo senso per integrarsi nella struttura autocratica dell’Ue.La seconda linea di riforme, iniziata alla fine degli anni ’70, è quella economico-finanziaria, e punta essenzialmente a difendere e tutelare gli interessi dei creditori finanziari con sacrificio degli altri interessi sociali: il modello di sviluppo keynesiano, caratterizzato dallo Stato che corregge il mercato e fa investimenti anticiclici per evitare la recessione e assicurare l’occupazione, al prezzo di una costante, fisiologica inflazione, viene sostituito con un modello da alcuni ritenuto hayekiano, ma che tale non è perché Friedrich Von Hayek voleva non solo il libero mercato come unico regolatore dell’economia, ma anche uno Stato che tenga il mercato libero dai monopoli e che si astenga dall’assistenzialismo sociale e imprenditoriale. Il modello economico-finanziario imposto all’Ue fa per contro tutto questo, anzi in esso i grandi monopoli bancario-finanziari dettano la politica degli Stati e dell’Unione.Il detto modello raggiunge lo scopo della tutela degli interessi dei creditori-finanziari mediante alcuni principali strumenti: indipendenza-irresponsabilità delle banche centrali dai parlamenti, vincoli di bilancio pubblico (proibizione della spesa pubblica antirecessiva), stretta monetaria, compressione salariale (e della domanda interna) per assicurare un pareggio o un surplus della bilancia estera, socializzazione delle perdite delle banche. Quando la politica economica è affidata ai banchieri centrali, che, per statuto, deliberano e operano non solo in autonomia ma nella segretezza e nella irresponsabilità, la democrazia rappresentativa è finita, il consenso popolare è superato. Il risultato – prevedibile e inevitabile perché facente parte degli obiettivi – è la deflazione, la disoccupazione, l’avvitamento fiscale, la recessione o stagnazione – che ora si prospetta pure per la Germania.La Costituzione italiana del 1948 è, per contro, esplicitamente keynesiana: l’articolo 1 fonda la Repubblica sul lavoro, non sul capitale, e numerose altre norme riconoscono al lavoro (all’occupazione, alla produzione, agli investimenti) il primato assoluto e la funzione di perequazione sostanziale tra i cittadini; quindi essa è in opposizione radicale e inconciliabile col modello politico-economico costitutivo dell’Ue e della Bce, che si basa sulla priorità alla prevenzione dell’inflazione (primaria minaccia per le rendite finanziarie), e per prevenirla impone l’austerità, cioè innanzitutto l’astensione dagli investimenti pubblici anticiclici per uscire dalla recessione – sicché la recessione perdura, diviene strutturale e non accidentale. La storia della cosiddetta integrazione europea è in realtà la storia della sostituzione di un modello socio-economico-istituzionale con un modello opposto, ossia dei valori sociali e produttivi, fondanti per la democrazia elettiva e la legittimità costituzionale, col loro contrario: parassitismo finanziario e autocrazia.E’ la storia di un’inversione non dichiarata, che è avanzata di soppiatto, sotto il camuffamento di ideali sbandierati e mai attuati di solidarietà integrazione dei popoli, identità comune, di promesso sviluppo che non arriva mai. Un’inversione di cui oramai sentiamo fortemente gli effetti pratici, anche se molti di noi non sanno da che cosa provengano, e pensano che le cause siano la corruzione o l’evasione o l’articolo 18. In Italia, oltre a queste piaghe, le due linee di riforme di cui Napolitano, Monti, Letta e Renzi sono paladini e artefici (soprattutto Napolitano, che, per imporla e accelerarla, deborda continuamente dalla sua funzione di garante e arbitro per intervenire nella politica dei partiti) sul piano economico sta producendo un continuo e rapido aumento del debito pubblico – cioè l’opposto di ciò che promette – e l’emigrazione di capitali, imprese e cervelli, con la deindustrializzazione del paese e la moria delle sue aziende (dirò poi perché queste loro azioni non vanno condannate, nemmeno moralmente).La direzione, la finalità autocratica, essenzialmente dittatoriale, a cui mira la prima linea di riforme, cioè quelle istituzionali, spiega chiaramente la ragione per la quale, paradossalmente, ci si ostina a portare avanti la seconda linea di riforme, cioè quella economico-finanziaria, sebbene stia producendo effetti rovinosi e contrari a quelli che dovrebbe produrre, tra la sofferenza di milioni di persone: le due linee di riforme convergono in un’operazione di ingegneria sociale, di costruzione di una società radicalmente e apertamente oligarchica che comandi incontrastata le popolazioni fiaccate e rassegnate da molti anni di frustrazioni e insicurezze, e impoverite di redditi, risparmi, diritti civili, sociali, politici. Il modello economico in via di imposizione, con le sue riforme, non importa se produce recessione o stagnazione; il suo scopo reale e non detto non è la crescita, ma una riforma dell’ordinamento sociale e giuridico che assicuri il dominio sulla popolazione generale, la possibilità di sfruttarla senza limiti, l’estrazione da essa di rendite certe per il capitale finanziario anche in periodi di contrazione del Pil, e il tutto in modo formalmente legittimo. A questo servono le riforme. E le privatizzazioni, che ieri Padoan ha ripromesso, parlando in Cina, che verranno eseguite. Quindi è assurdo ciò che promette Renzi, ossia che queste riforme strutturali rilancerebbero l’economia. Possono solo rilanciare l’affarismo spartitorio e screditare ulteriormente il settore pubblico – e questo credo sia il vero obiettivo.Attualmente in Italia abbiamo un programma di tagli alla spesa pubblica, una pressione fiscale che non può calare anche a causa dei 40 miliardi all’anno di riduzione del debito pubblico che il governo dovrà fare in esecuzione del Fiscal Compact, un reddito e una capacità di spesa in picchiata anche a causa dell’alta disoccupazione e maloccupazione, soprattutto giovanili; inoltre le banche stanno riducendo il credito alle imprese e alle famiglie e tengono altissimi i tassi: sanno che gli aspiranti mutuatari, data la mancanza di continuità del loro reddito, non avranno i mezzi per ripagare i prestiti, quindi logicamente non erogano prestiti, se non raramente e con spread altissimi, al decuplo dell’Euribor, per compensare il rischio – dicono. Quindi oggettivamente non ci sono le condizioni per un’uscita dalla depressione economica. Anzi, è in corso un avvitamento recessivo, che determinerebbe rendimenti altissimi sul debito pubblico, senonché qualcuno – la Bce e/o la Fed – comprando sul mercato secondario, e distorcendo il mercato, li tiene artificialmente bassi – come fa ancora più vistosamente con le nuove emissioni del debito pubblico greco.Alla luce di quanto sopra detto, possiamo tranquillamente concludere che, quando un leader comunitario, soprattutto un leader italiano, promette crescita o