Archivio del Tag ‘aggressione’
-
Benvenuti nel Grande Caos, quello che ci farà a pezzi
I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.L’ovest appare pacifico solo perchè confina con l’Atlantico, un oceano che divide l’Europa dagli Stati Uniti, ovvero la sponda da cui arrivano le spinte più forti a coinvolgere l’Europa verso il “clash”. La linea intrapresa dai governi dell’Unione Europea sulla crisi e il conflitto in Ucraina è emblematica. Gli Usa spingono i paesi europei verso il conflitto con il più grande e armato di essi: la Russia. Il prossimo vertice Nato a Newport appare foriero di pessime decisioni che accentueranno e non depotenziaranno i pericoli di guerra sulla frontiera est. Resistenze e dubbi, se ancora esistono, abitano menti silenziose. Ma a sud non va meglio. La destabilizzazione creativa (una categoria rassicurante per descrivere le guerre asimmetriche di aggressione scatenate dal 2001 a oggi), ha creato una fascia di instabilità belligerante nella vicina Libia e in Iraq, Siria, Palestina ed Egitto dove, tra Gaza e Sinai, la normalizzazione militare imposta dal generale Al Sisi – diventato beniamino delle cancellerie occidentali – riesce a malapena a comprimere il fuoco sotto le braci.Insomma, la sponda sud dell’Europa è l’area di instabilità e guerra più infuocata del globo. Oggi appare evidente come nessuna delle potenze in campo abbia chiaro quali siano le prospettive, se non quella di ripetuti bagni di sangue e instabilità da gestire a distanza, attraverso la logica del bombardamento con i droni quando gli effetti rischiano di tracimare, mettendo in discussione parametri vitali come le forniture energetiche, idriche, o gli equilibri geopolitici. I ripetuti cambi di campo e di alleanze appaiono molto più che inevitabili cinismi della governance. Il doppio e triplo gioco di Stati Uniti e potenze europee ha entusiasmato e coinvolto anche altri soggetti, come le petromonarchie del Golfo o la Turchia, che usano gli ingenti introiti che vengono dalle rendite petroliferi o dalle royalties sui diritti di passaggio per finanziare milizie in guerra tra loro. Una disamina delle ingerenze di petromonarchie come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi, dalla Bosnia del ‘93 passando per la Cecenia, l’Afghanistan fino a Libia, Iraq, Libano, Siria, Palestina e Sudan, ci consegna uno scenario di guerra di tutti contro tutti e una brusca rimessa in discussione dei confini coloniali definiti dalle potenze europee alla fine della Prima Guerra Mondiale.In realtà questo assetto era già stato sconvlto dall’entrata in campo degli Stati Uniti in Medio Oriente, fin dal colpo di Stato del 1953 contro Mossadeq in Iran e poi lo stop imposto a Francia e Gran Bretagna nel 1956 a Suez. Da quel momento, il Medio Oriente è diventato terreno di caccia privilegiato di Washington; un’enclave in cui le potenze europee, Italia inclusa, potevano al massimo ritagliarsi interstizi per i propri limitati interessi (vedi la Libia). Ma gli ultimi anni, quelli in cui gli Stati Uniti hanno visualizzato e cercato di contrastare con ogni mezzo il proprio lento declino, hanno assestato un nuovo scossone all’assetto precedente. Via l’Iraq di Saddam, la Libia di Gheddafi, la Siria di Assad, ma anche la Palestina dell’Olp; sostituendoli con il caos e la balcanizzazione, abolendo gli Stati. Senza mai dimenticarsi la disintegrazione della Jugoslavia e della ex Urss. Altri territori “vergini” che hanno visto nascere a est di Berlino ben 30 Stati dove prima ve ne erano otto; e solo la metà di questi hanno più di dieci milioni di abitanti. Staterelli, dunque, poco più che “granducati”. Facili da piegare, minacciare, ricattare, eventualmente cancellare o sovvertire.Fino a un certo punto.Ecco, è questo “certo punto” che indica la soglia di crisi che si va raggiungendo. E non solo perchè oggi la Russia di Putin punta i piedi nel proprio “cortile di casa”, ma perchè somiglia, assai più che l’Urss, ai suoi competitori; e perchè tra i paesi a capitalismo di Stato (usiamo una forzatura per semplificare una realtà complessa come i Brics) e quelli a capitalismo mercantilista che caratterizzano Stati Uniti ed Unione Europea (cioè potenze più compiutamente imperialiste), non ci sono più i margini per spartirsi in modo concertato come in passato il mondo. Dunque se la concertazione e le camere di compensazione – per quanto asimmetriche, rispetto al Washington Consensus – non hanno più la materia per realizzarsi, il mondo diventa oggetto di competizione. E la competizione avviene con ogni mezzo. Il caos e l’instabilità nel cortile di casa degli altri possibili competitori diventano la condizione preliminare e necessaria, anche se mai sufficiente. Che tutto questo abbia un costo umano sempre più alto non pare essere un problema. Un capitalismo in crisi distrugge i capitali in eccesso, è noto. E per un sistema che punta solo alle risorse, alla sopravvivenza competitiva, anche il “capitale umano” – definito anche e non a caso “capitale variabile” – può diventare un eccesso da dover distruggere.(Sergio Cararo, “Il caos che sfugge di mano”, da “Contropiano” del 27 agosto 2014).I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.
-
Pilger: è tutto falso e disumano, ma chi se n’è accorto?
Geopolitica, massacri e guerre promosse dall’Occidente? «Si è realizzato nel modo più soffice il totalitarismo orwelliano, dietro l’illusione dell’“era dell’informazione” e del multiculturalismo». S’impone un’unica visione del mondo, e nessuno protesta: «Figure capaci di esprimere efficacemente un’alternativa radicale» mancano del tutto, oppure «sono sommerse dal frastuono» del mainstream, rileva John Pilger. A teatro, un’opera profetica come “1984” di Orwell viene liquidata come «un pezzo storico: remoto, innocuo, quasi rassicurante». Dunque, «come se Snowden non avesse rivelato niente, se il Grande Fratello non fosse ora una spia digitale, se lo stesso Orwell non avesse mai detto: “Per essere corrotti dal totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario”». Mentre le società avanzate vengono de-politicizzate, i cambiamenti sono sottili e spettacolari. «Nei discorsi di tutti i giorni il linguaggio politico viene capovolto, come profetizzato in “1984”».Lessico reinterpretato: la parola “democrazia” è ormai «una figura retorica», la pace è diventata «guerra perpetua», “globale” significa «imperiale». E il concetto di “riforma”, «un tempo foriero di speranze», nella neo-lingua del 2014 «significa aggressione, perfino distruzione», più o meno come “austerità”, che è «l’imposizione del capitalismo estremo ai poveri e il dono del socialismo ai ricchi: un sistema ingegnoso in cui la maggioranza paga il debito dei pochi». Nelle arti, scrive Pilger in un post ripreso da “Controinformazione”, l’ostilità verso la verità politica è un articolo di fede borghese, come dimostra l’“Observer” che se la prende col “periodo rosso” di Picasso. Suona strano, detto da «un giornale che ha promosso il bagno di sangue in Iraq presentandolo come una crociata liberale». Sicché, «l’opposizione di Picasso al fascismo durante tutta la sua vita è una nota a margine, così come il radicalismo di Orwell». Terry Eagleton, già professore di letteratura inglese all’università di Manchester, considerava che «per la prima volta negli ultimi 200 anni non c’è un eminente poeta, drammaturgo o romanziere britannico pronto a mettere in questione le fondamenta del modo di vita occidentale».Nessuna Mary Shelley che parli dei poveri, nessun William Blake che sforni sogni utopici, nessun Byron che condanni la corruzione della classe dominante, né un Thomas Carlyle o un John Ruskin che rivelino «il disastro morale del capitalismo». William Morris, Oscar Wilde e George Bernard Shaw «non hanno equivalenti al giorno d’oggi». Per Pilger, Harold Pinter fu l’ultimo a far sentire la sua voce. Non c’è più nessuna Virginia Woolf, che descrisse «l’arte di dominare altre persone, di governare, uccidere, acquisire terre e capitali». Sempre a teatro, lo spettacolo “Gran Bretagna” fa satira sullo scandalo delle intercettazioni telefoniche che ha visto alcuni giornalisti processati e condannati, compreso un ex redattore di “News of the World” di Rupert Murdoch. Descritto come «una farsa mordente che inchioda l’intera cultura dei media incestuosi e la ridicolizza senza pietà», ha come bersagli i «beatamente divertenti» personaggi della stampa scandalistica britannica. Ok, ma che dire dei media non scandalistici, «che si considerano rispettabili e credibili e invece svolgono il ruolo parallelo di braccio dello Stato e del potere aziendale, come nella promozione di guerre illegali?».L’inchiesta sulle intercettazioni telefoniche ha fornito uno scorcio su questo argomento tabù: Tony Blair si stava lamentando delle molestie dei tabloid su sua moglie, quando il regista David Lawley-Wakelin chiese che lo stesso Blair fosse arrestato e perseguito per crimini di guerra. «Ci fu una lunga pausa: lo shock della verità». Secondo copione, fu ordinato di cacciare «colui che diceva la verità», con mille scuse al «criminale di guerra». I complici di lunga data di Blair sono più rispettabili di chi intercetta le telefonate, scrive Pilger. Quando la presentatrice artistica della Bbc, Kirsty Wark, lo intervistò riguardo al decennale della sua invasione dell’Iraq, gli regalò un momento che poteva solo sognare: gli permise di angosciarsi della sua «difficile» decisione presa sull’Iraq, «anziché chiamarlo a rispondere del suo crimine epico». Nel nel 2003, la Bbc dichiarò che Blair poteva sentirsi «discolpato», e programmò l’influente serie televisiva “Gli anni di Blair”, per la quale David Aaronovitch fu scelto come scrittore, presentatore e intervistatore. «Quale valletto di Murdoch che aveva promosso gli attacchi militari in