Archivio del Tag ‘aberrazione’
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Barbero: pessima idea, equiparare il comunismo al nazismo
Pessima idea, equiparare il simbolo del comunismo – falce e martello – alla svastica hitleriana. A lanciare l’allarme è lo storico Alessandro Barbero, ospite dell’edizione 2019 del Festival Logos di Roma, il 24 ottobre. La tesi: il fascismo è riconducibile al faccione di Mussolini in Italia e l’orrore nazista della Germania è indentificabile in un periodo storico altrettanto circoscritto nel tempo e nello spazio. Al contrario, l’ideale comunista (poi tradito dal regime criminale dell’Urss stalinista) aveva infiammato i cuori di milioni di persone. E’ accaduto in ogni parte del pianeta, nell’arco di 150 anni, da Marx in poi, sulla base di un sogno: un mondo più giusto e migliore, per tutti. Barbero prende così le distanze dall’insidioso documento approvato il 19 settembre dal Parlamento Europeo: il testo condanna il comunismo in quanto sistema politico “totalitario”, equiparandolo al nazifascismo. Con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti, la controversa risoluzione sulla “memoria europea” getta nella spazzatura della storia l’intera esperienza comunista internazionale. Pericolo in vista: «Nella dimensione pratica – riassume “Radio Onda d’Urto – la risoluzione impegna a eliminare qualunque simbologia presente in Europa relativa al movimento comunista internazionale, dai monumenti ai nomi delle strade».Il documento propone una ricostruzione storica più che discutibile, che vede nel patto Molotov-Ribbentrop del 1939 (la spartizione della Polonia con cui Stalin cercò di guadagnare tempo, prima di subire l’invasione hitleriana) l’espressione di un progetto egemonico sull’Europa da parte della Germania nazista e dell’Unione Sovietica. In sostanza, accusando la Russia di non avere fatto i conti con il proprio passato, il Parlamento Europeo dimentica di ricordare che fu proprio l’Urss – a Stalingrado – a fermare l’esercito nazista, permettendo all’Europa occidentale di liberarsi dal terrore totalitario con il successivo aiuto militare degli Usa. A favore del testo, che condanna anche genericamente «tutte le organizzazioni politiche accusate di promuovere l’odio e la violenza politica», hanno votato a favore gli europarlamentari di Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Pd. Nel sanzionare «gli atti di aggressione, i crimini contro l’umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari», si esprime «inquietudine per l’uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali», ricordando che «alcuni paesi europei hanno vietato l’uso di simboli sia nazisti che comunisti».Attraverso il Parlamento Europeo sta dunque per calare sull’Europa una sorta di “post-verità orwelliana” destinata a mettere al bando, presto o tardi, il simbolo “falce e martello” clamorosamente equiparato alla svastica? A inquietare è il principio: la caccia alle streghe contro la simbologia comunista potrebbe essere l’antipasto di altre successive proibizioni. Vivaci, in Italia, le reazioni contrarie: lo storico dell’arte Tomaso Montanari parla di «squallore», perché è stato dimenticato il ruolo decisivo dell’Urss nella sconfitta del nazismo. Comunismo e nazismo posti sullo stesso piano? «Una falsificazione ignobile, quella della risoluzione votata dal Parlamento Europeo, come è ignobile che a votarla siano stati tanti sedicenti democratici nostrani», insorgono – come riporta “Repubblica” – Francesco Laforgia e Luca Pastorino, rispettivamente senatore e deputato di “Liberi e Uguali”. «Queste distorsioni – aggiungono – sono una pericolosa rilettura che finisce per sdoganare ideologie neo-fasciste». All’attacco anche il deputato Nicola Fratoianni, secondo cui siamo di fronte a «malafede, più che ignoranza».Protesta Massimiliano Smeriglio, eurodeputato Pd, a lungo braccio destro di Zingaretti: «Non si può costringere la storia dentro uno schema parlamentare al solo scopo di tirarla da tutte le parti, per poi finire in uno strano ecumenismo». Un altro eurodeputato Pd, Pierfrancesco Majorino, su Facebook parla di «banalizzazioni pericolose». L’equiparazione tra comunismo e nazismo «fa piangere, innanzitutto sul piano storico». Sulle barricate anche l’Anpi: «In un’unica riprovazione – afferma l’associazione partigiani – si accomunano oppressi e oppressori, vittime e carnefici, invasori e liberatori, per di più ignorando lo spaventoso tributo di sangue pagato dai popoli dell’Unione Sovietica (più di 22 milioni di morti) e persino il simbolico evento della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa». Secondo l’Anpi, «davanti al crescente pericolo di nazifascismi, razzismi e nazionalismi, si sceglie una strada di lacerante divisione invece che di responsabile e rigorosa unità».Chissà cosa ne direbbe Primo Levi, se fosse vivo: le pagine di un memoriale come “La tregua” propongono un vivido ritratto della prorompente, caotica vitalità delle truppe sovietiche, consapevoli – a ogni livello – si essersi sacrificate non solo per difendere il territorio russo, ma anche per liberare l’Europa dalla barbarie. Dovunque poi sia andato al governo – ammette lo stesso Barbero, storico popolarissimo in Italia grazie anche alla sua presenza televisiva – il comunismo ha agito in modo inaccettabile, deludendo i suoi stessi sostenitori. Chi tende a dichiararsi al tempo stesso antifascista e anticomunista (liberali e socialisti) sottolinea: esattamente come il nazifascismo, anche il comunismo ha finito sempre per sopprimere la democrazia e imporre un’oligarchia autoritaria e spesso violenta, se non addirittura totalitaria come nel caso dello stalinismo. Avverte però il professor Barbero: attenti, a maneggiare la storia in modo frettoloso. Falce e martello, per centinaia di milioni di esseri umani – in tutto il mondo, e per un secolo e mezzo – hanno rappresentato ideali di fraternità e dignità, pace e giustizia sociale. Per Hitler, al copntrario, l’obiettivo supremo era lo sterminio razzista degli ebrei. Sicuri che sia saggio, gettare tutto questo nello stessa fogna dove la storia ha provveduto a relegare l’aberrante nazismo tedesco?Pessima idea, equiparare il simbolo del comunismo – falce e martello – alla svastica hitleriana. A lanciare l’allarme è lo storico Alessandro Barbero, ospite dell’edizione 2019 del Festival Logos di Roma, il 24 ottobre. La tesi: il fascismo è riconducibile al faccione di Mussolini in Italia e l’orrore nazista della Germania è identificabile in un periodo storico altrettanto circoscritto nel tempo e nello spazio. Al contrario, l’ideale comunista (poi tradito dal regime criminale dell’Urss stalinista) aveva infiammato i cuori di milioni di persone. E’ accaduto in ogni parte del pianeta, nell’arco di 150 anni, da Marx in poi, sulla base di un sogno: un mondo più giusto e migliore, per tutti. Barbero prende così le distanze dall’insidioso documento approvato il 19 settembre dal Parlamento Europeo: il testo condanna il comunismo in quanto sistema politico “totalitario”, equiparandolo al nazifascismo. Con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti, la controversa risoluzione sulla “memoria europea” getta nella spazzatura della storia l’intera esperienza comunista internazionale. Pericolo in vista: «Nella dimensione pratica – riassume “Radio Onda d’Urto” – la risoluzione impegna a eliminare qualunque simbologia presente in Europa relativa al movimento comunista internazionale, dai monumenti ai nomi delle strade».
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Abrogare il vilipendio, antico reato che oggi condanna Bossi
La notizia che Umberto Bossi è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a un anno e 15 giorni di reclusione per vilipendio al capo dello Stato poiché in un comizio del 29 dicembre 2011 aveva dato del “terrone” a Giorgio Napolitano aggiungendovi il gesto delle corna, era passata quasi sotto silenzio. Ma ieri, su Libero, scende in campo da par suo Renato Farina, il noto ‘Betulla’, che quando era vicedirettore di quel giornale collaborava per denaro con i servizi segreti italiani fornendo informazioni e pubblicando notizie false (che i nostri servizi si siano serviti di una nullità come Farina la dice lunga sulla loro efficienza). Giuliano Ferrara, anch’egli giornalista e anch’egli al soldo dei servizi segreti, questa volta americani, la Cia, lo difese così: «Farina ha preso due stipendi? Che male c’è? Se uno fa due lavori è ovvio che prenda anche due stipendi». Che sarebbe come dire che è giusto che un poliziotto prenda uno stipendio dallo Stato e che un altro stipendio lo ricavi dalla refurtiva che requisisce a suo uso e consumo. Naturalmente Farina non affronta il nocciolo della questione ma prende slancio da questa sentenza per attaccare la magistratura (e che altro potrebbe fare uno che agisce nell’orbita del “delinquente naturale”?) e per somministrarci una dotta disquisizione sul termine “terrone” dandosela da uno che la vita la conosce bene mentre in realtà ha frequentato solo oratori e le scuole delle “figlie di Maria”.La magistratura applica le leggi. E le leggi le fa o le convalida il Parlamento. Ciò che si dovrebbe fare oggi non è impetrare una grazia per Bossi, come fa Farina, ma chiedere e ottenere dal Parlamento, non a favore di Bossi ma di tutti i cittadini di questo paese, l’abrogazione di tutti i reati di opinione di cui è zeppo il nostro codice penale, eredità del Codice Rocco vigente durante il regime fascista, fra qui c’è anche il vilipendio: della Repubblica, delle istituzioni costituzionali, delle forze armate, alla bandiera o altro emblema dello Stato, alla nazione italiana, alla religione dello Stato. Per non farci mancar nulla, a queste leggi liberticide ne abbiamo aggiunta un’altra, ancora più aberrante, la legge Mancino del 1993 che punisce l’odio razziale, etnico, religioso, nazionale. Per la prima volta nella storia, credo, si sono volute mettere le manette anche ai sentimenti. Perché l’odio è un sentimento, come l’amore, la gelosia, l’ira.Io ho il diritto di odiare chi mi pare e di aderire alle ideologie, anche quelle che appaiono più aberranti, quelle naziste e fasciste, che più sento vicine. L’unico discrimine in democrazia è che nessun sentimento o idea, giusta o sbagliata che sia, può essere fatta valere con la violenza. E’ il prezzo che la democrazia, ammesso che un sistema del genere esista, paga a se stessa. Altrimenti si trasforma in una sorta di teocrazia laica. Ma uno dei problemi della cosiddetta democrazia italiana non sono solo i partiti che, debordando dalle disposizioni costituzionali, ammesso che la Costituzione abbia un senso, hanno occupato tutte le istituzioni, tutte le aziende di Stato e del parastato, di cui la Rai è solo l’esempio più evidente, ma sono proprio i giornalisti, quasi tutti i giornalisti che, senza arrivare agli estremi di Renato Farina o di Giuliano Ferrara, prendono due stipendi, uno dalle case editrici per cui lavorano, l’altro attraverso i vantaggi che ottengono dai partiti o dalle lobby cui si sono affiliati.(Massimo Fini, “Il reato di Bossi, il codice Rocco e i giornalisti con due stipendi”, dal “Fatto Quotidiano” del 29 settembre 2018, articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”).La notizia che Umberto Bossi è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a un anno e 15 giorni di reclusione per vilipendio al capo dello Stato poiché in un comizio del 29 dicembre 2011 aveva dato del “terrone” a Giorgio Napolitano aggiungendovi il gesto delle corna, era passata quasi sotto silenzio. Ma ieri, su “Libero”, scende in campo da par suo Renato Farina, il noto ‘Betulla’, che quando era vicedirettore di quel giornale collaborava per denaro con i servizi segreti italiani fornendo informazioni e pubblicando notizie false (che i nostri servizi si siano serviti di una nullità come Farina la dice lunga sulla loro efficienza). Giuliano Ferrara, anch’egli giornalista e anch’egli al soldo dei servizi segreti, questa volta americani, la Cia, lo difese così: «Farina ha preso due stipendi? Che male c’è? Se uno fa due lavori è ovvio che prenda anche due stipendi». Che sarebbe come dire che è giusto che un poliziotto prenda uno stipendio dallo Stato e che un altro stipendio lo ricavi dalla refurtiva che requisisce a suo uso e consumo. Naturalmente Farina non affronta il nocciolo della questione ma prende slancio da questa sentenza per attaccare la magistratura (e che altro potrebbe fare uno che agisce nell’orbita del “delinquente naturale”?) e per somministrarci una dotta disquisizione sul termine “terrone” dandosela da uno che la vita la conosce bene mentre in realtà ha frequentato solo oratori e le scuole delle “figlie di Maria”.