impegno per la crescita, promette la sospirata flessibilità, promette che l’Ue porta allo sviluppo – quando promette queste cose, e insieme dice che “le regole europee”, “il risanamento”, “il rigore di bilancio” saranno rispettati, mente sapendo di mentire, mente per imbonire la gente: il modello che viene implementato attraverso l’Ue e l’Italia in particolare non vuole crescita, lavoro, sicurezza, rilancio produttivo, ma stagnazione. Come non vuole partecipazione popolare né diritti sociali. Al massimo sono ammessi interventi di riduzione del disagio sociale per prevenire che evolva in sommossa, o sussidii a categorie sociali realizzati a spese di altre categorie sociali (come gli 80 euro di Renzi), in una logica di divide et impera. Logica peraltro applicata anche tra gli Stati membri: consentire ad alcuni (Germania e soci) un relativo (e provvisorio) sviluppo a spese degli altri, onde avere il loro appoggio per completare l’opera di inversione costituzionale. Che si appalesa, oramai, come un’opera eversiva. E quando ci dicono “fare le riforme istituzionali è condizione per ottenere flessibilità di bilancio dall’Europa”, il significato è: “se non ci lasciate riformare la Costituzione per realizzare l’autocrazia che vuole la grande finanza, la grande finanza vi lascia senza soldi”.Diversamente da altri, io non biasimo moralmente i progettisti e gli autori di quanto sopra. Non dico che sono criminali perché sacrificano il 99% della popolazione agli interessi dell’1%. Infatti, il loro modello socioeconomico deflativo-parassitario-autocratico è più adeguato a ciò che i popoli sono, al loro effettivo livello mentale e di consapevolezza, che non è molto diverso da quello del bestiame, come dimostra la bovina docilità con cui si lasciano “riformare”. Il modello democratico, e anche il modello (post)keynesiano, presuppongono che l’uomo mediano e il popolo siano qualcosa che in realtà non sono affatto, quindi semplicemente non possono funzionare. Il modello socioeconomico deflativo ha, inoltre, il vantaggio di riuscire a imporre coercitivamente e dall’alto, di fronte al raggiungimento dei limiti fisici dello sviluppo e alla necessità di ripiegare, la necessaria decrescita ecologica dei consumi e della stessa popolazione, che in regime di democrazie nazionali non si potrebbe ottenere.(Marco Della Luna, estratti dal post “Dove portano queste riforme”, pubblicato sul blog di Della Luna il 24 luglio 2014).Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.
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Paghiamo lavori inutili e sfruttiamo chi è davvero utile
Nel lontano 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia in Occidente sarebbe progredita al punto di regalarci una settimana lavorativa di appena 15 ore. Invece, è accaduto il contrario: «La tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più», scrive l’antropologo David Graeber. E a tale scopo «sono stati creati lavori che sono di fatto inutili». Enormi schiere di persone, in Europa e Nord America, lavorano in ufficio, dove «trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili». Graeber parla di «danni morali e spirituali», praticamente «una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva», anche se non ne parla nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? «La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo», ma per l’antropologo la verità è un’altra: l’élite capitalista sa benissimo che, una volta liberate dall’incombenza del lavoro full time, le masse cominciano a “pensare”, e a reclamare diritti per una vita diversa, specie se le macchine faticano al posto dell’uomo.«Dagli anni Venti in poi abbiamo assistito alla creazione di un’infinità di nuovi lavori e industrie, ma sono pochissimi quelli che hanno a che vedere con la produzione e la distribuzione di sushi, iPhone o scarpe da ginnastica costose», scrive Graeber in un post ripreso da “Megachip”. «Allora cosa sono esattamente questi nuovi lavori?». Durante il secolo scorso, il numero di lavoratori impiegati come domestici, nel settore industriale e in quello agricolo è crollato. Parallelamente, «le libere professioni, i lavori dirigenziali, d’ufficio, di vendita e di servizio» sono triplicati, passando da un quarto degli impieghi complessivi a tre quarti. «In altre parole, i lavori produttivi, esattamente come previsto, sono stati in gran parte sostituiti dall’automazione», anche calcolando gli operai cinesi e indiani. «Ma anziché consentire una significativa riduzione delle ore di lavoro per rendere la popolazione mondiale libera di dedicarsi ai propri progetti, piaceri e idee, abbiamo assistito all’esplosione non tanto del settore dei “servizi”, quanto di quello amministrativo».Sono nate nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, mentre c’è stata un’espansione senza precedenti di settori come quello giuridico-aziendale, accademico, della amministrazione sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni. Senza contare le aziende che a queste industrie forniscono assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza, così come «l’esercito di attività secondarie (come i toelettatori di cani o i fattorini che consegnano pizze tutta la notte) che esistono soltanto perché le altre persone passano tanto tempo a lavorare in tutte le altre». Sono mestieri che Graeber propone di definire “lavori stupidi”: «È come se esistesse qualcuno che inventa lavori inutili solo per farci continuare a lavorare. E proprio qui sta il mistero: nel capitalismo, questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere». Infatti, «l’ultima cosa che deve fare un’azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno. Eppure, non si sa perché, succede lo stesso».È vero, «le grandi aziende operano spesso tagli spietati», ma attenzione: «Licenziamenti e prepensionamenti colpiscono immancabilmente la classe delle persone che fabbricano, spostano, riparano e mantengono in funzione le cose». Per una strana alchimia che nessuno sa davvero spiegare, continua Graeber, «ultimamente il numero di passacarte salariati sembra aumentare, e sempre più lavoratori dipendenti si ritrovano – un po’ come i sovietici di una volta – a lavorare in teoria 40 se non 50 ore alla settimana, ma lavorandone di fatto 15 proprio come previsto da Keynes, perché il resto del loro tempo serve per organizzare o partecipare a seminari motivazionali, aggiornare i profili Facebook o scaricare roba». Per Graeber, la spiegazione non è economica: è morale e politica. «La classe dirigente si è resa conto che una popolazione felice, produttiva e con del tempo libero a disposizione è un pericolo mortale: pensate a quel che è cominciato a succedere quando negli anni Sessanta ci si è avvicinati a una vaga approssimazione di questa cosa». E l’idea che il lavoro sia un valore morale in sé, al punto da pensare che «chiunque non desideri