Iraq, Libia e Siria, Aaronovitch adulò da esperto». L’accusatore del Processo di Norimberga, Robert Jackson, definì l’invasione dell’Iraq «il crimine internazionale supremo»? Niente paura: «A Blair e al suo portavoce e complice principale, Alastair Campbell, è stato concesso ampio spazio sul “Guardian” per riabilitare la loro reputazione», anche se Blair manovra tuttora in Medio Oriente e lo stesso Campbell è consulente della dittatura militare egiziana.Mentre l’Iraq viene smembrato in conseguenza dell’invasione di Blair e Bush, il “Guardian” titola: “Rovesciare Saddam era giusto, ma ce ne siamo andati troppo presto”. Autore del pezzo: un ex funzionario di Blair, John McTernan, che aveva lavorato anche per il dittatore Iyad Allawi, installato dalla Cia. «Invocando una seconda invasione del paese che il suo ex padrone aveva contribuito a distruggere, non menzionava la morte di almeno 700.000 persone, la fuga di 4 milioni di rifugiati e i conflitti settari in una nazione un tempo fiera della sua tolleranza comunitaria». Per “bilanciare” politicamente il profilo del “Guardian”, Seumas Milne scrisse: «Blair rappresenta la corruzione e la guerra». Peccato che il giorno successivo lo stesso giornale abbia pubblicato a tutta pagina un maxi-annuncio sul caccia stealth F-35, prodotto dalla Lockeed Martin – la stessa azienda, ricorda Pilger, che fabbrica le bombe “di precisione” da 250 chili sganciate sulla popolazione civile in Afghanistan.A un’altra star del mainstream politico, Hillary Clinton, aspirante presidente degli Stati Uniti, il programma “Women’s Hour” della Bbc ha concesso di presentarsi come «un’icona di successo femminile», evitando accuratamente di interrogarla sulla «campagna di terrore della sua amministrazione che usava droni per uccidere donne, uomini e bambini». In effetti, ironizza Pilger, la conduttrice Jenni Murray una «domanda scottante» l’ha posta: la Clinton aveva perdonato Monica Lewinsky per aver avuto una storia con suo marito? Proprio lui, Bill Clinton, che all’epoca del sexgate «stava invadendo Haiti e bombardando i Balcani, l’Africa e l’Iraq». Per inciso, «stava anche distruggendo le vite di bambini iracheni: l’Unicef riportò la morte di mezzo milione di bimbi iracheni al di sotto dei 5 anni, in conseguenza di un embargo guidato da Usa e Gran Bretagna». Tutto normale: «I bambini per i media non erano persone, così come le vittime di Hillary Clinton nelle invasioni che ha supportato e promosso: Afghanistan, Iraq, Yemen, Somalia».In politica, così come nel giornalismo e nelle arti, sembra che il dissenso un tempo tollerato nei media “mainstream” sia regredito a dissidenza, osserva Pilger: negli anni ‘60, era perfettamente accettabile criticare il potere occidentale. Basta leggere i celebri resoconti di James Cameron sull’esplosione della bomba H nell’atollo di Bikini, la guerra barbarica in Corea e il bombardamento americano del Vietnam del Nord. «La grandiosa illusione di oggi è di essere in un’era dell’informazione mentre, in verità, viviamo in un’era dei media in cui l’incessante propaganda delle multinazionali mediatiche è insidiosa, contagiosa, efficace e liberal». Nel suo saggio del 1859, “Sulla libertà”, a cui i moderni liberali porgono omaggio, John Stuart Mill scrisse: «Il dispotismo è una forma di governo legittima nel trattare con i barbari, purché il fine sia il loro miglioramento e i mezzi siano giustificati dall’effettivo ottenere quel fine».I “barbari” erano vaste porzioni di umanità da cui era richiesta “obbedienza implicita”. «E’ un mito simpatico e conveniente che i liberali siano pacifisti e i conservatori guerrafondai», scrisse lo storico Hywel Williams nel 2001. Forse aveva in mente un discorso di Blair in cui l’allora primo ministro prometteva di «riordinare il mondo intorno a noi» secondo i suoi «valori morali». Richard Falk, rispettata autorità in campo di diritto internazionale e inviato speciale Onu in Palestina, una volta ha parlato di «uno scudo legale-morale autoreferenziale e unilaterale, con immagini positive di valori occidentali e di innocenza presentata in pericolo, che giustifica una campagna di sfrenata violenza politica, così largamente accettata da essere praticamente incontrastabile». Su Bbc Radio 4, Razia Iqbal ha intervistato Toni Morrison, la premio Nobel afro-americana: la Morrison si chiedeva come mai la gente fosse «così arrabbiata» con Barack Obama, che era «figo» e desiderava costruire «una forte economia e sanità». Aggiunge Pilger: «La Morrison era fiera di aver parlato al telefono con il suo eroe, che aveva letto uno dei suoi libri e l’aveva invitata alla sua inaugurazione».Né lei né la sua intervistatrice, scrive Pilger, hanno menzionato le 7 guerre di Obama, compresa la sua campagna del terrore con i droni, nella quale sono state assassinate intere famiglie, i loro soccorritori e chi li piangeva. «Quello che sembrava importare era che una uomo di colore “che parlava in modo raffinato” fosse salito ai livelli massimi di potere». In “The Wretched of the Earth” (Gli abietti della Terra) Frantz Fanon scrisse che la «missione storica» dei colonizzati era di fungere da «cinghia di trasmissione» per coloro che governavano e opprimevano. «Ai nostri giorni – aggiunge Pilger – l’impiego delle differenze etniche nei sistemi di potere e propaganda occidentali è visto come essenziale. Obama ne è l’epitomo, sebbene il gabinetto di George W. Bush – la sua banda di guerrafondai – fosse il più multirazziale nella storia presidenziale». Ieri, mentre la città irachena di Mosul veniva presa dai jihadisti dell’Isis, Obama ha affermato: «Il popolo americano ha fatto investimenti e sacrifici enormi per dare agli iracheni l’opportunità di forgiare un destino migliore».Quanto è “figa” questa bugia? E com’era “raffinato” il discorso di Obama all’accademia militare di West Point il 28 maggio sullo «stato del mondo», indirizzato a quanti «assumeranno la leadership americana» in tutto il pianeta. «Gli Stati Uniti – ha detto Obama – useranno la forza militare, unilateralmente se necessario, quando lo richiedono i nostri interessi cruciali. L’opinione internazionale ha importanza, ma l’America non chiederà mai il permesso». Ripudiando il diritto internazionale e i quelli delle nazioni, il presidente americano si presenta come una divinità basata sulla superpotenza della sua nazione. Inequivocabile: «E’ un messaggio famigliare di impunità imperiale». Evocando l’ascesa del fascismo negli anni ‘30, Obama ha aggiunto: «Credo nell’eccezionalismo americano con ogni fibra del mio essere». Lo rimbecca lo storico Norman Pollack: «A chi faceva il passo dell’oca sostituiamo l’apparentemente più innocua militarizzazione della cultura totale. E al posto del leader magniloquente abbiamo il riformatore mancato, allegramente al lavoro, che pianifica ed esegue assassinii mentre sorride tutto il tempo».A febbraio, gli Usa hanno montato uno dei loro golpe “colorati” in Ucraina, con la regia di Victoria Nuland, consigliera alla sicurezza nazionale di Obama, seguita dal vicepresidente Joe Biden e dal direttore della Cia John Brennan, giunti a Kiev per pilotare «le truppe d’assalto per il loro putsch», ovvero «fascisti ucraini». Così, «per la prima volta dal 1945, un partito neonazista apertamente antisemita controlla aree-chiave del potere statale in una capitale europea», senza che nessun leader occidentale abbia aperto bocca. «Dal collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno circondato la Russia con basi militari, bombardieri nucleari e missili come parte del loro progetto di allargamento della Nato». Rinnegando una promessa fatta a Gorbaciov nel 1990, secondo cui la Nato non si sarebbe espansa «un centimetro ad est», di fatto la Nato ha occupato militarmente l’Europa orientale, costituendo – a partire dal Caucaso – «il più grande accumulo militare dalla seconda guerra mondiale». Nel mirino l’adesione di Kiev, e sullo sfondo due operazioni, “Tridente rapido”, con truppe americane e britanniche sul confine russo dell’Ucraina, e “Brezza di mare”, con navi da guerra statunitensi a distanza di avvistamento dai porti russi. «Immaginate la reazione se questi atti di provocazione, o intimidazione, venissero compiuti ai confini americani?».Nel reclamare la russa Crimea, “regalata” all’Ucraina da Nikita Krushev nel 1954 – Mosca si è semplicemente difesa, come sempre: più del 90% della popolazione ha votato per tornare con la Russia, inoltre la Crimea è sede della flotta del Mar Nero, vitale per la marina russa. Putin ha spiazzato «i partiti guerrafondai a Washington e Kiev» esortando i russi di Ucraina ad abbandonare il separatismo? «In modo orwelliano, in Occidente ciò è stato invertito nella “minaccia russa”», e Hillary Clinton «ha paragonato Putin a Hitler». Altro problema: «Senza ironia, commentatori della destra tedesca hanno fatto altrettanto». Peggio ancora: «Nei media, i neonazisti ucraini vengono definiti eufemisticamente “nazionalisti” o “ultra-nazionalisti”». Quello che temono, continua Pilger, è che Putin stia abilmente cercando una soluzione diplomatica, che potrebbe avere successo. Il presidente russo ha chiesto al Parlamento di togliergli i poteri speciali di intervento in Ucraina? Puntuale l’ultimatum di John Kerry: la Russia doveva «agire entro le prossime ore, letteralmente» per far terminare la rivolta nell’est dell’Ucraina.