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Democrazia sovrana, il fantasma che spaventa questi partiti
Si fa presto a dire destra, così come a dire sinistra. Dopo cotanta campagna elettorale, l’Italia rischia di avere l’ennesimo governicchio incolore, magari “istituzionale”? Rischia di ritrovarsi a Palazzo Chigi qualcuno che non sia scelto né da Salvini né da Berlusconi, cioè i due alfieri della coalizione che ha vinto le elezioni? In molti, dopo il 4 marzo, hanno tifato per l’alleanza “impossibile” tra i due giovani portavoce del rinnovamento invocato dal 55% degli elettori. In tanti hanno incoraggiato il leader della Lega e il candidato dei 5 Stelle, come se davvero Salvini e Di Maio volessero (o potessero) cambiare qualcosa, nella “palude” italiana gestita sottobanco da un’oligarchia anfibia che lavora per conto terzi. E’ una casta fantasma, vassalla dell’élite privatistica internazionale – industriale, bancaria – che cura i propri affari fingendo di amministrare l’Europa tramite i suoi uomini, piazzati alla Bce e alla Commissione Europea. Una “spectre” efficientissima, che dispone di terminali in tutti i ministeri che contano, nelle banche centrali, nei think-tanks che dettano le regole del grande business oligopolistico, poi regolarmente tradotte in direttive europee. Dogmi inviolabili e nuove teologie come quella neoliberista: rigore per tutti, tranne che per l’élite finanziaria globalista e mercantilista.La piramide tecnocratica chiamata Unione Europea è solo l’interfaccia del sommo potere economico, che non ha altra bandiera che quella del denaro. Operazione ormai messa in chiaro: “Lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, la chiamava il sociologo Luciano Gallino. Immenso trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, mai visto dall’avvento della modernità industriale. Neo-feudalesimo, al posto della democrazia ormai svuotata: lo Stato non ha più sovranità, è costretto a eseguire ordini. Per cosa votare, allora? Punti di vista. Nel famoso referendum del 4 dicembre si votò contro Renzi in modo ipocrita, dichiarando ufficialmente di voler difendere la Costituzione così com’era, cioè già irrimediabilmente lesionata dall’inserimento di un obbligo aberrante, quello del pareggio di bilancio. Una norma-killer, che equivale alla morte clinica dello Stato come comunità politica sovrana: se non posso più decidere come investire sulla società e sull’economia, dove finisce la mia teorica democrazia? Si riduce, come avviene oggi, allo spettacolo di estenuanti trattative attorno al nulla: alleanze “impossibili”, oppure l’ennesimo governo sottomesso “all’Europa”. All’orizzonte resta il mesto ritorno alle urne, con partiti che (tranne la Lega e Fratelli d’Italia) hanno tutti accuratamente evitato – prima, durante e dopo – di affrontare il vero, grande problema da cui discende la crisi italiana: cioè il vincolo capitale di Bruxelles, che impedisce agli elettori di decidere davvero del loro futuro.Destra e sinistra? Parole che avevano un senso nel ‘900, cioè in regime di relativa sovranità. Storicamente, di fronte a un’emergenza democratica, le estreme si alleano: in Italia accadde sotto l’occupazione nazifascista e, subito dopo, al momento di scrivere (insieme) la Costituzione. Poi, per mezzo secolo e oltre, destra e sinistra si sono confrontate apertamente. Oggi sono praticamente scomparse. Nella cosiddetta Seconda Repubblica, un’élite residuale della ex sinistra ha assunto il comando – non in proprio, ma per conto dei signori di Bruxelles – applicando alla lettera ogni diktat della destra economica privatizzatrice. Prodromi: il funesto divorzio fra Tesoro e Bankitalia, già negli anni ‘80 (all’origine dell’esplosione artificiosa del debito pubblico) e la drammatica rottamazione dell’Iri, che ha lesionato il sistema industriale italiano su input franco-tedesco. Andreatta, Ciampi, Prodi. E poi Amato e Visco, Bassanini e D’Alema, Padoa Schioppa. Una parabola infelice e rovinosa, conclusa con il crollo del grottesco Pd renziano, consegnatosi alla post-politica terzista, apparente protagonismo personalistico al servizio delle lobby.Dalla destra elettorale, messa all’angolo dalla “filiera del rigore” inagurata da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni, viene la nuova Lega di Salvini, alleata con Fratelli d’Italia nel mettere a fuoco l’identità del vero avversario, il potere che manovra la tecnocrazia di Bruxelles. Ma Salvini e Meloni, costretti per ragioni tattiche nella coalizione di centrodestra, si sono votati alla rinuncia: sapevano fin dall’inizio che il loro partner ingombrante, Berlusconi, non li avrebbe seguiti nella battaglia per difendere l’Italia dall’Ue. Peggio ancora l’ambiguo Movimento 5 Stelle, che ha saltato l’ostacolo Bruxelles evitando di parlarne: ha fatto il pieno di voti promettendo il reddito di cittadinanza (senza spiegare come finanziarlo) dopo aver mandato Di Maio nei santuari della finanza, per rassicurare i nemici dell’Italia: con lui al governo, le regole-capestro non sarebbero cambiate. L’aspirante premier venuto dal nulla oggi parla di “contratti”, come se le alleanze fossero merce in saldo. E affida a un oscuro docente universitario lo studio dei programmi dei vari partiti, per verificare possibili aree di convergenza.Sul piano estetico, la sensazione è devastante: là dove servirebbe la politica, si affollano maggiordomi e funzionari. Gli elettori di Di Maio saranno felici si scoprire che le sorti del prossimo governo italiano potrebbero dipendere dal professor Giacinto Della Cananea, ordinario di diritto amministrativo a Tor Vergata e allievo di Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale. Come se Di Maio, per il suo “contratto”, dovesse ricorrere all’inarrivabile sapienza di un super-consulente, un tecnocrate di rango. L’agenda politica, nel frattempo, resta in bianco: con Salvini o il Pd è uguale, l’importante è arrivare a Palazzo Chigi (o almeno, fingere di volerci arrivare). Se qualcuno voleva che gli elettori italiani si spazientissero, concludendo che le elezioni del 4 marzo sono state perfettamente inutili, ci sta riuscendo. La situazione non è solo bloccata dai veti incrociati: non esiste proprio orizzonte diverso da quello degli ultimi anni, in cui il paese è precipitato in una crisi che non ha eguali, dal dopoguerra. Le lingue sono tagliate, non dicono la verità: alle varie incarnazioni del demonio di comodo – Berlusconi, Renzi – si sono opposti esorcisti altrettanto improbabili, pronti a maneggiare qualsiasi slogan tranne quelli che servirebbero. Va bene tutto, persino la guerricciola contro i famigerati vitalizi, pur di non evocare lo spettro di cui tutti hanno paura: quello della sovranità democratica.Si fa presto a dire destra, così come a dire sinistra. Dopo cotanta campagna elettorale, l’Italia rischia di avere l’ennesimo governicchio incolore, magari “istituzionale”? Rischia di ritrovarsi a Palazzo Chigi qualcuno che non sia scelto né da Salvini né da Berlusconi, cioè i due alfieri della coalizione che ha vinto le elezioni? In molti, dopo il 4 marzo, hanno tifato per l’alleanza “impossibile” tra i due giovani portavoce del rinnovamento invocato dal 55% degli elettori. In tanti hanno incoraggiato il leader della Lega e il candidato dei 5 Stelle, come se davvero Salvini e Di Maio volessero (o potessero) cambiare qualcosa, nella “palude” italiana gestita sottobanco da un’oligarchia anfibia che lavora per conto terzi. E’ una casta fantasma, vassalla dell’élite privatistica internazionale – industriale, bancaria – che cura i propri affari fingendo di amministrare l’Europa tramite i suoi uomini, piazzati alla Bce e alla Commissione Europea. Una “spectre” efficientissima, che dispone di terminali in tutti i ministeri che contano, nelle banche centrali, nei think-tanks che dettano le regole del grande business oligopolistico, poi regolarmente tradotte in direttive europee. Dogmi inviolabili e nuove teologie come quella neoliberista: rigore per tutti, tranne che per l’élite finanziaria globalista e mercantilista.
