Archivio del Tag ‘11 settembre’
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Magaldi: la cinica verità del potere dietro alla crisi Usa-Iran
Non possono certo passare per i Guardiani della Rivoluzione Islamica le magnifiche sorti e progressive dell’umanità, tantomeno all’alba del terzo millennio inaugurato dal mostruoso terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, che l’11 settembre 2001 ha raso al suolo le Torri Gemelle. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, Gioele Magaldi non esita a denunciare una superloggia massonica – la “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush – come incubatrice del neoterrorismo stragista concepito proprio negli Stati Uniti. Ma oggi avverte: non facciamo l’errore di trasformare in un martire innocente il generale di ferro Qasem Soleimani, grande nemico di quell’Isis che è stato partorito dalle stesse menti, non islamiche, che progettarono le imprese di Al-Qaeda. Assassinato dagli Usa a Baghdad in circostanze che Magaldi definisce «verminose», Soleimani – sostiene – non era esattamente una mammoletta: era stato infatti la mente della spietata operazione geopolitica, militare e d’intelligence, sviluppata per instaturare l’egemonia di Teheran sulla Mezzaluna Sciita, anche al prezzo di attentati, intimidazioni e uccisioni, destabilizzando una regione peraltro già ampiamente devastata, in partenza, dall’imperialismo americano nell’era Bush.Soleimani è stato determinante nel fermare l’Isis, cioè il terrorismo protetto dall’Occidente? Vero, ammette Magaldi: Obama avrebbe potuto stroncare sul nascere le orde di tagliagole che hanno seminato il terrore in Iraq e in Siria. Peggio: quelle bande erano state formate, armate, addestrate e protette da ambienti atlantici, attraverso servizi segreti infiltrati da elementi facenti capo, ancora e sempre, alla “Hathor Pentalpha”, cioè le menti occulte dell’11 Settembre. Ma attenzione, avverte Magaldi: il generale Soleimani agiva comunque per conto del concorrenziale oscurantismo autoritario di Teheran, un regime islamista che pratica ha Sharia e non rispetta i diritti umani. Non solo: lo stesso Soleimani era vicinissimo all’ala più tradizionalista e reazionaria del potere di Teheran, e con i suoi Pasdaran (che controllano direttamente una fetta dell’economia iraniana) aveva proposto di stroncare nel sangue le proteste degli studenti iraniani, scesi in piazza per rivendicare libertà di espressione. Secondo Magaldi, l’efferato omicidio del generale – effettuato in modo inaudito, in un paese tecnicamente neutrale come l’Iraq – rischia di far passare per vittima un regime teocratico che esercita in modo feroce il potere sui suoi “sudditi”.Quanto a ipocrisia, peraltro, gli Stati Uniti non si fanno mancare nulla: la monarchia saudita, grande alleata di Washington, rivaleggia con Teheran e forse – dice Magaldi – addirittura supera, in ferocia, il regime degli ayatollah. Ma Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, si sforza di esercitarsi in un’analisi lucidamente geopolitica: a che cosa servirebbe sgominare l’Isis, se poi l’intera regione cadesse sotto l’egemonia dei mullah? Magaldi, peraltro, non crede che l’assassinio di Soleimani possa spalancare le porte dell’inferno: la Terza Guerra Mondiale, assicura, non la vuole nessuno. Un invito? Leggere oltre le etichette e le bandiere: dare un nome preciso all’élite eversiva che ha manipolato gli Usa, riconoscere il carattere ambiguo della “democratura” di Putin e il segno autoritario della potente oligarchia cinese. Problema: veri e propri potentati politico-economici, assolutamente trasversali, si disputano cinicamente il pianeta in una sorta di Risiko, in cui nessuno dice la verità e nel quale ogni tanto muore qualche pezzo da novanta, come Qasem Soleimani. E il peggio è – chiosa Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – che a volte i nemici-carnefici sono soci occulti: in passato, i falchi di Tel Aviv e quelli di Teheran hanno concordato segretamente le rispettive mosse, sapendo che l’odio estremista agitato dalle opposte tifoserie avrebbe rafforzato il reciproco potere.Non possono certo passare per i Guardiani della Rivoluzione Islamica le magnifiche sorti e progressive dell’umanità, tantomeno all’alba del terzo millennio inaugurato dal mostruoso terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, che l’11 settembre 2001 ha raso al suolo le Torri Gemelle. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, Gioele Magaldi non esita a denunciare una superloggia massonica – la “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush – come incubatrice del neoterrorismo stragista concepito proprio negli Stati Uniti. Ma oggi avverte: non facciamo l’errore di trasformare in un martire innocente il generale di ferro Qasem Soleimani, grande nemico di quell’Isis che è stato partorito dalle stesse menti, non islamiche, che progettarono le imprese di Al-Qaeda. Assassinato dagli Usa a Baghdad in circostanze che Magaldi definisce «verminose», Soleimani – sostiene – non era esattamente una mammoletta: era stato infatti la mente della spietata operazione geopolitica, militare e d’intelligence, sviluppata per instaurare l’egemonia di Teheran sulla Mezzaluna Sciita, anche al prezzo di attentati, intimidazioni e uccisioni, destabilizzando una regione peraltro già ampiamente devastata, in partenza, dall’imperialismo americano nell’era Bush.
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Cacciari, il sangue di Soleimani e l’osceno silenzio europeo
Menzogne, sangue e colpevoli silenzi. E’ l’habitat nel quale prospera il verminaio terrorista alimentato sottobanco da un impero occidentale che non ha saputo svilupparsi, storicamente, se non spese di paesi terzi. E’ la tesi di giornalisti eretici come Paolo Barnard, corroborata da illustri colleghi come Seymour Hersh, Premio Pulitzer statunitense, spietato con i nostri media: se la stampa non avesse smesso di fare il proprio mestiere, sostiene, qualche politico – non codardo – avrebbe avuto modo di denunciare i crimini del potere mercuriale, costringendo l’establishment del terzo millennio a fare meno guerre e provocare meno massacri di vittime innocenti. Che poi la verità si annacqui negli opposti estremismi opportunistici e nel sostegno al terrorismo, fatale conseguenza di abusi criminali, non è che un aspetto della mattanza in corso, a rate, inaugurata dall’opaco maxi-attentato dell’11 Settembre a New York, di cui tuttora si tace la vera paternità presunta. Ma se si varca il Rubicone e si compie una violazione che non ha precdeenti nella storia, un attentato terroristico condotto con mezzi militari e apertamente rivendicato, allora si passa il segno.Fa impressione sentirlo dire in televisione dal filosofo Massimo Cacciari, solitamente prudente, ospite di Bianca Berlinguer il 7 gennaio 2020 insieme all’altrettanto compassato Paolo Mieli, parimenti preoccupato dall’inaudito omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, assassinato senza preavviso in un paese neutrale e teoricamente sovrano, l’Iraq devastato dalle guerre americane. A spaventare Cacciari è innanzitutto la morte clinica della politica: senza nemmeno citare l’increscioso Salvini che tifa per i missili omicidi, auto-espellendosi dal club delle personalità pubbliche abilitate a occuparsi di noi, ciò che sconcerta è il vuoto pneumatico, culturale prima ancora che politico, che contraddistingue le cancellerie europee di fronte al pericolosissimo valzer di sangue innescato dal proditorio assassinio di Soleimani, eroe nazionale dell’Iran, le cui esequie in mondovisione hanno esibito nelle piazze il dolore di milioni di persone. Si ha un bel dire che il regime di Teheran non è certo un esempio di libertà e democrazia: la discussione si potrebbe svolgere alla pari quando l’Iran bombardasse l’Europa o l’America, ammazzando leader occidentali.Certo, se il mondo sembra sull’orlo dell’abisso, non bisogna dimenticare che – dietro le quinte – agiscono potentissime consorterie riservate, spesso tacitamente in accordo tra loro, pronte anche a sacrificare innocenti pur di incolparsi a vicenda e rafforzare nel modo più sleale il ferreo dominio sui rispettivi popoli, drogati di propaganda. Di fronte al suo omicidio così infame, imposto al mondo in modo pericoloso e oscenamente sfrontato, i media occidentali ripetono che Soleimani era una specie di terrorista, evitando di ricordare che proprio il comandante dei Pasdaran era il nemico numero unico del terrorismo targato Isis, da lui personalmente sgominato prima in Iraq e poi in Siria. Dove pensa di andare, un Occidente che si priva della minima dose vitale di verità? In nome di quale presunta superiorità democratica ritiene di prevalere sulla brutale teocrazia degli ayatollah, sulla “democratura” russa e sull’oligarchia cinese?Si abbia almeno la decenza di riconoscere che il generale Soleimani era innanzitutto un uomo del suo popolo, protesta – sempre alla televisione italiana, ospite di Barbara Palombelli – un intellettuale come Pietrangelo Buttafuoco, il solo a rammentare al gentile pubblico che l’Isis, il mostro che Soleimani ha sconfitto in Iraq e in Siria, era armato e protetto proprio da noi, Occidente democratico. Per la precisione, ha ricordato il saggista Gianfranco Carpeoro, a mettere in piedi l’inferno chiamato Isis è stata una Ur-Lodge supermassonica, la “Hathor Pentalpha”, creata nel 1980 dal clan Bush, reclutando prima Osama Bin Laden e poi il “califfo” Abu Bakr Al-Baghadi. Proprio la recente uccisione del macellaio Al-Baghdadi, uomo-chiave del Deep State statunitense, secondo Carpeoro avrebbe indotto la “Hathor” a premere su Trump, ricattandolo: se uccidi Soleimani, la passerai liscia al Senato per l’impeachment e avrai dalla tua parte, nella corsa per le presidenziali di novembre, anche l’ala repubblicana più reazionaria e naturalmente il potentissimo network sionista che i complottisti chiamano impropriamente “lobby ebraica”.Analisi, suggestioni e indizi che non raggiungono neppure lo 0,1% del pubblico, a cui viene raccontato che il generale Soleimani era “un feroce assassino”, senza mai specificare come, quando e dove si sarebbe esercitato nella sua diabolica specialità, così riprovevole e lontana mille miglia dalla soave, squisita e leggendaria gentilezza dei democraticissimi generali statunitensi e israeliani. Era attivo in Libano, Soleimani? Certo, ma lo erano anche i colleghi israelo-occidentali, che notoriamente in Libano ci vanno abitualmente come turisti. Era stato impegnato in Iraq, il generale iraniano, ed è noto a tutti che l’Iraq è da sempre nei cuori delle umanitarie democrazie occidentali, madrine dei diritti umani. Il bieco Soleimani era di casa pure in Siria, altro paese amatissimo dai democratici di Washington, Ankara, Riad e Tel Aviv. Per inciso: Siria, Libano e Iraq erano i paesi da cui gli impresari occidentali dell’Isis contavano di esportare i tagliagole in Iran, per abbattere finalmente l’odiato regime (sovrano) degli ayatollah. Paolo Barnard ha titolato un suo bestseller con la più scomoda delle domande: perché ci odiano? Tra le sue fonti: il numero due di Al-Qaeda in Egitto.E’ decisivo scoprire che il cuore nero e inconfessabile del jihadismo è l’invenzione perversa di un’élite occidentale criminale. Ma restando sulla superficie, questo non cambia il quadro, il bilancio finale: le nostre forze armate, impegnate in paesi islamici, hanno provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di esuli. Perché ci odiano, dunque? Supporre che al nostro posto chiunque altro – Russia, Cina – si sarebbe comportato nello stesso modo, non è di grande consolazione. Alcuni incrollabili atlantisti, che vedono comunque negli Stati Uniti l’unica possibile fonte di riscatto democratico per il pianeta, sperano che il lume della ragione prenda possesso del governo imperiale della superpotenza prima che sia troppo tardi. Si illudono? Sono domande senza risposta, su cui pesa il vistoso smarrimento di Cacciari di fronte al vergognoso silenzio dell’Europa: com’è possibile, accusa, non prendere le distanze da un atto di terrorismo di Stato come quello compiuto dagli Usa ai danni dell’Iran?Lo stesso Cacciari, sempre in televisione, non si nasconde le possibili conseguenze: se gli Usa dovessero reagire alle ovvie rappresaglie iraniane bombardando Teheran, la potenza nucleare russa sarebbe costretta a intervenire. La chiamano: Terza Guerra Mondiale. Nessuno la vorrebbe, ma sembra avvicinarsi in modo terrificante, con sviluppi imprevedibili. Simone Santini, su “Megachip”, accosta la morte di Soleimani a quella dell’afghano Massud. Stessa dinamica e stessi mandanti, identico obiettivo: assassinare un leader autorevole, per far esplodere il caos e indebolire il paese finito nel mirino della potenza imperiale. La pakistana Benazir Bhutto accusò Bush e la Cia dell’omicidio Massud, candidandosi a ripulire il Pakistan, per poi rimarginare anche le ferite dell’Afghanistan: fu assassinata a sua volta, alla vigilia delle elezioni. Un conto però sono le autobombe, dice oggi Massimo Cacciari, e un altro è l’omicidio manu militari commesso impunemente, alla luce del sole. Non era mai accaduto prima, nella storia. E nessuno ha avuto il coraggio di protestare. Se stiamo zitti di fronte a questo, aggiunge Cacciari, cosa potrà accaderci, domani? Com’è possibile non capire che il sangue versato da Qasem Soleimani interroga personalmente ognuno di noi, prima ancora che i nostri impresentabili politici?(Giorgio Cattaneo, 8 gennaio 2020).Menzogne, sangue e colpevoli silenzi. E’ l’habitat nel quale prospera il verminaio terrorista alimentato sottobanco da un impero occidentale che non ha saputo svilupparsi, storicamente, se non a spese di paesi terzi. E’ la tesi di giornalisti eretici come Paolo Barnard, corroborata da illustri colleghi come Seymour Hersh, Premio Pulitzer statunitense, spietato con i nostri media: se la stampa non avesse smesso di fare il proprio mestiere, sostiene, qualche politico – non codardo – avrebbe avuto modo di denunciare i crimini del potere mercuriale, costringendo l’establishment del terzo millennio a fare meno guerre e provocare meno massacri di vittime innocenti. Che poi la verità si annacqui negli opposti estremismi opportunistici e nel sostegno al terrorismo, fatale conseguenza di abusi criminali, non è che un aspetto della mattanza in corso, a rate, inaugurata dall’opaco maxi-attentato dell’11 Settembre a New York, di cui tuttora si tace la vera paternità presunta. Ma se si varca il Rubicone e si compie una violazione che non ha precedenti nella storia, un attentato terroristico condotto con mezzi militari e apertamente rivendicato, allora si passa il segno.