«Nonostante Kerry sia ampiamente riconosciuto come un pagliaccio – sostiene Pilger – il vero scopo di questi “avvertimenti” è di attribuire alla Russia lo stato di paria e di sopprimere le notizie sulla guerra del regime di Kiev al proprio popolo». Un terzo della popolazione dell’Ucraina è russofona e bilingue. «Da tempo desiderano una federazione democratica che rifletta la diversità etnica ucraina e sia autonoma e indipendente da Mosca. La maggior parte non è né “separatista” né “ribelle”, ma composta da cittadini che vogliono vivere in sicurezza nella loro patria». Il separatismo? «E’ una reazione agli attacchi della giunta di Kiev contro di loro, che hanno causato la fuga di 110.000 rifugiati (stima Onu) verso la Russia. Generalmente, donne e bambini traumatizzati. Come i bambini iracheni vittime dell’embargo, e le donne e ragazze “liberate” dell’Afghanistan, terrorizzate dai signori della guerra della Cia, queste popolazioni dell’Ucraina per i media occidentali non sono persone: la loro sofferenza e le atrocità commesse contro di loro vengono minimizzate o taciute».I media mainstream occidentali non fanno percepire la dimensione della tragedia. L’ultimo libro di Phillip Knightley, “La prima vittima: il corrispondente di guerra come eroe, propagandista e creatore di miti”, ricorda la figura di Morgan Philips Price del “Manchester Guardian”, «l’unico reporter occidentale a restare in Russia durante la rivoluzione del 1917 e a riportare la verità di una disastrosa invasione degli alleati occidentali». Imparziale e coraggioso, Price «da solo disturbò quello che Knightley chiama un “oscuro silenzio” anti-russo in Occidente». I russi restano carne da macello: come i 41 manifestanti bruciati vivi a Odessa nella sede dei sindacati, mentre la polizia ucraina stava a guardare. Il leader di “Settore Destro”, Dmytro Yarosh, salutò il massacro come «un altro giorno luminoso nella nostra storia nazionale». Ma nei media americani e britannici, l’eccidio venne riportato come «una tragedia opaca», conseguenza di «scontri» tra «nazionalisti» (neonazisti) e «separatisti», cioè le persone che raccoglievano le firme per il referendum sull’Ucraina federale.Il “New York Times” lo seppellì, liquidando come propaganda russa gli avvertimenti sulle politiche fasciste e antisemite dei nuovi agenti di Washington, mentre il “Wall Street Journal” condannò le vittime: “Mortale incendio ucraino probabilmente innescato dai ribelli, dice il governo”. E Obama si congratulò con la giunta golpista di Kiev – i carnefici – per la «moderazione» dimostrata. Il 28 giugno, il “Guardian” dedicò quasi una pagina alle dichiarazioni del “presidente” del regime di Kiev, l’oligarca Petro Poroshenko. «Di nuovo venne applicata la regola dell’inversione orwelliana». Non c’era alcun colpo di Stato, nessuna guerra contro la minoranza ucraina, la colpa di tutto era dei russi. «Vogliamo modernizzare il mio paese», disse Poroshenko. «Vogliamo introdurre libertà, democrazia e valori europei. A qualcuno questo non piace. A qualcuno non piaciamo per questo». Non una parola, dal reporter del “Guardian”, Luke Harding, sulla strage di Odessa, i bombardamenti sui quartieri, l’uccisione e il rapimento di giornalisti, l’incendio di un giornale di opposizione e la minaccia di Poroshenko di «liberare l’Ucraina dalla feccia e dai parassiti».Il nemico sono i «ribelli», i «militanti», gli «insorti», i «terroristi» e gli agenti del Cremlino. «Ripensate ai fantasmi del Vietnam, del Cile, di Timor Est, dell’Africa meridionale, dell’Iraq: notate le stesse etichette», avverte Pilger. «La Palestina è la calamita di questo immutevole inganno. L’11 luglio, in seguito all’ultimo massacro israeliano a Gaza – 80 persone, compresi 6 bambini in una famiglia – equipaggiato dagli americani, un generale israeliano scrive sul “Guardian”, titolando: “Una necessaria dimostrazione di forza”». Negli anni ‘70 Pilger incontrò Leni Riefenstahl, l’autrice dei film di propaganda che glorificavano il nazismo: usando «in modo rivoluzionario» la cinepresa e le tecniche di illuminazione, la Riefenstahl aveva prodotto «una forma di documentario che aveva ipnotizzato i tedeschi». Un “trionfo della volontà” che ha presumibilmente agevolato il maleficio di Hitler. Domanda: come funziona la propaganda nelle società che si ritengono “superiori”? La replica: i «messaggi» nei suoi film non dipendevano da «ordini dall’alto», ma dal «vuoto sottomesso» della popolazione tedesca. Compresa la borghesia liberale e istruita?, Ma certo: «Chiunque, e naturalmente anche gli intellettuali».Geopolitica, massacri e guerre promosse dall’Occidente? «Si è realizzato nel modo più soffice il totalitarismo orwelliano, dietro l’illusione dell’“era dell’informazione” e del multiculturalismo». S’impone un’unica visione del mondo, e nessuno protesta: «Figure capaci di esprimere efficacemente un’alternativa radicale» mancano del tutto, oppure «sono sommerse dal frastuono» del mainstream, rileva John Pilger. A teatro, un’opera profetica come “1984” di Orwell viene liquidata come «un pezzo storico: remoto, innocuo, quasi rassicurante». Dunque, «come se Snowden non avesse rivelato niente, se il Grande Fratello non fosse ora una spia digitale, se lo stesso Orwell non avesse mai detto: “Per essere corrotti dal totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario”». Mentre le società avanzate vengono de-politicizzate, i cambiamenti sono sottili e spettacolari. «Nei discorsi di tutti i giorni il linguaggio politico viene capovolto, come profetizzato in “1984”».
-
Human Rights Watch: dietro quei terroristi c’era l’Fbi
Musulmani incoraggiati a compiere atti di terrorismo, a volte anche retribuiti. A denunciare l’operato dell’Fbi, la polizia federale americana, è una ong statunitense, “Human Rights Watch”. In un rapporto pubblicato in rete, riferisce “Rai News 24”, l’organizzazione accusa l’Fbi di aver violato la legge e di non aver perseguito le reali minacce. Con la collaborazione dell’Istituto per i diritti umani dell’Università della Colombia, “Human Rights Watch” ha esaminato 27 casi di indagini che sono passate attraverso un processo, intervistando 215 persone, incluse quelle accusate o condannate per atti di terrorismo. «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive Hrw. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto.«Agli americani è stato detto che il loro governo veglia sulla loro sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo all’interno degli Stati Uniti», dice Andrea Prasow, vicedirettore di “Human Rights Watch” a Washington. «Ma se si osserva da vicino, si scopre che molte di queste persone non avrebbero mai commesso crimini se non fossero state incoraggiate da agenti federali, a volte anche pagati». Secondo “Hrw”, l’Fbi spesso individua soggetti vulnerabili, con problemi mentali o dalla scarsa intelligenza, come Rezwan Ferdaus, un 27enne condannato a 17 anni di carcere perché accusato di voler attaccare il Pentagono e il Congresso con piccoli droni carichi di esplosivo, in un falso complotto organizzato dagli stessi agenti americani. Strategia della tensione, dunque, nonostante la prevedibile smentita del ministro della giustizia Eric Holder, cui l’Fbi risponde. Peccato che i media mainstream se ne “accorgano” solo ora, aggiunge Pino Cabras su “Megachip”: all’epoca degli “attentati” di cui si è occupata “Human Rights Watch”, infatti, la Rai e i giornali «ripetevano le veline dell’Fbi: fanno così molto spesso, senza correggersi mai», o comunque fuori tempo massimo.La notizia rende finalmente giustizia ai reporter che fanno «semplice giornalismo d’inchiesta» ma vengono regolarmente tacciati di “complottismo”. Disinformazione criminale, dunque, che ogni giorno “ruba” «un pezzo di libertà, di sovranità», fino ad imporre «lo spionaggio totalitario della Nsa». Attenti, sottolinea Cabras: «Non stiamo parlando di un generico sottofondo di notizie: si tratta dei modi con cui si è lanciato un allarme sicurezza permanente che ha fatto da base giuridica e premessa politica delle guerre di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché delle leggi che hanno consentito lo spionaggio onnipervasivo e reintrodotto gli arresti extralegali e la tortura». In questo quadro, «emerge chiaramente che il terrorismo in Usa è un’interminabile catena di azioni “false flag” (sotto falsa bandiera), in cui gli attori hanno sempre il fiato sul collo dell’Fbi, che li manipola per i propri fini. Era così già dal primo attentato alle Torri Gemelle di New York, nel 1993, fu così per una parte dei soggetti implicati nei mega-attentati dell’11 settembre 2001, è stato così per Mutanda Bomber e per la maratona di Boston».«L’indagine di Human Rights Watch – continua Cabras – sarebbe già sufficiente da sola per dire che questo è un metodo di governo e che il cosiddetto terrorismo è in prevalenza una forma di manipolazione di massa, coperta da entità statali e usata con l’accordo dei pochi proprietari della quasi totalità dei grandi organi di informazione che sono adibiti a organizzare l’isteria collettiva a comando». Con ogni probabilità, aggiunge l’analista di “Megachip”, la realtà è invece «ancora più vasta e incancrenita», tanto che l’indagine «sarebbe da estendere anche oltre gli Usa (pensiamo agli attentati di Londra del 2005), oltre l’Fbi (pensiamo al terrorismo internazionale segnato e finanziato da un intreccio di servizi segreti di vari paesi), e oltre i piccoli episodi (pensiamo anche all’11 Settembre e all’allarme antrace del 2001)».Musulmani incoraggiati a compiere atti di terrorismo, a volte anche retribuiti. A denunciare l’operato dell’Fbi, la polizia federale americana, è una ong statunitense, “Human Rights Watch”. In un rapporto pubblicato in rete, riferisce “Rai News 24”, l’organizzazione accusa l’Fbi di aver violato la legge e di non aver perseguito le reali minacce. Con la collaborazione dell’Istituto per i diritti umani dell’Università della Colombia, “Human Rights Watch” ha esaminato 27 casi di indagini che sono passate attraverso un processo, intervistando 215 persone, incluse quelle accusate o condannate per atti di terrorismo. «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive “Hrw”. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto.