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Stalinismo e 5 Stelle: il partito bara, ma ha sempre ragione
Il partito ha sempre ragione. Se sbaglia si ha l’obbligo religioso di tacere, per non danneggiare la sua lunga marcia. Teoria e pratica dello stalinismo, oltre mezzo secolo dopo la morte di Stalin e la dolorosa destalinizzazione avviata da Khrushev (e a ruota, da tutti i partiti comunisti del mondo). Il partito è sacro, la sua parola è legge. La sua missione va oltre la politica, prevede una palingenesi dell’umanità. Guai, quindi, a chi osa contestarne l’illuminata guida: sarà espulso, condannato, bollato a vita come come un volgare traditore, magari anche diffamato come opportunista e in ogni caso isolato, alla stregua di un appestato. Gli iscritti assisteranno impassibili al rituale di lapidazione, al sacrificio pubblico, cercando di non domandarsi se per caso la vittima non avesse qualche ragione. E senza mininamente sospettare che quello stesso destino, che oggi tocca al malcapitato di turno, domani potrebbe travolgere ogni altro membro del club. Nell’Unione Sovietica delle fucilazioni sommarie era in gioco la vita, mentre nel movimento fondato da Grillo e Casaleggio si rischia al massimo la pubblica gogna dell’ostracismo. Il meccanismo però è analogo: la platea degli iscritti non deve solo tacere, approvando in silenzio il verdetto del vertice; deve anche assistere alla cerimonia, drammaticamente istruttiva: chi rifiuta il dogma teologico del partito perde ogni dignità politica.La dannazione è la sorte che il cattolicesimo medievale riservava agli eretici. Su di essi veniva fatta calare una maledizione, a scopo intimidatorio: era pericoloso anche solo rievocarne la memoria. Certe strutture gerarchiche utilizzano deliberatamente il metodo brutale dell’Inquisizione: il silenzio-assenso generale di fronte alla violenza del verdetto è il cemento con cui si costruisce un potere autoritario, che – dall’indomani – potrà contare sull’assoluta impunità del vertice, sempre investito (per autodefinizione) di una missione superiore, altissima, quasi mistica, certo non sindacabile dai comuni mortali, quantunque aderenti fin dall’inizio al sacro patto escatologico verso la Terra Promessa. L’ostinato silenzio dei dirigenti dell’Ottobre – muti, di fronte ai fulmini che si abbattevano su di loro, uno alla volta – rese più facile, al dittatore, eliminarli tutti, uno dopo l’altro. Si tratta di un principio duro a morire, anche se la pratica democratica dell’aborrita e corrotta partitocrazia, in Italia e nel mondo, ha comunque evitato il ripetersi della fenomenologia staliniana. Se i partiti della Prima Repubblica vivevano di correnti in perenne lotta tra loro, quelli della Seconda hanno comunque celebrato congressi e primarie, dando vita a dinamiche di aperta concorrenzialità interna: Bossi e Maroni, Berlusconi e Fini, Bersani e Renzi. Col Movimento 5 Stelle, attraverso il totem della Rete (controllata dall’onniveggente Casaleggio) si è tornati all’antico: “uno vale uno”, in teoria, ma alcuni sono “più uguali” degli altri.In modo quasi unanime, i meriti dei 5 Stelle sono considerati indiscutibili, nell’aver aggregato milioni di italiani attorno alla speranza di un mondo migliore. L’impegno: leggi da riscrivere da cima a fondo per ridisegnare una comunità socio-economica unita dal bisogno di valori condivisi. Fin dall’inizio, ingenerosamente, c’è chi ha considerato il Movimento come un mero “gatekeeper”, uno sfiatatoio del dissenso abilmente allestito al solo scopo di canalizzare la rabbia della società verso obiettivi innocui per l’establishment. Qualcuno si stupisce se Di Maio “sbianchetta” il programma elettorale dei 5 Stelle, laboriosamente assemblato con il lavoro collettivo degli iscritti? Eppure è lo stesso Di Maio che ha sparato contro “la massoneria” dopo aver bussato ai santuari massonici della finanza di Londra e di Washington, rassicurandoli sulle sue reali intenzioni. E’ lo stesso Di Maio che non ha fatto barricate contro l’obbligo vaccinale della legge Lorenzin, che non ha mai detto una parola chiara sull’euro, e che oggi si rivolge con disinvoltura al Pd dopo averlo definito abominevole, disgustosamente corrotto e mafioso, catastrofico per l’Italia.Non è Di Maio, a fare notizia, ma il perdurante silenzio-assenso dei grillini. Se le circostanze lo richiedessero, lo stesso Di Maio verrebbe rottamato all’istante. L’importante, per i sovragestori, è che – ancora e sempre – la platea approvi, ribadendo che il partito ha sempre ragione. I dirigenti stalinisti dei vari partiti comunisti europei erano leggendari per la loro celebrata doppiezza, spacciata per acume machiavellico: il dire il contrario di quello che si pensava era contrabbandato per sopraffina virtù. Un’astuzia genialmente tattica, in vista delle “magnifiche sorti e progressive”. Un riverbero di questa pratica, fondata sulla non-trasparenza, lo si è percepito nelle parole di Beppe Grillo di fronte al tragicomico infortunio del tentato trasloco, al Parlamento Europeo, nelle file degli ultra-euristi dell’Alde: come se i 5 Stelle fossero stati agenti speciali sotto copertura, un temibile cavallo di Troia introdotto tra le schiere nemiche. La “rete”, naturalmente, era stata lasciata all’oscuro della manovra. Del resto, quanto contino davvero gli iscritti lo di vede anche dall’assoluta tranquillità con cui Di Maio ne ha “bonificato” il programma.Segnali di ribellione? Non pare. Il sistema, del resto, funziona benissimo. I 5 Stelle sono il primo partito italiano. I parlamentari, selezionati via web a volte con poche decine di voti. E impegnati a pagare di persona una multa, nel caso cambiassero casacca. E’ aberrante? Di nuovo: la notizia non sta nel diktat, ma nella sua accettazione – un vulnus costituzuionale subito dai candidati e approvato dalla base, che immagina di controllarli, evidentemente non fidandosi completamente di loro. Giornalisti e commentatori, che per anni di sono esercitati nella più gratuita denigrazione del Movimento 5 Stelle, oggi tendono a incensare Luigi Di Maio come abile tattico, dimenticando di averne ripetutamente denunciato le fragilità, le incertezze, l’impreparazione. Meno è autorevole, un politico, e più è facilmente manovrabile. I caimani dell’Europa finanziaria guardano all’Italia con inquietudine, temendo che da uno dei maggiori contraenti fondativi dell’Unione Europea possa scoccare la scintilla del cambiamento, la messa in discussione dello status quo fondato sul rigore, il rifiuto del pareggio di bilancio. Possono continuare a dormire sonni tranquilli, sembra avvertirli lo “sbianchettatore” Di Maio: con lui al governo, niente di sostanziale cambierebbe. Con buona pace dei quasi 11 milioni di italiani che l’hanno votato.Il partito ha sempre ragione. Tu non sai perché, ma lui sì. E se sbaglia hai l’obbligo religioso di tacere, per non danneggiare la sua lunga marcia. Teoria e pratica dello stalinismo, oltre mezzo secolo dopo la morte di Stalin e la dolorosa destalinizzazione avviata da Khrushev (e a ruota, da tutti i partiti comunisti del mondo). Il partito è sacro, la sua parola è legge. La sua missione va oltre la politica, prevede una palingenesi dell’umanità. Guai, quindi, a chi osa contestarne l’illuminata guida: sarà espulso, condannato, bollato a vita come come un volgare traditore, magari anche diffamato come opportunista e in ogni caso isolato, alla stregua di un appestato. Gli iscritti assisteranno impassibili al rituale di lapidazione, al sacrificio pubblico, cercando di non domandarsi se per caso la vittima non avesse qualche ragione. E senza minimamente sospettare che quello stesso destino, che oggi tocca al malcapitato di turno, domani potrebbe travolgere ogni altro membro del club. Nell’Unione Sovietica delle fucilazioni sommarie era in gioco la vita, mentre nel movimento fondato da Grillo e Casaleggio si rischia al massimo la pubblica gogna dell’ostracismo. Il meccanismo però è analogo: la platea degli iscritti non deve solo tacere, approvando in silenzio il verdetto del vertice; deve anche assistere alla cerimonia, drammaticamente istruttiva: chi rifiuta il dogma teologico del partito perde ogni dignità politica.