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Soleimani come Massud: ucciso l’eroe, seppellirai la pace
Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip”, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.Da Santini, uno sguardo disincantato e prospettico sul nuovo pericoloso incendio mediorientale, scatenato – colpendo l’Iran – per minare il possibile rafforzamento dell’asse tra Teheran e Pechino (e magari Mosca) nel quadro della “nuova guerra fredda” in corso (o, se si preferisce, Terza Guerra Mondiale a puntate). Già tre anni fa, all’indomani della elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, Santini elencava i compiti che sarebbero stati affidatio all’amministrazione Trump. Primo: ripristinare e proteggere l’economia interna, ricostruendo le sue basi fondamentali. Ovvero: Stati Uniti rimessi in pista come motore produttivo, manifatturiero, verso la piena occupazione, mettendo fine alle delocalizzazioni selvagge. Poi: distensione con la Russia, ma senza cedere nulla di quanto conquistato nel frattempo. Tradotto: «Congelamento dello status quo, fine delle aggressioni, reciproco rispetto formale e collaborazione laddove gli interessi fossero convergenti». Cruciale il capitolo Cina, come si è visto: massima competizione commerciale ed economica con Pechino, «ma senza spingere al momento sull’acceleratore del confronto militare». Sul medio periodo, prevedeva Santini, «si dovrà alzare sempre più l’asticella della competizione globale e porre Pechino davanti ad una scelta strategica: accettare la supremazia americana in cambio di una parziale condivisione dei dividendi dell’Impero oppure il confronto militare, sempre più aggressivo».E intanto: «Concentrarsi nell’immediato sullo scacchiere mediorientale, lo scenario più urgente». Dunque: «Fine della sponsorizzazione del jihadismo sunnita, che ha esaurito in quell’area la sua funzione, e spinta verso la democratizzazione delle petromonarchie del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita. Il nemico principale, tuttavia – sottolineava Santini tre anni fa – torna ad essere lo sciismo politico e i suoi alleati, il cosiddetto asse della resistenza, e il suo centro nevralgico, l’Iran». Le linee di faglia su cui si sarebbe mossa l’amministrazione americana erano dunque ben visibili da subito, conferma oggi l’analista di “Megachip”. «Questi tre anni di presidenza, turbolenti, ci hanno poi confermato quelle direttrici e consentito di approfondire taluni approcci». In particolare, per quanto riguarda il confronto con l’Iran, «Trump è apparso bilanciarsi tra le due fazioni principali dello Stato Profondo statunitense che, semplificando e banalizzando, si potrebbero così riassumere: la fazione realista, “il partito dell’assedio”, per cui il nemico va accerchiato, logorato, ma non colpito a fondo perché poi diventa molto difficile ricomporre i cocci di quel che si è rotto; la fazione idealista, messianica, “il partito della guerra”, per cui vale il motto “colpisci per primo, colpisci due volte, e sui cocci pisciaci sopra”».Tra queste due posizioni “imperiali”, ne esistono tante altre, variegate e composite, e Trump è a cavallo di una di queste. «Nel gruppo di potere che lo ha portato alla Casa Bianca, ad esempio – scrive oggi Santini – ci sono quelli che vorrebbero concentrarsi esclusivamente sugli affari interni lasciando sullo sfondo il resto del pianeta, e le lobbies ultrasioniste il cui unico interesse è togliere di mezzo la Repubblica islamica iraniana». L’assassinio di Qasem Soleimani, secondo Santini, dimostra che il “partito della guerra” ha preso definitivamente il controllo della strategia nei confronti dell’Iran. «Se Trump abbia preso tale decisione o sia stato messo davanti al fatto compiuto sarà materia di dibattito per gli storici, ma non cambia la situazione», aggiunge l’analista. «In ogni caso, c’è chi ritiene prevalente l’ipotesi di una decisione diretta del presidente, soprattutto per scopi elettorali: creare un nemico esterno imminente lo aiuterebbe a tirarsi fuori dai guai interni, richiesta di impeachment e collaterali (va aggiunto che anche Israele è, di nuovo, in campagna elettorale, e questa tornata è esistenziale per Netanyahu ancor più che per Trump)». La tesi opposta è quella di un Trump che non vorrebbe lo scontro diretto, ma vi è spinto dai falchi del complesso militare-industriale. «Tutto più o meno plausibile», annota Santini: «Personalmente propendo per una ipotesi intermedia, rifacendomi anche ad un precedente storico», quello di Bill Clinton.Durante tutto il 1998, l’allora presidente vide montare in maniera virulenta lo scandalo Lewinsky, un sexgate che portò alla sua incriminazione per spergiuro ed ostacolo alla giustizia. «Clinton non aveva a cuore la crisi internazionale che si stava profilando all’orizzonte, il Kosovo: sapeva a malapena dove si trovasse». Poi, improvvisamente – continua Santini – nell’autunno inoltrato di quell’anno, «quando lo scandalo interno era al culmine, decise di mettere la crisi balcanica al centro della sua azione politica». Miracolo: «Altrettanto improvvisamente la crisi interna si sgonfiò». E la crisi del Kosovo, «da affare regionale, divenne affare globale». Si domanda Santini: «Furono molto bravi gli strateghi di Clinton a sviare l’attenzione o, piuttosto, il sexgate rivelò la sua vera natura?». Si trattò quindi di «uno strumento di pressione montato ad arte da alcuni centri di potere, per fare sì che il presidente, e alcuni altri centri di potere che egli rappresentava, portassero gli Stati Uniti in guerra». In altre parole: «Sventolando il Kosovo davanti a Clinton fu facile trovare un accordo win-win: tu ci dai la guerra e il sexgate finisce nel dimenticatoio». Mutatis mutandis, può essere accaduto lo stesso in questa fase tra Trump, i gruppi di potere del Deep State, l’impeachment e l’Iran.A questo punto, prosegue Santini nella sua analisi, si fa un gran discutere su quali potrebbero essere le future mosse degli iraniani: la preoccupazione di una escalation è fortissima e tangibile, visto che si temono ripercussioni drammatiche. «Alcuni analisti sostengono che gli Usa stiano scherzando col fuoco, che hanno commesso un errore fatale, che la politica estera statunitense è allo sbando, chiaro segnale del loro inarrestabile declino». Santini non è affatto d’accordo: «Ritengo invece che questa escalation, questa accelerazione di fase, sia stata lucidamente pianificata e perseguita». Infatti, le due conseguenze immediate che ha già prodotto «sono esattamente quelle che gli americani si attendevano». Tanto per cominciare, «l’Iran si è ritirato dall’accordo nucleare». Il governo di Rouhani-Zarif ha resistito fino all’ultimo: «Ha resistito alla denuncia unilaterale del trattato da parte americana, che lo rendeva di fatto vuoto, ha resistito alla imposizione di ulteriori pesantissime sanzioni che stanno avendo profondi effetti sulla società iraniana». I politici di Teheran «hanno più volte chiesto sostegno diplomatico agli immobili e tremebondi paesi europei, inutilmente».Ora, aggiunge Santini, «l’atto terroristico americano, una sorta di dichiarazione di guerra, ha colpito sotto la cintola la componente moderata del potere iraniano», che di fatto «non può più resistere alle pressioni della componente radicale senza esserne travolta sul piano interno». E così, «gli Stati Uniti hanno di nuovo lo strumento retorico e mediatico principe da brandire contro l’Iran e contro i riottosi alleati europei per giustificare le prossime aggressioni: la paura della bomba atomica in mano agli ayatollah (e poco importa se tale minaccia sia sempre stata inesistente, conta solo che venga percepita come tale)». La seconda conseguenza, poi, secondo Santini è molto sottile da interpretare: «Che il Parlamento iracheno abbia decretato la cacciata delle truppe straniere di occupazione dal paese potrebbe sembrare una sconfitta per gli americani, ma così non è». Il governo iracheno infatti è fragilissimo, di fatto dimissionario dopo le imponenti manifestazioni popolari contro corruzione e condizioni economiche dei mesi scorsi, represse a costo di centinaia di morti e migliaia di feriti, e che si sono interrotte solo in seguito alla promessa del premier Abdul-Mahdi di dimettersi. «Un governo in queste condizioni non ha la minima forza per imporre la decisione assunta contro gli Stati Uniti».L’Iraq si trova, oggettivamente, in una condizione di pre-guerra civile. «Se fossi uno stratega americano, o israeliano, farei il possibile per favorire tale drammatico esito», scrive Santini. Tutti nemici: iracheni contro curdi e sunniti contro sciiti, ma le divisioni interne travagliano le stesse componenti sciite. «Il mondo sciita non è monolitico», spiega Santini: «In particolare, la dottrina khomeinista ha prodotto al suo interno una profonda frattura di ordine religioso ma con importanti riflessi politici», dato che «religione e politica nell’Islam si intrecciano intimamente». In Iraq «esistono fazioni sciite radicali ma nazionaliste (la principale è quella che fa capo a Moqtada al Sadr) e fazioni sciite altrettanto radicali ma filo-iraniane (che si richiamano alla ideologia e organizzazione degli Hezbollah libanesi)». Gli sciiti nazionalisti iracheni – aggiunge Santini – mal sopportano (è un eufemismo) l’ascesa egemonica degli sciiti filo-iraniani in Iraq. Sicchè, lo scontro armato è all’ordine del giorno, visto che «questi partiti, gruppi e fazioni sono tutti strutturati in organizzazioni paramilitari». Dare la parola alle armi? «Sarebbe possibile se il paese sprofondasse nel caos», in una sorta di “tutti contro tutti” dagli esiti imprevedibili.In quel caso, conclude Santini, «l’Iran sarebbe risucchiato in questa guerra civile irachena e ne uscirebbe ulteriormente dissanguato». Dopo due guerre che hanno raso al suolo l’Iraq, emerge una verità di fondo: «Gli americani in questi lunghi anni di occupazione hanno dimostrato di non avere la forza militare sufficiente per imporre la loro egemonia, ma ce l’hanno a sufficienza per “controllare” una guerra civile, aperta o sotterranea, indefinitamente, finché fosse nel loro interesse». Ed ecco che, alla luce di questa analisi, risulta meno “folle” e incomprensibile l’efferata uccisione del grande tessitore carismatico Soleimani, che Santini – in modo davvero suggestivo – accosta alla fine, altrettanto atroce, che la longa manus terroristica degli Usa riservò al “leone del Panshir”, l’eroe nazionale afghano che (come il guerriero Soleimani) avrebbe avuto il prestigio, l’autorevolezza e la popolarità per imporre la pace, mettendo fine alle ingerenze internazionali nel suo tormentato paese. Ieri il comandante Massud, oggi il generale Soleimani: e i registi della morte provengono dalla medesima capitale, Washington.Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip“, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.