sottomettersi a un’intensa disciplina lavorativa per la maggior parte delle sue ore di veglia non meriti niente», torna straordinariamente comoda a molti.Un amico poeta e musicista, racconta Graeber, dopo un paio di dischi che avevano «migliorato la vita di tante persone in tutto il mondo», è stato costretto – parole sue – a «imboccare la strada che sceglie in automatico tanta gente che non sa dove andare: la facoltà di giurisprudenza». Oggi lavora come avvocato aziendale per un importante studio di New York. «Lui per primo ammette di fare un lavoro del tutto privo di senso, che non fornisce nessun contributo al mondo e che, secondo lui, in realtà non dovrebbe esistere». Domanda: che razza di società è la nostra, che genera «una domanda estremamente limitata di poeti-musicisti talentuosi», a fronte di una domanda apparentemente infinita di specialisti in diritto aziendale? Risposta: se «la maggior parte della ricchezza disponibile la controlla l’1% della popolazione», allora quello che definiamo “mercato” rigetterà «ciò che loro, e nessun altro», non considerano utile o importante. Peggio ancora: chi fa lavori “stupidi” se ne rende perfettamente conto. «Credo di non aver mai conosciuto un avvocato aziendale che non pensasse di fare un lavoro stupido».Lo stesso vale per quasi tutte le nuove industrie: «Esiste un’intera classe di lavoratori salariati che, se li incontri a una festa e ammetti di fare un mestiere considerato interessante (l’antropologo, per esempio), si rifiuta anche soltanto di dirti che lavoro fa. Fategli bere due o tre drink, e si lanceranno in vere e proprie tirate su quanto inutile e stupido sia in realtà il loro lavoro», continua Graeber. «Stiamo parlando di una violenza psicologica profonda. Come si può anche solo cominciare a parlare di dignità del lavoro, quando in cuor suo una persona ritiene che il proprio lavoro non debba esistere?». Tuttavia, «il talento tutto particolare della nostra società» sta nel fatto che i suoi governanti hanno escogitato un modo per garantire che la frustrazione e la rabbia vengano indirizzate contro chi invece fa un lavoro sensato. Strana regola: «Più il lavoro di un individuo giova palesemente ad altre persone, minori sono le probabilità che questo lavoro venga pagato».Si domanda Graeber: che succederebbe se quest’intera classe di persone scomparisse? «Dite quel che volete di infermieri, spazzini e meccanici: è palese che, se dovessero sparire in una nuvola di fumo, gli effetti sarebbero immediati e catastrofici. Un mondo senza insegnanti e scaricatori di porto finirebbe presto nei guai, e anche un mondo senza scrittori di fantascienza o musicisti ska sarebbe evidentemente peggiore». Al contrario, «non è del tutto chiaro in che modo l’umanità soffrirebbe se dovessero svanire allo stesso modo tutti gli amministratori delegati di società d’investimenti, i lobbisti, gli addetti alle pubbliche relazioni, gli analisti assicurativi, i lavoratori del telemarketing, gli ufficiali giudiziari o i consulenti legali (molti sospettano che potrebbe significativamente migliorare)». Eppure, fatta salva una manciata di stimatissime eccezioni, come ad esempio i medici, «la regola resiste sorprendentemente bene». E, «cosa ancor più perversa, sembra circolare la diffusa convinzione che sia giusto così».Questo, aggiunge Graeber, è «uno dei punti di forza segreti dei populisti di destra», quelli che «fomentano il rancore contro i dipendenti della metropolitana che paralizzano Londra per il rinnovo del contratto», perché «il fatto stesso che i dipendenti della metropolitana siano in grado di paralizzare Londra è la riprova che il loro lavoro è necessario, ma a infastidire la gente sembra sia proprio questo». Cosa ancora più evidente negli Stati Uniti, dove i repubblicani «stanno riuscendo con molto successo a mobilitare il risentimento contro gli insegnanti o contro gli operai dell’industria dell’automobile», a causa di stipendi e benefit che sembrano eccessivi. È come se gli stessero dicendo: voi, che a quanto pare fate lavori veri, necessari, avete anche la faccia tosta di aspettarvi delle pensioni e un’assistenza sanitaria da classe media?«Se qualcuno avesse progettato un sistema del lavoro fatto su misura per salvaguardare il potere del capitale, non avrebbe potuto riuscirci meglio», conclude Graeber. «I lavoratori veri, quelli produttivi, vengono spremuti e sfruttati implacabilmente», mentre gli altri «si dividono tra un atterrito strato di disoccupati, disprezzato da tutti, e un più ampio strato di persone che in pratica vengono pagate per non fare nulla». Queste persone «ricoprono incarichi progettati per farle identificare con i punti di vista e le sensibilità della classe dirigente (manager, amministratori)», ma al tempo stesso «covano un segreto rancore nei confronti di chiunque faccia un lavoro provvisto di un chiaro e innegabile valore sociale». Non è un sistema progettato in modo conscio, è emerso da quasi un secolo di tentativi empirici. «Ma è anche l’unica spiegazione del perché, nonostante le nostre capacità tecnologiche, non lavoriamo tutti quanti solo tre o quattro ore al giorno».Nel lontano 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia in Occidente sarebbe progredita al punto di regalarci una settimana lavorativa di appena 15 ore. Invece, è accaduto il contrario: «La tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più», scrive l’antropologo David Graeber. E a tale scopo «sono stati creati lavori che sono di fatto inutili». Enormi schiere di persone, in Europa e Nord America, lavorano in ufficio, dove «trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili». Graeber parla di «danni morali e spirituali», praticamente «una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva», anche se non ne parla nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? «La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo», ma per l’antropologo la verità è un’altra: l’élite capitalista sa benissimo che, una volta liberate dall’incombenza del lavoro full time, le masse cominciano a “pensare”, e a reclamare diritti per una vita diversa, specie se le macchine faticano al posto dell’uomo.
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Missione compiuta, l’Italia muore: la catastrofe in cifre
Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotograno «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».Secondo gli analisti di “Sollevazione”, la resa matematica dell’Italia rivelata dai conti – la lingua spietata del pallottoliere – permette anche di «capire come le politiche austeritarie per tenere in piedi l’euro, il sistema bancocratico e il capitalismo-casinò, abbiano affossato il nostro paese», il cui Pil ha perso 8,7 punti percentuali a partire dal 2007, inclusa la manipolazione dello spread che ha “armato” la gigantesca manomissione operata da Monti e Fornero, con la loro “spending review” e la riforma-suicidio delle pensioni. Un’agenda peraltro proseguita da Letta: tagliare la spesa, ben sapendo che il “risparmio” dello Stato manda in crisi il settore privato, facendo calare il gettito fiscale e quindi esplodere il debito pubblico. Matteo Renzi? Niente di nuovo: neoliberismo puro, a cominciare dal Jobs Act per precarizzare ulteriormente il lavoro. Aggravanti: la neutralizzazione delle ultime difese sociali garantite dalla Costituzione, come vuole l’élite finanziaria, e l’eliminazione fisica dell’opposizione attraverso una legge elettorale come l’Italicum, definita peggiore – per le sue restrizioni – di quella che permise a Mussolini di consolidare il neonato regime fascista.Tutto questo, mentre il paese soccombe ogni giorno: in sei anni, il Pil pro capite è calato di 9 punti (di 10, invece, il reddito reale disponibile per le famiglie). Stesse percentuali per la frana della ricchezza nazionale: -9% dal 2007 al 2013, pari a 843 miliardi di euro. C’era una volta l’Italia: nello stesso periodo, la produzione industriale è crollata addirittura del 25,5%. Sta andando in frantumi, grazie alla politica imposta da Berlino, il maggior competitore europeo della Germania. Tra il 2001 e in 2013, l’Italia ha perso 120.000 fabbriche. Sono cifre da scenario bellico, e non sono riguardano solo l’industria: ci sono anche le 75.000 imprese artigiane costrette a chiudere. Anno record per il fallimenti, l’infame 2013 delle “larghe intese”: qualcosa come 111.000 fallimenti, in appena dodici mesi. Contraccolpo catastrofico, la disoccupazione: dal 2001, con l’ingresso nell’Eurozona, l’industria italiana ha perso un milione e 160.000 posti di lavoro. Colpa anche dell’assenza di credito: nonostante ricevano denaro dalla Bce a tassi «prossimi allo zero», le banche continuano a finanziare le imprese con prestiti al 4,49%, mentre negli altri paesi dell’Eurozona l’interesse medio è al 3,8%.Anche così il lavoro si estingue alla velocità della luce. Dal 2007, la piaga della disoccupazione è più che raddoppiata: dal 6,1% al 12,7 attuale. «I disoccupati ufficiali sono 3 milioni e 300.000», rileva “Sollevazione”, ai quali vanno però aggiunti «altri 3 milioni di persone», che ormai non si rivolgono neppure più ai centri per l’impiego: i cosiddetti “sfiduciati” fanno salire a quasi 6 milioni e mezzo il totale dei disoccupati italiani, proprio mentre la Germania del super-export vede salire ai massimi storici la quota degli occupati. C’è anche il trucco, naturalmente: un tedesco su quattro accetta i mini-job da 450 euro al mese. E’ la strada aperta in Italia dal Jobs Act di Renzi, di fronte a una platea oceanica di giovani senza lavoro: il 43%, più del doppio dei ragazzi disoccupati nel 2007. Sta male, comunque, la stragrande maggioranza dei salari italiani: «Con uno stipendio netto di 21.374 dollari l’anno, l’Italia si colloca al 23esimo posto nella classifica Ocse: se la passano peggio solo i portoghesi e gli abitanti dei paesi dell’Europa orientale». A valanga, la mancanza di impiego si traduce in forte calo dei consumi familiari, tagliati di quasi il 10% solo negli ultimi due anni. A farne le spese è anche il risparmio, continuamente eroso per far fronte all’emergenza economica, mentre la super-tassazione disposta dall’Ue ha raggiunto per l’Italia il 44% del Pil.«Se si considera il periodo tra il 2011 e il 2012 – precisa “Sollevazione” – soltanto l’Ungheria, in Unione Europea, ha conosciuto un aumento delle tasse rispetto al Pil superiore a quello dell’Italia». E’ un circolo vizioso: imporre più tasse a chi già le paga, per tentare (inutilmente) di arginare il calo delle entrate, comunque – già oggi – superiori alla somma delle uscite: situazione che sarà ulteriormente aggravata dal Fiscal Compact e cronicizzata dall’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. In pratica, la fine dello Stato sociale e delle garanzie sui servizi vitali – scuola e sanità in primis, peraltro minacciate di privatizzazione forzata dal Ttip e dal Tisa, i trattati segreti euro-atlantici imposti dagli Usa, che Renzi preme per approvare in fretta. Cartina di tornasole di questa autentica catastrofe, il debito pubblico: era pari al 103,3% del Pil nel 2007, ma ha raggiunto il 132,9% nel 2013. «L’ultimo rilevamento di Bankitalia ci dice che il debito pubblico ha toccato a maggio 2014 un nuovo record storico: quota 2.166,3 miliardi, con un aumento di 20 miliardi sul mese precedente».Va in rosso il conto delle famiglie, nel paese che prima dell’avvento dell’euro era il più risparmiatore d’Europa: rispetto al Pil, dal 1998 al 2012 il debito privato delle imprese è passato dall’85 al 120%, quello delle banche dal 40 al 110%, quello delle famiglie dal 30 al 50%. Paradossalmente, osserva “Sollevazione”, «in questo periodo quello che è cresciuto meno è stato proprio il debito pubblico», mentre il debito aggregato – pubblico e privato – è letteralmente esploso, dal 275% ad oltre il 400%. Spaventose pure le sofferenze bancarie, cresciute di 100 miliardi dal 2007 al 2013, per un totale di 147,3 miliardi di euro. Ed ecco l’ultimo gradino della tragedia: la povertà. Un fantasma che mette paura: l’esercito dei nuovi poveri e il timore che crescano furti e rapine ha aumentato del 5,7% i denari lasciati in custodia alle banche, oltre 1,2 miliardi di euro. Secondo Eurostat, gli «individui a rischio povertà o esclusione sociale» nel 2008 erano in Italia il 25,3%, e sono diventati il 29,9% nel 2012. L’ Istat è ancora più preciso: «Un italiano su dieci è in povertà assoluta».Tra il 2012 e il 2013, spiega l’istituto di statistica, l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8 al 7,9%, coinvolgendo oltre 300.000 famiglie e 1 milione 206.000 persone in più rispetto all’anno precedente. «E’ povera, o quasi povera, una famiglia su cinque». Poi c’è la “povertà relativa”, quelle delle famiglie (sono quasi 3 milioni e mezzo) il cui portafoglio mensile è inferiore alla spesa media nazionale, 972 euro al mese. Sono famiglie che cercano di sopravvivere con meno di 800 euro al mese, che si riducono a meno di 750 nel Mezzogiorno, dove più evidenti sono le diseguaglianze che la “crisi” ha fatto esplodere. Nel 1992, l’Italia era un paese relativamente equilibrato: non c’era un abisso tra ricchi e poveri e la classe media era in ottima salute. Oggi, praticamente, è in via di estinzione e teme di sprofondare giorno per giorno verso la povertà. Nel 2013, l’Italia è risultato «il paese più diseguale dell’Unione Europea, dopo la Gran Bretagna». Solo che il Regno Unito non è ingabbiato dall’euro. Infatti, a Londra, economia e occupazione stanno decisamente meglio rispetto alla media dell’atroce Eurozona, di cui l’Italia – dopo la Grecia – è la vittima principale.Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotografano «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».