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Delli, Strasburgo: addio al Tav Torino-Lione, è aberrante
E fatela finita, con questa tragica pagliacciata della Torino-Lione: la linea Tav è obsoleta, inutile e dannosa. «Un’aberrazione, sotto ogni punto di vista». Parola dell’eurodeputata francese Karima Delli, presidente della commissione trasporti del Parlamento Europeo. «Chiedo una moratoria sul progetto Torino-Lione: va sospeso immediatamente. Vogliamo far viaggiare i Tir sui treni? Possiamo farlo da subito, utilizzando la linea ferroviaria che già esiste, e collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa». Non a caso, il traforo del Fréjus è stato recentemente riammodernato (costo, 400 milioni di euro) proprio per consentire ai convogli ferroviari di trasportare sia gli autotreni che i container “navali”, della massima pezzatura. Perché insistere ancora, dopo trent’anni, su una follia come la Torino-Lione? Se lo domanda la Nelli, di fronte alla platea dei sindaci valsusini, ai quali promette di convincere i governi italiano e francese a mettere da parte la pazzia del secolo, la grande opera più inutile dell’intera storia europea. Maxi-opera fortemente avversata dalla popolazione, bocciata dai più autorevoli esperti universitari eppure letteralmente scomparsa dall’agenda politica: il grottesco Tav valsusino è sparito dalla campagna elettorale.«Francia e Italia hanno un’enorme sfida da affrontare: il cambiamento climatico, e tutto quel che ne consegue», premette Karima Nelli, europarlamentare di origine algerina, militante tra le fila dei Verdi francesi. «E quindi – aggiunge, ospite del movimento NoTav – non è possibile che due paesi ufficialmente impegnati sul fronte dell’emergenza climatica continuino a portare avanti dei progetti faraonici». Insiste: «Siamo due paesi amici e vicini, dovremmo avere gli stessi obiettivi. Sono venuta in valle di Susa perché non capisco perché ci si intestardisca in un progetto come il Tav Torino-Lione nel momento in cui, invece, c’è bisogno di proporre altre cose». Che dire, di questo progetto assurdo? «Innanzitutto è datato, è vecchio, ha troppi anni alle spalle da quando è stato concepito. Il Ventunesimo secolo – scandisce Karima Nelli – non è quello del gigantismo, ma della prossimità: è l’agire insieme agli abitanti, ai cittadini». Per questo, la giovane presidente della commissione di Straburgo ringrazia in particolare i sindaci della valle di Susa, «perché è il livello locale quello che permette veramente di fare dei progressi: è la comunità a rendere vivibile e democratico un territorio».In questi anni, osserva, il mondo ha avuto un’evoluzione: in particolare, le merci trasportate dalle ferrovie si sono estremamente ridotte. E quindi, «il progetto della Torino-Lione non corrisponde più alle esigenze della società attuale e alle sue necessità di trasporto». La situazione è radicalmente cambiata, continua Karima Nelli: «Se da un lato abbiamo la diminuzione del trasporto delle merci, dall’altro abbiamo problemi che sono diventati enormemente più importanti, primo fra tutti l’emergenza climatica». In più, «qualsiasi progetto faraonico è, innanzitutto, un grosso problema finanziario: i costi di realizzazione lievitano, senza limiti. Siamo passati da un costo di 12 miliardi, inizialmente previsto, e siamo ormai oltre i 26 miliardi. Certo, si parla del costo dell’opera nella sua globalità – ma se si facesse soltanto il tunnel, non si andrebbe da nessuna parte». L’idea di limitare la Torino-Lione al maxi-traforo da 54 chilometri, su cui è ripiegato tatticamente il governo Renzi, sembra infatti un semplice espediente per prendere tempo, di fronte alla carenza di fondi e alla tenace resistenza della valle di Susa, che non mai cessato di contestare un’opera giudicata pericolosa, costosissima e completamente inutile, salvo che il super-business speculativo dei suoi realizzatori.«Resta difficile capire come mai si vada ancora avanti con questo progetto dopo anni e anni di rapporti serissimi che lo contestano, e dopo il rapporto della Corte dei Conti Europea del 1998», afferma Karima Nelli. Sono decine gli studi finora prodotti: «Dicono tutti che questo progetto è un’aberrazione economica: costa troppo. E’ un’aberrazione sanitaria: provoca problemi per la salute. Ed è anche un’aberrazione idrogeologica: provoca l’ingente perdita di acque, e la perdita di acque avrebbe riflessi sia sulla salute umana che su quella dell’ambiente». Non solo: il progetto Tav Torino-Lione «è un’aberrazione anche dal punto di vista democratico: ci si chiede a cosa servano, questi organismi di controllo (che continuano a dire che ci sono tutti questi problemi), se poi non vengono ascoltati». Per cui, «fatti i dovuti bilanci, a questo punto bisogna chiedere il congelamento del progetto», dice la Nelli. Alternative? Immediatamente praticabili: «E’ il momento di utilizzare la linea esistente». Attenzione: «Siamo a favore del trasporto intermodale», che toglie i Tir dalle strade per caricarli sui treni. «Ma non tra 15 o 20 anni: adesso. E’ possibile farlo da subito, a vantaggio del pianeta e del clima, anche pensando alle future generazioni».La linea attuale, Torino-Modane, presenta la problematica tecnica della pendenza del tracciato, che rallenterebbe il trasporto pesante? Anche qui, attenzione: non facciamoci prendere in giro, perché «la pendenza del 30 per mille esiste solo per 100 metri di tratta, e quindi è un problema che è sicuramente possibile risolvere, senza per forza pensare a una linea nuova». Quindi, Karima Nelli chiede formalmente ai governi, italiano e francese, «la moratoria su questo progetto». Cestinare, finalmente, la Torino-Lione? «E’ giunto il momento di prendere in considerazione gli studi indipendenti finora realizzati ed eventualmente di farne di nuovi, ma che siano indipendenti». La presidente della commissione trasporti di Strasburgo annuncia di voler «lavorare seriamente coi ministri dei trasporti, italiano e francese, e con le commissioni trasporti dei due Parlamenti». La notizia, ovviamente, non è comparsa sui media mainstream, per i quali i NoTav (e i valsusini in generale) restano una tribù di scalmanati, e non un’avanguardia di italiani che, in nome della giustizia, tentano di difendere quel che resta della loro sovranità di cittadini.E fatela finita, con questa tragica pagliacciata della Torino-Lione: la linea Tav è obsoleta, inutile e dannosa. «Un’aberrazione, sotto ogni punto di vista». Parola dell’eurodeputata francese Karima Delli, presidente della commissione trasporti del Parlamento Europeo. «Chiedo una moratoria sul progetto Torino-Lione: va sospeso immediatamente. Vogliamo far viaggiare i Tir sui treni? Possiamo farlo da subito, utilizzando la linea ferroviaria che già esiste, e collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa». Non a caso, il traforo del Fréjus è stato recentemente riammodernato (costo, 400 milioni di euro) proprio per consentire ai convogli ferroviari di trasportare sia gli autotreni che i container “navali”, della massima pezzatura. Perché insistere ancora, dopo trent’anni, su una follia come la Torino-Lione? Se lo domanda la Delli, di fronte alla platea dei sindaci valsusini, ai quali promette di convincere i governi italiano e francese a mettere da parte la pazzia del secolo, la grande opera più inutile dell’intera storia europea. Maxi-opera fortemente avversata dalla popolazione, bocciata dai più autorevoli esperti universitari eppure letteralmente scomparsa dall’agenda politica: il grottesco Tav valsusino è sparito dalla campagna elettorale.
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A come Austerity, dal clown Katainen al club Draghi-Padoan
Nei giorni scorsi, in occasione della riunione del collegio dei commissari europei tenutasi a Strasburgo, il vicepresidente finlandese della Commissione Europea, Jyrki Katainen, ha lanciato un monito al governo italiano affinché rispetti l’impegno preso in merito ai conti pubblici e racconti “la verità” agli italiani. «Sostanzialmente – sintetizza Daniela Corda su “Rete Mmt” – ciò che Katainen rimprovera al governo è di non aver tirato abbastanza la cinghia affinché i cittadini e le aziende soffrissero un po’ di più». Nonostante l’austerità portata avanti dell’esecutivo con la “spending review”, e malgrado i tagli selvaggi alla spesa pubblica e il ridimensionamento della spesa in deficit, il risultato per Katainen non è ancora soddisfacente: occorre ancora più rigore, servono «ancora più lacrime e sangue». Si dovrebbe ridurre ulteriormente il rapporto deficit-Pil dello 0,6%, ma nella legge di bilancio presentata lo scorso ottobre il governo Gentiloni si è impegnato per un misero 0,3%. Peccato che proprio il deficit pubblico «è quello che resta ai cittadini e alle aziende al netto delle tasse», ricorda il blog ispirato alla Modern Money Theory, introdotta in Italia da Paolo Barnard. «Una riduzione del deficit comporta un ulteriore impoverimento del settore privato».L’aspetto più sconcertante della vicenda è la pervicacia “sovietica” con cui l’oligarchia finanziaria neo-feudale che la colonizzato le istituzioni europee, piazzando nei posti-chiave personaggi come l’oscuro Katainen, insiste del reiterare la grande menzogna ideologica neoliberista, in base alla quale si restituisce salute all’economia tagliando la spesa pubblica. Dogma bugiardo: è vero esattamente il contrario, come ricorda un grande economista post-keynesiano come Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «Il problema non sta neppure nel carico fiscale: non serve tagliare le tasse, se prima non ampli la spesa, perché solo l’investimento pubblico in termini di deficit può rilanciare l’economia, incrementando infine anche il gettito erariale». Una verità palese, che appartiene all’abc della scienza economica, ma che l’oligarchia Ue continua a sovvertire, nonostante la catastrofe che ha provocato, negli ultimi anni, mettendo in sofferenza l’intero continente. Niente si strano, quindi, se ora il “falco” di turno ripete, a pappagallo, che «lo scarso impegno dell’Italia nel consolidamento dei conti metterà a rischio la tenuta del welfare italiano».Katainen, come giù i suoi “colleghi” eurocrati, da Draghi a Monti, prefigura «conseguenze disastrose» se l’Italia non farà harakiri fino in fondo. «Ad aver distrutto il welfare italiano sono proprio le politiche di austerità che stanno a cuore al commissario finlandese», obietta Daniela Corda: «È vero che gli italiani devono conoscere la verità», ma devono sapere che «non è quella di Katainen». Ovvero: «Più il governo si piegherà alle richieste della Commissione Europea, più la situazione economica peggiorerà». Nei prossimi giorni, aggiunge il blog “Rete Mmt”, da Bruxelles arriverà un’altra lettera al governo italiano, con la quale la Commissione Europea chiederà “spiegazioni” sulla legge di bilancio e, come al solito, invocherà “maggiore impegno” sul fronte dei conti pubblici. Quello che la maggior parte degli italiani non sanno, spiega Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, è che l’uomo in prima linea nelle trattative con Bruxelles – il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan – appartiene a pieno titolo «alla rete neo-aristocratica della supermassoneria sovranazionale», quella della Ur-Lodge “Three Eyes”, inserita «nello stesso