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Cabras a Salvini: per gli sciiti, Soleimani era come Garibaldi
Per rendersi conto – da italiani – dell’impatto morale e politico dell’assassinio deciso da Donald Trump e dai suoi falchi, potremmo paragonare il generale Qasem Soleimani alla forza iconica celebratissima di un Giuseppe Garibaldi, ma senza gli sbiadimenti e le annacquature dei secoli che passano. Un Garibaldi contemporaneo, dunque, con l’audacia propria del militare di razza, ma dotato anche di un’aura da predestinato – percepita a livello popolare in molti paesi – assimilabile a quella di un difensore della giustizia disinteressato, una sorta di Paolo Borsellino del mondo sciita. Per le caratteristiche dello sciismo contemporaneo – molto propenso ad attualizzare nella Storia di oggi le proprie tradizioni e la propria identità più profonda – un’altra figura eroica e martire diventa un’indispensabile termine di paragone: l’Imam Hussein. Il che crea una saldatura dalla forza inimmaginabile tra fede e passione politica rispetto alle inaridite passioni occidentali. Donald Trump non ha decapitato una forza. Nell’ascoltare il suo partito della guerra ha invece appiccato, come i suoi predecessori, un incendio che non saprà spegnere, perché circonda il Medio Oriente di basi militari ma non lo capisce.Un incendio che costerà lutti e caos, e che va fermato spegnendo anche le complicità dei mentecatti. Fra questi includo quel Salvini che si dimostra una volta di più un sovranista di cartone con l’anima del vassallo che si vende per un piatto di lenticchie ai padroni da lui cercati spasmodicamente, un irresponsabile impreparato che mette da subito in pericolo migliaia di militari italiani in Libano e in Iraq. Occorre risollevare la capacità di analisi, mettere da parte i sovranisti di cartone e i bacia-pantofole, e capire immediatamente qual è il nostro preminente interesse nazionale in un momento di così gravi tensioni internazionali. L’epoca del comando unilaterale ha superato ogni soglia di pericolo. Va evitata ogni escalation del conflitto, a partire dai rischi di guerra civile in Iraq e in tutta la Mezzaluna sciita. Potrà riuscirci solo un sistema di relazioni multilaterali che coinvolga tutte le capitali che contano, con cui parlare e da far parlare immediatamente.(Pino Cabras, “Capire la gravità di un omicidio politico. Mettiamo da parte i sovranisti di cartone”, da “Megachip” del 4 gennaio 2020. Storico collaboratore di Giulietto Chiesa, Cabras è stato eletto deputato nel 2018 con i 5 Stelle ed è membro della commissione affari esteri della Camera. Ha pubblicato svariati saggi, tra cui “Balducci e Berlinguer. Il principio della speranza”, edito da La Zisa nel 1995, nonché “Strategie per una guerra mondiale. Dall’11 settembre al delitto Bhutto”, pubblicato da Aìsara nel 2008. Insieme allo stesso Chiesa, per Ponte alle Grazie, nel 2012 ha pubblicato “Barack Obush. La liquidazione di Osama, l’intervento in Libia, la manipolazione delle rivolte arabe, la guerra all’Europa e alla Cina: colpi di coda di un impero in declino”. Veemente, lo scorso anno, la sua denuncia delle violenze scatenate a Caracas dai seguaci di Juan Guaidò, appoggiato dagli Usa, nel tentativo di rovesciare il presidente venezuelano Nicolas Maduro).Per rendersi conto – da italiani – dell’impatto morale e politico dell’assassinio deciso da Donald Trump e dai suoi falchi, potremmo paragonare il generale Qasem Soleimani alla forza iconica celebratissima di un Giuseppe Garibaldi, ma senza gli sbiadimenti e le annacquature dei secoli che passano. Un Garibaldi contemporaneo, dunque, con l’audacia propria del militare di razza, ma dotato anche di un’aura da predestinato – percepita a livello popolare in molti paesi – assimilabile a quella di un difensore della giustizia disinteressato, una sorta di Paolo Borsellino del mondo sciita. Per le caratteristiche dello sciismo contemporaneo – molto propenso ad attualizzare nella Storia di oggi le proprie tradizioni e la propria identità più profonda – un’altra figura eroica e martire diventa un’indispensabile termine di paragone: l’Imam Hussein. Il che crea una saldatura dalla forza inimmaginabile tra fede e passione politica rispetto alle inaridite passioni occidentali. Donald Trump non ha decapitato una forza. Nell’ascoltare il suo partito della guerra ha invece appiccato, come i suoi predecessori, un incendio che non saprà spegnere, perché circonda il Medio Oriente di basi militari ma non lo capisce.
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L’eroe Soleimani: una vita contro la droga e il terrorismo
Nell’ormai lunga storia dell’intervento iraniano in Siria e Iraq in opposizione all’avanzata dei gruppi jihadisti, Stato islamico in primis, la figura del generale Qasem Soleimani ha assunto sempre maggior rilevanza. Sessantuno anni, originario della povera provincia di Kerman, Soleimani ha vissuto da soldato e uomo d’armi sin dal 1980, quando l’Iran rivoluzionario dovette affrontare la sfida mortale lanciatagli dall’Iraq di Saddam Hussein e l’attuale generale, arruolatosi nei Guardiani della Rivoluzione l’anno precedente, dette prova del suo valore dapprima come comandante di compagnia e, in seguito, come leader di unità sempre più consistenti, ultima e più importante delle quali la leggendaria 41esima divisione Tharallah (Sarallah). Protagonista negli anni Novanta di una durissima campagna di repressione del narcotraffico ai confini con l’Afghanistan e vicino all’area politica più conservatrice, tanto da essere uno degli ufficiali dei Pasdaran che nel 1999 firmarono una lettera inviata al presidente Mohammad Khatami, chiedendogli di reprimere la rivoluzione degli studenti, minacciando in caso contrario di rovesciarne il governo, Soleimani fu nominato nel 1998 a capo della Forza Quds, l’unità di élite dei Pasdaran destinata alle operazioni speciali, che attualmente dirigeva. E alla testa della quale ha costruito il suo mito.L’ascesa dell’allora quarantenne generale dei Guardiani alla guida della Forza Quds anticipò di poco l’inizio della tempesta geopolitica che ha sconvolto il Medio Oriente a inizio millennio. Per le strategie iraniane, Soleimani è stato l’uomo giusto al posto giusto: in una fase cruciale per gli interessi del paese, si può affermare che il generale è stato l’uomo che più di ogni altro ha determinato le politiche concrete di Teheran sul campo. Nel 2013, Dexter Filkins ha rivelato sul “New Yorker” che poco dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 Ryan Crocker, del Dipartimento di Stato statunitense, si era recato a Ginevra per trattare con un gruppo di ufficiali iraniani guidato da Soleimani una collaborazione strumentale tra intelligence volta a accelerare la fine del regime dei talebani in Afghanistan, contro cui Teheran si era schierata a causa delle persecuzioni contro la locale minoranza sciita. Tale collaborazione ebbe vita breve e fu interrotta dalla svolta neoconservatrice dell’amministrazione Bush nel 2002, che portò l’ostilità iraniano-americana ai massimi storici. Dopo l’invasione statunitense dell’Iraq del 2003, Soleimani fornì supporto logistico all’insorgenza sciita e modellò la crescita dell’influenza iraniana sull’Iraq, testimoniata dal sostegno garantito all’elezione alla carica di primo ministro di Nuri al Maliki.L’impegno diretto più importante sul campo, per Soleimani, sarebbe tuttavia arrivato nel 2012, quando fu chiamato a garantire il decisivo sostegno dell’Iran al legittimo governo siriano impegnato nella guerra civile. Nella seconda metà del 2012 il regime di Assad è alle corde: colpito dall’isolamento internazionale e assediato dalle orde dei ribelli e dei jihadisti, si prepara a difendere la capitale Damasco da un assalto in grande stile. L’Iran, alleato geopolitico della Siria, interviene assieme alle milizie sciite libanesi di Hezbollah per sostenere le forze governative, e Soleimani ha un ruolo decisivo in questa operazione. Il generale iraniano stabilisce il suo comando a Damasco e porta i pasdaran ad addestrare, motivare ed equipaggiare le forze regolari siriane, a organizzare un sistema di monitoraggio continuo delle comunicazioni nemiche e a formare un corpo di milizie di sostegno denominato National Defence Force (Ndf). Bret Stephens del “Wall Street Journal” ha paragonato gli esiti dell’intervento della Forza Quds di Soleimani in Siria a quello, travolgente, seguito all’arrivo di Erwin Rommel in Africa nel 1942: nel 2013 la battaglia di Al Qusayr, organizzata da Soleimani e contraddistinta dall’intervento sul campo degli Hezbollah, sancì l’inizio della riscossa per il legittimo governo siriano.Dopo l’intervento russo nel 2015, la controffensiva amplificò il suo raggio d’azione. Nel settembre 2015 Soleimani fu più volte ospite dei vertici militari russi a Mosca per concordare l’azione congiunta aria-terra tra gli alleati pro-Assad. A partire dal 2016, essa si concentrò sulla regione di Aleppo: tra febbraio e dicembre 2016, gli iraniani giocarono un ruolo fondamentale nelle battaglie contro i jihadisti che aprirono la strada all’assalto diretto alla città, la cui liberazione ha rappresentato l’evento più importante della seconda fase del conflitto siriano. Nel dicembre 2016, degli scatti fotografici sembrano ritrarlo nella cittadella di Aleppo da poco liberata. Le foto sono contestate, perché Soleimani è praticamente irrintracciabile. Come scritto dall’”Intellettuale Dissidente”, «numerosi testimoni rimangono impressionati dalla sua calma presenza, incorniciata dalla divisa militare e dalla barba grigia. Allo stesso tempo è inafferrabile, fugace: compare e scompare, come fosse in un gioco per bambini. Leggenda narra che si permettesse di passeggiare senza guardie del corpo a Baghdad durante l’occupazione statunitense del paese».E proprio con l’Iraq Soleimani ha fatto più volte la spola negli anni passati, sostenendo l’azione delle milizie sciite intente a combattere l’Isis. Dapprima nel 2014, per rompere l’assedio di Amirli, poi, nel 2015, per completare la liberazione di Tikrit, in entrambi i casi alla guida delle tenaci e, non di rado, efferate milizie sciite denominate Forze di Mobilitazione Popolare. La guerra in Iraq e Siria è un conflitto brutale, senza pietà: la memoria dei 1.500 cadetti d’aviazione iracheni massacrati dalle bandiere nere a Camp Sepicher è viva nei liberatori della città natale di Saddam Hussein nel momento in cui questi, al termine di un aspro combattimento che ha visto l’inedito supporto dei raid aerei occidentali agli sciiti, cacciano l’Isis dai suoi sobborghi. Si parla di crimini di guerra, e non sarà l’unica volta dopo la cacciata dell’Isis dalle città irachene. Qasem Soleimani non ha mai nascosto la sua vicinanza all’ayatollah Khamenei e all’ala più conservatrice della politica iraniana. Da soldato tutto d’un pezzo, ha applicato al meglio le direttive politiche della presidenza Rouhani, ma è anche stato in grado di adattarsi ad esse plasticamente. Di fatto, Soleimani ha forgiato l’intera strategia regionale iraniana e rafforzato il sistema d’alleanze di Teheran nel paese.Ci si chiedeva spesso se il generale, che nel 2017 aveva guidato altre importanti offensive in Siria nella regione di Hama, potesse sfruttare la sua popolarità per un futuro in politica. I conservatori guardavano alla sua figura come all’ideale candidato alla presidenza capace di sfruttare una popolarità immensa, ma Soleimani ha sempre fatto del campo di battaglia il suo mondo ideale e raramente ha pronunciato parole di peso esclusivamente politico. Mentre tuttavia la nuova amministrazione repubblicana degli Usa rafforzava la sua ostilità verso