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Tra Kissinger e Robin Williams ci siamo noi, zona grigia
Sei sei un fenomeno, con “numeri” fuori dal comune, puoi diventare due cose assolutamente opposte: Robin Williams, oppure Henry Kissinger. Così Paolo Barnard commenta la tragica scomparsa del geniale attore americano. Racconta: «Mi fu detto una volta: “Chi nasce con il talento vulcanico, la personalità esplosiva e mercuriale, con capacità elevate, e quindi eccelle in positivo, corre un rischio orrendo: e cioè che questa immensa mole di energia si sdoppi con la stessa potenza nell’alimentare il suo demone interno. E la sua devastazione sarà esattamente pari alla sua esaltazione”». Nella storia, la lista di uomini e donne cui questo è accaduto è infinita. «Quando un essere umano si trova nelle condizioni sopra descritte ha due scelte. Se accetta di rimanere umano, e quindi di portarsi addosso i demoni della propria anima, se accetta di parlare alla sua anima, vive ogni attimo dell’esistenza appeso a una fune che lo solleva in paradiso, e poco dopo lo cala all’inferno, e via così di continuo, ogni giornata, anno dopo anno. Reggere diventa a un certo punto impossibile, e la si fa finita: Williams».Altrimenti, continua Barnard, l’uomo o la donna di enorme talento «ammazzano, nel senso che proprio disintegrano ogni grammo della loro umanità, e con esso i demoni dell’anima, l’anima stessa». Il risultato? «Sono persone robotiche, prive di qualsiasi sentimento, con l’anima vitrea e incenerita. Tutto il loro talento a quel punto può solo fare una cosa: fare del male. Kissinger». Morale: «Fine delle scelte. Viva la vita, eh?». Questo, però, vale per le eccellenze assolute, le persone straordinarie. E tutti gli altri? Il nazismo, ricorda Primo Levi, non regnò grazie al “genio” di Hitler o al sadismo efferato di qualche gerarca fanatico: riuscì a imporsi, per lunghi anni, solo grazie all’acquiescenza decisiva della cosiddetta “zona grigia”, quella che trasforma i testimoni dei carnefici in loro complici, se restano passivi di fronte all’abominio. «Che ne dite di un po’ di porca verità?», propone Barnard. Oggi sappiamo esattamente come funziona la struttura del super-potere oligarchico, sappiamo perfettamente che è di natura totalitaria, eppure non muoviamo un dito.«C’è l’Impero americano, quello russo, e altri. C’è il Bilderberg. C’è la Trilaterale. C’è la Massoneria. C’è il complesso finanziario, mostro globale. C’è il complesso militare industriale. Ci sono decine di migliaia di lobby di servizi, finanza e industria. Ci sono i colossi dell’Agribusiness, coi loro veleni. Ci sono le Mafie. C’è la speculazione multimiliardaria di Big Pharma sulla nostra salute. Insomma, ci sono gli squali dell’umanità, i vampiri che uccidono, straziano, succhiano sangue degli esseri umani». E noi, che facciamo? «Oggi voi sapete tutti», sottolinea Barnard. «Ci sono i giornalisti che v’informano rischiando la vita, la carriera, sfinendosi sul lavoro, e sono persino in Tv (“La Gabbia”, La7). Ci sono le band rock che lo fanno, “Muse”, “Linkin Park” e altri. C’è la Rete, che vi avvisa su centinaia di migliaia di siti accessibili gratis. Ci sono le Ong con grande visibilità che tentano di farvi capire».Ormai non ci sono più scuse: esistono «mezzi di comunicazione e organizzazione civica di massa che sono CENTOMILA volte quelli dei proletari del ‘900». Eppure, aggiunge Barnard, grande attivista “sovranista” della Mmt, l’economia democratica, «tutto quello che facciamo per voi diventa cenere». Perché? «Perché tutto viene distrutto dalle vostre orde, da voi: la gggènte. Tutto. Nulla sopravvive alla gggènte, soprattutto ai gggiòvani, che macinano in sguardi istupiditi tutto, tutto, non gliene frega un cazzo di sapere niente». E allora diciamocela, “la porca verità”: «Chi sono i porci del mondo? No, non i Padroni, non gli Imperi, ma la ggggènte, e i gggiòvani. Se ne fottono DEI MEZZI CHE GLI DIAMO PER SALVARSI LA VITA E LA DIGNITA’. La gggènte e i gggiòvani macinano secoli di lotte, e di intelletti immensi che hanno lottato per loro, in merda. Pur di avere un iPad, il pub, le spiagge, le chat, e altre porcate del genere. Non danno un solo minuto della loro vita all’impegno umano e sociale, NON UN MINUTO, loro, la gggènte e i gggiòvani. Non gli frega un cazzo di nient’altro».Milioni di persone stanno andando tranquillamente al macello, ogni giorno, nell’immenso mattatoio socio-economico chiamato Eurozona, mentre il mondo intorno – il vecchio mondo, uscito dalla fine della guerra guerra – sta letteralmente crollando, schiantato dalla geopolitica globalista imperiale e dal dominio assoluto delle élite. Una carneficina, che si nutre di continui sacrifici umani, dall’Ucraina ai bambini di Gaza. Ma nessuno fa mai nulla per opporsi alla “dittatura” del vero potere. «E’ nazista – si domanda provocatoriamente Barnard – dire che il massacro di ’ste masse, che non hanno più giustificazioni oggi, è solo giustizia?». Disse il rivoluzionario francese Danton: «Tu hai i diritti per cui sei stato disposto a combattere». Viceversa, chiosa Barnard, «vivi da cane, e muori da cane. Ed è…GIUSTO. Non date la colpa al Potere». A cui, del resto, non mancheranno mai Kissinger. Quanto ai Robin Williams, difficilmente arrivano all’età della pensione, in un mondo trasformato in immensa “zona grigia”.Sei sei un fenomeno, con “numeri” fuori dal comune, puoi diventare due cose assolutamente opposte: Robin Williams, oppure Henry Kissinger. Così Paolo Barnard commenta la tragica scomparsa del geniale attore americano. Racconta: «Mi fu detto una volta: “Chi nasce con il talento vulcanico, la personalità esplosiva e mercuriale, con capacità elevate, e quindi eccelle in positivo, corre un rischio orrendo: e cioè che questa immensa mole di energia si sdoppi con la stessa potenza nell’alimentare il suo demone interno. E la sua devastazione sarà esattamente pari alla sua esaltazione”». Nella storia, la lista di uomini e donne cui questo è accaduto è infinita. «Quando un essere umano si trova nelle condizioni sopra descritte ha due scelte. Se accetta di rimanere umano, e quindi di portarsi addosso i demoni della propria anima, se accetta di parlare alla sua anima, vive ogni attimo dell’esistenza appeso a una fune che lo solleva in paradiso, e poco dopo lo cala all’inferno, e via così di continuo, ogni giornata, anno dopo anno. Reggere diventa a un certo punto impossibile, e la si fa finita: Williams».
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L’immenso tesoro del Papa e il custode venuto da Sydney
Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.“L’Espresso” ha trovato anche spese e ricavi di decine di enti pubblicati nel 2013: dalla Segreteria di Stato alle nunziature estere, passando per Radio Vaticana e il Governatorato. E’ evidente, scrive Emiliano Fittipaldi in un reportage ripreso da “Micromega”, che «le spese della curia (case, segretari, viaggi, sicurezza, rappresentanza) sono ancora senza controllo». A Place Vendôme, nel centro di Parigi, una società francese controllata dall’Apsa possiede alcuni tra i più prestigiosi immobili della zona. «La Sopridex Sa ha avuto inquilini famosi (come François Mitterrand) e oggi ha attività iscritte a bilancio che arrivano a 46,8 milioni di euro». Tra i dipendenti, anche «la bellezza di 16 portieri». Ma l’Apsa, continua “L’Espresso”, controlla anche 10 società svizzere, «tra cui la misteriosa Diversa Sa, l’Immobiliere Sur Collonge e l’Immobiliere Florimont». Società che, insieme alla Profima Sa, «gestiscono proprietà e terreni nella confederazione elvetica e in mezza Europa». Tutte insieme «valgono 18 milioni».