circuito dell’élite più reazionaria al quale appartiene lo stesso Draghi, insieme a Monti e Napolitano». Sono gli uomini che hanno “firmato” la drammatica escalation dell’austerity nel 2011, col pretesto artificiale dello “spread”: dalla legge Fornero sulle pensioni alla mutilazione della Costituzione, deturpata dall’inserimento dell’aberrante pareggio di bilancio (votato anche da Bersani e compagni).Lo stesso Padoan sta cercando di destreggiarsi tra Roma e Bruxelles, alla ricerca di mediazioni che consentano a Gentiloni e Renzi di non rimetterci l’osso del collo? «Quella stessa élite non è un monolite, in questo periodo alcuni suoi esponenti – come il berlusconiano Antonio Tajani – stanno inviando segnali di insofferenza rispetto al perdurare dell’austerity», segnala il saggista Gianfranco Carpeoro, sodale di Magaldi. Come dire: la “cupola” di potere che ha ridotto l’Ue a una caserma punitiva sta cominciando a mostrare le prime crepe, persino delle file dell’ala più conservatrice? Non è questo, però, il caso dell’oltranzista finlandese Katainen: «Dovremmo pensare alle lettere della Commissione Ue come ai palloncini rossi di “It”, quelli che il mostro del celebre romanzo di Stephen King mostrava ai bambini prima di ucciderli», scrive Daniela Corda. «Jyrki Katainen, in questo momento, potrebbe ben rappresentare “It” nella vita reale. Sta a noi decidere se dare retta a un clown che cerca di abbindolarci con un palloncino rosso e che in realtà vuole ammazzarci con l’austerità, oppure ripudiare il mostro e i suoi artefici studiando la macroeconomia». Solo così, conclude Corda, «possiamo vedere quel palloncino rosso per quello che è: una terrificante politica antisociale e antidemocratica».Nei giorni scorsi, in occasione della riunione del collegio dei commissari europei tenutasi a Strasburgo, il vicepresidente finlandese della Commissione Europea, Jyrki Katainen, ha lanciato un monito al governo italiano affinché rispetti l’impegno preso in merito ai conti pubblici e racconti “la verità” agli italiani. «Sostanzialmente – sintetizza Daniela Corda su “Rete Mmt” – ciò che Katainen rimprovera al governo è di non aver tirato abbastanza la cinghia affinché i cittadini e le aziende soffrissero un po’ di più». Nonostante l’austerità portata avanti dell’esecutivo con la “spending review”, e malgrado i tagli selvaggi alla spesa pubblica e il ridimensionamento della spesa in deficit, il risultato per Katainen non è ancora soddisfacente: occorre ancora più rigore, servono «ancora più lacrime e sangue». Si dovrebbe ridurre ulteriormente il rapporto deficit-Pil dello 0,6%, ma nella legge di bilancio presentata lo scorso ottobre il governo Gentiloni si è impegnato per un misero 0,3%. Peccato che proprio il deficit pubblico «è quello che resta ai cittadini e alle aziende al netto delle tasse», ricorda il blog ispirato alla Modern Money Theory, introdotta in Italia da Paolo Barnard. «Una riduzione del deficit comporta un ulteriore impoverimento del settore privato».
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Potere subdolo e mostruoso, ci truffa cambiando maschera
Mai come nell’attuale momento storico di fine ciclo il potere è riuscito a schermarsi alla perfezione dietro un sistema apparentemente libero e democratico. Apparentemente perché dietro al sistema presentabile in cui bazzica da più o meno 70 anni l’Occidente si cela un Leviathan che sta gradualmente distruggendo tutto ciò che di buono era stato attuato nel secolo scorso: il Welfare State (soprattutto l’istruzione, capace, fino a inizio anni ’90, di formare coscienze critiche) e la libertà di pensiero, oggi polverizzata da un apparato mediatico pervasivo e spersonalizzante. Ma che cosa si intende per “potere”? Il potere non deve essere identificato con strutture, istituzioni politiche ed economiche visibili all’occhio profano. Il potere è prima di tutto una dinamica, un rodaggio di per sé immutabile, che si perpetua nel corso dei secoli attraverso molteplici forme e modalità. Per fare un esempio spicciolo, una tipica manifestazione del potere è l’accentramento della formazione e del sapere nelle mani di pochi accademici e intellettuali integratissimi nel sistema, un tempo chierici, oggi laici, che bollano come non scientifiche tutte le teorie, riflessioni e opinioni che non vengono sfornate da loro e da tutti i loro epigoni.Attraverso tale accentramento nel corso dei secoli il sapere è stato, ed è tuttora, monopolio di una cerchia ristretta di intellettuali e scienziati, che si sono arrogati il diritto – e ancora oggi lo fanno – di stabilire ciò che è scientifico e ciò che non lo è, ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è cultura e ciò che non lo è. Si possono fare in realtà innumerevoli esempi delle modalità attraverso le quali agisce il potere, è sufficiente uscire dagli steccati ideologici per contemplare con distacco e disincanto la sua machiavellica capacità di mimetizzarsi in regimi politici e sistemi economici molto diversi tra loro. Perché la vera natura del potere consiste nella sua capacità di assumere di volta in volta la forma che meglio conviene per nascondere la sua brutalità e per farsi accettare benvolmente da una società, un popolo, un insieme di nazioni. Anche qui è conveniente fare un esempio. L’altro giorno Eugenio Scalfari, il trombone d’Italia, in un articolo ha spiegato, dall’alto della sua cattedra, che la costituzione degli Stati Uniti d’Europa è un qualcosa di ineluttabile.Ineluttabile significa dire che i popoli europei non possono avere alcuna voce in capitolo su tale processo. Anzi, Il giornalista sosteneva che tale processo non può essere lasciato alla mercé del capriccio dei popoli, ma deve essere attuato dalle élites economiche-politiche europee. Ecco, in poche righe Scalfari ha spiegato molto bene come il potere agisce, presentando le decisioni che prende e che fa attuare a una pletora di docili esecutori come necessarie e improcrastinabili. Per poter agire impunemente il potere ha poi bisogno di una casta di encomiastici elogiatori, ruffiani appartenenti al mondo della cultura, del giornalismo e della scienza. A questo scopo vengono piazzati in questi campi dei fedeli servitori, che hanno la missione, dietro lauto stipendio, di veicolare la visione totalitaria di cui il potere è di volta in volta espressione. A questo servono i vari Piero Angela, Roberto Saviano ed Eugenio Scalfari.Un’altra modalità tipica attraverso cui il potere preserva se stesso è l’ideologizzazione della politica: si fa credere, in un determinato periodo storico, che la destra o la sinistra o un movimento bipartisan o al di sopra delle parti sia il candidato ideale ad attuare dei cambiamenti essenziali per una nazione e la sua società civile, e il gioco è fatto. In realtà tali cambiamenti non solo non vengono attuati, ma la parte politica appoggiata dal potere è funzionale al mantenimento dello statu quo, e ciò accade sempre, in maniera più o meno accentuata secondo il periodo storico. Il motto a cui si rifà il potere è “cambiare tutto per non cambiare niente”. Cambiare le facce, i metodi, le istituzioni ma conservare l’esistente, con tutte le sue brutture e anomalie, questa è la funzione di chi viene scelto dal potere per ricoprire ruoli di comando. Lo abbiamo visto con la sinistra negli anni ’90, con la destra berlusconiana e forse vedremo agire lo stesso meccanismo con il Movimento 5 Stelle, se riuscirà ad andare al potere.Non si illudano i militanti del M5S: il potere non lascerà mai che la base possa entrare nei processi decisionali, avendo esso anzitempo individuato ad hoc precise figure interne al movimento e che rivestono ruoli di comando, che hanno il compito di bypassare le istanze della base. Ecco spiegata l’ambiguità e l’evanescenza del programma del M5S, che può essere definito “un non programma”, poiché non definisce chiaramente qual è, per esempio, la linea di politica economica e di politica estera che il movimento intende sposare. E questa evanescenza è determinata da una ragione ben precisa: evitare che il movimento possa compromettersi ed esporsi con posizioni troppo nette. Il potere, infatti, potrebbe dispiacersene. Per concludere, vorrei fare un accorato invito a chi mi segue ad uscire da una ristretta visuale ideologica della realtà, da qualsiasi angolazione la si guardi. Occorre comprendere che il potere è è un’Idra a cento teste. Al potere non interessa la giacca che di volta in volta gli esecutori delle sue decisioni indossano. Esso può allearsi tanto con la destra, con la sinistra e con movimenti neutrali, a seconda della convenienza del momento. In tal senso il potere non é né di destra né di sinistra, ma al di sopra di tali categorie, che sviano i fessacchiotti ammalati di ideologismo.Oggi il potere è alleato con le sinistre, per il semplice fatto che esse, meglio di altre parti politiche, da circa 20 anni si prostituiscono volentieri alle sue logiche perverse. Non esiste – e forse non è mai esistita – una sinistra antisistema, essendo destra e sinistra le maschere intercambiabili dietro le quali si cela il potere. Ingenuo (o in malafede) è chi pretende di identificare il potere unicamente con le destre. Questa identificazione è oggettivamente un’aberrazione, veicolata dai media, che portano avanti tale identificazione con uno scopo preciso: sviare dai partiti di sinistra il sospetto di connivenza col potere. Connivenza che è sotto gli occhi di tutti, meno che per gli allocchi ideologizzati e per i fanatici di questo o quell’altro movimento politico civetta. Cercate di ragionare con la vostra testa e non secondo le categorie deviate che il Pensiero unico, strumento ideologico del potere, propina generosamente attraverso i suoi indefessi araldi. Non saranno né la destra né la sinistra a salvare l’Italia e il mondo interno, ma la vostra capacità di smascherare impietosamente le mimetizzazioni del potere e le sue infiltrazioni in tutti i gangli della società.(Federica Francesconi, “Sulla natura mostruosa del potere e sulle sue subdole dinamiche”, dal blog della Francesconi del 26 settembre 2017).Mai come nell’attuale momento storico di fine ciclo il potere è riuscito a schermarsi alla perfezione dietro un sistema apparentemente libero e democratico. Apparentemente perché dietro al sistema presentabile in cui bazzica da più o meno 70 anni l’Occidente si cela un Leviathan che sta gradualmente distruggendo tutto ciò che di buono era stato attuato nel secolo scorso: il Welfare State (soprattutto l’istruzione, capace, fino a inizio anni ’90, di formare coscienze critiche) e la libertà di pensiero, oggi polverizzata da un apparato mediatico pervasivo e spersonalizzante. Ma che cosa si intende per “potere”? Il potere non deve essere identificato con strutture, istituzioni politiche ed economiche visibili all’occhio profano. Il potere è prima di tutto una dinamica, un rodaggio di per sé immutabile, che si perpetua nel corso dei secoli attraverso molteplici forme e modalità. Per fare un esempio spicciolo, una tipica manifestazione del potere è l’accentramento della formazione e del sapere nelle mani di pochi accademici e intellettuali integratissimi nel sistema, un tempo chierici, oggi laici, che bollano come non scientifiche tutte le teorie, riflessioni e opinioni che non vengono sfornate da loro e da tutti i loro epigoni.