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Il futuro secondo Arrighi: dopo di noi la Cina o il caos
Sono tre i possibili esiti per la crisi terminale della “fase americana” nel sistema-mondo: un impero a guida occidentale, virando a dominio la strapotenza militare che i pur declinanti Stati Uniti continuano a mantenere; una società di mercato globale imperniata sull’Asia orientale; e infine l’orrore di un “caos sistemico” come liquidazione di qualsivoglia forma di governance. Giovanni Arrighi ne parla nel post-scriptum de “Il lungo XX secolo”, appena ripubblicato da “Il Saggiatore”, provando a delineare il futuro del pianeta. Fino alla sua morte, nel 2009, Arrighi aveva insegnato alla State University di New York e cooperato al Fernand Braudel Center, diretto da Immanuel Wallerstein. Obiettivo dell’autore, rileva Pierfranco Pellizzetti su “Micromega”, è quello di smontare la teorizzazione di un “eterno ritorno” che connoterebbe le dinamiche del capitalismo, con una fase di creazione di ricchezza (industria e scambi), una “crisi spia” (economia in recessione), un passaggio alla finanziarizzazione (accumulazione al posto della produzione) e la “crisi terminale”, con lo spostamento della centralità geoeconomica.Il valore di un’analisi, scrive Pellizzetti, scaturisce anche dai riflessi che induce, tenendo conto delle coordinate temporali: parole in controtendenza, nell’epoca in cui «un’intellighenzia embedded della restaurazione NeoLib propugnava le tesi pericolose quanto autolesionistiche del “Nuovo Secolo Americano”, poi insabbiate in Iraq e disperse tra le giogaie afgane. Il karakiri dell’Occidente». Il testo, ora tornato in libreria dopo la prima edizione del 1994, «fornisce strumenti particolarmente utili per posizionare in una giusta prospettiva la fine dell’unilaterialismo americano, che era emerso nel dopo Guerra Fredda; tra il crollo del muro di Berlino (1989) e quello delle Torri Gemelle (2001)». Per Pellizzetti, è la questione aperta – quindi attualissima – di un mondo ormai multipolare e senza più un centro. «Un mondo dove si sono determinate rotture sistemiche che reclamano nuove categorie di analisi; e che magari suonano campane a morto per lo stesso ordine capitalistico», quello che «ha egemonizzato i tempi del mondo per l’ultimo mezzo millennio e che potrebbe persino essere giunto a una fase terminale».“Il lungo XX secolo” rilegge la nostra storia recente in tre fasi distinte. La prima è quella dell’espansione finanziaria della fine del XIX e degli inizi del XX secolo, nel corso della quale «furono distrutte le strutture del ‘vecchio’ regime britannico e furono create quelle del ‘nuovo’ regime statunitense». La seconda è quella dell’espansione materiale degli anni ‘50 e ‘60, durante la quale «il dominio del ‘nuovo’ regime statunitense si tradusse in un’espansione del commercio e della produzione di dimensioni mondiali». Terza fase, l’attuale espansione finanziaria, in cui «vengono distrutte le strutture del ‘vecchio’ regime statunitense e vengono presumibilmente create quelle di un ‘nuovo’ regime». Esito finale: «L’arresto della ciclicità capitalistica, quasi come un auspicio», annota Pellizzetti. Un auspicio «lasciato sottinteso, eppure individuabile tra le pieghe della riflessione di Arrighi: il superamento di un ordine che si puntella – al tempo – sull’esclusione e sullo sfruttamento».Come lo stesso Arrighi scriveva sulla “New Left Review” del 1991, «i due processi sono distinti ma complementari», dal momento che «processi di sfruttamento forniscono agli Stati ricchi e ai loro agenti i mezzi per iniziare e mantenere processi di esclusione», che a loro volta «generano la povertà necessaria per indurre i governanti e i cittadini degli Stati relativamente poveri a cercare continuamente di rientrare in una divisione del lavoro mondiale strutturata secondo condizioni favorevoli agli Stati ricchi». Insieme all’importante trilogia di Wallerstein sul sistema-mondo (“Il sistema mondiale dell’economia moderna”, pubblicato da “Il Mulino”), il testo di Arrighi è il contributo più significativo della scuola nata sulle due sponde dell’Atlantico, conclude Pellizzetti. «Essenziale per una profonda ritaratura degli schemi concettuali che guidano la riflessione sulla crisi economica globale, a fronte della palese incapacità del pensiero dominante di interpretarne le cause, macroeconomiche e dunque sistemiche». “Il lungo XX secolo” ne mette a fuoco gli aspetti più significativi: in particolare, l’inarrestabile processo di finanziarizzazione (produzione di denaro a mezzo denaro) quale idealtipico sbocco di lungo periodo dell’economia “reale”, e le conseguenze che ne derivano per nuovi cicli di accumulazione capitalistica. Il finale è aperto: la fine del capitalismo potrebbe essere già in corso, ma il “regime” che verrà non sappiamo se sarà ancora guidato dall’Occidente o dalla Cina, a meno che il mondo non precipiti in un caos non più governabile.Sono tre i possibili esiti per la crisi terminale della “fase americana” nel sistema-mondo: un impero a guida occidentale, virando a dominio la strapotenza militare che i pur declinanti Stati Uniti continuano a mantenere; una società di mercato globale imperniata sull’Asia orientale; e infine l’orrore di un “caos sistemico” come liquidazione di qualsivoglia forma di governance. Giovanni Arrighi ne parla nel post-scriptum de “Il lungo XX secolo”, appena ripubblicato da “Il Saggiatore”, provando a delineare il futuro del pianeta. Fino alla sua morte, nel 2009, Arrighi aveva insegnato alla State University di New York e cooperato al Fernand Braudel Center, diretto da Immanuel Wallerstein. Obiettivo dell’autore, rileva Pierfranco Pellizzetti su “Micromega”, è quello di smontare la teorizzazione di un “eterno ritorno” che connoterebbe le dinamiche del capitalismo, con una fase di creazione di ricchezza (industria e scambi), una “crisi spia” (economia in recessione), un passaggio alla finanziarizzazione (accumulazione al posto della produzione) e la “crisi terminale”, con lo spostamento della centralità geoeconomica.
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Navarro: crisi finita, se la Bce finanziasse gli Stati
Da almeno trent’anni, il nostro potere d’acquisto è in caduta libera, mentre le ricchezze finanziarie sono aumentate in modo esplosivo. Per metter fine alla crisi, ovvero alla Grande Recessione, basterebbe invertire semplicemente la rotta: aumentare i redditi da lavoro e tagliare le unghie alla finanza. Nel solo modo possibile: restituendo sovranità finanziaria agli Stati. Lo sostiene l’economista Vicenc Navarro, docente dell’università Upf “Johns Hopkins” di Baltimora, analizzando le cause della depressione economica. Certo, la deregulation ha creato uno sviluppo “mostruoso” del capitale finanziario, non puù legato alla produzione. Ma chi l’ha voluto? Semplice: gli stessi super-poteri che, dagli anni ‘80, hanno costantemente colpito i lavoratori, tagliando i salari. Di qui la «enorme crescita delle disuguaglianze di reddito» negli Stati dell’Ocse, «il club dei paesi più ricchi del mondo». La causa? La diminuzione dei redditi da lavoro, cioè i redditi del 99% della popolazione. Un dramma, perché proprio un’equa distribuzione dei redditi è il fattore determinante per l’evoluzione economica, sociale e politica di un paese.La maggior parte della popolazione ottiene i propri redditi dal lavoro. E quando questi diminuiscono (tagli ai salari, disoccupazione), anche la domanda di prodotti e servizi, e