Teheran, Soleimani ha compiuto due gesti importanti che hanno segnalato prese di posizione nette: nel dicembre 2017, sprezzante, ha rifiutato di rispondere a una lettera minacciosa del direttore della Cia Mike Pompeo e, più di recente, ha attaccato direttamente Donald Trump. «Vi stiamo addosso, arriviamo dove neanche vi potete immaginare. Noi siamo pronti. Se voi iniziate la guerra, saremo noi a finirla», ha dichiarato il generale ad Hamedan in risposta alle provocazioni Usa seguite al ripudio dell’accordo sul nucleare. Parole che segnano un cambio di registro nell’approccio pubblico del silenzioso, enigmatico Soleimani. Ma che sicuramente saranno suonate come musica a chi vedeva, in lui, il leader futuro di un Iran a guida conservatrice, fieramente anti americano.Nonostante le indiscrezioni su un possibile futuro politico, Soleimani continuò anche dopo il 2017 a dirigere sul campo le unità in Iraq, con la Quds Force schierata a fianco delle Forze di mobilitazione popolare di matrice sciita intente a spazzare via gli ultimi resti dell’Isis e a posizionarsi per la contesa politica per il futuro del paese. Pensatore strategico di ampio respiro, Soleimani riteneva infatti necessario per l’Iran consolidarsi nella regione di influenza superata la fase di aperta conflittualità, preservando i legami con i proxy regionali di Teheran. Di fatto, nel momento più acuto della ripresa degli screzi tra Usa e Iran Soleimani è parso quasi eclissarsi, eccezion fatta per alcuni battibecchi via social e stampa con i vertici di Washington, come a dare l’impressione di una sua assoluta concentrazione sugli affari geopolitici della Repubblica Islamica. Soleimani non ha mai voluto, di fatto, lo scontro a viso aperto con gli Usa, da lui ritenuto logorante e rovinoso. Tra il 2018 e il 2019 Soleimani fa a lungo la spola oltre il confine iraniano-iracheno su cui la sua carriera militare ha avuto, in gioventù, il battesimo del fuoco.Tra problemi politici e instabilità interna l’Iraq si contorce tra elezioni contese, influenze esterne e emersione di un polo trasversale di sciiti e sunniti oppositori dell’ingerenza esterna iraniana e irachena. Soleimani fece da consulente al governo iracheno quando nella seconda metà del 2019 le proteste contro il caro-vita, la corruzione e l’instabilità divamparono tra la capitale e il resto del paese, mentre le truppe a lui fedeli davano sempre maggior segno di irrequietezza. Sospetti non confermati individuano nei Kata’ib Hezbollah e nelle altre Fpm i principali responsabili della repressione delle proteste avvenuta tra settembre e ottobre 2019. Nel caos iracheno si sono inseriti gli Usa, colpendo Kata’ib Hezbollah nel suo quartier generale vicino Al Qa’im il 29 dicembre in risposta a un attacco a una base militare a Kirkuk. Soleimani è arrivato in Iraq a cavallo tra il 2019 e 2020, mentre a Baghdad gli iracheni assaltavano l’ambasciata americana, ma proprio nell’aeroporto della capitale irachena è stato sorpreso da un raid americano in cui ha perso la vita il 3 gennaio 2020.(Andrea Muratore, “Chi era il generale Qasem Soleimani”, ricostruzione aggiornata nell’inserto “InsideOver” del “Giornale” dopo l’omicidio dello stratega iraniano).Nell’ormai lunga storia dell’intervento iraniano in Siria e Iraq in opposizione all’avanzata dei gruppi jihadisti, Stato islamico in primis, la figura del generale Qasem Soleimani ha assunto sempre maggior rilevanza. Sessantuno anni, originario della povera provincia di Kerman, Soleimani ha vissuto da soldato e uomo d’armi sin dal 1980, quando l’Iran rivoluzionario dovette affrontare la sfida mortale lanciatagli dall’Iraq di Saddam Hussein e l’attuale generale, arruolatosi nei Guardiani della Rivoluzione l’anno precedente, dette prova del suo valore dapprima come comandante di compagnia e, in seguito, come leader di unità sempre più consistenti, ultima e più importante delle quali la leggendaria 41esima divisione Tharallah (Sarallah). Protagonista negli anni Novanta di una durissima campagna di repressione del narcotraffico ai confini con l’Afghanistan e vicino all’area politica più conservatrice, tanto da essere uno degli ufficiali dei Pasdaran che nel 1999 firmarono una lettera inviata al presidente Mohammad Khatami, chiedendogli di reprimere la rivoluzione degli studenti, minacciando in caso contrario di rovesciarne il governo, Soleimani fu nominato nel 1998 a capo della Forza Quds, l’unità di élite dei Pasdaran destinata alle operazioni speciali, che attualmente dirigeva. E alla testa della quale ha costruito il suo mito.
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Patto col diavolo: perché Trump ha ucciso il nemico dell’Isis
Un colpo al cerchio e uno alla botte: prima Al-Baghdadi, poi il maggiore nemico dell’Isis. Gianfranco Carpeoro accusa Donald Trump di aver ceduto ai veri sponsor del terrorismo islamico, nel decretare l’uccisione del generale Qasem Soleimani. Assassinando a Baghdad il leader iraniano, che aveva combattuto in modo determinante in Siria contro le milizie jihadiste, il capo della Casa Bianca ha provato a placare la rabbia degli azionisti occulti dell’Isis annidati nel Deep State americano, furibondi con Trump per la recente eliminazione del loro uomo, il “califfo” dello Stato Islamico. Lo stesso Carpeoro punta il dito contro la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, nella quale avrebbero segretamente militato sia Osama Bin Laden che Ibrāhīm al-Badrī, meglio noto come Abu Barkr Al-Baghdadi, estremista islamico stranamente rilasciato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca perché potesse poi assumere la guida del sanguinario Califfato. Sarebbe il caso che qualcuno spiegasse a Matteo Salvini, entusiasta dell’omicidio di Soleimani, che Trump ha fatto uccidere il nemico numero uno del terrorismo islamico, l’uomo più temuto dall’Isis. E l’ha fatto per garantirsi il supporto della peggior destra reazionaria americana, in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Il sangue di Soleimani allontanerà il pericolo di impeachment?Avvocato di lungo corso, Carpeoro (all’anagrafe, Pecoraro) è un eminente studioso di simbologia, autore di romanzi sui Rosa+Croce e di saggi particolamente scomodi. Nel libro “Il compasso, il fascio, la mitra” ha messo in luce i rapporti inconfessabili tra fascismo, massoneria e Vaticano, svelando retroscena inediti grazie ad archivi massonici riservati: per esempio, nel libro si spiega come l’omicidio Matteotti fu organizzato dal faccendiere massone Filippo Naldi, dopo che Matteotti (a sua volta massone) aveva scoperto, a Londra, che era stato il Re, Vittorio Emanuele III, il maggior beneficiario della maxi-tangente versata dalla Standard Oil dei Rockefeller per ottenere il monopolio delle forniture di petrolio per l’Italia fascista. In un altro saggio, “Dalla massoneria al terrorismo”, Carpeoro rivela il codice simbolico interamente massonico (e non islamico) nascosto dietro agli attentati dell’Isis in Europa, messi a segno con la copertura di servizi segreti compiacenti. Strategia della tensione: al vertice della sovragestione, osserva Carpeoro, c’è un’élite supermassonica reazionaria imbevuta di suprematismo, incluso quello riflesso nella teoria della “sinarchia” elaborata a fine ‘800 dal marchese francese Saint-Yves d’Alveydre, secondo cui solo un’oligarchia “illuminata” ha il diritto-dovere di decidere per il popolo, incapace di autogovernarsi in modo democratico.Questa “filosofia” è stata incarnata nel secondo ‘900 da potentissime superlogge come la “Three Eyes” di Kissinger, grande regista del golpe cileno contro Salvador Allende. Un quarto di secolo dopo, lo stesso giorno – l’11 settembre – sono crollate le Torri Gemelle: atto d’inizio della “guerra infinita” che, dopo la caduta dell’Urss, ha letteralmente terremotato il pianeta, e in particolare il Medio Oriente. In prima linea, tra gli sponsor del “neoterrorismo” ci sarebbe la superloggia “Hathor Pentalpha” fondata da Bush padre nel 1980, reclutando anche importanti politici europei come l’inglese Tony Blair (da cui le inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam) e il francese Nicolas Sarkozy, protagonista della fine di Gheddafi. Nella “Hathor” militerebbe anche il turco Erdogan, fino a ieri grande protettore dell’Isis in Siria, tra i massimi padrini di Al-Baghdadi. E sarebbe stata proprio la “Hathor”, secondo Carpeoro, a premere su Trump dopo l’uccisione del “califfo”, per eliminare il prestigioso generale Soleimani, eroe nazionale dell’Iran e bestia nera dei terroristi islamici. In cambio, i boss della “Hathor” avrebbero garantito a Trump il loro appoggio, a partire dalle incognite dell’impeachment al Senato. Una mossa determinante, quindi, che permetterebbe a Trump di incassare anche l’appoggio dell’inflente “lobby ebraica”, che spinge da sempre per ridimensionare l’Iran.Secondo Carpeoro, i poteri opachi che agiscono all’ombra della Casa Bianca e controllano gangli vitali della politica statunitense starebbero riorganizzando e rifinanziando l’Isis, dopo la pesante sconfitta che il terrorismo ha subito in Siria a opera della Russia e delle forze speciali iraniane del generale Soleimani. Prima o poi, sostiene sempre Carpeoro, verranno allo scoperto le prove del fatto che la medesima cupola di potere, incarnata dalla “Hathor Pentalpha”, ha direttamente organizzato il maxi-attentato dell’11 Settembre. Ma il momento della verità sembra rinviato, e nel frattempo tornano a moltiplicarsi gli attentati-kamikaze, per ora su scala ridotta. Alla vigilia di capodanno, è stato Trump ad avvertire i russi di un maxi-attentato in preparazione a San Pietroburgo, che avrebbe potuto provocare una strage di vaste proporzioni. Lo stesso Trump, che si è vantato dell’eliminazione di Al-Baghdadi, è però “costretto” oggi a rivendicare anche l’uccisione di Soleimani, che gli sarebbe stata imposta proprio da quel Deep State che, a quanto pare, ha ancora intenzione di utilizzare il terrorismo “false flag” targato Isis per i suoi inconfessabili obiettivi geopolitici e affaristici. La “Hathor” avrebbe dunque il potere di piegare all’occorenza anche la Casa Bianca, contando comunque sul cinico opportunismo di Trump: è un patto col diavolo, quello che lo scodinzolante Salvini finge di scambiare per fermezza.Un colpo al cerchio e uno alla botte: prima Al-Baghdadi, poi il maggiore nemico dell’Isis. Gianfranco Carpeoro accusa Donald Trump di aver ceduto ai veri sponsor del terrorismo islamico, nel decretare l’uccisione del generale Qasem Soleimani. Assassinando a Baghdad il leader iraniano, che aveva combattuto in modo determinante in Siria contro le milizie jihadiste, il capo della Casa Bianca ha provato a placare la rabbia degli azionisti occulti dell’Isis annidati nel Deep State americano, furibondi con Trump per la recente eliminazione del loro uomo, il “califfo” dello Stato Islamico. Lo stesso Carpeoro punta il dito contro la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, nella quale avrebbero segretamente militato sia Osama Bin Laden che Ibrāhīm al-Badrī, meglio noto come Abu Barkr Al-Baghdadi, estremista islamico stranamente rilasciato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca perché potesse poi assumere la guida del sanguinario Califfato. Sarebbe il caso che qualcuno spiegasse a Matteo Salvini, entusiasta dell’omicidio di Soleimani, che Trump ha fatto uccidere il nemico numero uno del terrorismo islamico, l’uomo più temuto dall’Isis. E l’ha fatto per garantirsi il supporto della peggior destra reazionaria americana, in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Il sangue di Soleimani allontanerà il pericolo di impeachment?