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Hayek, il profeta dell’élite che ha rottamato la democrazia
Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».La sua pubblicazione nel 1960 segnò la transizione da una filosofia rispettabile, anche se estrema, ad un caos totale, scrive Monbiot, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Quella filosofia era chiamata neoliberalismo. «Considerava la competizione come la caratteristica distintiva delle relazioni umane. Il mercato avrebbe trovato la sua naturale gerarchia di vincitori e perdenti, e ne sarebbe risultato un sistema più efficiente di quanto sarebbe stato possibile attraverso la programmazione o la progettazione». Attenzione: «Qualsiasi cosa impedisse tale processo, come tasse sostanziose, regole, attività sindacali o incentivi statali, era controproducente. L’imprenditorialità senza restrizioni avrebbe prodotto una ricchezza con effetti positivi a cascata su tutti». Quando Hayek iniziò a scrivere “The Constitution of Liberty”, «la rete di lobbisti e pensatori che aveva creato stava ricevendo generosi finanziamenti da parte di multi-milionari che vedevano questa dottrina come un modo per difendere se stessi dalla democrazia». Hayek inizia il libro suggerendo la concezione più semplice possibile di libertà: l’assenza di coercizione. Rifiuta nozioni come libertà politica, diritti universali, uguaglianza degli esseri umani e distribuzione equa della ricchezza.Tutti concetti che, limitando il campo d’azione di ricchi e potenti, si interpongono tra loro e l’assoluta libertà dai vincoli a cui ambiscono. La democrazia, al contrario, «non è un valore supremo o gradito a tutti». Infatti, la libertà consiste nell’impedire che la maggioranza abbia potere decisionale sulla direzione che la politica e la società decidono di prendere. Hayek «giustifica questa visione delineando una narrativa epica di estrema prosperità», e identifica l’élite economica «con un gruppo di pionieri della filosofia e della scienza che spenderanno il loro denaro in modi nuovi». Così come il filosofo politico dovrebbe essere libero di “pensare l’impensabile”, allo stesso modo «chi è molto ricco dovrebbe essere libero di tentare l’infattibile, senza vincoli posti dall’interesse collettivo o dall’opinione pubblica». E allora i super-ricchi diventano «esploratori» che «sperimentano nuovi stili di vita», tracciando la strada che il resto della società seguirà. Il progresso della società «dipende dalla libertà di questi “indipendenti” di guadagnare tutto il denaro che vogliono e di spenderlo come meglio credono. Tutto ciò che è buono e utile, quindi, deriva dall’ineguaglianza». Non ci dovrebbe essere connessione tra merito e ricompensa, nessuna distinzione tra guadagni giusti e immeritati e alcun limite agli affitti che possono far pagare.Inoltre, la ricchezza ereditata è socialmente più utile di quella guadagnata: «Il ricco indolente», che non deve lavorare per denaro, può dedicarsi a influenzare «aree di pensiero e opinione, gusti e idee». Anche quando sembra che spenda soldi solo per uno «sfoggio senza senso», sta in realtà agendo da avanguardia della società. Tutto ciò che il ricco fa è, per definizione, positivo. Hayek ammorbidì l’opposizione ai monopoli e irrigidì quella verso i sindacati. Criticò la tassazione progressiva e ogni tentativo da parte dello Stato di elevare il benessere generale dei cittadini. Insistette che ci fossero «argomentazioni schiaccianti contro la sanità pubblica gratuita per tutti» e respinse l’idea della salvaguardia delle risorse naturali (non stupisce che abbiano dato il Nobel per l’economia). Sicché, «quando la signora Thatcher sbatté il suo libro sul tavolo, si era già formata su entrambe le rive dell’Atlantico una vivace rete di think tank, lobbisti e accademici che promuovevano la dottrina di Hayek, abbondantemente finanziata da alcune delle persone e compagnie più ricche del pianeta, compresi DuPont, General Electric, la società di birrificazione Coors, Charles Koch, Richard Mellon Scaife, Lawrence Fertig, il William Volcker Fund e la Earhart Foundation».Usando in modo geniale la psicologia e la linguistica, continua Monbiot, i pensatori sponsorizzati da queste persone trovarono le parole e le argomentazioni necessarie per trasformare l’inno all’élite di Hayek in un programma politico plausibile. Il Thatcherismo e il Reaganismo? Due facce del medesimo neoliberismo: «L’imponente taglio alle tasse per i ricchi, l’attacco ai sindacati, la riduzione degli alloggi popolari, la liberalizzazione, privatizzazione, delocalizzazione e la concorrenza nei servizi pubblici erano già stati teorizzati da Hayek e dai suoi discepoli». Ma il vero trionfo di questo network, sottolinea Monbiot, non fu la sua “innovativa” concezione del diritto, bensì «la conquista di partiti che un tempo erano schierati a favore di tutto ciò che Hayek detestava», cioè le formazioni politiche “di sinistra”, che furono completamente “colonizzate”. Bill Clinton e Tony Blair «estrapolarono alcuni elementi di ciò che un tempo i loro partiti avevano creduto, lo combinarono con idee prese in prestito dai loro oppositori, e da questa improbabile combinazione diedero vita alla “terza via”. Era inevitabile che lo sfavillante e rivoluzionario entusiasmo del neoliberalismo avrebbe esercitato una forza di attrazione più potente della stella morente della democrazia sociale».Dovunque, allora, si poteva assistere al trionfo di Hayek: dall’ampliamento della Private Finance Initiative di Blair alla revoca da parte di Clinton del Glass-Steagal Act, che regolava il settore finanziario. «Nonostante le sue lodevoli intenzioni, nemmeno Barack Obama aveva una narrativa politica ben definita (eccetto la “speranza”), e lentamente è stato cooptato da coloro che detenevano migliori mezzi di persuasione». Il risultato di tutto ciò è stato «prima l’indebolimento del potere e poi la privazione dei diritti civili». Se l’ideologia dominante consiglia ai governi di non garantire più la giustizia sociale, «essi non possono più rispondere ai bisogni dell’elettorato», e così «la politica diventa irrilevante per le vite dei cittadini». Al che, il cittadino defraudato dei propri diritti «si rivolge verso un’astiosa anti-politica, dove fatti e ragionamenti vengono sostituiti da slogan». Il risultato di oggi è paradossale, dice Monbiot: proprio la sollevazione popolare contro la “dittatura” del neoliberismo «ha portato al successo proprio quel tipo di uomo che Hayek mitizzava», cioè Donald Trump, ovvero un uomo «che non ha una visione politica coerente, non è un neoliberale classico, ma è la perfetta rappresentazione dell’“indipendente” di Hayek: è il beneficiario di una fortuna ereditata, non assoggettato ai comuni limiti della moralità, le cui rozze inclinazioni aprono nuove strade che altri potrebbero seguire».I pensatori neoliberali adesso «brulicano intorno a questo uomo vacuo, a questo vaso vuoto che aspetta di essere riempito da coloro che sanno bene cosa vogliono». Il probabile risultato «sarà la demolizione di tutto ciò che ancora ci fa onore, a cominciare dall’accordo sulla limitazione del riscaldamento globale». Conclude Monbiot: «Coloro che raccontano storie governano il mondo. La politica è fallita a causa della mancanza di narrative valide. La sfida principale adesso è raccontare una storia nuova, quella di cosa significhi “umanità” nel ventunesimo secolo». Un nuovo “racconto”, dunque, che «deve essere tanto seducente per coloro che hanno votato Trump e lo Ukip, quanto per i sostenitori di Hillary Clinton, Bernie Sanders o Jeremy Corbyn». La psicologia e le neuroscienze riconoscono che gli esseri umani, rispetto ad altri animali, sono al tempo stesso fortemente sociali e fortemente egoisti? Certo, e «l’atomizzazione e il comportamento cinico che il neoliberalismo promuove va contro quasi tutto ciò che caratterizza la natura umana. Hayek ci ha detto chi siamo, e si sbagliava. Il primo passo da compiere è riappropriarci della nostra umanità».Le origini dell’ascesa di Trump, ovvero: come una rete spietata di ideologi super-ricchi ha ucciso il potere di scelta e distrutto la fede della gente nella politica. «L’uomo che ha affondato la candidatura di Hillary Clinton alla presidenza non è stato Donald Trump. È stato suo marito», Bill Clinton. Lo afferma l’analista inglese George Monbiot, secondo cui Clinton è stato l’ultimo epigono dell’aberrante visione del mondo proposta dal pensatore austriaco neo-aristocratico Frederick von Hayek, sinistro profeta della dittatura dell’élite finanziaria in nome di presunti valori. «La serie di eventi che ha portato all’elezione di Donald Trump è iniziata in Inghilterra nel 1975», sostiene Monbiot. Durante un incontro pochi mesi dopo che Margaret Thatcher era diventata leader del partito conservatore, uno dei suoi colleghi stava esponendo quelli che secondo lui erano i valori fondanti del conservativismo, o almeno questo è ciò che si dice. Lei aprì di scatto la sua borsetta, tirò fuori un libro consumato, e lo sbatté sul tavolo. «Questo è ciò che noi crediamo», disse. «Era appena iniziata una rivoluzione politica che sarebbe dilagata in tutto il mondo. Il libro era “The Constitution of Liberty” di Frederick Hayek».