«Va ricordato che storicamente il bilancio dell’Apsa sottostima, per questioni fiscali, i valori dei palazzi di sua proprietà», spiega a Fittipaldi una qualificata fonte dell’istituto che ha sede nel Palazzo Apostolico. «Inoltre quelle svizzere sono società non consolidate: in pancia potrebbero avere molto più di quanto dichiarato». La Profima è stata aperta a Losanna nel 1926 e fu utilizzata da Pio XI per nascondere all’estero parte dei “risarcimenti” che la Chiesa ottenne grazie ai Patti Lateranensi stipulati con il regime fascista, mentre la holding Diversa «è praticamente sconosciuta». Fondata a Lugano nell’agosto del 1942, mentre si combatteva da Stalingrado ad El Alamein, risulta oggi presieduta da Gilles Crettol, «un avvocato svizzero che gestisce gli interessi del Papa oltralpe: il suo nome spunta in quasi tutte le altre società elvetiche». Fino a qualche tempo fa, il referente italiano era invece Paolo Mennini, ma gli uomini di Papa Francesco hanno deciso di farlo fuori: da qualche settimana, al suo posto, nei Cda delle società svizzere è comparso Franco Dalla Sega, presidente della bazoliana Mittel e «manager di fiducia del nuovo boss delle finanze vaticane, il cardinale George Pell».Il Vaticano, ricorda “L’Espresso”, possiede società immobiliari anche in Inghilterra: la British Grolux Investments Ltd, fondata nel 1933, «gestisce oggi a Londra attività per la bellezza di 38,8 milioni di euro inclusi negozi di lusso in New Bond Street». Quanto all’Italia, «oltre allo sterminato forziere di Propaganda Fide, ribattezzata Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ha un patrimonio stimato, al netto della crisi immobiliare, di circa 7 miliardi), l’Apsa controlla pure le società Sirea e Leonina, che a bilancio valgono oltre 16 milioni». Tra affitti a privati e locazioni commerciali, tutte le sigle che fanno capo all’Apsa hanno ricavato nel 2011 circa 23,5 milioni di euro. «Il bilancio finale dell’Apsa è impressionante», rileva Fittipaldi. «Case e appartamenti sparsi in Europa nel 2013 hanno toccato il valore complessivo di 342 milioni», mentre quello del portafoglio investimenti in euro ha superato quota 475 milioni, «cui bisogna aggiungere titoli per 137 milioni di dollari, 33 milioni di sterline e 17 milioni di franchi svizzeri».Un “tesoro” che vale complessivamente più di un miliardo, e che oggi gestiscono in tre: il super-consulente Dalla Sega e i due monsignori a capo dell’Apsa, il presidente Domenico Calcagno e il segretario Luigi Mistò. «Se gli immobili dell’Apsa valgono più di quanto riportato in bilancio, anche sull’oro ci sono molte cose che non tornano», aggiunge la fonde de “LEspresso”. Leggendo i dati riservati del 2013, scrive Fittipaldi, si scopre che l’Apsa detiene metalli preziosi per 30,8 milioni di euro, e «alcune stime interne della segreteria di Stato, da prendere con le molle, parlano di un controvalore di 140 miliardi di euro, il doppio di quanto conservato dalla Banca d’Italia». Qualcuno, però, sospetta che parte importante delle riserve auree del Vaticano sia conservata nei forzieri svizzeri e inglesi. «La stima mi sembra eccessiva – chiosa il dirigente Apsa – anche perché parte cospicua del nostro metallo giallo è stato venduto tra gli anni ‘90 e l’inzio del nuovo secolo dal cardinale venezuelano Rosalio Castillo Lara, ex presidente dell’amministrazione».Oltre all’oro dell’Apsa, il Vaticano controlla anche il patrimonio dello Ior, valutato 6 miliardi di euro. «Non stupisce che sul gruzzolo, dopo l’arrivo del nuovo pontefice, si sia scatenata una battaglia (l’ennesima) per la gestione. Francesco ha innanzitutto spazzato via gli uomini di Tarcisio Bertone che dal 2007 guidavano lo Ior e, attraverso Calcagno, la cassaforte dell’Apsa. Troppi gli scandali della decadente “lobby italiana”: a parte le scorribande di Scarano e le vicende di Bertone (i casi Carige e Lux Vide promettono sviluppi), le inchieste per riciclaggio hanno fatto saltare il direttore dello Ior Paolo Cipriani, il suo vice Massimo Tulli e il tesoriere della banca, mentre presto la prefettura degli Affari economici guidata da Giuseppe Versaldi, amico intimo di Bertone, potrebbe essere soppressa». Per ricostruire un sistema più trasparente, continua “L’Espresso”, Bergoglio ha poi chiamato dall’Australia il cardinale George Pell e lo ha nominato capo di un nuovo dicastero, la Segreteria dell’Economia. Una sorta di super-ministero che controllerà, di fatto, tutti gli enti finanziari dentro le Mura Leonine.Noto al Papa per le sue doti di economo, dopo aver gestito con buoni risultati una grande diocesi come quella di Sidney, il cardinale Pelle è soprattutto un uomo di comando. Ha subito silurato il presidente dello Ior, Ernst von Freyberg, rottamando le vecchie strutture di governance e accentrando nei suoi uffici i poteri esecutivi: la segreteria di Stato è stata ridimensionata (il successore di Bertone, Pietro Parolin, si occuperà prevalentemente di diplomazia), mentre lo Ior e l’Apsa sono stati commissariati. In Vaticano c’è chi teme ambizioni dell’australiano: «Se Parolin ha sotterrato l’ascia di guerra solo perché Francesco lo ha ammesso nel C9, il gruppo ristretto di cardinali che devono aiutarlo nella guida della Chiesa, il presidente del Governatorato Giuseppe Bertello sta tentando in tutti i modi di bloccarne l’ascesa». Tra i nuovi potenti, però, a «limitare il raggio d’azione di Pell» ci hanno priovato, «per ora senza successo», solo Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del C9, e il cardinale Santos Abril y Castelló, presidente della commissione cardinalizia dello Ior.In Australia, i cattolici progressisti rimproverano al prelato di Sydney le posizioni ultra-conservatrici e le sparate pubbliche sull’Islam («religione guerresca», piena di «invocazioni alla violenza»). Inoltre, Pell fu scagionato nel 2002 dall’accusa di aver abusato di un ragazzino di 12 anni, mentre nel 2008 un’altra presunta vittima di abusi lo aveva incolpato di aver “coperto” un sacerdote pedofilo. «Lo scorso marzo, infine, il cardinale è stato chiamato a testimoniare di fronte alla Commissione nazionale d’inchiesta sugli abusi contro i minori istituita dal governo di Canberra, in merito a una causa che un altro ex chierichetto, John Ellis, aveva fatto alla Chiesa e allo stesso Pell in seguito a violenze sessuali avvenute tra il 1974 e il 1979». Pell ha chiesto scusa, continua “L’Espresso”, ma in molti sono restati sconcertati per la sua promozione decisa da Bergoglio. «Nella giungla vaticana – aggiunge Fittipaldi – il ranger venuto da Sydney non si muove da solo. Il capo segue i consigli di tre fidati consiglieri: il neo presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, il tycoon maltese Joseph Zahra (entrambi membri del Consiglio dell’Economia, l’altro neonato ufficio economico guidato da Reinhard Marx), e l’amico Danny Casay, manager che ha gestito con lui la diocesi di Sydney».Gli sconfitti, i vecchi cardinali di curia, li chiamano “la banda dei maltesi”, adombrando il pericolo di conflitti d’interessi: l’unico membro italiano chiamato a far parte del Consiglio dell’Economia, Francesco Vermiglio, ha fondato con l’amico Zahra (patron del colosso finanziario Misco Malta) la Misco Advisory Ltd, «una joint venture per invogliare i nostri connazionali a investire nell’isola, fino a pochi anni fa vero paradiso fiscale». A marzo 2014, inoltre, il figlio di de Franssu, Luis Victor, è stato assunto dalla Promontory, società Usa che da un anno sta spulciando i conti dello Ior. «Ma il numero uno dello Ior pare abbia buoni rapporti anche con alcuni giovani consulenti della McKinsey che hanno lavorato sui bilanci dell’Apsa. Tra loro c’era pure Filippo Sciorilli Borrelli. Classe 1981, è un figlio d’arte: suo padre Ivo è infatti tra gli azionisti di maggioranza di Banca Arner, l’istituto svizzero che ha tra i suoi (pochi) correntisti Silvio Berlusconi». Non c’è nessuna lobby maltese, ha ribattuto Pell, indignato. Tuttavia, ribatte “L’Espresso”, proprio i finanzieri de Franssu e Zahra – titolari di società di investimento – avevano ideato i nuovi assetti del business vaticano, secondo un modello «che rispecchia in gran parte quello annunciato da Pell», ovvero: potere assoluto della Segreteria dell’Economia, Apsa trasformata in Banca centrale e nascita di un nuovo Vatican Asset Management (Vam) per gestire titoli e obbligazioni.Nelle mire di Pell, aggiunge Fittipaldi, c’è anche un altro patrimonio della Santa Sede: i musei vaticani, tra i più visitati e redditizi al mondo: nel 2011 l’utile netto è stato di 58,7 milioni, e gli incassi (tra biglietti e merchandising) superiori a 91 milioni. Per contro, le spese 2013 della Curia romana ammontano a 77,9 milioni, e l’Apsa ha chiuso il suo bilancio in perdita di 48,4 milioni. «Se l’Obolo di San Pietro grazie alla beneficenza dei fedeli nel 2013 ha portato nelle casse 78 milioni, la mitica Radio Vaticana ha perso, secondo un report interno pubblicato nel 2013 e riferito al 2011, ben 26,6 milioni», scrive Fittipaldi. «Anche la tipografia che stampa “L’Osservatore romano” ha chiuso i conti a meno 5,5 milioni». Un salasso, a cui aggiungere il deficit delle 170 nunziature all’estero (meno 25,1 milioni) e i 5,8 milioni che servono a pagare le 110 guardie svizzere. «Chissà, infine, se la spending review minacciata da Pell peserà anche sulle messe di papa Francesco: nel 2011 l’Ufficio celebrazioni liturgiche ha speso per Ratzinger 1,1 milioni. Viste le dimensioni del tesoro di Dio, si tratta poco più di una mancia».Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.