-
Vattimo: vorrei armare Hamas contro i nazisti israeliani
«Israele vuole distruggere definitivamente i palestinesi, è una guerra di puro sterminio. Sono nazisti puri e forse un po’ peggio di Hitler perché hanno anche l’appoggio delle grandi democrazie occidentali». Sembrano scolpite nel marmo, le parole che il filosofo Gianni Vattimo consegna ai microfoni di “Radio24”. «Andrei a Gaza a combattere a fianco di Hamas», aggiunge l’ex europarlamentare. «Direi che è il momento di fare le Brigate Internazionali come in Spagna, perché Israele è un regime fascista che sta distruggendo un popolo intero. In Spagna non era niente in confronto a questo. Questo è un genocidio in atto, nazista, razzista, colonialista, imperialista. E ci vuole una resistenza». Vattimo si spinge oltre: dice che lancerebbe una campagna per raccogliere fondi e consentire ai palestinesi di difendersi, con vere armi, adatte a fronteggiare l’aggressione israeliana. Una voce, la sua, assolutamente isolata, nel grande silenzio che avvolge gli intellettuali, come rileva Renato Rallo: su Medio Oriente e Palestina, ormai, vige la consegna dell’indifferenza.«C’è una nuovissima, meravigliosa avanguardia tra gli intellettuali-de-sinistra (Michele Serra, Christian Raimo, Ida Dominijanni e tanti altri) sul conflitto in Medioriente: gli esaltatori del silenzio», scrive Rallo su “L’Intellettuale Dissidente”. «Laddove l’intellettuale deve sempre necessariamente prendere una posizione, anche solo perchè dovrebbe sapere meglio di tutti che l’imparzialità è un’utopia (o un’omertà), essi invece tacciono, e se ne vantano. Tra gli argomenti, oltre alla già nota “tragedia da entrambe le parti”, la “complessità della situazione”, spunta la geniale novità: la stanchezza. Ebbene sì, gli intellettuali-de-sinistra non prendono più posizione sul conflitto israelo-palestinese perchè sono stanchi della ripetitività della situazione, dell’impotenza, e questa noia li uccide al punto che non riescono neanche più a scrivere due righe sul sionismo». La loro “ipersensibilità filantropica”, aggiunge Rallo, li costringe «ad un silenzio colto, tenebroso, raffinato, ed invita il pubblico a fare altrettanto. Un’elegantissima orazione funebre in onore di un popolo che però, sfortunatamente, ancora deve morire».Non è solo la paura di “uscire dal giro” ad impedire a molti opinion leader di «dire una-parola-una sull’apartheid israeliana, sulle radici di quest’ennesimo episodio di pulizia etnica». Aggiunge Rallo: «Non hanno paura: si stanno solo annoiando». Un “consiglio” ai palestinesi? «Smettetela di morire in modo così banale: non so, magari prima che il vostro corpo venga dilaniato da una bomba, mangiatevi dei coriandoli». Non ha bisogno di incoraggiamenti, invece, il professor Vattimo: proprio lui, teorico del “pensiero debole”, si esprime nel modo più drastico sulla storica controversia, tragicamente rinverdita dalle bombe “intelligenti” di Netanyahu. E denuncia anche il colpevole assenteismo dei media mainstream: «Tutta l’informazione, compresa la stampa italiana, piange sul fatto che c’è una pioggia di missili su Israele. Però Hamas quanti morti ha fatto? Nessuno».Vogliamo parlare dei palestinesi? «I poveretti non hanno armi, sono dei miserabili tenuti in schiavitù, come tutta la Palestina. Hanno dei razzetti per bambini». Meritano di avere la possibilità di difendersi, dice Vattimo: «Voglio promuovere una sottoscrizione mondiale per permettere ai palestinesi di comprare delle vere armi e non delle armi giocattolo. Cominciamo a distruggere il nucleare israeliano, Israele è lo Stato-canaglia che ha il nucleare». Alla domanda se sparerebbe contro gli israeliani, il filosofo ammette: «Io sono un non-violento, però contro quelli che bombardano ospedali, cliniche private e bambini sparerei, ma non ne sono capace». E aggiunge: «Gli ebrei italiani dalla parte di Israele sono gli ex fascisti, che adesso sono dalla parte dell’America. La comunità ebraica italiana è rappresentata da quell’ossimoro che è Pacifici, ma ci sono molti ebrei d’accordo con me. Li c’è uno Stato nazista che cerca di sopprimere un altro popolo. E io ce l’ho con lo Stato di Israele, non con gli ebrei».«Israele vuole distruggere definitivamente i palestinesi, è una guerra di puro sterminio. Sono nazisti puri e forse un po’ peggio di Hitler perché hanno anche l’appoggio delle grandi democrazie occidentali». Sembrano scolpite nel marmo, le parole che il filosofo Gianni Vattimo consegna ai microfoni di “Radio24”. «Andrei a Gaza a combattere a fianco di Hamas», aggiunge l’ex europarlamentare. «Direi che è il momento di fare le Brigate Internazionali come in Spagna, perché Israele è un regime fascista che sta distruggendo un popolo intero. In Spagna non era niente in confronto a questo. Questo è un genocidio in atto, nazista, razzista, colonialista, imperialista. E ci vuole una resistenza». Vattimo si spinge oltre: dice che lancerebbe una campagna per raccogliere fondi e consentire ai palestinesi di difendersi, con vere armi, adatte a fronteggiare l’aggressione israeliana. Una voce, la sua, assolutamente isolata, nel grande silenzio che avvolge gli intellettuali, come rileva Vittorio Ray: su Medio Oriente e Palestina, ormai, vige la consegna dell’indifferenza.
-
Una parlamentare: uccidete tutte le madri palestinesi
«Devono morire e le loro case devono essere demolite in modo che non possano portare alla luce altri terroristi. Loro sono tutti nostri nemici e il loro sangue deve essere versato sulle nostre mani. Ciò vale anche per le madri dei terroristi morti». “Loro” sono, semplicemente, i palestinesi. Anzi, le madri dei palestinesi, che hanno la colpa di dare alle luce «piccoli serpenti», cioè neonati, che un giorno potrebbero diventare nemici. Meglio quindi ucciderle tutte, le «madri palestinesi», nel corso di un bell’attacco via terra nella Striscia di Gaza, prima che mettano al mondo altri piccoli mostri. A esprimersi in questi termini, sulla sua pagina Facebook, non è un orco nazista o un serial killer psicopatico, ma una donna. Addirittura, una parlamentare israeliana. Si chiama Ayelet Shaked ed è stata eletta nelle file della “Casa Ebraica”, una formazione politica sionista religiosa che si definisce di destra, e che per alcuni media occidentali è «un partito di estrema destra».Ayelet Shaked, rileva il newsmagazine “Fronte Sud News”, ha espressamente invocato l’uccisione di tutte le madri palestinesi, quelle che partoriscono i «piccoli serpenti» destinati a odiare Israele, lo Stato-prigione che nega loro ogni diritto sottoponendoli a vessazioni quotidiane e durissime repressioni anche in tempo di “pace”, quando cioè non si levano in volo i bombardieri che radono al suolo centinaia di case con dentro le loro famiglie. Le dichiarazioni della Shaked, sottolinea “Sponda Sud”, «sono considerate un vero e proprio invito al genocidio nei confronti dei palestinesi, considerati tutti nemici di Israele e dunque da eliminare». Parole sanguinarie, che ancora nel 2014 hanno libero corso in un paese che dopo decenni non riesce ad ammettere di essere nato, storicamente, dal “peccato originale” della pulizia etnica contro i palestinesi, come ricorda il professor Ilan Pappe, il più importante storico israeliano. Un genocidio avviato molto prima di Auschwitz e poi rimosso dai maggiori leader, tutti ex terroristi ricercati dalle autorità coloniali inglesi prima della Seconda Guerra Mondiale.Contro le sanguinarie parole di Ayelet Shaked, riferisce “Press Tv”, si è scagliato anche il premier turco, Recep Tayyip Erdoğan: «Una donna israeliana ha detto che le madri palestinesi devono essere uccise. Questa donna è un membro del Parlamento israeliano: qual è la differenza tra questa mentalità e Hitler?». Il premier turco ha inoltre accusato Israele di fare del terrorismo di Stato contro i palestinesi nella regione. Parlando in Parlamento, Erdoğan ha anche criticato il silenzio del mondo verso le atrocità commesse da Tel Aviv contro il popolo palestinese, in particolare nella Striscia di Gaza. Se Erdoğan parla anche per ragioni di politica interna – i turchi non hanno dimenticato l’aggressione della marina israeliana contro la Freedom Flotilla che portava aiuti umanitari nella Striscia – colpisce la incredibile sordità della “comunità internazionale” di fronte all’ennesimo massacro ordinato dal governo Netanyahu. Data la situazione, le terribili parole di Ayelet Shaked sono più illuminanti del bagliore dei missili.«Devono morire e le loro case devono essere demolite in modo che non possano portare alla luce altri terroristi. Loro sono tutti nostri nemici e il loro sangue deve essere versato sulle nostre mani. Ciò vale anche per le madri dei terroristi morti». “Loro” sono, semplicemente, i palestinesi. Anzi, le madri dei palestinesi, che hanno la colpa di dare alle luce «piccoli serpenti», cioè neonati, che un giorno potrebbero diventare nemici. Meglio quindi ucciderle tutte, le «madri palestinesi», nel corso di un bell’attacco via terra nella Striscia di Gaza, prima che mettano al mondo altri piccoli mostri. A esprimersi in questi termini, sulla sua pagina Facebook, non è un orco nazista o un serial killer psicopatico, ma una donna. Addirittura, una parlamentare israeliana. Si chiama Ayelet Shaked ed è stata eletta nelle file della “Casa Ebraica”, una formazione politica sionista religiosa che si definisce di destra, e che per alcuni media occidentali è «un partito di estrema destra».