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Cambiare verso, ma col metodo Einaudi e senza diktat
Fino a ieri, la propaganda avanzava a colpi di frasi fatte: ce lo chiede l’Europa, siamo all’ultima spiaggia, ci metto la faccia. Ora siamo all’incubo, denominato “Patto del Nazareno”. Niente più democrazia, ma «filibustering, tagliole, ghigliottine e canguri». Il problema, avverte Umberto Baldocchi, si pone direttamente agli italiani più che ai partiti: «Ma è davvero possibile costruire un sincero e duraturo compromesso costituzionale? Ed è sensato cercarlo?». Incubo, perché «alcune condizioni extracostituzionali vengono poste ex ante e legate ad accordi segreti tra due sole delle parti in gioco». Qualcuno è evidentemente “più uguale” degli altri, come nel mondo di Orwell, per giunta in un tema come quello della revisione costituzionale. «Questo è un incubo e un diktat». Il compromesso del “do ut des”, sosteneva Luigi Einaudi, «non è indice di tollerante adattamento parziale alle idee opposte», ma solo di «puro calcolo partigiano egoistico». Nient’altro che «falso compromesso», il quale «trasforma i codici in antologie di norme arlecchinesche e dà il governo in mano a faccendieri intriganti».Il vero compromesso, per Einaudi, è invece «avvicinamento tra gli estremi, superamento degli opposti in una unità superiore». Lo ricorda Baldocchi in un intervento sul blog di Aldo Giannuli, rievocando il lontano 1945, quando l’Italia doveva “cambiare verso” dopo la disastrosa avventura fascista. Allora c’erano partiti schierati in campi ideologici opposti. Agli italiani, «diseducati dalla dittatura», il futuro presidente liberale spiegava cos’è un dignitoso compromesso in politica. Cioè non un semplice gioco delle parti, uno scambio mercantile. Nel “Porcellum”, ad esempio, «una parte riesce a buggerare l’altra», mentre «in un vero compromesso ognuno dovrebbe ottenere qualcosa e cedere in cambio qualcos’altro: ad esempio il Senato non elettivo in cambio delle preferenze o viceversa». L’Italicum, cioè un “Porcellum” depurato da imbrogli e da insidie sarebbe dunque un buon compromesso? «Niente affatto, direbbe Einaudi. E qui è appunto la misura dell’aberrazione in cui siamo caduti, che ci fa prigionieri dell’incubo».Per Einaudi, insiste Baldocchi, il vero compromesso è il superamento degli interessi contrapposti, puntando al vantaggio comune per tutti, «non al vantaggio derivante dalla somma di tutti gli interessi particolari». Tantomeno, questa pretesa «può dunque fondarsi su alcuna condizione immodificabile posta in premessa, cioè su un diktat: qui è il peccato originale della riforma che si sta costruendo». Vogliamo un buon Parlamento? Ok, allora dobbiamo sapere che un buon Parlamento è quello che produce «leggi giuste ed efficaci (piuttosto che tante leggi)», e blocca «le leggi squilibrate, ingiuste o inefficaci». Il bicameralismo? «Era stato pensato per questo, anche per impedire le leggi cattive», di qui il il “rallentamento” imposto al percorso di alcune leggi. «Penso che nessuna parte politica possa dichiarare apertamente che gradirebbe un Parlamento incapace di impedire l’approvazione di leggi suggerite “dall’alto” come la riforma Fornero o il pareggio di bilancio in Costituzione», sottolinea Baldocchi. Leggi «che solo noi, tra i paesi europei, credo, abbiamo introdotto», e che rischiano di soffocare – insieme al Fiscal Compact – ogni possibilità di ripresa economica.«Se su questo siamo d’accordo – continua Baldocchi – ne discende una semplice conseguenza per delineare il nuovo Senato: accanto alla Camera che vota la fiducia e promuove la legislazione ordinaria, bisogna realizzare una seconda Camera di garanzia, che abbia l’autorità e l’indipendenza necessaria per impedire le leggi che stravolgono la Costituzione, “rallentando” razionalmente il processo legislativo». Potrebbe mai farlo un Senato ridotto a «Camera dei replicanti», gremito di «sindaci e assessori dei medesimi partiti che hanno costituzionalizzato il pareggio di bilancio – oggi forse qualcuno direbbe “a loro insaputa”– sotto la pressione di condizionamenti estemporanei e mediatizzati come quelli di una crisi degli spread?». Ovvio: una Camera di garanzia può soltanto essere eletta dai cittadini, magari con liste indipendenti, regionali, e durata diversa da quella della Camera. «Non fu un caso che, nella Polonia del 1946, la strada alla dittatura fu aperta rinviando le elezioni politiche e indicendo un referendum in cui si chiese (e si ottenne) l’abolizione del Senato previsto dalla Costituzione del 1921, evidentemente “pericoloso” per il potere comunista, che infatti procedette poi a smantellare la Costituzione».E quello del Senato è solo un esempio, conclude Baldocchi . Riformare la Costituzione? Certamente, ma col “metodo Einaudi”, pensando al destino dell’Italia. «Una proposta fuori tempo massimo? Non credo, non c’è persona che possa dettare il tempo massimo alla democrazia, nessuno ne dovrebbe avere il potere, se in democrazia non esistono decisioni ultime e irrivedibili, specie in una fase di mutamenti epocali come quella che viviamo». Ingenua utopia? «Neppure. Secondo me sarebbe sano realismo, vera realpolitik. Altrimenti avremo sì una legge approvata coi metodi nuovi della turbo-democrazia di Renzi, ma non una “riforma”, bensì un codice di “norme arlecchinesche” (espressione educata per dire “Porcellum”)», progettate per «rendere ingovernabile il paese», dopo aver dato super-poteri di breve durata a una sola parte. Di questo passo, si avrebbe «una “riforma” che si dovrà “riformare” il prima possibile, come è oggi per la legge elettorale o per il Titolo V», mentre ben altre esigenze stringono il paese. Problema: «Sta ai cittadini, però, chiedere apertamente questo cambiamento: i parlamentari da soli non possono farcela».Fino a ieri, la propaganda avanzava a colpi di frasi fatte: ce lo chiede l’Europa, siamo all’ultima spiaggia, ci metto la faccia. Ora siamo all’incubo, denominato “Patto del Nazareno”. Niente più democrazia, ma «filibustering, tagliole, ghigliottine e canguri». Il problema, avverte Umberto Baldocchi, si pone direttamente agli italiani più che ai partiti: «Ma è davvero possibile costruire un sincero e duraturo compromesso costituzionale? Ed è sensato cercarlo?». Incubo, perché «alcune condizioni extracostituzionali vengono poste ex ante e legate ad accordi segreti tra due sole delle parti in gioco». Qualcuno è evidentemente “più uguale” degli altri, come nel mondo di Orwell, per giunta in un tema come quello della revisione costituzionale. «Questo è un incubo e un diktat». Il compromesso del “do ut des”, sosteneva Luigi Einaudi, «non è indice di tollerante adattamento parziale alle idee opposte», ma solo di «puro calcolo partigiano egoistico». Nient’altro che «falso compromesso», il quale «trasforma i codici in antologie di norme arlecchinesche e dà il governo in mano a faccendieri intriganti».