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Eutanasia dell’Italia, aspettando l’inferno della Troika
Verrà la Troika e avrà i miei occhi, sembra dire Eugenio Scalfari, che forse trascura l’ultima tragica battuta del “Tamburo di latta”, memorabile film sulla Germania nazista: eravamo un popolo di ingenui, credevamo fosse Babbo Natale e invece quello che bussava alla porta era l’Uomo del Gas. La Troika, peggio dell’orco delle fiabe nere: il braccio armato dell’élite tecno-finanziaria che sta scassinando gli Stati europei riducendoli in miseria e portandogli via tutto. Più che fantascienza, un film dell’orrore. Tutto avviene nella quasi-indifferenza generale. Le televisioni, 24 ore su 24, propongono l’anonimo volto del carneade Renzi, la sua predicazione imbarazzante a cui – questa la notizia – ha creduto, forse per disperazione, il 40% dei votanti alle ultime europee. Lo stellone italiano, Babbo Natale. Ma a bussare alla porta, avverte Ferruccio De Bortoli, sarà proprio lui, l’Uomo del Gas. L’avrebbe confidato ad amici, hanno scritto. Manovra lacrime e sangue in autunno, con prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani. Poi, comunque, arriverà la falce della Troika: l’Italia sarà commissariata come la Grecia.Un incubo, annacquato ogni giorno da polemiche minute – la distriba sugli 80 euro, le schermaglie parlamentari – mentre il paese affonda ogni giorno di più. E il peggio è che affonda senza neppure l’onore di una diagnosi con dignità politica, con piena cittadinanza in Parlamento. L’Italia, dicono ormai tutti gli analisti economici indipendenti, sta morendo per un motivo elementare: qualcuno, tra Berlino e Bruxelles, ha deciso di assassinarla. L’arma letale si chiama euro, il killer che la impugna si chiama Troika. Ogni possibile restrizione di bilancio – il pareggio obbligatorio, il tetto del 3%, il Fiscal Compact, la mannaia sulla spesa pubblica vitale – è direttamente riconducibile all’euro. Altre spiegazioni non reggono, eppure c’è ancora chi si attarda in chiacchiere su mafia e corruzione, evasione fiscale e auto blu. Se anche suonassero le sirene antiaeree, nessuno le sentirebbe. Non una sola formazione politica è stata capace di organizzare un fronte culturale, una mobilitazione trasversale, nonostante l’emergere ormai dilagante – non nel mainstream, però, ma solo nelle catacombe del web e nelle assemblee porta a porta – di voci autorevoli di esperti, economisti, ex ministri, intellettuali ed ex dirigenti dello Stato, tutti a dire che l’Eurozona è semplicemente demenziale, criminale, insostenibile. E non è stato un incidente, ma un disegno.Scalfari addirittura la invoca, la Troika, confermando – involontariamente – l’allarme lanciato da De Bortoli, che ha già concordato l’abbandono della direzione del “Corriere della Sera”. Renzi, dal canto suo, sembra in gara col Mostro: taglia il Senato, amputa la democrazia elettorale, predispone la più colossale privatizzazione della storia italiana. Forse, semplicemente, tenta di convincere il Mostro a tenersi lontano dall’Italia: se saranno gli italiani a suicidarsi da soli, forse sarà meno doloroso. Siamo a questo? Letture critiche si intrecciano un po’ ovunque, sui blog. L’ok al mostruoso Juncker? Un boccone alla belva Merkel, per tenerla buona. La battaglia europea per la Mogherini, ben relazionata con Kerry? Un messaggio: confidiamo nella protezione americana contro gli abusi disumani dell’asse franco-tedesco. Realpolitik compensativa: silenzio sulla macelleria di Gaza e su quella in Ucraina progettata da Obama, e avanti tutta con l’adesione al Ttip, il Trattato Transatlantico, negoziato in segreto, che potrebbe segnare la fine del made in Italy. «Renzi è la rovina dell’Italia», avrebbe detto De Bortoli. Senza spiegare, peraltro, chi ne sarebbe la salvezza.Verrà la Troika e avrà i miei occhi, sembra dire Eugenio Scalfari, che forse trascura l’ultima tragica battuta del “Tamburo di latta”, memorabile pellicola sulla Germania nazista: eravamo un popolo di ingenui, credevamo fosse Babbo Natale e invece quello che bussava alla porta era l’Uomo del Gas. La Troika, peggio dell’orco delle fiabe nere: il braccio armato dell’élite tecno-finanziaria che sta scassinando gli Stati europei riducendoli in miseria e portandogli via tutto. Più che fantascienza, un film dell’orrore. Tutto avviene nella quasi-indifferenza generale. Le televisioni, 24 ore su 24, propongono l’anonimo volto del carneade Renzi, la sua predicazione imbarazzante a cui – questa la notizia – ha creduto, forse per disperazione, il 40% dei votanti alle ultime europee. Lo stellone italiano, Babbo Natale. Ma a bussare alla porta, avverte Ferruccio De Bortoli, sarà proprio lui, l’Uomo del Gas. L’avrebbe confidato ad amici, hanno scritto. Manovra lacrime e sangue in autunno, con prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani. Poi, comunque, arriverà la falce della Troika: l’Italia sarà commissariata come la Grecia.
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Grillo accusa tutti, tranne i veri colpevoli del disastro
Grillo? Ottimo, anzi pessimo. Ha sparato contro i corrotti di casa, senza però mai – neppure una sola volta, in sette anni – alzare il mirino contro i “mandanti” della grande crisi, di cui i partiti dell’establishment sono i semplici maggiordomi. Netto il giudizio di Federico Zamboni, editorialista del “Ribelle” diretto da Massimo Fini, che si esprime «a sette anni esatti dall’annuncio, nel giugno 2007, del primo V-Day, che poi si svolse il successivo 8 settembre», e a quasi cinque dalla costituzione ufficiale, il 4 ottobre 2009, del “Movimento 5 Stelle”. L’accusa principale: nonostante l’impegno, Grillo non ha saputo affrontare il vero nodo della crisi, che dal 2007 «ha fatto emergere con ancora più forza la questione fondamentale del nostro tempo: il rapporto tra società ed economia “di mercato”». In altre parole, la “guerra” «tra la libertà di autodeterminazione dei singoli governi, e quindi dei rispettivi popoli, e i condizionamenti imposti dal modello dominante, incardinato sugli interessi delle oligarchie che gestiscono la finanza internazionale».In prima linea, sugli schermi, ci sono i soliti partiti, quelli che «si accapigliano su tutto» ma, alla resa dei conti, «non smettono mai di assecondare l’odierno assetto delle democrazie occidentali, sull’asse che lega i vertici di Usa e Ue». Il punto da affrontare, scrive Zamboni in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è quello della loro credibilità o meno «come rappresentanti degli interessi popolari, nella prospettiva non già di una mera attenuazione nelle iniquità esistenti, ma di un loro superamento». Il che implica, ovviamente, «la rimozione delle cause profonde che hanno determinato tali disparità, che sono talmente forti, deliberate e persistenti da costituire delle vere e proprie ingiustizie». La situazione è ormai talmente grave «da esigere che i responsabili di una sopraffazione così cinica e insistita vengano quantomeno identificati e denunciati con estrema chiarezza, in attesa di poterli neutralizzare come meritano».Puntare il dito contro la “casta” italiana? Non basta: «Si tratta di un’espressione equivoca e fuorviante», perché secondo Zamboni «la chiave di volta del disastro italiano non risiede nel malgoverno esercitato a colpi di privilegi ingiustificati e di autentiche ruberie da codice penale: per quanto gravi, e da sanzionare duramente, queste condotte non sono altro che fenomeni collaterali». Per l’analista del “Ribelle”, «la colpa essenziale, la colpa “storica”, consiste nell’aver lasciato che le sovranità nazionali venissero sacrificate ai diktat finanziari, lanciati ora dalle banche centrali, ora da quello che potremmo definire “il fronte della speculazione”, includendovi tanto gli operatori di Borsa quanto i media più o meno specializzati, le agenzie di rating e ogni altro soggetto che si dia da fare per puntellarne le attività – e il terrificante potere».Grillo? E’ rimasto lontanissimo dalla meta. In questi anni «si è certamente scagliato contro molti degli abusi in corso, mettendo nel mirino anche alcune misure-capestro sovrannazionali come il Fiscal Compact e sollecitando un referendum sulla permanenza dell’euro», ma tuttavia «si è sempre astenuto dal tracciare un quadro complessivo delle sue chiavi di lettura e dei suoi obiettivi», al punto che «a tutt’oggi non è dato sapere, con la dovuta certezza, se lui e il M5S rifiutino il modello neoliberista in quanto tale, o se invece si accontentino di auspicarne una variante migliorativa». Una versione “light” che, «pur introducendo qualche limite all’azione dei privati a caccia di lucro e pur esercitando un controllo assai più stringente sui politici», rischia di restare imperniata sui principi e sui dogmi «dello sviluppo infinito e della ricerca incessante del profitto».«Ciò che resta indefinito, quindi, è proprio l’aspetto cruciale», conclude Zamboni. «E da questo mancato chiarimento derivano, per forza di cose, le contraddizioni e le divergenze anche interne che si sono manifestate soprattutto negli ultimi sedici mesi, dopo il grande successo alle politiche del febbraio 2013 e il massiccio ingresso in Parlamento». Se il movimento si è diviso fra trattativisti e oltranzisti dell’opposizione, oggi deve confrontarsi con l’ultima svolta di Grillo per provare a sfidare il Pd sulle riforme: «Se si tratta di un riposizionamento, che mette fine all’epoca del “Tutti a casa”, allora è una decisione strategica: al posto della rivoluzione, la collaborazione», per di più «con personaggi omologatissimi e infidi alla Renzi». Tutto questo, però, è solo tattica. La domanda a monte resta inevasa: cosa pensa, Grillo, del modello di dominio economico-finanziario che ha sequestrato la sovranità nazionale puntando a far sparire lo Stato (e la democrazia) privatizzando tutto, e arrivando per questo a manomettere la Costituzione?Grillo? Ottimo, anzi pessimo. Ha sparato contro i corrotti di casa, senza però mai – neppure una sola volta, in sette anni – alzare il mirino contro i “mandanti” della grande crisi, di cui i partiti dell’establishment sono i semplici maggiordomi. Netto il giudizio di Federico Zamboni, editorialista del “Ribelle” diretto da Massimo Fini, che si esprime «a sette anni esatti dall’annuncio, nel giugno 2007, del primo V-Day, che poi si svolse il successivo 8 settembre», e a quasi cinque dalla costituzione ufficiale, il 4 ottobre 2009, del “Movimento 5 Stelle”. L’accusa principale: nonostante l’impegno, Grillo non ha saputo affrontare il vero nodo della crisi, che dal 2007 «ha fatto emergere con ancora più forza la questione fondamentale del nostro tempo: il rapporto tra società ed economia “di mercato”». In altre parole, la “guerra” «tra la libertà di autodeterminazione dei singoli governi, e quindi dei rispettivi popoli, e i condizionamenti imposti dal modello dominante, incardinato sugli interessi delle oligarchie che gestiscono la finanza internazionale».