-
Gaza, strage per il gas: insulto alla memoria di Auschwitz
«Il “nazismo” sionista precede quello tedesco di 30 anni. Il sionismo è un’aberrazione dell’umanità. Israele è il più ignobile insulto esistente alla memoria di sei milioni di ebrei sterminati in Germania». Paolo Barnard, autore del saggio “Perché ci odiano” sul risentimento arabo contro il brutale colonialismo occidentale e sionista – condanna senza mezzi termini l’ennesima operazione di pulizia etnica che le truppe di Tel Aviv stanno conducendo a Gaza sparando nel mucchio e colpendo donne, vecchi e bambini. La musica è sempre la stessa: «Dobbiamo dire ai palestinesi dei territori occupati che non esiste soluzione per loro, continueranno a vivere come cani, e se vogliono possono andarsene», tagliò corto Moshe Dayan nel 1967. Se lo sfratto dei palestinesi prosegue anche oggi con tanta disumanità, aggiunge un osservatore internazionale come Pepe Escobar, dipende anche da un motivo contingente: il colossale giacimento di gas naturale davanti alla costa di Gaza, “la prigione a cielo aperto più grande del mondo”. Sangue in cambio di gas: i palestinesi devono preparasi a lasciare anche Gaza, perché «Israele vuole tutto», anche le loro risorse energetiche.Alla fine, scrive Escobar su “Rt” in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, il premier “Bibi” Netanyahu «ha avuto la sua guerra nuova di zecca». L’Operazione Barriera Protettiva, «ovvero l’attuale pulizia etnica al rallentatore messa in atto a Gaza» dall’esercito israeliano, «è il sogno erotico del primo ministro» di Tel Aviv. Prezioso il pretesto del rapimento di tre studenti israeliani, dopo che l’Anp e Hamas avevano formato un governo unitario in Cisgiordania, mentre il segretario di Stato americano John Kerry «stava portando avanti un gioco ipocrita chiamato “tavolo di pace” tra Israele e Palestina», piano che «come previsto è fallito miseramente». Due palestinesi – non appartanenti ad Hamas – hanno rapito tre coloni adolescenti israeliani mentre facevano autostop di notte vicino a Hebron. «Uno degli autostoppisti in qualche modo è riuscito a chiamare il numero di emergenza della polizia israeliana con il cellulare», così «i rapitori hanno perso la testa e sparato immediatamente ai ragazzi, sbarazzandosi poi dei corpi». La testa in realtà l’hanno persa tutti gli israeliani, continua Escobar: per tre settimane l’esercito ha condotto feroci rastrellamenti, con decina di migliaia di soldati, mentre «i media si sono scatenati, immolando i palestinesi in una pira funeraria di stampo razzista».Ipotesi dietrologica: sono stati gli 007 israeliani a simulare un rapimento condotto da palestinesi, per poi incolpare Hamas e bombardare Gaza? Escobar smentisce: le prove, scrive, puntano alla tribù Qawasmeh della regione di Hebron, storicamente conosciuta come antagonista di Hamas e ostile verso i coloni israeliani. «C’è anche la possibilità che i rapitori volessero usare gli autostoppisti come merce di scambio per la restituzione di prigionieri palestinesi». Quello che conta è che Netanyahu e la sua intelligence, lo Shin Bet, «sapevano fin dall’inizio che i ragazzi erano morti – e chi era responsabile». Ma “Bibi”, semplicemente, «non poteva sorvolare sulla possibilità di sfruttare l’accaduto – durante le tre settimane di folle ricerca – come motivazione per perseguire Hamas nella Zona Ovest e a Gaza, un’operazione già pianificata da tempo». I numeri, aggiunge Escobar, non rendono giustizia all’orribile massacro: in un solo giorno 167 morti, per lo più civili, inceneriti da 30 missili israeliani e sepolti dalle macerie di 200 case distrutte, senza contare gli oltre mille feriti e 1.500 edifici lesionati.In Israele, ovviamente, nemmeno un morto. Un portavoce militare «si è macabramente vantato che Gaza – un campo di concentramento-baraccopoli de facto – stava venendo bombardata ogni 4 minuti e mezzo». Il messaggio: «Che “Bibi” la possa fare franca è tutto ciò che le strade arabe – e di tutto il sud del mondo – devono sapere circa il depositario delle navi da guerra e degli aerei statunitensi in Medio Oriente». Quello che invece pochi sanno, continua Escobar, è che 14 anni fa sono stati scoperti al largo della costa di Gaza 1,4 trilioni di piedi cubi di gas naturale, del valore di almeno 4 miliardi di dollari. Altra “dimenticanza”: durante l’ultima invasione israeliana di Gaza – l’Operazione Piombo Fuso – i giacimenti di gas palestinesi furono confiscati da Israele. Quella “operazione” era già una guerra energetica, come denunciò Nafeez Ahmed. «Bisogna guardare al tutto da fuori», avverte Escobar: «I 122 trilioni di piedi cubi di gas, più i potenziali 1,6 miliardi di barili di greggio del bacino del Levante sparsi nelle acque territoriali di Israele, Siria, Libano, Cipro e ovviamente Gaza: queste acque territoriali sono alacremente contese come quelle del Mar Cinese del Sud. Neanche a dirlo, Tel Aviv le vuole tutte».Per integrare il quadro, «Israele si sta preparando ad affrontare un crescente incubo di sicurezza energetica». E’ coinvolto nell’operazione persino Tony Blair, responsabile politico della falsificazione delle prove sulle “armi di distruzione di massa” di Saddam e ora insider strategico della Jp Morgan: l’ex premier britannico ha proposto di “sviluppare” lo sfruttamento dei giacimenti di gas di Gaza attraverso un accordo tra la British Gas e le autorità palestinesi, escludendo totalmente Hamas e la popolazione di Gaza. «Il modo in cui Gaza è mantenuta come un campo di concentramento, soggetto a violenze di massa ininterrotte, è già abbastanza rivoltante», continua Escobar. In più, «bisogna aggiungere la componente-chiave economica: in tutti i modi possibili a Gaza deve essere impedito di accedere ai giacimenti Marina-1 e Marina-2», i quali «verranno inghiottiti da Israele», che già controlla «tutte le risorse naturali palestinesi – acqua, terra ed energia». Ecco il “segreto” dell’Operazione Barriera Protettiva: «Senza schiacciare Hamas, che controlla Gaza, gli israeliani non potranno trivellare la costa». Per Israele, quindi, i palestinesi vanno sfrattati da Gaza.Secondo Michael Klare, «la nuova, ininterrotta e collettiva aggressione a Gaza è soprattutto una guerra energetica che versa sangue in cambio di gas». Tutto questo, naturalmente, può avvenire senza che il resto del mondo lo impedisca, anche grazie al consenso che il mainstream ha sempre assicurato al colonialismo israeliano, fingendo di non sapere che la fine della secolare convivenza pacifica tra ebrei e arabi in Palestina è stata imposta unilateralmente dai sionisti, decisi a ottenere l’esclusiva sulla Terra Santa anche a prezzo del bagno di sangue. La pulizia etnica, avviata tre decenni prima di Auschwitz, secondo il grande storico israeliano Ilan Pappe è “il peccato originale di Israele”, sempre sottaciuto dai media. E’ Paolo Barnard a ricordare le terribili parole contenute nelle memorie di David Ben Gurion, padre dello Stato ebraico: «C’è bisogno di una reazione brutale», scriveva Ben Gurion nel 1948. «Dobbiamo essere precisi su coloro che colpiamo. Se accusiamo una famiglia palestinese non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti. Dobbiamo fargli del male senza pietà, altrimenti non sarebbe un’azione efficace».«Gli inglesi – disse nel 2000 il futuro presidente israeliano Chaim Weizmann – ci hanno detto che in Palestina ci sono dei negri, gente di nessun valore». E’ un destino di sangue, deciso a tavolino e imposto al mondo, per il quale i palestinesi di Gaza sono ancora oggi dei “negri” senza diritti. E’ storia: il sionista Yossef Weitz, continua Barnard, aveva preparato una lista dettagliata dei villaggi palestinesi da distruggere, «coi nomi e cognomi di uomini, donne e bambini disarmati, e questo anni prima dei Protocolli di Wannsee compilati dai nazisti per sterminare gli ebrei in Europa». La coscienza israeliana viene mantenuta in letargo da una disinformazione martellante, nonostante la rivolta civile di molti israeliani che si oppongono al militarismo, intellettuali e pacificisti, studiosi, veterani dell’esercito come i “Refuseniks” che si rifiutano di partecipare a operazioni di sterminio della popolazione palestinese. Già nel 1948, un uomo come Aharon Ciszling, ministro del primo governo del neonato Stato di Israele, rifletteva amaramente: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati (contro i palestinesi) come i nazisti, e tutta la mia anima ne è turbata». Oltre mezzo secolo dopo, la politica di Israele non è cambiata. Ora tocca a Gaza, che ha la “colpa” di essere affacciata su un mare di gas.«Il “nazismo” sionista precede quello tedesco di 30 anni. Il sionismo è un’aberrazione dell’umanità. Israele è il più ignobile insulto esistente alla memoria di sei milioni di ebrei sterminati in Germania». Paolo Barnard, autore del saggio “Perché ci odiano” sul risentimento arabo contro il brutale colonialismo occidentale e sionista, condanna senza mezzi termini l’ennesima operazione di pulizia etnica che le truppe di Tel Aviv stanno conducendo a Gaza sparando nel mucchio e colpendo donne, vecchi e bambini. La musica è sempre la stessa: «Dobbiamo dire ai palestinesi dei territori occupati che non esiste soluzione per loro, continueranno a vivere come cani, e se vogliono possono andarsene», tagliò corto Moshe Dayan nel 1967. Se lo sfratto dei palestinesi prosegue anche oggi con tanta disumanità, aggiunge un osservatore internazionale come Pepe Escobar, dipende anche da un motivo contingente: il colossale giacimento di gas naturale davanti alla costa di Gaza, “la prigione a cielo aperto più grande del mondo”. Sangue in cambio di gas: i palestinesi devono preparasi a lasciare anche Gaza, perché «Israele vuole tutto», anche le loro risorse energetiche.