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L’Iran e la Guerra di Israele, cui Rabin avrebbe posto fine
Che intenzioni hanno, esattamente, le divinità della guerra? Dove porterà l’assassinio dell’eroe nazionale iraniano Qasem Soleimani, trucidato dai droni di Trump il 2 gennaio del fatidico 2020? “Terremoto” è forse la parola più adatta a rappresentare il sanguinoso caos che ha come epicentro ancora una volta Israele, infiammando i suoi i vicini di casa. A essere colpito è il più potente di essi, la Persia, ma l’agguato mortale contro il leggendario capo dei Pasdaran – stratega della guerra di liberazione contro l’Isis in Siria – potrebbe giovare al regime di Teheran: la carta dell’orgoglio nazionale sarà usata per silenziare le proteste degli iraniani che invocano democrazia, esasperati anche dalla crisi economica prodotta dall’embargo filo-sionista americano. Speculazione politica spicciola anche negli Usa, infatti: il ricorso al patriottismo militarista è sventolato da un Trump in difficoltà, assediato dall’impeachment e proiettato verso le cruciali elezioni di novembre. Calcoli paralleli, fra Teheran e Washington, sulla pelle del generale Soleimani? Il raid terroristico statunitense, destinato a rinfocolare l’odio dei musulmani verso la superpotenza atlantica protettrice di Israele, ricorda in modo sinistro un altro fatale omicidio, lontano nel tempo: quello di Yitzhak Rabin, freddato il 4 novembre 1995 a Tel Aviv per aver finalmente stretto un vero accordo di pace coi palestinesi, destinato a disinnescare per sempre il Medio Oriente.Due anni prima, a Oslo, il progressista Rabin si era accordato con Arafat per gettare le basi, per la prima volta, di un patto che avrebbe portato alla nascita dello Stato di Palestina. Sarebbe stato la fine dell’alibi che per mezzo secolo aveva sorretto le peggiori oligarchie musulmane, sotterraneamente alleate delle oligarchie ebraiche del sionismo: la tensione permanente, per giustificare il rispettivo potere. Neutralizzato l’Egitto come paese leader del panarabismo storico, letteralmente distrutto l’Iraq di Saddam e invasa la Siria degli Assad, sono emerse in modo sempre più vistoso le due nuove potenze regionali, Ankara e Teheran. La Turchia di Erdogan salì alla ribalta nel 2010 denunciando il martirio di Gaza e l’aggressione alla Freedom Flotilla, carica di aiuti umanitari. L’Iran degli ayatollah si è proteso verso la maggioranza sciita degli iracheni, ben deciso a fortificare gli altri suoi caposaldi attorno a Israele, Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza. Ancora una volta, il fronte che si proclama anti-israeliano ha giocato in difesa: e proprio il generale Soleimani si era appena distinto, in Siria, accanto ai russi e ai libanesi di Hezbollah, per liberare il paese dalle milizie terroriste protette dall’Occidente. Quando infine la coalizione anti-Isis (iraniani e russi, siriani e curdi) ha sconfitto sul campo l’esercito dei tagliagole, lo stesso Trump si è preso il lusso di eliminare la pedina dell’intelligence atlantica, il “califfo” Al-Bahdadi, anch’esso (ufficialmente, almeno) ucciso con un raid dal cielo.La tragedia si colora di farsa non appena si dà un’occhiata all’Italia, dove la Rai si è rifiutata di trasmettere l’intervista di Monica Maggioni al presidente siriano Bashar Assad, la prima dopo un decennio di guerra. La notizia stava nelle accuse di Assad verso i protettori occulti dell’Isis, le potenze occidentali (Francia in primis) e i loro satelliti mediorientali, incluso Israele. Nel 2015, Matteo Renzi non osò schierare truppe italiane in Libia, nonostante la protezione promessa da Obama. Oggi, assente l’Italia, sarà la Turchia a dislocare 9.000 soldati a guardia di Tripoli, a due passi dai terminali strategici dell’Eni. Silenzio di tomba da Conte e Di Maio, stavolta persino battuti – se possibile – da Salvini, che non trova di meglio che esultare per l’assassinio del generale Soleimani, impegnato a sollevare gli iracheni contro il governo coloniale della superpotenza che ha distrutto l’Iraq, facendone il vivaio dell’Isis. Il film dell’orrore che stiamo vivendo, letteralmente esploso insieme alle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001, non sarebbe nemmeno cominciato se, nell’autunno del ‘95, non fossero andati a segno i colpi del fanatico sionista Yigal Amir, colono ebreo di estrema destra, terrorizzato dall’idea che Israele potesse convivere, alla pari, con gli “scarafaggi” palestinesi. Con la sua Beretta, Amir esplose due colpi calibro 380: sparò alla schiena di Rabin, e di milioni di persone che speravano davvero nel miracolo della pace.Dieci anni prima, in una capitale del Nord Europa – la remotissima Stoccolma – aveva fatto la stessa fine il grande leader socialdemocratico Olof Palme, grande sostenitore della causa palestinese. Quei colpi di pistola – dalla Svezia a Tel Aviv – è come se avessero centrato il cuore del mondo, paralizzandolo per decenni. Fino ad allora, il terrorismo era stato qualcosa di vagamente collegabile a una guerra tra oppressi e oppressori: i Fedayin palestinesi colpivano obiettivi precisi, entità ritenute responsabili di crimini. Non erano stragisti mercenari come l’oscura manovalanza di Al-Qaeda e dell’Isis. Erano guerriglieri spesso orfani, con alle spalle una catena di sofferenze e lutti famigliari. Sia pure in modo sanguinoso, avevano contribuito a mobilitare la comunità internazionale verso una soluzione storica, che mettesse fine al disastro innescato da confini di carta, disegnati nel deserto dopo il crollo dell’Impero Ottomano e poi con la creazione in Palestina del solo Stato ebraico. La stessa popolazione di Israele è stata costretta a convivere con l’incubo permanente della strage. Oggi, gli impresari del terrore sono tornati all’opera: finito il lavoro in Siria, ricominciano dall’Iraq e dalla Libia mettendo nel mirino l’Iran. Rispetto a ieri, se non altro, nel Medio Oriente è ricomparsa la forza stabilizzatrice della Russia. Dove porteranno, ora, i nuovissimi incendi innescati nella regione? Sembra continuare un gioco antico: opposti estremismi, nemici apparenti e alleati sotterranei. Dalla politica, buio pesto. Solo ipocrisia, e sangue.Che intenzioni hanno, esattamente, le divinità della guerra? Dove porterà l’assassinio dell’eroe nazionale iraniano Qasem Soleimani, trucidato dai droni di Trump il 2 gennaio del fatidico 2020? “Terremoto” è forse la parola più adatta a rappresentare il sanguinoso caos che ha come epicentro ancora una volta Israele, infiammando i suoi i vicini di casa. A essere colpito è il più potente di essi, la Persia, ma l’agguato mortale contro il leggendario capo dei Pasdaran – stratega della guerra di liberazione contro l’Isis in Siria – potrebbe giovare al regime di Teheran: la carta dell’orgoglio nazionale sarà usata per silenziare le proteste degli iraniani che invocano democrazia, esasperati anche dalla crisi economica prodotta dall’embargo filo-sionista americano. Speculazione politica spicciola anche negli Usa: il ricorso al patriottismo militarista è sventolato da un Trump in difficoltà, assediato dall’impeachment e proiettato verso le cruciali elezioni di novembre. Calcoli paralleli, fra Teheran e Washington, sulla pelle del generale Soleimani? Il raid terroristico statunitense, destinato a rinfocolare l’odio dei musulmani verso la superpotenza atlantica protettrice di Israele, ricorda in modo sinistro un altro fatale omicidio, lontano nel tempo: quello di Yitzhak Rabin, freddato il 4 novembre 1995 a Tel Aviv per aver finalmente stretto un vero accordo di pace coi palestinesi, destinato a disinnescare per sempre il Medio Oriente.