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I leader Ue sono marci: tangenti da 120 miliardi l’anno
L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.Le forme di tale corruzione devono ancora trovare una tassonomia sistematica. C’è la corruzione pre-elettorale: il finanziamento di persone e partiti da fonti illegali – o legali – contro la promessa, esplicita o tacita, di futuri favori. C’è la corruzione post-elettorale: l’uso delle cariche per ottenere fondi mediante malversazioni sulle entrate o mazzette sui contratti. C’è l’acquisto di voci o voti nei parlamenti. C’è il furto puro e semplice dalle casse pubbliche. C’è la falsificazione di credenziali per vantaggi politici. C’è l’arricchimento dalla carica pubblica dopo l’evento, così come durante o prima di esso. Il panorama di questa malavita è impressionante. Un affresco di esso potrebbe cominciare con Helmut Kohl, governante della Germania per sedici anni, che accumulò due milioni di marchi di fondi neri da donatori illegali i cui nomi, quando fu denunciato, rifiutò di rivelare per timore che venissero alla luce i favori che aveva fatto loro. Oltre il Reno, Jacques Chirac, presidente della Repubblica Francese per dodici anni, fu condannato per appropriazione di fondi pubblici, abuso di ufficio e conflitti d’interesse, una volta caduta l’immunità. Nessuno dei due ha subito pene. Questi erano due dei più potenti politici dell’epoca in Europa.In Germania il governo di Gerhard Schroeder garantì un prestito da un miliardo di euro alla Gazprom per la costruzione di un gasdotto sul baltico poche settimane prima che egli si dimettesse da cancelliere e andasse a libro paga della Gazprom con uno stipendio maggiore di quello che aveva ricevuto governando il paese. Dopo la sua partenza, Angela Merkel ha visto due presidenti della repubblica, uno dietro l’altro, costretti a dimettersi da screditati: Horst Koehler, ex capo del Fmi, per aver spiegato che il contingente della Bundeswehr in Afghanistan stava proteggendo interessi commerciali tedeschi; e Christian Wulff, ex capo cristiano-democratico della Bassa Sassonia, per un prestito discutibile ricevuto da un affarista amico per la sua casa. Due ministri eminenti, uno della difesa e l’altro dell’istruzione, hanno dovuto andarsene quando sono stati privati dei loro dottorati – una credenziale importante per una carriera politica nella Repubblica Federale – per violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Quando il secondo, Annette Schavan, un’intima amica della Merkel (che aveva manifestato piena fiducia in lei) era ancora in carica, il “Bild Zeitung” ha osservato che avere un ministro dell’istruzione che aveva falsificato le sue ricerche era come avere un ministro delle finanze con un conto segreto in Svizzera.In Francia il ministro socialista del bilancio, il chirurgo plastico Jérôme Cahuzac, la cui direttiva era di difendere la probità e l’equità fiscale, è stato scoperto detenere qualcosa tra i 600.000 e i 15 milioni di euro in depositi segreti in Svizzera e a Singapore. Nicolas Sarkozy, nel frattempo, è accusato da testimoni concordi di aver ricevuto circa 20 milioni di dollari da Gheddafi per la campagna elettorale che lo portò alla presidenza. Christine Lagarde, il suo ministro delle finanze, che oggi dirige il Fmi, è sotto inchiesta per il suo ruolo nella concessione di 420 milioni di dollari di ‘risarcimento’ a Bernard Tapie, un ben noto truffatore con un passato in carcere, negli ultimi tempi amico di Sarkozy. Contiguità disinvolta con la criminalità è bipartisan. François Hollande, attuale presidente della repubblica, usava come pied-à-terre per gli incontri con la sua amante un appartamento della donna di un gangster corso, ucciso l’anno scorso in una sparatoria sull’isola.In Gran Bretagna, circa nello stesso periodo, l’ex premier Blair consigliava a Rebekah Brooks, che rischiava il carcere per cinque accuse di cospirazione criminale («Sii forte e prendi pastiglie per dormire. Passerà») e la sollecitava a «pubblicare un rapporto in stile Hutton», come aveva fatto lui per sterilizzare qualsiasi parte il suo governo potesse aver avuto nella morte di una fonte interna che aveva fatto rivelazioni sulla sua guerra in Iraq: un’invasione dalla quale ha poi proseguito a raccogliere – naturalmente per la sua Fondazione Faith – mance e contratti assortiti in giro per il mondo, considerevoli fondi in contanti da una compagnia petrolifera della Corea del Sud gestita da un delinquente condannato con interessi in Iraq e presso la dinastia feudale del Kuwait. Quali ricompense possa essersi guadagnato più a est resta da vedere («I progressi del Kazakistan sono splendidi. Comunque, signor Presidente, lei ha toccato nuovi vertici nel suo messaggio alla nazione». Alla lettera.).In patria, in uno scambio di favori a proposito dei quali ha mentito compuntamente al Parlamento, le sue mani sono state unte da un milione di sterline versate alle casse del partito dal magnate delle corse automobilistiche Bernie Ecclestone, attualmente sotto giudizio in Baviera per tangenti al ritmo di 33 milioni di euro. Nella cultura del New Labour, figure di spicco della cerchia di Blair, ministri di gabinetto un tempo – Byers, Hoon, Hewitt – non sono stati in grado di offrirsi in vendita al successore. Negli stessi anni, indipendentemente dal partito, la Camera dei Comuni è stata denunciata come un pozzo nero di meschine malversazioni di denaro dei contribuenti. In Irlanda, contemporaneamente, il leader del Fianna Fàil, Bertie Ahern, avendo canalizzato più di 400.000 euro di pagamenti non spiegati prima di diventare “taioseach”, si è votato lo stipendio più elevato di qualsiasi premier in Europa – 310.000 euro, più persino del presidente degli Stati Uniti – un anno prima di doversene andare con disonore per assoluta disonestà.In Spagna l’attuale primo ministro, Mariano Rajoy, alla guida di un governo di destra, è stato colto con le mani nel sacco mentre riceveva mazzette per contratti di costruzione e di altro genere per un totale di un quarto di milione di euro nel giro di un decennio, passategli da Luis Bàrcenas. Tesoriere del suo partito per vent’anni, Bàrcenas è oggi sotto arresto per aver accumulato un tesoro di 48 milioni di euro in conti svizzeri non dichiarati. I libri mastri, compilati a mano, contenenti i dettagli dei suoi versamenti a Rajoy e ad altri notabili del Partito del Popolo – tra cui Rodrigo Rato, altro ex capo del Fmi – sono apparsi in facsimile in abbondanza sulla stampa spagnola. Una volta scoppiato lo scandalo Rajoy ha inviato a Bàrcenas un messaggio con parole virtualmente identiche a quelle di Blair alla Brooks: «Luis, io capisco. Resta forte. Ti chiamerò domani. Un abbraccio». Pur con uno scandalo in cui l’85% del pubblico spagnolo ritiene che egli menta, resta incollato alla poltrona nel Palazzo della Moncloa.In Grecia, Akis Thochatzopoulos, del Pasok – ministro, in successione, dell’interno, della difesa e dello sviluppo – in un’occasione arrivato a un soffio dalla guida della socialdemocrazia greca, è stato meno fortunato: condannato l’autunno scorso a vent’anni di carcere per una formidabile carriera di estorsioni e di riciclaggi di denaro sporco. Oltre il mare Tayyip Erdogan, a lungo celebrato dai media e dall’establishment intellettuale dell’Europa come il più grande statista democratico della Turchia, la cui condotta ha virtualmente dato al paese il titolo di membro onorario della Ue ante diem, ha dimostrato di essere meritevole di essere incluso nei ranghi della dirigenza europea in un altro modo: in una conversazione registrata in cui dava al figlio istruzioni su dove nascondere decine di milioni in contanti, in un’altra in cui alzava il prezzo di una robusta tangente su un contratto di costruzioni. Tre ministri del governo sono caduti dopo scoperte analoghe, prima che Erdogan purgasse le forze della polizia e della magistratura per assicurarsi che non si spingessero oltre.Mentre egli faceva questo la Commissione Europea ha pubblicato il suo primo rapporto ufficiale sulla corruzione nell’Unione, la cui dimensione il commissario autore del rapporto l’ha descritta come “mozzafiato”: secondo una stima prudente, costa alla Ue quanto l’intero bilancio dell’Unione, circa 120 miliardi l’anno, ma la cifra reale è «probabilmente molto più alta». Prudentemente il rapporto si è occupato solo degli stati membri. La stessa Ue, la cui intera Commissione fu costretta in tempi non lontani a dimettersi screditata, è stata esclusa (la Commissione Santer fu costretta a dimettersi nel 1999 per accuse di corruzione contro alcuni suoi membri). Diffuso in un’Unione che si presenta come tutore morale del mondo, l’inquinamento del potere ad opera del denaro e della frode deriva dallo svuotamento di sostanza o dalla caduta del coinvolgimento nella democrazia. Le élite, liberate sia da una reale divisione in alto sia da un significativo dovere di rispondere in basso, possono permettersi di arricchirsi alla follia e impunite. La denuncia cessa di contare molto, poiché l’impunità diviene la regola. Come i banchieri, i politici di spicco non finiscono in carcere.Ma la corruzione non è solo una funzione del declino dell’ordine politico. E’ anche, ovviamente, un sintomo del regime economico che si è impossessato dell’Europa a partire dagli anni ’80. In un universo neoliberista dove i mercati sono il metro del valore, il denaro diventa, più platealmente che mai, la misura di tutte le cose. Se ospedali, scuole e carceri possono essere privatizzati a fini di profitto delle imprese, perché non anche le cariche politiche? Oltre alla ricaduta culturale del neoliberismo, tuttavia, vi è l’impatto del sistema socio-economico, la terza e, nell’esperienza del popolo, di gran lunga più acuta delle malarie che affliggono l’Europa. Che la crisi economica scatenate in occidente nel 2008 sia stata il risultato di decenni di liberalizzazioni nel settore finanziario e di espansione del credito lo ammettono, più o meno, i loro stessi architetti; si veda Alan Greenspan. Collegate oltre Atlantico, le banche e le attività immobiliari europee erano già coinvolte nel disastro tanto quanto le loro omologhe statunitensi. Nella Ue, tuttavia, questa crisi generale è stata aggravata da un altro fattore peculiare dell’Unione, le distorsioni create dalla moneta unica imposta a economie nazionali molto diverse tra loro, spingendo le più vulnerabili di esse sull’orlo della bancarotta quando sono state colpite dalla crisi generale.(Perry Anderson, estratto dall’intervento “Il disastro italiano”, pubblicato da “Sinistra in rete” il 29 maggio 2014).L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.