-
Henn: nazisti di Kiev allevati e protetti dalla Germania
“Frega il tuo vicino”, è da sempre la strategia della Germania: secondo Dagmar Henn, il tentativo di Berlino di ridurre l’intera Europa a sua colonia economico non è altro che un tentativo di rovesciare l’esito della Seconda Guerra Mondiale. Di cui la Germania sembra ripercorrere tutti i passi falsi, a cominciare dalla sfida contro la Russia: perché se gli Usa sono la superpotenza mondiale che sta minacciando Mosca sulla frontiera ucraina, a tirare le fila sono soprattutto i tedeschi, anche se per ora restano nell’ombra. In realtà non è stata la Casa Bianca ma l’Unione Europea a far firmare alla giunta golpista di Kiev l’accordo che lega l’economia ucraina a quella tedesca. Ed è stata la stessa Ue a imporre l’accordo-capestro col Fmi. L’uomo della Merkel per l’operazione-Ucraina è stato il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier, coordinatore dei servizi segreti fino al 2005 e quindi «profondamente coinvolto nei fatti del Kosovo». Proprio lui «ha spinto perché l’Ucraina entrasse nella Ue: non parliamo di un agnellino e nemmeno di un pacifista», perché è stato lui il primo a parlare di “integrità territoriale” subito dopo il golpe compiuto dai neonazisti ucraini.«Tutti ricordano la famosa telefonata della Nuland che chiedeva a Jatsenjuk di andare al governo», scrive la Henn in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, ma «quasi tutti hanno dimenticato» che l’emissaria di Obama diceva: «No Svoboda», ovvero: niente mano libera ai neo-nazisti di Kiev. «Fu Steinmeier che apri la porta a Svoboda», nel silenzio totale dei media, americani e tedeschi. Secondo l’analista, pochi vedono davvero quello che sta accadendo: la Germania, che finora ha “spremuto” i vicini europei «per stabilizzare l’industria e le banche tedesche», al di là delle polemiche di facciata sulle ingerenze spionistiche Cia-Nsa è perfettamente d’accordo con Washington nella politica di ostilità verso Mosca: «Tra Germania e Usa c’è complicità, non dipendenza: come accadde per la Jugoslavia, dove gli Usa ottennero le basi militari e la Germania le colonie». Attenzione: già allora, i «fascisti croati» che furono scatenati contro la Serbia «si erano rifugiati per decenni a Monaco di Baviera», pronti per «essere utilizzati ancora».«Chiedetelo ai greci: raramente la retorica politica tedesca dice la verità», continua Dagmar Henn, che denuncia il silenzio imposto ai media di Berlino. Nessuno fa notare l’autoritarismo tedesco, «e il risultato è la trasformazione della Ue in una struttura semi-coloniale con un solo centro politico ed economico, la Germania: basti pensare a Hollande che non può più nemmeno telefonare, se non autorizzato dalla Merkel». Questa struttura però «è tutt’altro che stabile, perché ormai stanno per finire i vicini di casa che ancora non sono ridotti alla miseria, mentre la crisi economica è tutt’altro che finita». Quindi, «entrambi i soci di questa aggressione», Usa e Germania, condividono lo stesso problema, «e nessuna bilancia commerciale con la Russia potrà colmare questa lacuna: entrambi hanno bisogno di una vera e propria distruzione dei valori reali su larga scala, e ne hanno bisogno subito». Storia: quando la Wehrmacht cominciò a vedere che stava perdendo la guerra nel 1943, concluse che non avrebbe mai dovuto attaccare la Russia, ma piuttosto controllare l’intero potenziale economico europeo. «Quindi è un po’ inquietante vedere oggi che, negli ultimi anni, non si è fatto altro che ripetere gli stessi errori di allora».Secondo Dagmar Henn, è impossibile dimostrare «quanto sia stretto il collegamento tra le autorità tedesche e i nazisti ucraini», perché gli archivi tedeschi sono ben chiusi «e lì si annida tutto lo sporco accumulato dal 1945 in poi». Ci sono però «forti indicazioni» che suggeriscono che «la parte peggiore delle forze ucraine» sia costituita da «pupazzi dei tedeschi, non degli americani, a cominciare dalla Timoshenko». I neonazisti, compresi quelli di Kiev, «non devono essere controllati direttamente: si mettono subito a correre nella “giusta” direzione, non appena vengono tirati fuori». Avverte la Henn: «Nelle zone intorno a Monaco ci sono sempre stati più nazisti ad occupare le posizioni ufficiali e più esuli ucraini, seguaci di Bandera, di quanti mai abbiano raggiunto gli Stati Uniti». I servizi segreti tedeschi (Bnd) si trovano a Pullach, a pochi chilometri da Monaco, e «non hanno mai lasciato cadere i loro antichi collegamenti». Secondo la Henn, «sono ancora profondamente legati alle stesse persone che tennero i collegamenti durante la guerra». A Monaco c’è stato un governo ucraino in esilio, con sede a Zeppelinstraße, e c’è ancora una università ucraina. Monaco, inoltre, è stata «il quartier generale dei terroristi ucraini dopo il 1945».Fin dalla sua indipendenza, in Ucraina c’è sempre stata una forte influenza tedesca: nel 1992 all’ambasciata tedesca di Kiev lavoravano più impiegati che in tutte le altre ambasciate occidentali messe insieme, inclusa quella americana. Mentre i funzionari governativi inglesi e americani allora cercavano di rafforzare le tendenze nazionaliste nei paesi ex Urss, il governo tedesco «aveva già fatto tutto quello che poteva fare in questo senso, non solo in Ucraina ma anche negli Stati baltici». Per questo, continua Henn, la gran quantità di agenti della Cia a Kiev «potrebbe non essere un segno di forza degli Usa in questo dramma», ma sembra piuttosto «un tentativo di recuperare il ritardo rispetto ai collegamenti già presi dai tedeschi». La Henn segnala una «strana eco storica» negli avvenimenti ucraini, che rimanda in modo sinistro al calendario del nazismo germanico. A cominciare dal massacro di Odessa, il rogo del palazzo dei sindacati lo scorso 2 maggio: sempre il 2 maggio (del 1919) Monaco di Baviera «fu conquistata dai controrivoluzionari», e la successiva repressione fece 3.000 vittime. Ancora il 2 maggio (del 1933) i nazisti «presero d’assalto gli edifici dei sindacati tedeschi».Coincidenze, o frutto di una “mente” germanica? «I nazisti tedeschi sono ossessionati dai riferimenti storici», avverte Dagmar Henn. «Sapete perché il primo campo di concentramento fu costruito a Dachau? In quel posto l’Armata Rossa bavarese vinse una battaglia all’inizio del 1919». I gerarchi di Hilter, dunque, «volevano cancellare chi era stato sconfitto, anche la sua memoria, e ci riuscirono». Conclude Henn: «Potrei sbagliarmi, mi piacerebbe sbagliarmi, ma la strategia russa al momento sembra essere mirata a creare una spaccatura tra Germania e Stati Uniti. Se avessi ragione, questa strategia sarebbe completamente inutile: non vedo nessun piano-B e non vedo nemmeno un qualche serio tentativo di informare la popolazione tedesca. Questo mi preoccupa profondamente. Ai governi tedeschi piace parlare di pace. Fino alle 5:44 del mattino».“Frega il tuo vicino”, è da sempre la strategia della Germania: secondo Dagmar Henn, esponente della sinistra tedesca (Linke), il tentativo di Berlino di ridurre l’intera Europa a sua colonia economica non è altro che un tentativo di rovesciare l’esito della Seconda Guerra Mondiale. Di cui la Germania sembra ripercorrere tutti i passi falsi, a cominciare dalla sfida contro la Russia: perché se gli Usa sono la superpotenza mondiale che sta minacciando Mosca sulla frontiera ucraina, a tirare le fila sono soprattutto i tedeschi, anche se per ora restano nell’ombra. In realtà non è stata la Casa Bianca ma l’Unione Europea a far firmare alla giunta golpista di Kiev l’accordo che lega l’economia ucraina a quella tedesca. Ed è stata la stessa Ue a imporre l’accordo-capestro col Fmi. L’uomo della Merkel per l’operazione-Ucraina è stato il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier, coordinatore dei servizi segreti fino al 2005 e quindi «profondamente coinvolto nei fatti del Kosovo».