quindi la loro produzione, decresce. L’economia subisce una caduta: è quello che si chiama recessione. La “scoperta” di questo nesso tra discesa della domanda e crisi economica, scrive Navarro in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”, viene spesso attribuita al celebre economista inglese John Maynard Keynes, ma in realtà fu Karl Marx il primo ad avvertire che «l’accumulazione di capitale, a scapito del lavoro, porta alla crisi del capitalismo». Tesi approfondita da uno dei suoi più brillanti seguaci, il polacco Michael Kalecki, il quale a sua volta influenzò economisti come Joan Robinson e Paul Sweezy. Sintetizza Navarro: «Quando la gente non ha soldi, li chiede in prestito. E questo spiega la crescita del sistema bancario». Il super-indebitamento delle famiglie e delle piccole e medie «si deve precisamente alla diminuzione dei redditi da lavoro». Attenzione: «Sin dagli anni ‘80, c’è un’opposta relazione tra la diminuzione dei redditi da lavoro di un paese e la crescita del sistema bancario». Più calano i primi, più cresce il secondo.I dati parlano da soli, continua Navarro. Negli anni ‘80, in relazione al Pil, in Spagna i redditi da lavoro sono diminuiti dal 68%, con valori analoghi negli Usa. Stessa tendenza in tutta l’area Ocse, dalla Grecia alla Svezia, dall’Italia all’Irlanda. «In tutti questi paesi, i redditi da lavoro sono scesi rapidamente a scapito dell’incremento dei redditi da capitale. Questa è la realtà, ignorata, sconosciuta o occultata. E non è sicuramente casuale che Grecia, Irlanda, Italia e Spagna siano i paesi dove la Grande Recessione è stata più forte». Dove crolla la domanda, esplode la recessione. Il credito bancario può sopperire alla diminuzione dei redditi da lavoro e sostenere la domanda di consumi, ma fino a un certo punto. Perché poi, se l’economia si inceppa, chi ha molto denaro cessa di investire nell’economia produttiva e ripiega «in aree dove il rendimento è maggiore, come nelle attività speculative, come ad esempio, il settore immobiliare».Così «si producono le grandi bolle speculative, facilitate dalla deregolamentazione del sistema bancario». E quando la bolla scoppia, «la banca collassa o si paralizza, il credito sparisce e anche l’economia entra in crisi, perché senza credito, anche la domanda tracolla, poiché i salari, sempre più bassi, in assenza di credito, non possono sostenerla. Ed è così che nasce la Grande Recessione». Aggiunge Navarro: «L’enorme concentrazione della ricchezza ha creato la Grande Recessione, così come prima, agli inizi del secolo XX, creó la Grande Depressione». La soluzione? Tecnicamente semplice: «Ribaltare le politiche pubbliche che si sono andate sviluppando, in maggior parte dal 1980 ad oggi, cambiando il segno di questi interventi, favorendo i redditi da lavoro al posto dei redditi da capitale». Aumentare salari, occupazione e impiego, e sfavorire le rendite finanziarie, a cominciare da quelle del settore bancario: «Non ha senso che il sistema bancario privato ottenga prestiti a tassi molto bassi dalla Bce, affinché dopo le banche private possano prestare questo denaro con interessi molto alti alle autorità pubbliche, come lo Stato, o alle imprese». Molto meglio se la Bce prestasse gli euro direttamente agli Stati, incaricati di finanziare famiglie e imprese. «Che tutto ciò accada o meno, dipende da una volontà politica», conclude Navarro. «Affinché accada, si ha bisogno di un cambiamento profondo delle relazioni di potere, includendo le relazioni di potere di classe, nelle quali una minoranza controlla la maggioranza di istituzioni mediatiche e politiche dei paesi dell’Ocse, imponendo politiche ultra-liberali che stanno danneggiando grandemente la popolazione».Da almeno trent’anni, il nostro potere d’acquisto è in caduta libera, mentre le ricchezze finanziarie sono aumentate in modo esplosivo. Per metter fine alla crisi, ovvero alla Grande Recessione, basterebbe invertire semplicemente la rotta: aumentare i redditi da lavoro e tagliare le unghie alla finanza. Nel solo modo possibile: restituendo sovranità finanziaria agli Stati. Lo sostiene l’economista Vicenc Navarro, docente dell’università Upf “Johns Hopkins” di Baltimora, analizzando le cause della depressione economica. Certo, la deregulation ha creato uno sviluppo “mostruoso” del capitale finanziario, non puù legato alla produzione. Ma chi l’ha voluto? Semplice: gli stessi super-poteri che, dagli anni ‘80, hanno costantemente colpito i lavoratori, tagliando i salari. Di qui la «enorme crescita delle disuguaglianze di reddito» negli Stati dell’Ocse, «il club dei paesi più ricchi del mondo». La causa? La diminuzione dei redditi da lavoro, cioè i redditi del 99% della popolazione. Un dramma, perché proprio un’equa distribuzione dei redditi è il fattore determinante per l’evoluzione economica, sociale e politica di un paese.
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La Grande Ipocrisia del nostro cinema marcio: i partiti
Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.In teoria (ma soltanto in teoria) è stato prodotto da Nicola Giuliano e Francesca Cima (quota Pd di stretta marca burocratica di scuola veltroniana) per conto della Indigo Film, i quali – senza Berlusconi – non sarebbero stati in grado neppure di pagarsi le spese dell’ufficio, dato che su 9 milioni di euro di budget, il buon Berluska ne ha messi 6,5. E’ stata buttata dentro anche la Lega Nord, che ha partecipato con la Banca Popolare di Vicenza (500 mila euro come favore amicale) e con la sponsorizzazione del Biscottificio Verona (in tutto il film non si vede neppure una volta qualcuno mangiare uno dei suoi biscotti), entrambe le aziende vogliose di entrare nel grande giro (sono bastate due telefonate per convincerli).Grazie alla malleverie politiche, attraverso fondazioni di partito hanno ottenuto altri 2 milioni di euro incrociati: il Pd se li è fatti dare grazie al solerte lavoro di relazioni europee attraverso il “programma Media Europa” (650 mila euro) mentre Renata Polverini ha partecipato alla produzione dando 500 mila euro per conto della presidenza della Regione Lazio attraverso il “fondo per il cinema e audiovisivi per il rilancio delle attività cinematografiche dei giovani” (soldi che ha dato a Giampaolo Letta, sulla carta lui sarebbe “il giovane” che andava aiutato).Nicola Giuliano ha messo su la squadra partitica. In teoria fa il produttore, ma fa anche il docente, il consulente.Ha la cattedra al corso di produzione della Scuola nazionale di cinema di Roma, ma allo stesso tempo ha anche la cattedra di docente di produzione cinematografica presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, oltre che docente di “low cost production” a San Antonio De los Banos nell’isola di Cuba e consulente per la Rai. E’ un funzionario tuttofare che mette su pacchetti partitici, il che poco ha a che fare con il cinema, ma molto ha a che vedere con l’idea italiana di come si fa il cinema. O meglio: molto ha a che fare con l’idea di come si uccide e si annienta una cinematografia.Secondo gli esaltatori di questo “prodotto Italia”, il film vincente aprirebbe la strada a investimenti, stimolando i giovani autori e lanciando il nuovo cinema italiano; mentre, invece, l’unico risultato che otterrà sarà quello di far capire a tutti, come severo ammonimento, che “o prendete la tessera di Forza Italia/Pd oppure non lavorate”, chiarendo a chiunque intenda investire anche 1 euro nel cinema che bisogna però passare attraverso la griglia