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Pritchard: così l’euro-sinistra ha svenduto i popoli all’élite
«Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i migliori interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il frutto migliore che la sinistra europea sia stata capace di creare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.«Uno dopo l’altro, la stanno pagando tutti», scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”. Primo esempio, i Paesi Bassi: «Il partito laburista olandese che diede vita al “Polder Model” e amministrò l’Olanda per mezzo secolo ha perso i suoi bastioni a Amsterdam, Rotterdam e Utrecht, i suoi sostenitori sono scesi al 10% per aver timidamente approvato le politiche di austerità che hanno portato alla deflazione e ad un abbattimento del valore immobiliare tanto da arrivare a ipoteche sul 25% di patrimoni netti negativi». Le politiche recessive «sono velenose per i paesi che già hanno problemi». L’indebitamento delle famiglie olandesi è passato dal 230% al 250% del reddito disponibile dal 2008 a oggi, mentre il debito dei britannici (che si sono tenuti la sterlina) è sceso da 151% al 133% nello stesso periodo. E’ tutta colpa del rigore imposto da Bruxelles, ma il partito laburista olandese «non può fare nessuna critica coerente, perché il suo orientamento pro-Ue lo costringe quasi al silenzio».«Il Partito Socialista non ha mai creduto nell’euro e non ci crediamo nemmeno adesso: dobbiamo quindi smettere di chiedere sempre più sacrifici per mantenerlo», ha detto Dennis de Jong, il leader del partito a Strasburgo che si appella a un “Piano B” per smantellare l’unione monetaria in modo ordinato». In Grecia, il socialista Pasok che ha guidato il paese verso la democrazia dopo la dittatura dei “colonnelli”, è sceso al 5,5%: un guscio svuotato da Syriza, che ora con il 25% di voti promette di strappare Atene dalle grinfie della Troika Ue. «Il Pasok si è meritato il suo annientamento», scrive il notista del “Telepgraph”: «Ha cospirato nel colpo di stato fatto nel retrobottega a novembre 2011, ancora una volta accettando le richieste dell’Ue per rovesciare il proprio primo ministro e per annullare il referendum della Grecia sul bail-out. Rinunciò, allora, ad una prova di forza catartica e necessaria con Bruxelles, per la troppa paura di rischiare l’espulsione dall’euro. Questo referendum si farà adesso: Tsipras ha trasformato le elezioni europee di questa settimana in un verdetto sulla servitù del debito».Se si può capire la paura della sinistra nei paesi periferici, aggiunge Evans-Pritchard, «il mistero è il motivo per cui un presidente socialista francese, con una maggioranza parlamentare, debba subire passivamente le politiche che stanno fiaccando la linfa vitale dell’economia francese e che stanno distruggendo la sua presidenza». François Hollande ha vinto due anni fa puntando sulla crescita e promettendo di bocciare il Fiscal Compact. Da quando è in carica, però, la disoccupazione francese è salita dal 10,1 al 10,4%, la crescita del Pil è scesa a zero e anche nell’ultimo trimestre la Francia ha perso 23.600 posti di lavoro, dopo i 57.000 perduti nel 2013. Sicché, secondo l’ultimo sondaggio Ifop, l’indice di gradimento di Hollande è crollato sotto il 18%: il peggiore da sempre per un leader francese. «La sua retorica del New Deal non ha portato a niente». Hollande «è capitolato sul Fiscal Compact, accettando una camicia di forza che obbliga la Francia a tagliare il debito pubblico ogni anno per un importo fisso per due decenni, fino a quando non sarà scesi al 60% del Pil, a prescindere dalla demografia o dal gap che esista nel settore privato o dalle esigenze di investimento dell’economia».La sua presidenza? «E’ stata tutto uno spettacolo dell’orrore di pacchetti di austerità, uno dopo l’altro, un circolo vizioso di maggiori imposte che fanno abortire qualsiasi recupero e lo debilitano con un effetto moltiplicatore che peggiora la situazione». Inasprimento fiscale nonostante il disavanzo: è la ricetta per il suicidio, se la Bce non interviene per compensare con iniezioni di denaro. «La risposta di Hollande è stata un raddoppio del rigore per infiocchettare il pacchetto: ha ceduto alle richieste di Bruxelles per altri 50 miliardi di euro di austerità nei prossimi tre anni». Questa volta, «la scure cadrà sulla spesa pubblica, arrivata al 57% del Pil». Inoltre, «ci saranno radicali riforme del lavoro, una variante della terapia-shock Hartz IV che servì per fottere i salari tedeschi dieci anni fa». In altre parole: se il socialista Hollande ha fatto pace con le grandi imprese, «sarà l’austerità a farlo a fette».Hollande si era prodigato per una “alleanza latina” per contrastare i deflattori quando presero il potere e per costringere la Germania a mettere il veto sulle azioni della Bce. Quella momentanea dimostrazione di grinta aveva spinto Draghi verso un piano di retromarcia sul debito italiano e spagnolo nel mese di agosto 2012, aiutato molto da Washington, ma poi non è andato avanti «e la Spagna ha continuato per la sua strada, come se fosse una Prussia del Sud o una nuova Tigre latina». La Bce? «Ancora una volta ha continuato a rigirarsi i pollici, incurante della deflazione». Francoforte «ha lasciato che i vincoli negativi bloccassero il bilancio francese facendolo ridurre di 800 miliardi, mentre l’euro si è rivalutato dell’ 8% contro lo yuan e del 15% contro lo yen, in un anno». Mentre gran parte del mondo sta cercando di tener basso il cambio delle valute e la deflazione delle esportazioni, l’Europa «è rimasta l’unica e tenersi tutto il pacco sulle spalle».I francesi non possono accettare di morire per asfissia economica: «La Francia è il cuore pulsante dell’Europa, l’unico paese con una statura di civiltà capace di condurre una rivolta e di prendersi carico della macchina politica dell’Unione Monetaria. Ma per scoprire il bluff della Germania, con una minima credibilità, Hollande dovrebbe essere pronto a rovesciare tutto il progetto dalle sue fondamenta e persino a rischiare una rottura sull’euro». Ed è quello che non farà mai. «Tutta la sua vita politica, da Mitterrand a Maastricht, è stata intessuta negli affari europei». Hollande «è prigioniero dell’ideologia di questo progetto, convinto come è che un condominio franco-tedesco rimanga la leva del potere francese e che sia l’euro a tenere legati i due paesi». Lo statista francese Jean-Pierre Chevenement confronta l’acquiescenza di Hollande con il corso rovinoso dei decreti deflazionistici di Pierre Laval nel 1935 durate il Gold Standard, cioè «l’ultima volta che un leader francese pensò di dover cavare sangue dal suo paese per difendere il vezzo di un cambio fisso».E’ la verità brutale, aggiunge Evans-Pritchard: «I socialisti francesi pensavano di non avere nulla da temere dall’ascesa del Fronte Nazionale, un partito che si prepara a sfruttare la furia prorompente dalla “France Profonde”, con l’impegno di ripristinare il controllo sovrano francese su tutto ciò che conta nella nazione, e che ha messo l’euro al primo posto tra i suoi compiti». I socialisti pensavano che il Fn avrebbe tolto voti ai gollisti, dividendo la destra? Errore: Marine Le Pen «sta dilaniando, con lo stesso vigore, anche le loro proprie roccaforti della classe operaia». Hanno sottovalutato la Le Pen, ora quotata al 24%, e sono scivolati al terzo posto, travolti dal “lepenismo di sinistra”, nuovo guardiano del welfare francese. I socialisti «non hanno nessuna risposta» da opporre agli attacchi del Fn sulla “austerità insensata” e “le politiche monetarie folli della Bce”, che continuano a intaccare il nucleo industriale della Francia. La Le Pen ripete che il prgetto dell’euro coincide con la disoccupazione di massa? «E’ tutto vero», dice Evans-Pritchard, ed è per questo che Hollande non sa cosa rispondere a Marine Le Pen.Tutto cominciò con il “referendum rubato”, la fatidica decisione di approvare il Trattato di Lisbona senza farlo votare, dopo che il popolo francese aveva già respinto un testo quasi identico chiamato “Costituzione europea”. «Nella scelta di ignorare la scelta del popolo del maggio 2005 – scrive Evans-Pritchard – i leader francesi hanno anticipato tutto quello che stiamo vedendo ora in Europa», ovvero «le scosse di assestamento di quel terremoto anti-democratico in Europa», per dirla con Coralie Delaume e il suo “Gli Stati Disuniti d’Europa”. «I socialisti dicono che è un oltraggio rifiutare un referendum su Lisbona, ma quando venne il momento di votarlo in parlamento, 142 deputati e senatori si astennero, e 30 votarono a favore del Trattato e diedero al presidente Nicolas Sarkozy la maggioranza dei tre quinti», ricorda Evans-Pritchard. «Le élite pensavano di essersela cavata con le loro prestidigitazioni su Lisbona? Non se l’erano cavata affatto», ma è ormai storia lo squallore del centrosinistra europeo, senza il quale l’oligarchia neoliberista non arebbe mai potuto imporre la crisi, attraverso il progetto neo-feudale chiamato euro.«Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i più inflessibili interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il traguardo più avanzato che la sinistra europea sia stata capace di centrare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.
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Scalfari: Renzi vi ha mentito, ma dovete votare Pd
«Non capisco, ma mi adeguo», avrebbe sentenziato Giorgio Ferrini, nei panni dello stolido militante comunista dell’indimenticato zoo televisivo di Renzo Arbore. Oggi, Eugenio Scalfari offre a Matteo Renzi il più strano degli endorsement: Renzi è praticamente una frana e dice «il contrario della verità», però bisogna votarlo lo stesso. In pratica si tapperà il naso, scrive il fondatore di “Repubblica” a una settimana dal voto europeo, fornendo spiegazioni che lo stesso Ferrini avrebbe probabilmente faticato a decifrare. Niente deve cambiare, dunque, perché lo vuole l’Europa: l’Europa federale, colta e democratica, l’Europa prospera e felice. Su che pianeta vive, attualmente, Eugenio Scalfari? Gli ultimi gossip, risalenti a un anno fa, lo danno per certo ancora a Roma, dove organizzò una cenetta esclusiva – nientemeno che a casa sua – con Giorgio Napolitano, Mario Draghi ed Enrico Letta, allora premier. Ed era lo stesso Scalfari che, nel 1968, rischiò l’arresto per aver rivelato, su “L’Espresso”, il Piano Solo, tentativo di golpe orchestrato dal generale Giovanni De Lorenzo e dalla sua intelligence, il Sifar.«Da molte settimane», scrive Scalfari su “Repubblica” il 18 maggio 2014, «ho criticato il governo Renzi e soprattutto lui medesimo, che accentra nelle sue mani tutto il potere, con una minoranza di sinistra che di fatto si è messa il silenziatore per disturbarlo il meno possibile». Le accuse: «La legge sul lavoro, la rottura con le organizzazioni sindacali, la legge elettorale, la riforma (di fatto l’abolizione) del Senato e la rivalutazione di Berlusconi», che trasforma «un pregiudicato» in un padre della patria. Il giovane Renzi, «lungi dal risolvere uno per ogni mese, a cominciare da subito, i problemi che affliggono il paese da trent’anni», in realtà «non avrebbe potuto fare altro che proseguire il programma già impostato da Monti e poi aggiornato e avviato da Letta», peraltro «già contenuto nella “legge di stabilità” scritta da Letta con la preziosa collaborazione dell’allora ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni e approvata in via definitiva dal Parlamento». In altre parole: il seppellimento definitivo dell’economia italiana, mediante euro-austerity.«In effetti le cose sono andate ed andranno così», aggiunge Scalfari, secondo cui «lo sapevano tutti», compreso Renzi, il quale ora finge di “vendere” agli italiani una magica, impossibile “ripresa”. L’ex sindaco di Firenze? «Ha detto il contrario della verità e il suo partito gli ha creduto. Poi, adesso, la verità è chiara a tutti». Ergo, il 25 maggio è l’occasione giusta per bocciare il bugiardo? Macché. Al contrario: Scalfari si augura che «gli elettori che rappresentano la parte responsabile del paese» votino compatti proprio «per il Pd e quindi per Matteo Renzi», il super-mentitore. Il motivo di questo cortocircuito logico? Il solito, cui si ricorre in questi casi: la Paura del Nemico alle Porte. I barbari euroscettici, Grillo, i no-euro, le forze che non vogliono «veder progredire l’Unione Europea verso uno Stato federale», quello che sognò Altiero Spinelli settant’anni fa, e che fu abortito dalla “democratura” oligarchica di Maastricht, che fa dell’Eurozona di oggi una delle aree meno civili, meno libere e meno democratiche del pianeta. Perché la Germania «allenti le briglie dell’austerity», niente di meglio che un tedesco – Martin Schulz – alla guida della Commissione Europea. Questa l’analisi politica di Eugenio Scalfari, alla vigilia del voto che, per la prima volta, permetterà ai popoli europei – drammaticamente “svegliati” dalla crisi – di ribellarsi a un regime che oggi percepiscono come abusivo, autoritario e sincero quanto Matteo Renzi.«Non capisco, ma mi adeguo», avrebbe sentenziato Giorgio Ferrini, nei panni dello stolido militante comunista dell’indimenticato zoo televisivo di Renzo Arbore. Oggi, Eugenio Scalfari offre a Matteo Renzi il più strano degli endorsement: Renzi è praticamente una frana e dice «il contrario della verità», però bisogna votarlo lo stesso. In pratica si tapperà il naso, scrive il fondatore di “Repubblica” a una settimana dal voto europeo, fornendo spiegazioni che lo stesso Ferrini avrebbe probabilmente faticato a decifrare. Niente deve cambiare, dunque, perché lo vuole l’Europa: l’Europa federale, colta e democratica, l’Europa prospera e felice. Su che pianeta vive, attualmente, Eugenio Scalfari? Gli ultimi gossip, risalenti a un anno fa, lo danno per certo ancora a Roma, dove organizzò una cenetta esclusiva – nientemeno che a casa sua – con Giorgio Napolitano, Mario Draghi ed Enrico Letta, allora premier. Ed era lo stesso Scalfari che, nel 1968, rischiò l’arresto per aver rivelato, su “L’Espresso”, il Piano Solo, tentativo di golpe orchestrato dal generale Giovanni De Lorenzo e dalla sua intelligence, il Sifar.