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Il killer: John Kennedy l’ho ucciso io. E nessuno lo interroga
«Da domani, quei figli di puttana dei Kennedy non mi umilieranno più». Lo confidò l’allora vicepresidente Lyndon Johnson alla sua amante texana, Madeleine Brown, la sera del 21 novembre 1963. Poche ore dopo, John Fitzegerald Kennedy sarebbe stato ucciso. Da chi? Non da Lee Harvey Oswald, ma dal vero assassino: James Files, reo confesso. Un uomo della mafia di Chicago, ingaggiata dalla Cia per l’operazione. La notizia è la seguente: dopo 28 anni di omertoso silenzio, in seguito al depistaggio ufficiale (che utilizzò il falso colpevole, Oswald), il vero assassino ha accettato di parlare. Merito di un agente dell’Fbi, Zack Shelton, impegnato a indagare su un banale traffico di auto rubate, ormai negli anni ‘80. Shelton scopre che a guidarle da Chicago al Texas è proprio Files, e si informa sul suo conto. Una voce lo avverte: quel ladro d’auto, collegato alle “famiglie” di Chicago, è implicato nell’omicidio di Dallas. Shelton informa il suo capo, Dick Stilling, che però lo ferma: lascia perdere, gli dice. Allora, l’agente Shelton passa il fascicolo a un investigatore privato di Dallas, Joe West, deciso a scovare la verità su Kennedy. Dopo un lungo assedio, West ottiene di parlare con Files, nel frattempo finito in galera. Lo avverte: è stato l’Fbi a fare il tuo nome. Al che, Files vuota il sacco. Finirà per ammettere: a far esplodere la testa di Kennedy sono stato io. Ma nessun magistrato andrà mai a interrogare il killer, tuttora detenuto in Illinois.
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Mazzucco: dacci oggi il nostro anestetico quotidiano, il Tg
E’ vero che nel Paese della Libertà ci sono decine di reti televisive teoricamente indipendenti e commerciali. Ma anche l’informazione locale – in ogni Stato della confederazione più potente del mondo – fa comunque capo agli unici 4 grandi network che dispensano il Vangelo secondo il Potere. Lo ricorda Massimo Mazzucco, nella sua video-chat settimanale con Fabio Frabetti di “Border Nights”: gli Usa non sfuggono alla legge delle news precotte dal medesimo, supremo cervello. «Puoi guardare la Tv dell’Alabama o quella del Wisconsin, ma il risultato è lo stesso: per le notizie nazionali e internazionali, ascolterai addirittura le stesse parole, le stesse espressioni, come se i dispacci fossero stati fotocopiati». Succede anche in Italia, ovviamente: «Se segui un telegiornale e poi l’altro, in parallelo – Rai, Mediaset, La7 – scopri che le prime sette notizie sono sempre uguali, recitate nello stesso modo. A cambiare è solo la nota di colore, in coda: il gattino salvato dai pompieri». Risultato: «Il telegiornale è un grande anestetico: ti dà l’illusione di avere il controllo di quello che succede. Anche se ovviamente non è vero, ti convince di essere messo al corrente dell’essenziale».Non è neppure il caso di demonizzare sempre i giornalisti, avverte Marcello Foa nel saggio “Gli stregoni della notizia”: per come è costruita oggi l’industria dell’informazione, dall’alto verso il basso, le redazioni non riescono a uscire dal “frame” imposto loro, a monte, dagli spin doctor governativi. Autocensura spontanea, preventiva e sistematica: «I primi a praticarla – ricorda Mazzucco – sono i direttori: non sarebbero su quelle poltrone, se uscissero dal seminato». In pratica, ogni notizia deve restare recintata nella sua precisa, rassicurante cornice tematica: inammissibile fare collegamenti trasversali, deduzioni, analisi vere e proprie. Un’omissione ormai storica, secondo il severo giudizio del Premio Pulitzer statunitense Seymour Hersh, che oggi licenzierebbe 9 colleghi su 10. Motivo: «Se non avessero smesso di fare il loro mestiere, in questi anni avremmo seppellito meno vittime innocenti: troppe guerre, protette da menzogne non smascherate dalla stampa». Bugie ufficiali, silenzi omertosi: le agenzie di informazione (giornali e Tv) vengono ormai chiamate “presstitutes”, con un gioco di parole, da un ex politico americano che nella “press” credeva, eccome: Paul Craig Roberts, sincero liberale, già viceministro dell’economia con Reagan.Dal canto suo, Mazzucco – fotografo con Toscani e video-reporter, per 15 anni al lavoro come regista e sceneggiatore a Hollywood – incarna la resistenza quotidiana contro l’impero delle favole in mondovisione: ha messo a nudo prima e meglio di altri la scomodissima verità sull’11 Settembre, finendo addirittura in prima serata su Canale 5 grazie a Mentana. Impresa che gli è valsa la patente di complottista, e la messa al bando dagli aventi diritto di parola: «La mia stessa pagina su Wikipedia è controllata dai “debunker”: sono loro a scrivere quello che vogliono, sul mio conto. Se provo a correggere le loro falsità, l’indomani ricompaiono». Indovinato: «Ho rinunciato a fare in modo che Wikipedia dica la verità, riguardo alla mia stessa biografia». Autore di video-inchieste imbarazzanti (sulle cure alternative per il cancro e sulla crociata dell’industria della plastica contro la marijuana, sul vero autore dell’omicidio di Bob Kennendy, sulla manipolazione terrestre dei filmati del mitico allunaggio), Mazzucco è l’ossessione dei disinformatori ufficiali. Contro di lui, hanno intrapreso una lunghissima battaglia mediatica i professori del Cicap e personaggi come Paolo Attivissimo, solerte megafono italiano della Nasa.Mazzucco non ha perso il gusto per il gioco: “Ulisse, il piacere della menzogna” era il titolo di un video realizzato per smascherare le “inesattezze” diffuse da Alberto Angela. La tesi: divulgazione scientifica parziale e tendenziosa, spesso addirittura basata su notizie false. «Ognuno è libero di dire quello che vuole, intendiamoci: a patto però – obietta Mazzucco – che non usi i soldi della Rai, cioè i nostri, per raccontare fandonie». E vogliamo parlare di Piero Angela? «Tempo fa fece un’intera puntata della sua trasmissione per sostenere che tutti gli avvistamenti Ufo fossero sempre spiegabili come fenomeni terrestri: a smentirlo ha ora provveduto ufficialmente la Us Navy. Gli italiani che pagano il canone Rai, sentitamente, ringraziano». Oggi, Mazzucco è seguito da una comunità di almeno cinquantamila cittadini, sulle pagine del blog “Luogo Comune”. Ha anche aperto una sua mini-televisione su web, “Contro Tv”, che non si avvale dello streaming su YouTube: «E’ sempre più sfrontata la censura su Internet che può oscurare pagine Facebook, “bannare” canali video e orientare i motori di ricerca in modo da rendere invisibili le voci scomode: per questo – dice Mazzucco – è meglio prepararsi al peggio, essendo autonomi anche nello streaming».L’esperimento di “Contro Tv” è stato lanciato insieme a Giulietto Chiesa, altra bestia nera dei “debunker”: il suo bestseller “La guerra infinita”, sull’11 Settembre, macinò 70.000 copie in pochi mesi. Non una recensione, sui giornali, nonostante fosse editato da Feltrinelli. «Di tutti i giornalisti italiani famosi – scrisse Paolo Barnard – Chiesa è stato l’unico a rinunciare ai suoi privilegi, mettendo a rischio tutto quello che si era guadagnato sul campo pur di restare fedele alla ricerca della verità». Per la cronaca: fondatore di “Report” con la Gabanelli, Barbard è finito fuori dalla Rai per la sua intransigenza: gli negarono un servizio sugli abusi di Big Pharma. Dopo anni di impegno solitario e titanico – la denuncia del “golpe” di Monti, il saggio “Il più grande crimine” e il lancio della Mmt in Italia con Warren Mosler – oggi Barnard (espulso dal sistema mediatico nazionale) è sparito anche dal web. Nel frattempo, la Exor di John Elkann s’è comprata il gruppo Espresso: un solo editore controlla il grosso della carta stampata, in Italia. L’altra voce (non esattamente alternativa) è quella di Urbano Cairo, patron del “Corriere” e de La7, la rete che affida a Lilli Gruber, Giovanni Floris e Corrado Formigli la guerra santa contro Matteo Salvini, mentre Enrico Mentana dal suo telegionale finge di essere ancora il Mentana di un tempo, simpaticamente indipendente.«Poteva essere il primo degli ultimi, invece ha scelto di essere l’ultimo dei primi», si rammarica Mazzucco, pensando alle recenti sortite del direttore del telegiornale di Cairo. L’accusa: si è allineato al peggiore mainstream. Ovvero: «Nelle sue comode invettive, associa cretinate assolute come la teoria della Terra Piatta a cose ben più serie, come le strane scie persistenti oggi rilasciate dagli aerei e naturalmente l’11 Settembre: la verità ufficiale è crollata, architetti e ingegneri negli Usa hanno dimostrato la demolizione controllata delle Torri e i pompieri di New York si sono rivolti alla magistratura chiedendo di far riaprire i processi, ma Mentana si rifiuta di prenderne atto». Peggio: nella scorsa primavera ha firmato (con Grillo e Renzi) lo sconcertante “Patto per la Scienza” promosso dal vaccinista Claudio Burioni, che di fatto propone che venga lasciata senza fondi la ricerca medica sugli effetti collaterali delle vaccinazioni. «Quello che Mentana evita di ricordare – sottolinea Mazzucco – è che la Puglia ha scoperto che 4 bambini su 10 hanno subito reazioni avverse anche gravi, dopo la somministrazione neonatale dei nuovi vaccini polivalenti». Non solo: «La7 non si premura di ricordare che gli Stati Uniti (dove la Corte Suprema ha dichiarato impossibile avere garanzie sulla sicurezza dei vaccini) hanno finora sborsato 4 miliardi di dollari per indennizzare i danneggiati da vaccino».Ovviamente, di fronte a queste osservazioni, il mainstream bolla come No-Vax (scellerato troglodita) chiunque sollevi dubbi, invocando il “prinicipio di precauzione” citato dalla Costituzione. Con questo risultato, negli Usa: i cittadini sono gli unici a pagare, anche due volte (come contribuenti, ed eventualmente anche come pazienti danneggiati dalle vaccinazioni), mentre Big Pharma è formalmente impunita, per legge, avendo messo le mani avanti. Obiezione: ma se sei certo che i tuoi vaccini siano “sicuri”, perché chiedi allo Stato di coprirti le spalle? Forse perché sai benissimo che le somministrazioni polivalenti – come dicono molti medici, alcuni prontamente radiati – non sono affatto privi di rischi, per neonati ancora sprovvisti dei necessari anticorpi? Mazzucco alza le mani: «Io non sono un medico, né un ricercatore. Non ho competenze scientifiche, non posso trarre conclusioni tecniche. Dico però che c’è un deficit, enorme, di trasparenza e informazione. Viene meno un diritto fondamentale: quello di essere decentemente informati, anche in questa delicata materia che preoccupa tante famiglie». Statistica: per la prima volta nella storia, quest’anno 130.000 bambini italiani (nel dubbio, non vaccinati) sono stati esclusi dai nidi e dalle materne.In prima linea nell’informazione indipendente, con Mazzucco (insieme allo stesso Giulietto Chiesa e alla sua “Pandora Tv”) c’è un video-blogger come Claudio Messora, pionieristico creatore di “ByoBlu”, ora impegnato addirittura di una striscia pre-serale quotidiana: un talskow giornalistico davvero unico. In tandem con Francesco Maria Toscano, Messora riassume le notizie-chiave della giornata, sottoponendole sia alle migliori voci “eretiche” che a personaggi abitualmente televisivi, da Carlo Cottarelli a Edward Luttwak, per una volta alle prese con vere domande. Problema: benché “ByoBlu” sia seguito da una comunità di trecentomila iscritti, da quando ha esordito il suo freschissimo #TgTalk le visualizzazioni dei singoli video sono misteriosamente scese a cinquantamila, almeno stando al report ufficiale del gestore web. Per Mazzucco – che con Messora collabora – c’è il sospetto che sia in atto una censura-ombra, tecnologica, tendente appunto a minimizzare l’inidicizzazione dei contenuti politicamente problematici. Anni fa, l’area critica del web in Italia era quotata attorno ai due milioni di utenti. Oggi, la platea di chi usa Internet per informarsi è aumentata a dismisura. Anche per questo, forse, l’Ue è corsa ai ripari con la sua leggina-bavaglio, nascosta dietro il paravento della tutela del copyright.Nel frattempo, qualcosa sta cambiando in profondità: lo smartphone ti consente di ricevere news in tempo reale (incluse quelle diffuse da Messora, Mazzucco e Chiesa) e i quotidiani italiani sono al capolinea. John Elkann potrà pure comprarsi “Repubblica” e “l’Espresso”, ma intanto i quotidiani – tutti, messi assieme – ormai vendono meno di 600.000 copie. Vorrà pur dire qualcosa, sottolinea un veterano come Gigi Moncalvo, costretto a smerciare tramite il suo sito gli scottanti libri-inchiesta sulla dinastia Agnelli, letteralmente spariti dalle librerie. «Semplicemente – dice Moncalvo – i giornali hanno smesso di raccontare quello che succede, e i lettori se ne sono accorti». Tiene ancora banco il telegiornale, soprattutto come abitudine, ma la fiducia verso la categoria giornalistica è ai minimi storici. In Italia, del resto, vent’anni fa erano ancora in circolazione Biagi, Bocca, Montanelli e Zavoli, insieme a Gianni Minà e Oriana Fallaci. Lo stesso Barnard, per dire, scriveva sul “Corriere della Sera”. Giulietto Chiesa firmava corrispondenze da Mosca per il Tg5. Uno dei pochissimi reporter italiani scomodi, Gianni Lannes, è quasi scomparso dai radar. Siamo in un torbido Tempo di Mezzo, in cui niente è come sembra. La differenza la fanno quelli come Mazzucco: intanto, dicono tutto quello che sanno. E spesso poi il mainstream, sempre reticente, è costretto a tenerne conto, anche se affila le sue armi per silenziare il più possibile le voci che smontano e ridicolizzano la patetica verità ufficiale.E’ vero che nel Paese della Libertà ci sono decine di reti televisive teoricamente indipendenti e commerciali. Ma anche l’informazione locale – in ogni Stato della confederazione più potente del mondo – fa comunque capo agli unici 4 grandi network che dispensano il Vangelo secondo il Potere. Lo ricorda Massimo Mazzucco, nella sua video-chat settimanale con Fabio Frabetti di “Border Nights”: gli Usa non sfuggono alla legge delle news precotte dal medesimo, supremo cervello. «Puoi guardare la Tv dell’Alabama o quella del Wisconsin, ma il risultato è lo stesso: per le notizie nazionali e internazionali, ascolterai addirittura le stesse parole, le stesse espressioni, come se i dispacci fossero stati fotocopiati». Succede anche in Italia, ovviamente: «Se segui un telegiornale e poi l’altro, in parallelo – Rai, Mediaset, La7 – scopri che le prime sette notizie sono sempre uguali, recitate nello stesso modo. A cambiare è solo la nota di colore, in coda: il gattino salvato dai pompieri». Risultato: «Il telegiornale è un grande anestetico: ti dà l’illusione di avere il controllo di quello che succede. Anche se ovviamente non è vero, ti convince di essere messo al corrente dell’essenziale».
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Carotenuto: inquietante Conte-bis, è in guerra contro di noi
Dobbiamo tornare a parlare di Conte come il successore di Andreotti: pur essendo un tipo molto diverso, è il portatore dello stesso enorme potere curiale di cui beneficiava Andreotti. Un personaggio così importante è diventato anche presidente del Consiglio di un secondo governo, con un equilibrio politico completamente differente dal precedente. Com’è che un personaggio portatore di un potere così importante si occupa anche di questo governo? Di dirigerlo e di controllarlo, per conto del suo potere. E cos’è, questo nuovo governo? E’ un governo pericolosissimo: per la libertà, per la sovranità, per le nostre coscienze e anche per le nostre tasche. I governi precedenti erano meglio? No, erano sempre governi fatti principalmente da burattini dei poteri che contano, nel mondo. Tutti i partiti italiani, in questo momento, sono burattini di quei poteri, anche se fingono di non esserlo. Quello precedente era un governo “bau-bau”, serviva a protestare contro il sistema in modo da raccogliere la protesta antisistema (che è crescente), ma poi doveva anche “andare a male” per dimostrare che questo sovranismo non ce la fa, che è becero, in modo da creare – per reazione – un raggruppamento che fosse maggioritario, in questo Parlamento. E questo ha funzionato.Quindi si è riusciti a mettere insieme 5 Stelle e Pd, che prima – con tutti i loro elettorati – non sarebbero mai stati insieme. Quindi, la mossa di far fare a Salvini il “bau-bau” è servita. Ma lo stesso vale in tutto il mondo. Berlusconi ha fatto il “bau-bau” precedentemente, Trump lo sta facendo in questo momento. Ogni tanto, quando comincia a deteriorarsi un certo potere fortemente collegato ai grandi poteri di manipolazione, quando cioè gli uomini bravi a fare gli interessi del potere cominciano a non essere più accettabili per i cittadini (che hanno capito chi sono) allora bisogna sostituirli, perché il potere ha bisogno del consenso della gente. E allora si inventano nuovi partiti di destra e di sinistra, nuovi partiti fintamente libertari come il Movimento 5 Stelle, o fintamente al servizio del popolo come la Lega. Ma questi, prima o poi, servono solamente per fare una manovra che riporti le cose nelle mani dei più efficienti uomini del potere, che poi sono quelli dei vecchi schemi (in questo caso, gli uomini del Pd). Le posizioni più importanti di questo governo sono state tutte date a esponenti del vecchio potere, che ormai era indigesto. E gli uomini nuovi (come Di Maio) servono a fare da copertura, ma non contano niente – anche perché in effetti non sono capaci di fare niente, non hanno mai fatto niente.Quelli efficientisi invece li hanno messi nelle posizione di rilievo. Al ministero dell’economia hanno messo un funzionario europeo molto efficace, uno di quelli che hanno lavorato al Mes, al Trattato di Lisbona, al Patto di Stabilità: uno di quelli che sanno come si incastra e come si schiavizza la gente. E poi Gentiloni: un uomo della curia romana, molto vicino a Mattarella e agli stessi ambienti da cui, guarda un po’, viene Conte. E quest’uomo è diventato ministro europeo dell’economia. E un altro uomo di ambienti curiali, giornalista, David Sassoli, è diventato presidente del Parlamento Europeo. Una formazione molto forte: in questo momento, questo governo è molto forte in Europa. I suoi uomini (tipo Prodi, Ciampi, Monti: lo stesso tipo di persone, derivanti dallo stesso potere) adesso sono diventati tra i più potenti, tra Italia ed Europa. Ma questo governo, che è stato possibile creare solo dopo aver fatto fare a Salvini il “bau-bau”, è un governo molto pericoloso, più forte del normale. Ha dentro persone più abili (come il ministro dell’economia Gualtieri), più connesse al potere vero, finanziario, ai poteri oscuri, e quindi più capaci di portare avanti l’agenda mondialisa verticalizzatrice (l’agenda anti-coscienza, come la chiamiamo noi da tempo).Questo è quindi un governo “da guerra”: è come aver messo su una forza armata, capace non solo di portare avanti con molta più forza l’agenda europea, ma forse di fare qualcosa in più. Con questo governo, l’agenda che già c’era prenderà fiato: questo governo applicherà molte cose che prima non si applicavano. Anche perché questo governo rafforza enormemente il fronte verticalizzante dei paesi europei che sono connessi ai poteri finanziari. E adesso, anche in Europa, c’è una maggioranza di governi fortemente capaci di portare avanti l’agenda peggiore, accentratrice. E l’Italia dà un contributo incredibile, con questo improvviso cambiamento di posizione. Quindi, tutti di dossier europei che sono in campo verranno applicati con molta più forza, senza esitazioni. Quali? Uno dei più importanti è questo: si sta discutendo il bilancio europeo dal 2021 al 2027. Come dovranno contribuirvi, gli Stati? E cosa si farà, di questo bilancio europeo? Le previsioni non sono simpatiche. Ci sarà un trasferimento di fondi dagli Stati all’Europa, e l’Europa si occuperà di molte più cose, senza più passare dagli Stati.E questo velocizzerà il processo di verticalizzazione e accentramento: più speditamente di farà l’Unione Bancaria, si procederà verso una politica estera comune più forte, verso un esercito comune, verso una polizia comune, verso servizi segreti comuni. Tutti passi finora fatti in maniera non molto forte. Questo tipo di governo Ue lo può fare in modo assai più deciso. Può dare più fondi ai Meccanismo Europeo di Stabilità, rafforzare il Fiscal Compact, realizzare più facilmente il Ceta, far entrare più facilmente gli Ogm e toglierci i contanti. Tantissime sono le cose che questa formazione “da guerra”, pericolosissima, può fare; cose che prima erano più difficili da realizzare. Però non c’è solo questo. Non per dare una cattiva notizia, ma questa formazione è talmente forte, sia un Europa che in Italia, che potrebbe anche essere sfruttata per fare qualche deciso passo in più verso la verticalizzazione e la schiavizzazione. Come si fanno, in genere, questi passi? Scatenando delle crisi. Però bisogna avere governi capaci di sfruttarle: e adesso ci sono.Crisi come l’11 Settembre, che ha portato un cambiamento – voluto – delle strategie, a livello mondiale, grazie alla strategia della tensione del falso attentato alle Torri Gemelle. Oppure il conflitto con l’Islam, creato apposta da forze occidentali: potremmo vedere una ripresa del terrorismo. Potremmo vedere un’azione strana, qualche paese che esplode nel Mediterraneo o nel Medio Oriente. Potremmo vedere qualche paese che va fortemente in crisi economica, perché no? Potrebbe essere qualcosa che ci riguarda da vicino – spero non direttamente anche l’Italia, visto che a Bruxelles avremo un ministro dell’economia italiano e a Roma un governo molto forte in senso europeista. Mi aspetto quindi la possibilità che questo governo “da guerra”, da battaglia, che lavora per conto dei poteri oscuri, possa essere adoperato per gestire un ulteriore passo di schiavizzazione, a seguito della creazione di qualche momento di tensione (e alla strategia della tensione ci hanno abituati). Mentre faranno questo, chiaramente, ci terranno ancora nella famosa tenaglia: emergenze, stress, mancanza di lavoro, tasse, penuria di soldi, e dall’altra parte divertimenti, il frivolo, l’effimero. Obiettivo: fare in modo che le nostre coscienze non si risveglino, e siano di fronte o al dramma o al calcio e alla televisione.Coscienze da una parte impaurite e dall’altra addormentate: questo continuerà, naturalmente, mentre loro attueranno un’agenda sempre più pericolosa. Del resto, l’umanità si sveglia solo attraverso il dolore. Vuol dire che tassi di dolore crescenti aiuteranno l’umanità a un ulteriore risveglio, come è successo finora. A seguito di guerre, stragi e olocausti, l’umanità si è svegliata sempre un po’ di più. Adesso non può più essere comandata a bacchetta, va manopolata: democrazia e libertà devono essere mantenute, in qualche modo, perché la gente reagisce. La gente è cresciuta, nei secoli, attraverso il dolore, lasciando il campo parzialmente libero alle forze oscure. Speriamo che non duri, questo governo. Se invece dovesse durare, apprestiamoci a ricevere cattive notizie. Che però genereranno risvegli: se questo accade è perché siamo in grado di farvi fronte, e di uscirne spiritualmente vincitori.(Fausto Carotenuto, “Un governo pericolosissimo”, video-intervento su YouTube ripreso da “Coscienze in Rete” il 21 novembre 2019, dove si sottolinea la nefasta azione del Conte-bis che emerge dai retroscena sul Mes).Dobbiamo tornare a parlare di Conte come il successore di Andreotti: pur essendo un tipo molto diverso, è il portatore dello stesso enorme potere curiale di cui beneficiava Andreotti. Un personaggio così importante è diventato anche presidente del Consiglio di un secondo governo, con un equilibrio politico completamente differente dal precedente. Com’è che un personaggio portatore di un potere così importante si occupa anche di questo governo? Di dirigerlo e di controllarlo, per conto del suo potere. E cos’è, questo nuovo governo? E’ un governo pericolosissimo: per la libertà, per la sovranità, per le nostre coscienze e anche per le nostre tasche. I governi precedenti erano meglio? No, erano sempre governi fatti principalmente da burattini dei poteri che contano, nel mondo. Tutti i partiti italiani, in questo momento, sono burattini di quei poteri, anche se fingono di non esserlo. Quello precedente era un governo “bau-bau”, serviva a protestare contro il sistema in modo da raccogliere la protesta antisistema (che è crescente), ma poi doveva anche “andare a male” per dimostrare che questo sovranismo non ce la fa, che è becero, in modo da creare – per reazione – un raggruppamento che fosse maggioritario, in questo Parlamento. E questo ha funzionato.