dell’italianità partitica, il che metterà in fuga chi di cinema si occupa e attirerà invece squali di diversa natura il cui unico obiettivo consiste nel fare affari lucrosi in Italia con Berlusconi e il Pd, in tutt’altri lidi.I giovani autori, i cineasti italiani in erba, le giovani produzioni speranzose, il cinema indipendente, ricevono da questo premio un danno colossale perchè il segnale che viene dato loro è quella della contundente italianità, quella della Grande Ipocrisia, la vera cifra di questo paese che si rifiuta di aprire il mercato ai meritevoli, ai competenti, a quelli senza tessera. Il film ha vinto esattamente nello stesso modo in cui aveva vinto “Nuovo cinema Paradiso” nel 1990.Due parole tecniche per spiegarvi come funziona il meccanismo di votazione dell’oscar. Per votare bisogna essere iscritti al Mpaa (Motion Pictures Academy of Art) e bisogna essere sindacalizzati; dal 1960 vale anche il principio per cui chi è disoccupato non vota, nel senso che bisogna dimostrare con documenti alla mano che “si sta lavorando” da almeno gli ultimi 24 mesi ininterrottamente, garantendosi in tal modo il voto di chi sta veramente dentro al mercato. Perchè per gli americani l’unica cosa che conta per davvero è il mercato, per questo Woody Allen (autore indipendente) detesta Hollywood e non ci va mai, la considera una truffa. I votanti sono all’incirca 6.000 e sono presenti tutte le categorie dei lavoratori (si chiamano industry workers): produttori, registi, sceneggiatori, direttori di fotografia, macchinisti, tecnici del suono, delle luci, scenografi, sarti, guardarobiere, guardie di sicurezza, perfino i gestori degli appalti per gestire i catering sul set, ecc. Ogni voto vale uno, il che vuol dire che il voto di Steven Spielberg vale quanto quello di un ragazzino il cui lavoro consiste nel tenere l’asta del microfono in direzione della bocca del divo di turno nel corso delle riprese, purchè lo faccia da almeno due anni e paghi i contributi.Quando si avvicina il giorno della votazione scattano i cosiddetti “pacchetti” e a Los Angeles la lotta è furibonda e comincia la caccia già verso i primi di novembre, con i responsabili marketing degli “studios” (sarebbero le grandi majors) che minacciano, ricattano, assumono, licenziano, per convincere chi ha bisogno di lavorare a votare per chi dicono loro. Per ciò che riguarda i film stranieri la procedura è la stessa ma su un altro binario: vale il cosiddetto “principio Hoover” lanciato dal capo del Fbi alla fine degli anni ‘50: vince la nazione che più di ogni altra in assoluto farà fare affari alle sei grosse produzioni che contano, acquistando i suoi prodotti. E’ il motivo per cui l’Italia è la nazione al mondo che ha collezionato più oscar di tutti (la più serva e deferente) e la Russia e il Giappone quelle che ne hanno presi di meno.Quando l’Italia, per motivi politici (o di affari) ha bisogno dell’oscar, allora costruisce un poderoso business (per la serie: vi compro questi quattro telefilm che nessuno al mondo vuole e ve li pago tre volte il suo valore) e lo va a proporre a società di intermediazione di Los Angeles collegate ai due sindacati più potenti californiani, da 40 anni gestiti da famiglie calabresi e siciliane, quelli che danno lavoro alla manovalanza tecnica e gestiscono i pacchetti, dato che controllano il 65% dei voti complessivi. Per i film stranieri bisogna avere un forte “endorsement”, ovvero un sostegno di persona nota nell’industria che garantisce a nome dei sindacati, come è avvenuto quest’anno con Martin Scorsese che si è fatto il giro presso la comunità di amici degli amici a Brooklyn.Nel 1989 accadde la stessa cosa: Berlusconi doveva entrare nel mercato americano per mettere su un gigantesco business (quello per il quale è stato definitivamente condannato dalla Cassazione, il cosiddetto “processo media-trade”); doveva entrare a Hollywood dalla porta principale con la Pentafilm. Ma non c’erano film italiani che valessero, era già piombata la mannaia dei partiti, tanto è vero che perfino il compianto Fellini girava a vuoto da un produttore all’altro ed era disoccupato, motivo per cui finì per ammalarsi. Alla fine, l’abile Berlusconi riuscì a convincere il più intelligente e bravo produttore di quei tempi (che se la passava maluccio) Franco Cristaldi, a dargli un prodotto perchè lui doveva vincere comunque. Cristaldi era disperato e non sapeva che cosa fare perchè non poteva fare delle figuracce con gli americani che conoscono il buon cinema e non è facile ingannarli, ma si fece venire in mente un’idea geniale. Aveva fatto una marchetta con RaiTre e aveva prodotto un film, “Nuovo Cinema Paradiso”, che era stato un flop clamoroso, sia alla tivvù, con indici di ascolto minimi, che al cinema, dove era uscito e dopo dieci giorni era stato ritirato per mancanza di pubblico. Il film durava 155 minuti ed era francamente inguardabile, di una noia mortale. Senza dire nulla al regista, Cristaldi ci lavorò da solo – letteralmente – per tre mesi. Rimontò totalmente il film, tagliò e buttò via 72 minuti e usando dei filtri cambiò anche le luci, riuscendo anche a modificare dei dialoghi. Lo fece uscire in Usa dove ottenne un buon successo di critica, sufficiente per passare.Berlusconi fu contento ma non gli diede ciò che era stato pattuito. Il giorno in cui Tornatore prese l’oscar, nel 1990, accadde un fatto inaudito per la comunità hollywoodiana. La statuetta venne data al regista e all’improvviso Franco Cristaldi fece un salto sul palco, si avvicinò, strappò di mano la statuetta a Tornatore, prese il microfono in mano e disse «questo oscar è mio, questo premio l’ho vinto io, questo è il mio film, questo è un film del produttore». Fu l’inizio della fine della sua carriera in Italia, perchè il giorno dopo l’intera critica statunitense (in Italia non venne mai fatta neppure menzione degli eventi) lo volle intervistare e lui raccontò come i partiti stessero distruggendo quella che un tempo era stata una delle più importanti industrie cinematografiche del mondo. Lo scaricarono tutti in Italia e finì per lavorare all’estero. Di lì a qualche anno morì.Fu in quell’occasione che Tornatore, in una intervista, spiegò come si faceva il regista in Italia: «Bisogna occuparsi di politica, quella è la strada. Io mi sono iscritto al Pci e poi sono riuscito a farmi eleggere alle elezioni comunali in un piccolo paesino della Calabria dove sono diventato assessore. Mi davano da firmare delle carte e io firmavo senza neppure leggerle, dovevo fare soltanto quello. Dopo un po’ di tempo mi hanno detto che potevo anche dimettermi e andare a Roma a fare i film». Aveva ragione lui: in Italia funziona così;24 anni dopo è la stessa cosa, con l’aggravante del tempo trascorso. “La Grande Bellezza” appartiene a questo filone dell’italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all’intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.E si vede, si sente, lo si capisce; nell’arte non si riesce a mentire perchè l’arte è basata su uno squisito paradosso: poichè è finzione totale – e quindi menzogna pura – chi la produce non può darla ad intendere perchè la verità sottostante salta sempre fuori. E’ la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un’operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto. E’ la quintessenza del paradosso italiano trasformato nel consueto ossimoro: un brutto film che si pone e si qualifica come la Grande Bellezza; proprio come Mario Monti che lanciò il decreto “salva Italia” che ha