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Scajola, il ministro che a Genova ordinò di sparare
Claudio Scajola e Gianni De Gennaro condividono il poco lodevole primato d’essere stati responsabili del caso di peggiore gestione dell’ordine pubblico che sia avvenuto in Italia, anzi in Europa, negli ultimi decenni. A Genova durante il G8 del 2001 fu ucciso un cittadino (non accadeva dal ‘77), furono violati numerosi articoli della Costituzione, del codice penale e di quello civile, migliaia di persone uscirono scioccate da un episodio di repressione di massa inimmaginabile. Scajola era all’epoca il ministro dell’interno, De Gennaro il capo della polizia e responsabile operativo dell’ordine pubblico. Nelle torride giornate genovesi rimasero entrambi a Roma: a presidiare il ministero, com’è tradizione, spiegò Scajola, che si fece tuttavia beffare e scavalcare dal collega Gianfranco Fini, all’epoca vicepresidente del Consiglio, protagonista di una famosa, irrituale e ancora misteriosa lunghissima sosta nella centrale operativa dei carabinieri a Genova.Sia Scajola sia De Gennaro riuscirono a mantenere i loro posti nonostante il disastro e l’enorme discredito che colpì il nostro paese sul piano internazionale. Un discredito, quanto ad affidabilità democratica delle forze dell’ordine, tutt’altro che superato, anche per le scelte che furono compiute nell’immediato, quindi sotto la gestione Scajola, che lasciò il ministero un anno dopo il G8 genovese, nel luglio 2002, a causa di una terribile gaffe a proposito di Marco Biagi, il professore ucciso un mese prima dalle Brigate Rosse e da lui definito, davanti ad alcuni giornalisti, «un rompiscatole». Di fronte allo scandalo di tanta indelicata affermazione, il premier Berlusconi si vide costretto ad escludere Scajola dal governo (salvo ripescarlo qualche anno dopo). Fu comunque Scajola a gestire l’immediato dopo-Genova, a compiere e legittimare quelle scelte che sono state il preludio per il disastro successivo, con le clamorose condanne di altissimi dirigenti nel processo Diaz e quelle di decine di agenti e funzionati per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto.Condanne giunte al termine di un durissimo contrasto fra i magistrati inquirenti da un lato, e la polizia di Stato e il ministero dell’interno dall’altro. Fu sotto la gestione Scajola che prese forma questa velenosa e pericolosa contrapposizione. Gianni De Gennaro fu mantenuto al suo posto e si decise di non ammettere pubblicamente le responsabilità dei vertici di polizia nelle innumerevoli violazioni dei diritti umani compiute in particolare alla Diaz e a Bolzaneto. I funzionari finiti sotto inchiesta furono mantenuti al loro posto e ci si limitò a trasferire ad altri ruoli il debole questore di Genova Francesco Colucci (condannato poi in primo e secondo grado per falsa testimonianza nel processo Diaz), il potente ma isolato Arnaldo La Barbera (scomparso nel settembre 2002) e Ansoino Andreassi, il vicecapo della polizia che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e che sarebbe stato in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in tribunale.Gianni De Gennaro e il ministro Scajola, in quelle giornate in cui era in gioco la credibilità democratica del nostro paese, scelsero di ignorare i suggerimenti contenuti nel rapporto stilato a caldo da Pippo Micalizio, il dirigente spedito a Genova dal capo della polizia per una prima indagine interna sull’operazione Diaz, il caso che aveva esposto l’Italia a un moto di indignazione internazionale. Il rapporto Micalizio consigliava la sospensione degli alti dirigenti impegnati nell’operazione (i vari Gratteri, Caldarozzi, Luperi, lo stesso La Barbera); la destituzione di Vincenzo Canterini, capo del reparto mobile che per primo entrò nella scuola; l’introduzione di codici di riconoscimento sulle divise degli agenti. Il rapporto restò chiuso in un cassetto, ma la storia ha dimostrato che Micalizio si comportò con lealtà e obiettività, fornendo buoni consigli: i dirigenti dei quali consigliava la sospensione sono stati processati e condannati in via definitiva e sono attualmente agli arresti domiciliari; la necessità dei codici di riconoscimento, resa evidente dal fatto che tutti i picchiatori della scuola Diaz sono sfuggiti sia alla legge sia a eventuali provvedimenti disciplinari, ha trovato negli anni successivi numerose conferme.Il ministro Scajola porta dunque la responsabilità politica del corso preso dal “dopo Diaz” della polizia: una strada che ha gettato ulteriore discredito sulla polizia di Stato e sulle istituzioni. E dire che il suo mentore Silvio Berlusconi lo aveva salvato, prima del caso Biagi, dagli effetti di un’altra clamorosa gaffe. Nel febbraio 2012, conversando con i giornalisti durante un viaggio in aereo, Scajola era tornato a parlare delle vicende del G8, rivelando di aver dato l’ordine di sparare se sabato 21 luglio, durante la manifestazione conclusiva del Genoa Social Forum, fosse stata violata la zona rossa. Disse testualmente: «Durante il G8, la notte del morto, fui costretto a dare ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa».Era un’affermazione sconcertante e quasi eversiva, specie se si considera che durante le giornate di Genova furono sparati almeno una decina di colpi di pistola, oltre a quelli che costarono la vita a Carlo Giuliani. Un ministro, in un ordinamento democratico, non può ordinare agli agenti di sparare, poiché l’uso legittimo delle armi è disciplinato dalla legge e non dai capricci e o dai desideri di un membro del governo. Scajola, in quel febbraio 2002, diceva il vero, cioè diede davvero quell’indicazione, o la sua affermazione fu una smargiassata frutto di un’incredibile superficialità? Nessuna delle due ipotesi gli è favorevole. Ma ci sarebbe voluto il caso Biagi quattro mesi dopo per allontanarlo, finalmente, dal Viminale.(Lorenzo Guadagnucci, “Scajola e il dopo-Diaz della polizia”, da “Micromega” del 9 maggio 2014. Guadagnucci è un esponente del Comitato Verità e Giustizia per Genova).Claudio Scajola e Gianni De Gennaro condividono il poco lodevole primato d’essere stati responsabili del caso di peggiore gestione dell’ordine pubblico che sia avvenuto in Italia, anzi in Europa, negli ultimi decenni. A Genova durante il G8 del 2001 fu ucciso un cittadino (non accadeva dal ‘77), furono violati numerosi articoli della Costituzione, del codice penale e di quello civile, migliaia di persone uscirono scioccate da un episodio di repressione di massa inimmaginabile. Scajola era all’epoca il ministro dell’interno, De Gennaro il capo della polizia e responsabile operativo dell’ordine pubblico. Nelle torride giornate genovesi rimasero entrambi a Roma: a presidiare il ministero, com’è tradizione, spiegò Scajola, che si fece tuttavia beffare e scavalcare dal collega Gianfranco Fini, all’epoca vicepresidente del Consiglio, protagonista di una famosa, irrituale e ancora misteriosa lunghissima sosta nella centrale operativa dei carabinieri a Genova.