-
Donbass: via i russi, a cannonate, per far posto alla Shell
Programmata a tavolino, la pulizia etnica nel Donbass, per sfrattare la popolazione e far posto agli 80-140.000 pozzi di estrazione del gas di scisto, “prenotati” già nel gennaio 2013 dalla Shell grazie all’accordo firmato con l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich. Secondo Olga Četverikova, la Royal Dutch Shell sta semplicemente attendendo l’esecusione del programma – cioè la strage nell’Est Ucraina – per poter mettere le mani sul sottosuolo, per la precisione i ricchissimi giacimenti di Yuzosk, al confine delle regioni di Donetsk e Kharkov nella zona petrolifera del Dnepr-Donets. Questo il motivo per cui avanza spedita la pulizia contro russi e russofoni, cioè gli abitanti delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, dove vengono rasi al suolo interi quartieri con missili Grad senza che nessuna autorità internazionale intervenga. Liberare il terreno per l’estrazione del gas di scisto: questo il vero motivo delle violentissime operazioni belliche scatenate dal regime golpista insediato dagli Usa nella capitale ucraina.Con la Shell, ricorda la Četverikova in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, l’Ucraina ha firmato un contratto agevolato della durata di 50 anni, con obbligo di proroga. Oggi, la compagnia petrolifera che l’inizio dello sfruttamento del giacimento è previsto «dopo la de-escalation del conflitto e la stabilizzazione della situazione», cioè quando sarà stata sterminata o cacciata di casa a cannonate la popolazione che vive nell’area del giacimento. Un territorio immenso, che si espande su 7.886 chilometri quadrati, che comprende la città di Slavyansk (situata al centro del giacimento), Izyum, una grossa parte di Kramatorsk, così come centinaia di piccoli insediamenti: Krasnyj Liman, Seversk, Yasnogorka, Kamyševka. Sempre secondo l’accordo, «gli abitanti che risiedono su questo territorio, come da contratto, devono vendere la proprietà della loro terra». In caso di rifiuto, la terra «verrà loro tolta con la forza a favore di Shell». E tutte le spese della società per l’“appropriazione del territorio” verranno risarcite dallo Stato ucraino con il ricavato dell’estrazione del gas. Per questo, Kiev è tenuta a garantire il rispetto di tutte le clausole, imponendole alle autorità locali.Oltre alla Shell, a dividersi la torta ci sono la Eurogas Ucraina (di proprietà della britannica Mc Callan Oil & Gas, a sua volta acquistata dalla statunitense Euro Gas) e la Burisma Holdings, nella quale Hunter Biden, figlio del vicepresidente americano Joe Biden, è da poco diventato uno dei membri del consiglio direttivo. Vero obiettivo della “operazione antiterrorismo”, cioè la carneficina del Donbass, è «stabilire il pieno controllo delle regioni di Donetsk e Lugansk», scrive Olga Četverikova. Missione: «La totale “bonifica” della sua superficie totale per avviare, senza intoppi, il lavoro di estrazione dello “shale gas”: sul territorio, “ripulito” dalla popolazione, è prevista l’installazione di 80-140 mila pozzi)». Ciò significa «la distruzione della terra seminabile, la demolizione di impianti industriali, di edifici residenziali, di luoghi di culto, per il mantenimento delle infrastrutture del gas». Altra preda di guerra, le fertilissime “terre nere”, di cui l’Ucraina possiede il 27% del patrimonio mondiale: «In tempo di pace sarebbe difficile realizzare tutto ciò, ma la guerra copre tutto».Kiev punta dunque a «ottenere una brusca riduzione del numero della popolazione locale, e lasciare sul territorio dei giacimenti solo le persone necessarie per i lavori di estrazione del gas». I sindaci insediati dal governo golpista ucraino già promettono nuovi posti di lavoro, al posto del lavoro perso in seguito alla distruzione delle industrie. Per cui, «sopprimere la resistenza degli abitanti di Donetsk e Lugansk e ristabilire il controllo sul territorio» consentirà presto di «tagliar fuori la Russia da gran parte del mercato europeo del gas». Carte scoperte dall’autunno 2014: il segretario Nato, Rasmussen, il 20 giugno a Londra ha accusato Mosca di aver complottato per interrompere la produzione di gas di scisto, mentre già il 1° maggio al Congresso Usa è stato proposto un progetto di legge “prevenzione delle aggressioni dalla Russia – 2014”. «Proprio il desiderio di mantenere il controllo da parte delle grandi corporazioni transnazionali sui giacimenti petroliferi del Dnepr-Donets ha portato alla guerra contro il popolo di Donetsk e Lugansk, una guerra di sterminio», accusa la Četverikova.«Il massacro di civili e il clima di paura che costringe le persone a lasciare la loro patria per diventare profughi sono stati i principali strumenti per attuare gli interessi delle multinazionali, per le quali il potere installatosi a Kiev dopo il colpo di Stato è solo un abbellimento per coprire la grande pulizia etnica della popolazione russa e russofona del Donbass». In un drammatico video-messaggio diffuso il 4 luglio, il presidente della regione Donetsk, Igor Strelkov, è stato chiarissimo: «Se la Russia non otterrà un cessate il fuoco, o se non inizierà un’operazione di pace, Slavyansk con la sua popolazione di oltre 30.000 abitanti sarà distrutta in una settimana, al massimo due». Come da contratto con la Shell, nel silenzio totale dell’Europa e del resto del mondo.Programmata a tavolino, la pulizia etnica nel Donbass, per sfrattare la popolazione e far posto agli 80-140.000 pozzi di estrazione del gas di scisto, “prenotati” già nel gennaio 2013 dalla Shell grazie all’accordo firmato con l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich. Secondo Olga Četverikova, la Royal Dutch Shell sta semplicemente attendendo l’esecusione del programma – cioè la strage nell’Est Ucraina – per poter mettere le mani sul sottosuolo, per la precisione i ricchissimi giacimenti di Yuzosk, al confine delle regioni di Donetsk e Kharkov nella zona petrolifera del Dnepr-Donets. Questo il motivo per cui avanza spedita la pulizia contro russi e russofoni, cioè gli abitanti delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, dove vengono rasi al suolo interi quartieri con missili Grad senza che nessuna autorità internazionale intervenga. Liberare il terreno per l’estrazione del gas di scisto: questo il vero motivo delle violentissime operazioni belliche scatenate dal regime golpista insediato dagli Usa nella capitale ucraina.
-
Ben Gurion, padre di Israele: massacrate donne e bambini
«Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle loro terre». Sembrerebbe Hitler, ma non è lui. «C’è bisogno di una reazione brutale. Se accusiamo una famiglia, dobbiamo straziarli senza pietà, donne e bambini inclusi. Durante l’operazione non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti». A parlare non è Himmler, non è Goebbels, ma il “padre” dello Stato d’Israele, David Ben Gurion. Obiettivo di queste “raccomandazioni” affidate alle sue memorie: «Ripulire la Galilea dalla sua popolazione araba». Letteralmente: pulizia etnica. «Quell’uomo – accusa Paolo Barnard – pronunciò quelle agghiaccianti parole 20 anni prima della nascita dell’Olp, più di 30 anni prima della nascita di Hamas, 50 anni prima dell’esplosione del primo razzo Qassam su Sderot in Israele». Problema: la “narrazione” dominante in Occidente ignora questa atroce verità storica in modo sistematico. E’ negazionismo: la stessa infamia che pretende di negare l’abominio di Auschwitz.
-
Ma il mondo ha capito che Obama è più bugiardo di Bush
Caro Obama, ci hai deluso. Firmato: 93 paesi, dalla A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe, passando per Europa, Brasile, Medio Oriente, ex Urss, Sudamerica e Africa. Durante gli anni di Bush, le popolazioni di tutto il mondo erano inorridite dalle aggressioni, dalle violazioni dei diritti umani e dal militarismo degli americani. Nel 2008 solo una persona su tre, in tutto il mondo, approvava l’operato dei leader Usa. L’avvento di Obama trasmise un messaggio di speranza e cambiamento, e nel 2009 il monitoraggio della Gallup (Usglp, Us Global Leadership Project) registrò il forte consenso dell’opinione pubblica mondiale: il 49% del campione aveva fiducia nella nuova leadership statunitense, che però è andata riducendosi non appena Obama è passato dalle promesse ai fatti. Domanda: lei approva o disapprova la leadership Usa? In alcuni paesi, «un gran numero di persone ha rifiutato di rispondere e di esprimere un qualsivoglia parere, mascherando la disapprovazione dietro ad un silenzio dettato dalla paura», spiega Nicolas Davies.I dati più suggestivi vengono dall’Africa, continente dove Obama aveva sempre goduto di alti indici di gradimento: la caduta delle grandi speranze nei suoi riguardi può spiegare, almeno in parte, il minor consenso in 28 dei 34 paesi esaminati, scrive Davies in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ma non può spiegare perché, ora, in 15 paesi su 27 – ovvero nella maggior parte del continente nero – le persone considerano la leadership di Obama peggiore di quella di Bush (compreso il Kenya, il paese di origine della famiglia Obama). Va meglio in Europa, dove più forte era stata l’ostilità verso Bush. Ma attenzione: «Le interviste europee della Gallup, nel 2013, sono state fatte prima delle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio della Nsa, e prima che l’assistente segretario di Stato, Victoria Nuland, organizzasse il colpo di stato in Ucraina, trasformando questo paese nell’ultimo campo di battaglia di quella guerra globale americana», cioè il tipo di guerra «che aveva alienato il consenso di così tanti europei all’amministrazione Bush».Le promesse di speranza e di cambiamento fatte da Obama nella campagna presidenziale del 2008 «sono progressivamente sbiadite, nei titoli dei giornali di tutto il mondo, esattamente come in America». La sua politica estera e militare? «E’ clamorosamente fallita nel segnare una rottura con le politiche di Bush». Obama «non è riuscito a chiudere Guantanamo, né a “contenere” gli alti ufficiali statunitensi responsabili dei crimini di guerra». Inoltre ha intensificato la guerra in Afghanistan con 22.000 attacchi aerei e «ha consentito centinaia di illegittimi attacchi di droni in Pakistan, Yemen e Somalia». Sempre Obama «ha ampliato le operazioni delle forze speciali fino all’incredibile numero di 134 paesi, ha lanciato sanguinose guerre “per procura” in Libia ed in Siria precipitando, questi due paesi nel caos, e ha consegnato l’Iraq e l’Afghanistan ai “signori della guerra”». Più operazioni coperte, meno occupazioni militari, più navi da guerra nel Pacifico: un’evoluzione dettata dai fallimenti in Iraq e Afghanistan e dall’ascesa della Cina, più che da una precisa visione della Casa Bianca.