affondato il paese e Letta (Enrico) che lanciò il “governo del fare” licenziato dopo pochi mesi perchè non è riuscito a fare nulla.Il film, davvero noioso e privo di spessore, è un prodotto subliminare, promosso dai partiti politici italiani al governo solo e soltanto dopo che i due protagonisti, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, si sono messi pubblicamente a disposizione della famiglia Letta. Il film, infatti, doveva uscire a settembre del 2013, ma hanno anticipato l’uscita a giugno perchè era il momento in cui era assolutamente necessario usare ogni mezzo per poter azzannare l’opposizione. Il 7 giugno del 2013, Servillo e Sorrentino vengono invitati da Lilli Gruber nella sua trasmissione “8 e 1/2” per l’emittente La7. L’intervista dura 32 minuti. I primi 20 minuti sono noiosi e si parla del film che, si capisce da come andava l’intervista, nessuno avrebbe mai visto. Dal 21esimo minuto in poi, avviene la svolta, fino alla fine. L’attore e il regista, ben imboccati dalla Gruber, si lanciano in un attacco politico personale contro Beppe Grillo e il M5s. Un fatto che non aveva alcun senso, dato che si trattava di un film che nulla – per nessun motivo – aveva a che fare con la vita politica italiana e con il dibattito in corso.Servillo fu durissimo nel sostenere a un certo punto che «mi faccio dei nemici ma me li faccio volentieri», spiegando ai telespettatori (che pensavano di ascoltare un attore che parlava di cinema) come «Grillo ripropone un’immagine di leader vecchio che passa da Masaniello a Berlusconi» – cioè il suo produttore – «e usa un linguaggio violento…. ». Sorrentino gli andò dietro e insieme, per dei motivi incomprensibili a chiunque si occupi di cinema in qualunque parte del mondo (tranne che in Italia) spiegavano che il M5s «è un movimento che vuole togliere la sovranità al Parlamento». Da quel momento i due sono andati in giro a promuovere il loro film in ambito politico nazionale allertando la popolazione sul pericolo rappresentato dal M5s, e così l’establishment nazionale l’ha imposto come moda propagandandolo in maniera esorbitante. Riguardando quell’intervista, ho scoperto, pertanto, che Toni Servillo ha stabilito che io sono un suo nemico. Non lo sapevo. Ieri sera, la Gruber, sempre attenta nel rispettare i codici della rappresentanza che conta, ha dedicato un’altra intervista al film, ma in questo caso ha invitato Walter Veltroni. Forse c’è stato qualche telespettatore che si sarà chiesto «ma che cosa c’entra con questo film?». Appunto.(Sergio Di Cori Modigliani, “La Grande Ipocrisia, trionfano le larghe intese consociative spacciandole per prodotto Italia”, dal blog di Modigliani del 4 marzo 2013).Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
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Brown: saremo 9 miliardi, grano e riso non ci basteranno
Entro la metà di questo secolo saremo tre miliardi in più e il nostro primo problema sarà la scarsità di cibo. «Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici», avverte Lester Brown, analista alimentare di fama internazionale. «Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima». L’allarme: molti paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Troppe colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Presidente dell’Earth Watch Institute, Brown segnala che «in Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni, e altri paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie». Un problema mondiale, che riguarda anche India, Corea del Sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.«Dopo decenni di aumenti dei raccolti, i governi non hanno ancora capito che presto si raggiungerà il limite della capacità di produrre cibo», scrive Andrea Bertaglio su “La Stampa”, in un articolo che gli è valso il premio “Rendi l’informazione + Sostenibile”, al forum WiGreen di Milano. «Dal 1950, i raccolti globali sono triplicati, ma quei giorni sono finiti», fa presente Brown, ambientalista ed economista statunitense noto al pubblico internazionale per aver sviluppato diversi “Piani-B” per salvare il pianeta. L’agricoltura sta frenando: «Tra il 1950 e il 1990, la resa di granaglie nel mondo è aumentata in media del 2,2% all’anno», rallentando di molto il suo ritmo rispetto ai decenni precedenti. Il problema dei limiti nella produzione di alimenti, oltre che europeo, è anche e soprattutto asiatico: in India, paese che cresce ogni anno di 18 milioni di abitanti, «il livellamento delle rese del frumento è decisamente reale». Un discorso, aggiunge Bertaglio, che ovviamente «vale anche per la ancor più popolosa e vorace Cina».In Gran Bretagna, nazione europea che con la Svezia sta cercando più di altri di capire come fronteggiare questo fenomeno, Stuart Knight del National Institute of Agricultural Botany non la pensa allo stesso modo: «I raccolti hanno dei limiti fisiologici, ma pensiamo di essere ben lungi dal raggiungerli», assicura. Esattamente il contrario di quanto afferma Lester Brown, per cui l’agricoltura tradizionale non può più nemmeno sperare di aumentare la sua produttività. La Fao sembra dar ragione a Knight: secondo il suo ultimo rapporto trimestrale, la produzione cerealicola mondiale nel 2013 sarebbe aumentata di circa il 7% rispetto all’anno precedente, portando la produzione mondiale di cereali al livello record di 2.479 milioni di tonnellate. «Le rese di cereali per ettaro, come qualsiasi processo di crescita biologica, hanno i loro limiti e non possono continuare a salire all’infinito», insiste però Brown, preoccupato per la “scarsità” che ci attende: limitate risorse idriche, consumo di suolo, rese in calo e instabilità crescente dovuta al global warming.Che fare, quindi? Secondo alcuni la soluzione sta nello sviluppo degli Ogm. La pensano così il governo britannico, la Bill & Melinda Gates Foundation e l’International Rice Research Institute (Irri) nelle Filippine, che hanno già investito oltre 20 milioni di dollari nell’ingegneria genetica applicata al riso, sempre con la speranza di aumentarne la produzione. «Nonostante i massicci sforzi, però – rileva Bertaglio – i progressi sono stati fino a questo punto pochi e lenti, e ancora non è chiaro l’effetto che organismi di questo tipo possano avere sulla salute umana». Per sconfiggere il problema reale della scarsità in un pianeta che si appresta ad ospitare nove miliardi di persone, ciò che si può attuare da subito è ad esempio la riduzione degli sprechi alimentari, che dilagano nonostante la crisi. «Prima di trovare modi per aumentare le rese, quindi, c’è chi suggerisce di iniziare a non gettare cibo e risorse inutilmente. Anche perché, stando ai dati Fao, l’attuale produzione globale di alimenti potrebbe permettere di nutrire oltre 12 miliardi di persone».Entro la metà di questo secolo saremo tre miliardi in più e il nostro primo problema sarà la scarsità di cibo. «Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici», avverte Lester Brown, analista alimentare di fama internazionale. «Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima». L’allarme: molti paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Troppe colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Presidente dell’Earth Watch Institute, Brown segnala che «in Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni, e altri paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie». Un problema mondiale, che riguarda anche India, Corea del Sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.