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Barnard: Ttip, ricatto finale. Ora siamo davvero finiti
Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».Barnard, il primo in Italia a segnalare in televisione gli abusi della mondializzazione selvaggia con servizi come “I globalizzatori” trasmessi da “Report”, oggi parla di «un orribile risveglio, che suona così: noi non molliamo mai, noi siamo infermabili, non sentiamo fatica, coscienza, rimorso, pietà, e alla fine vinciamo sempre. Firmato: il Vero Potere». La «nuova offensiva» chiamata Transatlantic Trade and Investment Partnership o Trattato Transaltantico «è micidiale, potenzialmente devastante come mai prima per l’esistenza stessa di democrazia e interesse pubblico». Nel 1999, all’epoca delle primissime denunce sui pericoli della globalizzazione, «intesa proprio come sistema di accordi segreti e potentissimi creato da una élite di capitalisti per ricacciare indietro decenni di progressi democratici a favore del pubblico, nelle aree dei commerci, della finanza e dei servizi», il “mostro” si muoveva, mastodontico, nella stanze di Ginevra del Wto.In pratica, il Trattato di Marrakech del Wto «stabiliva regole di potere superiore alle leggi degli Stati aderenti che, ad esempio, avrebbero potuto limitare qualsiasi intervento della politica in campo economico e finanziario se esso avesse rappresentato una barriera al Libero Commercio, al Libero Profitto, ai diritti delle Corporations». Ad esempio: «Se una multinazionale americana riteneva che le leggi italiane le impedissero di vendere in Italia un suo prodotto contenente una plastica per noi tossica, poteva chiedere al governo Usa di denunciare Roma al tribunale del Wto, per ottenere l’abolizione della legge italiana», ritenuta “una barriera” al libero sviluppo del loro business. Stessa storia in caso di gare d’appalto per un servizio pubblico: «Qualsiasi mega-corporation mondiale dei servizi poteva reclamare lo stesso diritto a partecipare di un’azienda locale, quando magari il Comune avrebbe preferito dar lavoro e reddito a italiani locali».Col Trattato di Marrakech, sovranazionale e quindi sovrastante le leggi dei singoli Stati, «l’ignorante politica del mondo occidentale aveva firmato e ratificato regole micidiali tutte a favore delle mega-corporations e tutte a sfavore di qualsiasi intervento politico nazionale o anche locale per proteggere i lavoratori, le famiglie, le aziende nazionali, le cooperative, i Comuni», ricorda Barnard. «L’Italia ratificò Marrakech con un solo politico – uno solo! – che l’avesse letto, fra Camera e Senato». Segretamente, cioè «sotto il naso disattento di milioni di cittadini», questo sistema «ha fatto danni immensi alle economie nazionali ma soprattutto ai distretti piccolo-medi industriali italiani che ci fecero ricchi dopo la II guerra mondiale, con valanghe di fallimenti e licenziati a cascata», dice Barnard. «Danni anche ai diritti dei cittadini alla tutela della salute, per non parlare dell’orrore inflitto al Terzo Mondo». C’era però ancora una clausola: la multinazione di turno avrebbe dovuto chiedere al governo Usa di fare causa al governo italiano presso il tribunale del Wto, non poteva agire direttamente. Ora, l’ostacolo è stato superato. Le multinazionali avranno pieni poteri: il loro imperio sovrasterà la sovranità democratica degli Stati.Obiettivo dichiarato: “armonizzare” le regole del commercio e della finanza fra Usa e Ue, liberalizzando gli scambi ed eliminando le barriere all’interno dell’area di libero scambio Usa-Ue, dove avviene «almeno un terzo degli scambi globali». Dalle stime della stessa Commissione Europea, aggiunge Barnard, si deduce che alle promesse del Ttip non crede neppure Bruxelles: secondo il commissario europeo al commercio, Karel de Gught, l’impatto dell’accordo sul Pil europeo è di appena lo 0,01%. Già il “meno peggio” del Ttip, per Barnard, è «una tragica porcheria», in tre atti. Primo: «In Europa verranno imposte le miserrime regole di protezione dell’ambiente e dei consumatori degli Usa, e in America verrà imposta la miserrima regolamentazione della finanza che abbiamo noi europei. Quindi una gara al ribasso ovunque». Secondo: Il Ttip propone la totale liberalizzazione del settore dei servizi pubblici – sanità, asili e scuole, assistenza anziani, trasporti, acqua potabile. Terzo: fine di quel che resta dei diritti sindacali europei.Risultato: «I lavoratori italiani, che già oggi con la bastardata dell’euro devono vedersela con una deflazione dei redditi da incubo, domani saranno anche in gara a tagliarsi i diritti del lavoro per competere con i lavoratori Usa, dove licenziare è più facile che fare un peto. Tutto questo – sottolinea Barnard – per il solito infame motivo che dipendiamo tutti dagli “investitori” per avere economia, e gli “investitori” investono quasi sempre dove i diritti sono minori». Tutto questo ci prepara (si fa per dire) al “peggio” del Ttip, ovvero: le mega-aziende denunciano direttamente gli Stati, e lo fanno presso tribuinali speciali, fuori dalla giurisdizione nazionale. «Significa che abbiamo centinaia di multinazionali che possono aggredire con cause costosissime il nostro paese (gli studi legali per questo tipo di affari prendono parcelle da 3.000 euro al giorno per ciascun avvocato e sono in media una quindicina, per tempi biblici, e moltiplicateli per una pioggia di cause infinita) senza limiti di sorta, imponendoci spese di Stato rovinose, e di fronte alle quali un governo finisce quasi sempre per cedere e cambiare la legislazione d’interesse pubblico».Il ricatto è micidiale, insiste Barnard, perché «con il dogma economico neoclassico (vedi Eurozona) non è più lo Stato che può intervenire con la sua spesa a dar lavoro, reddito e protezione a cittadini e aziende: oggi quel “pane” a tutti ce lo danno i “mercati”, cioè quelle corporations di beni e finanza». Per cui, ecco la minaccia: «Se perdono le cause ritireranno gli investimenti (il pane) dalle nostre tavole nazionali e noi siamo fottuti». Per Barnard, «già a questo stadio un governo finisce per cedere, ma c’è di peggio». E cioè: nei futuri tribunali internazionali, per gli Stati europei sarà praticamente impossibile difendersi. «In tutti gli aspetti del vivere – governati, o anche solo lambiti dai commerci di beni e servizi – il Ttip può divenire letale per famiglie, cittadini, piccole medie aziende, democrazia e Stato stesso. Ancora un’altra mazzata catastrofica all’idea di Mondo Migliore che tanti di noi sognavano o sognano per i propri bambini. Noi che sappiamo queste cose, noi che capiamo cosa fa e come si comporta il Vero Potere, noi che Renzi, i tagli Irpef, le europee, Grillo, Confindustria e i sindacati sappiamo essere fuffa, zero, nulla in grado di proteggerci da nulla. Good luck».Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».
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Figlio mio in carcere, la barbarie contro chi osa dire no
Carissimo figlio, perdonami se rendo pubblica questa lettera, ma ciò che ci accade non appartiene solo a noi. Tra pochi giorni sono cinque mesi che sei chiuso in carcere. Tanta vita rubata. Sono 150 lunghi giorni, e 150 lunghe notti di angoscia. Ti chiedo sempre di tenere duro, ma sono io che non ho più la forza. L’amarezza a tratti mi sommerge, lo sdegno mi ferma il respiro. Mi sveglio di soprassalto ogni notte, e nel silenzio mi sembra di poterti raggiungere, nell’isolamento atroce in cui ti costringono. L’idea di vivere in un paese che permette che questo accada mi ripugna. Sono oscene, queste maschere del potere, interessate solo alle loro poltrone e ai loro portafogli. La corruzione in Italia è spaventosa, la politica ha perso qualsiasi ideale di giustizia e di uguaglianza, e per voi giovani non c’è nulla: il vostro futuro è stato depredato da chi oggi vi giudica. Né lavoro, né aria che si possa respirare, né terra pulita. E né libertà: dovete tacere, dovete subire, altrimenti essere incarcerati.Carissimo Mattia, perché ti abbiamo insegnato il dovere di dissentire, di ribellarti davanti alle ingiustizie? Perché ti abbiamo trasmesso l’amore per l’umanità e per la terra? Non era meglio lasciarti crescere cullato dall’edificante cultura offerta dal nostro paese negli ultimi vent’anni? Sono certa che risponderai di no, che preferisci mille volte essere chi sei – e dove sei – piuttosto che adeguarti a questo spettacolo raccapricciante, offerto da chi esercita l’abuso di potere applaudendo gli assassini di Altrovaldi, rispondendo con i manganelli e la prigione ai movimenti popolari che nascono dalle necessità reali della gente, ignorate da chi dovrebbe cercare e trovare delle risposte.Carissimo figlio, sabato 10 saremo – siamo – tutti qui alla manifestazione contro la barbarie dell’accusa di terrorismo, contro la devastazione della val di Susa, per la libertà di dissenso, per il diritto degli italiani a un’esistenza dignitosa. Ci siamo tutti, e siamo tanti. Manifestiamo tutto l’amore che proviamo per te, ma anche per Claudio, Chiara, Nicolò e tutti gli indagati del movimento No-Tav. E la promessa è di non smettere mai di lottare fino a quando non vi riporteremo a casa. Un abbraccio. Mamma.(Testo della lettera che la madre di Mattia Zanotti ha indirizzato al figlio in carcere e letto pubblicamente di fronte alle migliaia di militanti No-Tav accorsi a Torino il 10 maggio 2014 per protestare contro l’arresto di Mattia, detenuto in un carcere di massima sicurezza dal 9 dicembre 2013. Mattia è stato arrestato insieme a Claudio Alberto, Chiara Zenobi e Niccolò Blasi: contro i quattro giovani è stata formulata l’accusa di attentato con finalità terroristiche per aver partecipato, il 13 maggio 2013, a un assalto notturno al cantiere Tav di Chiomonte, con lancio di molotov e petardi. Nel blitz, conclusosi senza neppure un ferito, andò a fuoco un piccolo macchinario di cantiere, un compressore).Carissimo figlio, perdonami se rendo pubblica questa lettera, ma ciò che ci accade non appartiene solo a noi. Tra pochi giorni sono cinque mesi che sei chiuso in carcere. Tanta vita rubata. Sono 150 lunghi giorni, e 150 lunghe notti di angoscia. Ti chiedo sempre di tenere duro, ma sono io che non ho più la forza. L’amarezza a tratti mi sommerge, lo sdegno mi ferma il respiro. Mi sveglio di soprassalto ogni notte, e nel silenzio mi sembra di poterti raggiungere, nell’isolamento atroce in cui ti costringono. L’idea di vivere in un paese che permette che questo accada mi ripugna. Sono oscene, queste maschere del potere, interessate solo alle loro poltrone e ai loro portafogli. La corruzione in Italia è spaventosa, la politica ha perso qualsiasi ideale di giustizia e di uguaglianza, e per voi giovani non c’è nulla: il vostro futuro è stato depredato da chi oggi vi giudica. Né lavoro, né aria che si possa respirare, né terra pulita. E né libertà: dovete tacere, dovete subire, altrimenti essere incarcerati.