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Gaza, strage per il gas: insulto alla memoria di Auschwitz
«Il “nazismo” sionista precede quello tedesco di 30 anni. Il sionismo è un’aberrazione dell’umanità. Israele è il più ignobile insulto esistente alla memoria di sei milioni di ebrei sterminati in Germania». Paolo Barnard, autore del saggio “Perché ci odiano” sul risentimento arabo contro il brutale colonialismo occidentale e sionista – condanna senza mezzi termini l’ennesima operazione di pulizia etnica che le truppe di Tel Aviv stanno conducendo a Gaza sparando nel mucchio e colpendo donne, vecchi e bambini. La musica è sempre la stessa: «Dobbiamo dire ai palestinesi dei territori occupati che non esiste soluzione per loro, continueranno a vivere come cani, e se vogliono possono andarsene», tagliò corto Moshe Dayan nel 1967. Se lo sfratto dei palestinesi prosegue anche oggi con tanta disumanità, aggiunge un osservatore internazionale come Pepe Escobar, dipende anche da un motivo contingente: il colossale giacimento di gas naturale davanti alla costa di Gaza, “la prigione a cielo aperto più grande del mondo”. Sangue in cambio di gas: i palestinesi devono preparasi a lasciare anche Gaza, perché «Israele vuole tutto», anche le loro risorse energetiche.Alla fine, scrive Escobar su “Rt” in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, il premier “Bibi” Netanyahu «ha avuto la sua guerra nuova di zecca». L’Operazione Barriera Protettiva, «ovvero l’attuale pulizia etnica al rallentatore messa in atto a Gaza» dall’esercito israeliano, «è il sogno erotico del primo ministro» di Tel Aviv. Prezioso il pretesto del rapimento di tre studenti israeliani, dopo che l’Anp e Hamas avevano formato un governo unitario in Cisgiordania, mentre il segretario di Stato americano John Kerry «stava portando avanti un gioco ipocrita chiamato “tavolo di pace” tra Israele e Palestina», piano che «come previsto è fallito miseramente». Due palestinesi – non appartanenti ad Hamas – hanno rapito tre coloni adolescenti israeliani mentre facevano autostop di notte vicino a Hebron. «Uno degli autostoppisti in qualche modo è riuscito a chiamare il numero di emergenza della polizia israeliana con il cellulare», così «i rapitori hanno perso la testa e sparato immediatamente ai ragazzi, sbarazzandosi poi dei corpi». La testa in realtà l’hanno persa tutti gli israeliani, continua Escobar: per tre settimane l’esercito ha condotto feroci rastrellamenti, con decina di migliaia di soldati, mentre «i media si sono scatenati, immolando i palestinesi in una pira funeraria di stampo razzista».Ipotesi dietrologica: sono stati gli 007 israeliani a simulare un rapimento condotto da palestinesi, per poi incolpare Hamas e bombardare Gaza? Escobar smentisce: le prove, scrive, puntano alla tribù Qawasmeh della regione di Hebron, storicamente conosciuta come antagonista di Hamas e ostile verso i coloni israeliani. «C’è anche la possibilità che i rapitori volessero usare gli autostoppisti come merce di scambio per la restituzione di prigionieri palestinesi». Quello che conta è che Netanyahu e la sua intelligence, lo Shin Bet, «sapevano fin dall’inizio che i ragazzi erano morti – e chi era responsabile». Ma “Bibi”, semplicemente, «non poteva sorvolare sulla possibilità di sfruttare l’accaduto – durante le tre settimane di folle ricerca – come motivazione per perseguire Hamas nella Zona Ovest e a Gaza, un’operazione già pianificata da tempo». I numeri, aggiunge Escobar, non rendono giustizia all’orribile massacro: in un solo giorno 167 morti, per lo più civili, inceneriti da 30 missili israeliani e sepolti dalle macerie di 200 case distrutte, senza contare gli oltre mille feriti e 1.500 edifici lesionati.In Israele, ovviamente, nemmeno un morto. Un portavoce militare «si è macabramente vantato che Gaza – un campo di concentramento-baraccopoli de facto – stava venendo bombardata ogni 4 minuti e mezzo». Il messaggio: «Che “Bibi” la possa fare franca è tutto ciò che le strade arabe – e di tutto il sud del mondo – devono sapere circa il depositario delle navi da guerra e degli aerei statunitensi in Medio Oriente». Quello che invece pochi sanno, continua Escobar, è che 14 anni fa sono stati scoperti al largo della costa di Gaza 1,4 trilioni di piedi cubi di gas naturale, del valore di almeno 4 miliardi di dollari. Altra “dimenticanza”: durante l’ultima invasione israeliana di Gaza – l’Operazione Piombo Fuso – i giacimenti di gas palestinesi furono confiscati da Israele. Quella “operazione” era già una guerra energetica, come denunciò Nafeez Ahmed. «Bisogna guardare al tutto da fuori», avverte Escobar: «I 122 trilioni di piedi cubi di gas, più i potenziali 1,6 miliardi di barili di greggio del bacino del Levante sparsi nelle acque territoriali di Israele, Siria, Libano, Cipro e ovviamente Gaza: queste acque territoriali sono alacremente contese come quelle del Mar Cinese del Sud. Neanche a dirlo, Tel Aviv le vuole tutte».Per integrare il quadro, «Israele si sta preparando ad affrontare un crescente incubo di sicurezza energetica». E’ coinvolto nell’operazione persino Tony Blair, responsabile politico della falsificazione delle prove sulle “armi di distruzione di massa” di Saddam e ora insider strategico della Jp Morgan: l’ex premier britannico ha proposto di “sviluppare” lo sfruttamento dei giacimenti di gas di Gaza attraverso un accordo tra la British Gas e le autorità palestinesi, escludendo totalmente Hamas e la popolazione di Gaza. «Il modo in cui Gaza è mantenuta come un campo di concentramento, soggetto a violenze di massa ininterrotte, è già abbastanza rivoltante», continua Escobar. In più, «bisogna aggiungere la componente-chiave economica: in tutti i modi possibili a Gaza deve essere impedito di accedere ai giacimenti Marina-1 e Marina-2», i quali «verranno inghiottiti da Israele», che già controlla «tutte le risorse naturali palestinesi – acqua, terra ed energia». Ecco il “segreto” dell’Operazione Barriera Protettiva: «Senza schiacciare Hamas, che controlla Gaza, gli israeliani non potranno trivellare la costa». Per Israele, quindi, i palestinesi vanno sfrattati da Gaza.Secondo Michael Klare, «la nuova, ininterrotta e collettiva aggressione a Gaza è soprattutto una guerra energetica che versa sangue in cambio di gas». Tutto questo, naturalmente, può avvenire senza che il resto del mondo lo impedisca, anche grazie al consenso che il mainstream ha sempre assicurato al colonialismo israeliano, fingendo di non sapere che la fine della secolare convivenza pacifica tra ebrei e arabi in Palestina è stata imposta unilateralmente dai sionisti, decisi a ottenere l’esclusiva sulla Terra Santa anche a prezzo del bagno di sangue. La pulizia etnica, avviata tre decenni prima di Auschwitz, secondo il grande storico israeliano Ilan Pappe è “il peccato originale di Israele”, sempre sottaciuto dai media. E’ Paolo Barnard a ricordare le terribili parole contenute nelle memorie di David Ben Gurion, padre dello Stato ebraico: «C’è bisogno di una reazione brutale», scriveva Ben Gurion nel 1948. «Dobbiamo essere precisi su coloro che colpiamo. Se accusiamo una famiglia palestinese non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti. Dobbiamo fargli del male senza pietà, altrimenti non sarebbe un’azione efficace».«Gli inglesi – disse nel 2000 il futuro presidente israeliano Chaim Weizmann – ci hanno detto che in Palestina ci sono dei negri, gente di nessun valore». E’ un destino di sangue, deciso a tavolino e imposto al mondo, per il quale i palestinesi di Gaza sono ancora oggi dei “negri” senza diritti. E’ storia: il sionista Yossef Weitz, continua Barnard, aveva preparato una lista dettagliata dei villaggi palestinesi da distruggere, «coi nomi e cognomi di uomini, donne e bambini disarmati, e questo anni prima dei Protocolli di Wannsee compilati dai nazisti per sterminare gli ebrei in Europa». La coscienza israeliana viene mantenuta in letargo da una disinformazione martellante, nonostante la rivolta civile di molti israeliani che si oppongono al militarismo, intellettuali e pacificisti, studiosi, veterani dell’esercito come i “Refuseniks” che si rifiutano di partecipare a operazioni di sterminio della popolazione palestinese. Già nel 1948, un uomo come Aharon Ciszling, ministro del primo governo del neonato Stato di Israele, rifletteva amaramente: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati (contro i palestinesi) come i nazisti, e tutta la mia anima ne è turbata». Oltre mezzo secolo dopo, la politica di Israele non è cambiata. Ora tocca a Gaza, che ha la “colpa” di essere affacciata su un mare di gas.«Il “nazismo” sionista precede quello tedesco di 30 anni. Il sionismo è un’aberrazione dell’umanità. Israele è il più ignobile insulto esistente alla memoria di sei milioni di ebrei sterminati in Germania». Paolo Barnard, autore del saggio “Perché ci odiano” sul risentimento arabo contro il brutale colonialismo occidentale e sionista, condanna senza mezzi termini l’ennesima operazione di pulizia etnica che le truppe di Tel Aviv stanno conducendo a Gaza sparando nel mucchio e colpendo donne, vecchi e bambini. La musica è sempre la stessa: «Dobbiamo dire ai palestinesi dei territori occupati che non esiste soluzione per loro, continueranno a vivere come cani, e se vogliono possono andarsene», tagliò corto Moshe Dayan nel 1967. Se lo sfratto dei palestinesi prosegue anche oggi con tanta disumanità, aggiunge un osservatore internazionale come Pepe Escobar, dipende anche da un motivo contingente: il colossale giacimento di gas naturale davanti alla costa di Gaza, “la prigione a cielo aperto più grande del mondo”. Sangue in cambio di gas: i palestinesi devono preparasi a lasciare anche Gaza, perché «Israele vuole tutto», anche le loro risorse energetiche.
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Tasse e usura: salvare l’Italia dall’orrore dell’Eurozona
L’Italia uscì dalla seconda guerra mondiale povera, distrutta, semi-analfabeta, ma ricca di tre doti immense: la Costituzione del 1948, lo Stato democratico a Parlamento sovrano, una propria moneta. Nell’arco di meno di trent’anni, questa penisola priva di grandi risorse, senza petrolio, finanziariamente arretrata, diventa la settima potenza economica del mondo, prima fra tutte per risparmio delle famiglie. Fu il ‘miracolo italiano’ scaturito dalle tre immense doti di cui sopra. Oggi quelle doti sono state distrutte, e il paese è sprofondato nella vergogna dei Piigs, i ‘maiali’ d’Europa. I trattati europei, in particolare quelli associati all’Eurozona, ci hanno tolto la sovranità costituzionale, quella parlamentare e quella monetaria. Ci hanno tolto tutto. La crisi che oggi sta distruggendo l’economia e i diritti delle famiglie e delle aziende italiane come mai dal 1945 a oggi, viene da questo.
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Hollande: diritti gay per mascherare le purghe neoliberiste
La chiamano “primavera francese”, in consonanza con le celebrate rivolte arabe: in apparenza, un milione di cittadini è sceso in piazza per opporsi al nuovo disegno di legge sui matrimoni gay, adozioni incluse, ma in realtà la folla protestava contro le nuove politiche neoliberali del detestato governo Hollande, che ha reagito con la brutalità della polizia antisommossa e l’arresto di 67 dimostranti. Stando ai sondaggi, il “compagno” Hollande è il presidente di gran lunga più impopolare di sempre: il suo partito, teoricamente socialista, «va avanti con le sue politiche neoliberali, stavolta d’accordo con sindacati docili». La malvagia Strega dell’Ovest è morta, ma il suo spirito è ancora con noi, dice Israel Shamir, riferendosi alla Thatcher. I ministri “con conti all’estero” stanno rovinando i francesi: col nuovo “accordo nazionale”, le aziende potranno aumentare le ore di lavoro, ridurre i salari al minimo e applicare la “mobilità lavorativa” coatta: chi rifiuta il trasferimento può essere licenziato su due piedi e senza indennizzo.