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Vaccini, Luna, 11 Settembre: “Mentana, il problema sei tu”
Di recente, Enrico Mentana ha sbroccato: non ce la fa più. Aveva aperto la sua pagina Facebook dicendo: qui la battaglia delle informazioni si sposta in Rete, quindi bisogna scendere in Rete e sporcarsi le mani. E adesso che su Facebook viene attaccato da tutte le parti, ha dato di matto. Guardate che cosa ha scritto nei giorni scorsi: «Chiedo per coerenza a tutti quelli che dicono, scrivono o pensano “nessuna compassione per Venezia” di abbandonare questa pagina. Non voglio avere nulla a che fare con chi si è fatto contagiare da questo clima di odio, rancore e disprezzo. Passo il tempo a bannare e a invitare ad andarsene chi offende gli avversari o gli appartenenti a etnie diverse, chi infierisce sui poveracci che cercano di raggiungere il nostro continente per una speranza di vita più degna, chi ci intossica il web con la cattiveria chi non crede allo sbarco sulla Luna o l’attacco dell’11 Settembre, chi lotta contro i vaccini e la scienza. Allo stesso titolo chiedo agli odiatori territoriali di levarsi di mezzo e al più presto». Ma scusa, caro Mentana: a questo punto non fai prima a levarti di mezzo tu? Perché, a giudicare da quello che scrivi, tu vorresti un mondo popolato solo da gente che la pensa esattamente come te. Tutti gli altri dovrebbero sparire di colpo.Ma non è questa la Rete in cui eri sceso sporcarti le mani? La Rete è confronto continuo, quotidiano, duro, spesso anche scorretto. Se tu vuoi stare tranquillo, continua a fare il tuo telegiornale, protetto dal tuo editore, e lì nessuno verrà a disturbarti. Ora, io non sono né un “odiatore” della Rete, né uno che insulta le etnie diverse, come dici tu. Ma visto che sei stato così furbino da infilarci dentro anche quelli del 11 Settembre, della Luna e dei vaccini, ti rispondo su quello. Curiosa, fra l’altro, questa tecnica di assimilare gli scettici dell’11 Settembre agli odiatori della Rete, della speranza di contaminare i primi con il giusto sdegno che si meritano i secondi. Alle tue bassezze ormai ci siamo abituati, Mentana. E comunque ti rispondo nel merito sull’11 Settembre. Ti dico una cosa molto semplice: se tu sei così poco intelligente da non capire che un edificio non può crollare in caduta libera senza la demolizione controllata, il problema non siamo noi, Mentana: il problema ce l’hai tu, nel tuo cervello. Come funziona la legge di conservazione dell’energia te lo può spiegare un qualunque studente liceale di 16 anni. E te lo hanno anche spiegato chiaramente gli oltre 3.000 membri dell’associazione architetti e ingegneri per la verità sull’11 Settembre.Quindi sei tu, che fai finta di non sentire. Il problema non siamo noi, che sosteniamo la demolizione controllata del World Trade Center. Sei tu, che sei affetto da una curiosa sordità selettiva su certi argomenti. Stessa cosa per la Luna: se tu vuoi continuare a credere che siamo stati sulla Luna 50 anni fa, quando oggi gli stessi astronauti ammettono che non siamo nemmeno in grado di andare oltre l’orbita bassa, il problema ce l’hai tu, Mentana, non ce l’abbiamo noi. Non ti sei mai chiesto perché 50 anni fa siamo andati sulla Luna partendo da zero, in soli otto anni, con delle tecnologie giurassiche, mentre oggi (con tutte le tecnologie più avanzate che abbiamo) il famoso ritorno sulla Luna continuano a rimandarlo all’infinito? Prima dovevamo andarci nel 2002 sotto Bush, poi l’hanno spostato nel 2008 sotto Obama, poi dovevamo andarci nel 2012 sempre sotto Obama, poi l’hanno spostato al 2018 sotto Trump. Adesso che 2018 è passato si parla addirittura già del 2024. E a te, Mentana, tutto questo sembra normale? Ti sembra normale che 50 anni fa, partendo da zero, ci siamo andati in 8 anni per 6 volte, addirittura, e oggi si continua a rimandare all’infinito questo benedetto ritorno? Bisogna essere ciechi per non vedere questa contraddizione. Ma tu evidentemente preferisci credere alle favoleSui vaccini, idem. Se tu vuoi continuare a credere alle storielle rassicuranti di Burioni, quando la stessa Corte Suprema americana ha dichiarato in una sentenza che i vaccini sono «inevitabilmente insicuri», e quando il Fondo di Compensazione ha già pagato oltre 4 miliardi di dollari ai danneggiati da vaccino (4 miliardi, non 4 milioni) il problema ce l’hai tu, non ce l’abbiamo noi: sei tu che scegli di ignorare certe informazioni. Noi ragioniamo semplicemente con il nostro cervello, e traiamo le conclusioni logiche a cui ci portano le informazioni disponibili. Tu invece vivi nel tuo mondo dorato (dorato e ben pagato, naturalmente), dove “gli americani non si farebbero mai da soli una cosa del genere”, dove si può andare e venire tranquillamente dalla Luna seduti dentro la lattina di CocaCola, praticamente, e dove i vaccini sono buoni e sani, e le centinaia di migliaia di bambini danneggiati da vaccino semplicemente non esistono. Sei tu che vivi nel mondo delle fate, Mentana.Oppure, l’alternativa è che tu non sia affatto così ingenuo è distratto come fingi di essere, su certi argomenti, ma che tu abbia fatto una scelta di campo ben precisa. E cioè che tu, a un certo punto, abbia smesso di fare il giornalista e, per comodità di vivere, ti sia schierato platealmente dalla parte del potere, chiudendo gli occhi su tutti questi argomenti delicati. D’altronde, come diceva Upton Sinclair, «è molto difficile far capire certe cose a una persona, quando il suo stipendio dipende dal non capirle». Quindi vedi tu, Mentana, se la tua sia soltanto l’ingenuità di un bamboccio innamorato delle favole, oppure se tu sia un cinico calcolatore che ha tradito la sua professione pur di restare tranquillo al suo posto. Ma in ciascuno di due casi, il problema sei tu, non siamo noi. Quindi, se c’è qualcuno che deve togliersi di mezzo, caro Mentana, sei tu. Non siamo certo noi.(Massimo Mazzucco, “Mentana il problema sei tu, non siamo noi”, video-messaggio rivolto a Enrico Mentana il 19 novembre 2019, ripreso sul blog “Luogo Comune”. Insieme a Giulietto Chiesa, Mentana conduce ogni sera alle 21 le trasmissioni di “Contro Tv”, in live streaming).Di recente, Enrico Mentana ha sbroccato: non ce la fa più. Aveva aperto la sua pagina Facebook dicendo: qui la battaglia delle informazioni si sposta in Rete, quindi bisogna scendere in Rete e sporcarsi le mani. E adesso che su Facebook viene attaccato da tutte le parti, ha dato di matto. Guardate che cosa ha scritto nei giorni scorsi: «Chiedo per coerenza a tutti quelli che dicono, scrivono o pensano “nessuna compassione per Venezia” di abbandonare questa pagina. Non voglio avere nulla a che fare con chi si è fatto contagiare da questo clima di odio, rancore e disprezzo. Passo il tempo a bannare e a invitare ad andarsene chi offende gli avversari o gli appartenenti a etnie diverse, chi infierisce sui poveracci che cercano di raggiungere il nostro continente per una speranza di vita più degna, chi ci intossica il web con la cattiveria chi non crede allo sbarco sulla Luna o l’attacco dell’11 Settembre, chi lotta contro i vaccini e la scienza. Allo stesso titolo chiedo agli odiatori territoriali di levarsi di mezzo e al più presto». Ma scusa, caro Mentana: a questo punto non fai prima a levarti di mezzo tu? Perché, a giudicare da quello che scrivi, tu vorresti un mondo popolato solo da gente che la pensa esattamente come te. Tutti gli altri dovrebbero sparire di colpo.
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ControTv, in diretta: Chiesa e Mazzucco aggirano YouTube
Attenti a quei due: da anni sfidano il mainstream, smontando le sue leggende, e non hanno ancora smesso di impensierire il Grande Fratello. Tant’è vero che, non appena la nuova iniziativa è finita su una pagina Facebook con oltre 40.000 contatti, la segnalazione è stata trasmessa in automatico solo a 9.000 follower. Già si annusano guai in vista, ipotizza Massimo Mazzucco, titolare della pagina stranamente “filtrata”: il mitico algoritmo di Zuckerberg sospetta che il suo nome, unito a quello di Giulietto Chiesa, possa essere sinonimo di grane? Del resto, quello è il sistema che dispensa sonni tranquilli al cittadino, magari invitandolo a rifugiarsi nel politically correct come nel caso del polverone attorno alla commissione Liliana Segre. Sacrosanto condannare chi insulta i reduci della Shoah, beninteso: purché questo poi non venga usato per silenziare chiunque la pensi diversamente, sui temi più disparati. «Vale anche per il revisionismo: un conto è oltraggiare i reduci, un altro è avere idee differenti sulla storia. Proibirle non è forse contrario alla libertà di parola tutelata dalla Costituzione?». E poi: «Perché la versione ufficiale dovrebbe essere obbligatoria solo per la Shoah, di cui si stabilisce il numero di vittime senza mai interrogarsi sulle vere cause del nazismo e sui sostenitori occulti di Hitler?». A quel punto, dice Mazzucco, si emani una verità ufficiale su ogni altro tema, e buonanotte a tutti.