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I miliardari del futuro digitale e le nostre vite virtuali
Nel film “Her”, che ha appena vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale e che si svolge in un futuro prossimo, il personaggio principale, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) acquista un sistema operativo che funziona come un assistente totale, che si piega intuitivamente a qualsiasi esigenza o richiesta dell’utente. Theodore sceglie la voce femminile e con il suo smartphone passa le ore a chiacchierare con lei, finché non se ne innamora. La metafora è evidente e sottolinea la nostra sempre maggiore dipendenza dal mondo digitale, e la nostra immersione sempre più profonda in un universo smaterializzato. Ma se citiamo questo film non è solo per la sua moralità, ma perché i suoi personaggi vivono, come faremo domani, in un ambiente comunicativo ancora più iperconnesso. Con un’alta densità di tablet, smartphone, videogiochi di ultima generazione, schermi televisivi giganti e computer dialoganti attivati con la voce…La richiesta di dati e video ha raggiunto davvero livelli astronomici. Questo perché gli utenti sono sempre più agganciati nelle reti sociali. Facebook, ad esempio, ha già più di 1.300 milioni di utenti attivi in tutto il mondo, YouTube circa un miliardo, Twitter 750 milioni, WhatsApp 450 milioni. In tutto il mondo, gli utenti non sono più soddisfatti da un unico mezzo di comunicazione e reclamano il “quadruple play”, ossia l’accesso a Internet, Tv digitale, telefono fisso e mobile. E per soddisfare questa domanda insaziabile ci vogliono connessioni (di banda ultralarga) capaci di fornire l’enorme flusso di informazioni, espresse in centinaia di megabit al secondo. E qui sorge il problema. Dal punto di vista tecnico, le reti Adsl attuali – quelle che ci permettono di ricevere Internet in banda larga sui nostri smartphone – sono quasi già sature. Cosa fare? L’unica soluzione è passare attraverso il cavo, coassiale o in fibra ottica. Questa tecnologia assicura una qualità ottimale nella trasmissione dati e video a banda ultralarga, quasi senza limiti di portata.Era popolare nel 1980, ma fu accantonata perché richiede grandi opere costose (bisogna scavare e mettere sottoterra i cavi e portarli alla base degli edifici). Solo pochi operatori via cavo hanno continuato a investire sulla sua affidabilità e hanno pazientemente costruito una fitta rete cablata. La maggior parte degli altri preferivano la tecnologia Adsl, più economica (è sufficiente installare una rete di antenne) ma, come abbiamo detto, è quasi saturata. Pertanto, in questo momento, il movimento generale delle grandi società di telecomunicazioni (e degli speculatori dei fondi di capitale) è quello di cercare a tutti i costi la fusione con gli operatori via cavo le cui “vecchie” reti in fibra rappresentano, paradossalmente, il futuro delle autostrade della comunicazione.Questo contesto tecnologico e commerciale spiega la recente acquisizione, in Spagna, di Ono, il più grande operatore via cavo locale da parte della britannica Vodafone in cambio di 7,2 miliardi di euro. Quarto operatore spagnolo, Ono ha 1,1 milioni di linee mobili e 1,5 milioni di linee fisse, ma ciò che gli dà valore è la sua vasta rete cablata che raggiunge 7,2 milioni di famiglie. La quota del 60% in Ono era nelle mani dei fondi azionari internazionali che già sapevano, per le ragioni appena illustrate, che i giganti della telecomunicazione vogliono acquistare, a qualsiasi prezzo, agli operatori via cavo. Ovunque, i fondi-avvoltoio stanno comprando gli operatori via cavo indipendenti per poter ottenere guadagni significativi da rivendere a un qualche compratore dell’industria. Per esempio, in Spagna, i tre operatori via cavo regionali, Euskaltel, Telecable e R – sono stati oggetto di acquisti speculativi. Nel 2011 il fondo di private equity statunitense Carlyle Group ha acquistato l’85% dell’operatore asturiano via cavo Telecable.Nel 2012 il fondo italiano Investindustrial e quello americano Trilantic Capital Parners hanno rilevato il 48% dell’operatore basco Euskaltel. E il mese scorso il fondo britannico Cvc Capital Partners ha acquisito il 30% che gli mancava dell’operatore galiziano R, che controlla nella sua totalità. A volte le fusioni sono realizzate in senso inverso: è l’operatore via cavo che acquista una società di telecomunicazioni. È appena accaduto in Francia, dove l’azienda di cavi Numericable (cinque milioni di famiglie o aziende collegate) sta cercando di acquistare, per quasi 12 miliardi di euro, il terzo operatore di telefonia mobile francese, Sfr, proprietario di una rete di 57.000 chilometri di fibra ottica. Altre volte sono due cablo-operatori che decidono di fondersi. Sta succedendo in America, dove i due maggiori operatori via cavo, Comcast e Time Warner Cable (Twc), hanno deciso di unirsi. Insieme, questi due titani hanno oltre 30 milioni di abbonati, a cui procurano servizi di Internet a banda larga e di telefonia fissa e mobile.Le due aziende, ora socie, controllano anche un terzo della pay-tv. La loro mega-fusione verrebbe praticata sotto forma di un acquisto di Twc da parte di Comcast per la somma colossale di 45 miliardi di dollari (36 miliardi di euro). Il risultato sarà un mastodonte mediatico con un fatturato stimato in circa 87 miliardi di dollari (67 miliardi di euro). Una somma astronomica, come quella degli altri giganti di Internet, in particolare se confrontata con quella di alcuni gruppi mediatici di stampa scritta. Ad esempio, il fatturato del gruppo Prisa, il primo gruppo di comunicazione spagnolo, editore del quotidiano “El País” con una forte presenza in America Latina, è inferiore ai 3 miliardi di euro. Il “New York Times” fattura meno di 2 miliardi di euro. Il gruppo “Le Monde” non supera i 380 milioni di euro, e il “Guardian” neppure 250.In termini di solidità finanziaria, rispetto ai colossi delle telecomunicazioni, la stampa (anche con i siti web) pesa poco. E ogni volta meno. Ma rimane un fattore indispensabile di informazione e di denuncia. Particolarmente sugli abusi dei nuovi giganti delle telecomunicazioni quando spiano le nostre comunicazioni. Grazie alle rivelazioni di Edward Snowden e Glenn Greenwald, pubblicate dal quotidiano britannico “The Guardian”, abbiamo appreso che la maggior parte dei giganti di Internet erano – e sono tuttora – complici della National Security Agency (Nsa) per la realizzazione del suo programma illegale di spionaggio massivo delle comunicazioni e dell’utilizzo dei social network. Non siamo innocenti. Schiavi volontari, e pur sapendo di essere osservati, continuiamo ad alterarci con la droga digitale. Senza preoccuparci di quanto cresce la nostra dipendenza, consegnamo sempre più la sorveglianza delle nostre vite ai nuovi padroni della comunicazione. Continueremo così? Possiamo consentire di essere tutti sotto controllo?(Ignacio Ramonet, “Tutti sotto controllo”, intervento pubblicato da “Le Monde Diplomatique”, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 4 aprile 2014).Nel film “Her”, che ha appena vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale e che si svolge in un futuro prossimo, il personaggio principale, Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) acquista un sistema operativo che funziona come un assistente totale, che si piega intuitivamente a qualsiasi esigenza o richiesta dell’utente. Theodore sceglie la voce femminile e con il suo smartphone passa le ore a chiacchierare con lei, finché non se ne innamora. La metafora è evidente e sottolinea la nostra sempre maggiore dipendenza dal mondo digitale, e la nostra immersione sempre più profonda in un universo smaterializzato. Ma se citiamo questo film non è solo per la sua moralità, ma perché i suoi personaggi vivono, come faremo domani, in un ambiente comunicativo ancora più iperconnesso. Con un’alta densità di tablet, smartphone, videogiochi di ultima generazione, schermi televisivi giganti e computer dialoganti attivati con la voce…
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Lo Stato Carogna: via i giudici più temuti da Totò Riina
Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.La norma demenziale è contenuta nell’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella del 2007, che appiccica ai pool specializzati delle procure (mafia, reati fiscali e finanziari, ambientali, contro la pubblica amministrazione, contro le donne e i minori, ecc.) un bollino di scadenza come agli yogurt: appena raggiungono 10 anni di esperienza, cioè diventano davvero capaci ed esperti su una materia, devono smettere e occuparsi d’altro. Una mossa geniale: come se un’azienda, dopo aver impiegato tempo e risorse per formare un dirigente, lo spedisse a fare altre cose perché è diventato troppo bravo. Vale sempre il detto di Amurri e Verde: «La criminalità è organizzata e noi no». Se la legge fosse stata già in vigore nel 1992, Cosa Nostra avrebbe potuto risparmiare sul tritolo evitando le stragi di Capaci e via D’Amelio, visto che quando furono uccisi Falcone e Borsellino indagavano sulla mafia da ben più di due lustri.Negli anni scorsi il bollino di scadenza ha falcidiato i pool antimafia di Palermo, Bari e Napoli, quello torinese creato da Raffaele Guariniello sulla sicurezza, la salute e l’ambiente (processi Thyssen, Eternit, doping…), quello milanese coordinato da Francesco Greco sui crimini economici (Parmalat, scalate bancarie, Enel, Eni, San Raffaele, grandi evasori). Per non disperdere enormi bagagli di esperienza e memoria storica, i procuratori capi tentavano di limitare i danni “applicando” i pm scaduti a singole indagini. Ora, con la circolare del Csm, cala la mannaia anche su quella possibilità. Col risultato che una materia delicata e intricata come la trattativa, che richiede conoscenze ed esperienze approfondite, sarà affidata a pm che mai se ne sono occupati, privi dunque di qualunque nozione sul tema e magari ammaestrati da tutti gli attacchi (mafiosi e istituzionali) subìti dai colleghi che hanno osato scoperchiarla.Il fatto che Di Matteo sia il nemico pubblico numero uno tanto di Riina quanto del Quirinale non lascerà insensibile chi dovrà raccoglierne l’eredità. Magari toccherà a qualcuno dei neomagistrati che Napolitano ha arringato l’altroieri col solito fervorino alla «pacatezza», al «rispetto», addirittura all’«equidistanza» (testuale), contro il «protagonismo» e gli «arroccamenti», per «chiudere i due decenni di scontro permanente» e «tensione» (fra guardie e ladri, fra onesti e mafiosi). Non contento, il presidente più incensato e leccato del mondo (dopo Mugabe) ha poi evocato fantomatiche «aggressioni faziose» ai suoi danni, che il “Corriere” – sempre ispirato – attribuisce proprio a Di Matteo&C. per «intercettazioni illegali nell’inchiesta sulla trattativa». Naturalmente le intercettazioni erano perfettamente legali, disposte da un giudice sui telefoni dell’indagato Mancino che parlava con il Quirinale. Ma anche questa ignobile calunnia sortirà prima o poi l’effetto sperato. Nessuno s’azzarderà mai più a intercettare un indagato per la trattativa: potrebbe parlare con il capo dello Stato.(Marco Travaglio, “Lo Stato Carogna”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.