«Il fascino di Obama», scrive Davies, «si è sempre basato più sullo stile che sul merito. Dietro alla maschera del “cambiamento” c’è sempre stata la continuità. Né l’America né le popolazioni globali avrebbero accettato tranquillamente un altro George W. Bush». Quindi, servivano «un volto e una voce cui una popolazione sfibrata avrebbe volentieri dato il benvenuto», ma in grado di garantire, al tempo stesso, «la continuità nel controllo di Wall Street e dell’economia, e la ricerca incessante – ma sempre più sfuggente – del dominio militare americano nel mondo». La suggestione del cambiamento? «Era indispensabile per depistare e porre il bavaglio alla crescente richiesta di un cambiamento effettivo nella politica degli Stati Uniti: è questa la sfida che ha definito il ruolo intrinsecamente ingannevole di Obama come nuovo “ceo dell’America Incorporated”».I parametri della politica estera Usa dopo la guerra fredda, continua Davies, furono definiti nel 1992, per orientare i leader e aiutarli a sfruttare il meglio il dividendo acquisito con il crollo dell’Unione Sovietica. Furono precisati nel documento “Defense Planning Guidance” redatto dal sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz e dal suo assistente Scooter Libby, come trapelò sul “New York Times” nel marzo del 1992. «Quel documento fu poi sostanzialmente rivisto per oscurare le sue implicazioni a livello di offensiva globale, prima che fosse ufficialmente rilasciato il mese successivo». Il quadro politico delineato da Wolfowitz nel 1992 fu poi codificato nel 1997 da Bill Clinton e poi nel “2002 National Security Strategy”, che il senatore Edward Kennedy definì «un manifesto dell’imperialismo americano del 21° secolo, che nessun’altra nazione può o dovrebbe accettare».La politica delineata da Wolfowitz nel 1992 stabiliva un ordine mondiale in cui l’esercito statunitense sarebbe stato così schiacciante, e così pronto ad usare la sua forza, che «i potenziali concorrenti sarebbero stati indotti a non aspirare ad un qualche ruolo regionale o globale». Anche gli alleati della Nato sarebbero stati dissuasi dall’agire in modo indipendente dagli Stati Uniti, o dal formare autonomi accordi di sicurezza europea. Quell’impostazione «violava implicitamente il divieto contenuto nella “Carta delle Nazioni Unite” di minacciare o di far ricorso unilateralmente all’uso della forza militare, da parte degli Stati Uniti, contro i “potenziali concorrenti”». Era la fine del cosiddetto “internazionalismo collettivo”, cioè il multilateralismo che aveva permesso agli Alleati, vincitori della Seconda Guerra Mondiale, di dar vita all’Onu come organizzazione deputata a mediare le dispute e scongiurare i conflitti armati.Durante l’amministrazione Bush, la filosofia “neocon” di Wolfowitz «è uscita dal cono d’ombra ed è diventata un bersaglio della critica mondiale». Le radici dell’aggressione all’Iraq sono state rintracciate nel neoconservatore “Project for the New American Century”, il famigerato Pnac firmato nel 1997 da Robert Kagan e William Kristol, direttore del “Weekly Standard” fondato da Rupert Murdoch. Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz e Libby erano tutti membri del Pnac. «Ma il ruolo della moglie di Kagan, Victoria Nuland, quale leader del team del Dipartimento di Stato e della Cia che ha organizzato il colpo di Stato americano in Ucraina, ha attirato nuova attenzione sul fatto che anche sotto Obama i neocon continuano a detenere posizioni di potere e di influenza», ben insediati in tutte le stanze dei bottoni di Washington, accanto a Obama. La Nuland ha lavorato indifferentemente con Cheney, alla Nato, con Hillary Clinton e John Kerry. E suo marito, Robert Kagan, lavora al Brookings Institution e, insieme a Kristol, ha fondato il “Foreign Policy Initiative”, considerato il successore del Pnac. Obama ha citato il suo saggio “The Myth of American Decline” al discorso sullo Stato dell’Unione del 2012.Un altro neocon molto influente nell’amministrazione Obama è il fratello di Kagan, Frederick, studioso dell’“American Enterprise Institute”, mentre sua moglie Kimberly è presidente dell’“Institute for the Study of War”. «Nel 2009 erano tra i principali sostenitori dell’escalation in Afghanistan, e gli stretti rapporti con il segretario Gates e con i generali Petraeus e McChrystal ha dato loro un’influenza fondamentale nel far prendere ad Obama la decisione di intensificare e prolungare la guerra». L’ex direttore del Pnac, Bruce Jackson, è presidente del “Project on Transitional Democracies”, il cui scopo è l’integrazione dell’Europa dell’Est nell’Ue e nella Nato. Reuell Marc Gerecht, membro della “Foundation for the Defense of Democracies” ed ex agente della Cia in Iran, «è una delle voci più forti che si sono alzate a Washington per sostenere l’aggressione americana alla Siria e all’Iran, e l’abbandono di soluzioni diplomatiche per entrambi i casi». Ancora: Carl Gershman e Vin Weber sono i leader della Ned, “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione che ha pianificato il golpe a Kiev spendendo più di 3,4 miliardi di dollari. Ron Paul ha definito la Ned «un’organizzazione che utilizza i soldi delle tasse statunitensi per sovvertire la democrazia, concedendo finanziamenti a pioggia a partiti o movimenti politici di loro gradimento all’estero».Per Davies, l’influenza del neoconservatorismo si estende ben al di là della cricca dei neocon che cavalcavano l’amministrazione Bush: gli obiettivi definiti da Wolfowitz nel 1992 «sono stati scolpiti nella pietra, allo stesso modo, da tutte le amministrazioni democratiche e repubblicane: l’obiettivo della supremazia militare degli Stati Uniti è diventato un tale articolo di fede, che le alternative razionali vengono considerate come un sacrilegio o un tradimento». Non ci sono crimini che l’eccezionalismo americano non possa giustificare, dice Davies, e il genuino rispetto per uno Stato di Diritto «è visto come un’impensabile minaccia al nuovo fondamento del potere americano». Ed ecco il trucco: «L’unico modo attraverso il quale un governo può mantenere una posizione di tale illegittimità, è attraverso l’uso della propaganda, dell’inganno e della segretezza, sia contro il proprio popolo che contro il resto del mondo». Di qui il “modello Obama”, che si è evoluto grazie alle tecniche di marketing e costruzione dell’immagine fiduciaria di un presidente «trendy, sofisticato, con forti radici nell’afro-americanismo e nella moderna cultura urbana».Il contrasto tra l’immagine e la realtà, un elemento così essenziale nel ruolo di Obama, rappresenta la nuova conquista della “democrazia gestita”, che gli consente di «continuare ed espandere politiche che sono l’esatto opposto del cambiamento che i suoi sostenitori pensavano di andare a votare», scrive Davies. «Questo regime di segretezza, di inganno e di propaganda è la caratteristica essenziale della filosofia politica neoconservatrice che sta ora guidando la leadership di entrambi i maggiori partiti politici americani». E’ un pensiero che viene da lontano: Leo Strauss, il padrino intellettuale dei neocon – un rifugiato proveniente dalla Germania del 1930 – credeva che qualsiasi sforzo, seppur sincero, per ottenere un “governo del popolo, dal popolo e per il popolo” fosse destinato a finire come la Repubblica di Weimar in Germania, con l’ascesa di Hitler e dei nazisti. Pensava che «qualsiasi sistema in cui il popolo avesse detenuto sul serio il potere sarebbe sicuramente finito in barbarie».La soluzione di Strauss? E’ il sistema della “democrazia gestita”, ovvero «una forma privilegiata di “alto sacerdozio” o di “oligarchia”, che monopolizza il potere reale e sovrintende ad una superficiale struttura democratica, promuovendo miti patriottici e religiosi per garantirsi la fedeltà del popolo e la coesione sociale». Il politologo Sheldon Wolin lo definisce “totalitarismo invertito”, meno apertamente offensivo del totalitarismo classico e quindi più sostenibile, oggi, nella concentrazione totale della ricchezza e del potere. Paradossalmente, dice Davies, questa nuova forma di totalitarismo “invisibile” è più insidiosa del roboante totalitarismo storico. Nel suo saggio su Strauss e la destra americana, Shadia Drury avverte: «Strauss crede che ogni cultura ed ogni sua implicita forma di moralità siano invenzioni umane, progettate dai filosofi e dagli altri geni creativi per la conservazione del gregge. Poiché la verità è buia e sordida, Strauss sostiene che il filosofico amore per la verità deve restare un appannaggio riservato a pochissimi».«Nella loro posizione pubblica – continua Drury – i filosofi devono mostrare rispetto ai miti e alle illusioni che hanno fabbricato per gli altri. Devono sostenere l’immutabilità della verità, l’universalità della giustizia e la natura disinteressata del bene, mentre segretamente insegnano ai loro accoliti che la verità non è che una mera costruzione, che la giustizia deve fare del bene agli amici e del male ai nemici, che il solo bene è il proprio piacere. La verità deve essere gustata da pochi, perché è molto pericoloso che la consumino in molti». Se tutto ciò sembra inquietante, esattamente come lo è l’atteggiamento cinico delle persone che gestiscono l’America di oggi, è perché «stiamo vivendo in un sistema politico neoconservatore e straussiano». E il presidente Obama, «lontano dal rappresentare una sorta di alternativa, è un presidente neoconservatore, anch’egli straussiano». Obama e i Clinton «si sono dimostrati praticanti più sofisticati e magistrali della politica straussiana di quanto mai lo siano stati Bush o Cheney».Il report 2013 della Gallup, la prima agenzia di ricerche statistiche del mondo, «è una prova di come si possa ingannare qualcuno per un po’ di tempo, e qualcun altro per tutto il tempo, ma non si può ingannare tutto un popolo per sempre», conclude Davies. «Dietro alla cortina di fumo della democrazia e dei valori americani, il sistema politico statunitense ricicla la ricchezza in potere politico, e il potere politico in ricchezza. Dietro al consumista “Sogno Americano”, un’economia guidata dalle oligarchie economiche e finanziarie sta portando la concentrazione di ricchezza e di potere a un livello che mai i totalitaristi del 20° secolo avevano nemmeno immaginato, sostenuta dalla corrispondente esplosione della povertà, del debito e della criminalizzazione di massa». E dietro a tutto questo «sventola all’infinito la bandiera di una politica estera militarizzata, che distrugge paese dopo paese in nome della democrazia». Se Leo Strauss aveva ragione, «il popolo americano accetterà passivamente questo regime basato sulla propaganda e sull’inganno». Se invece aveva torto, e i cittadini reagiranno, devono sapere che il tempo stringe: «I problemi che affliggono il mondo di oggi non aspetteranno ancora a lungo prima che noi si arrivi a comprendere se Leo Strauss aveva ragione o torto, nella sua oscura e sprezzante visione di chi noi siamo».Caro Obama, ci hai deluso. Firmato: 93 paesi, dalla A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe, passando per Europa, Brasile, Medio Oriente, ex Urss, Sudamerica e Africa. Durante gli anni di Bush, le popolazioni di tutto il mondo erano inorridite dalle aggressioni, dalle violazioni dei diritti umani e dal militarismo degli americani. Nel 2008 solo una persona su tre, in tutto il mondo, approvava l’operato dei leader Usa. L’avvento di Obama trasmise un messaggio di speranza e cambiamento, e nel 2009 il monitoraggio della Gallup (Usglp, Us Global Leadership Project) registrò il forte consenso dell’opinione pubblica mondiale: il 49% del campione aveva fiducia nella nuova leadership statunitense, che però è andata riducendosi non appena Obama è passato dalle promesse ai fatti. Domanda: lei approva o disapprova la leadership Usa? In alcuni paesi, «un gran numero di persone ha rifiutato di rispondere e di esprimere un qualsivoglia parere, mascherando la disapprovazione dietro ad un silenzio dettato dalla paura», spiega Nicolas Davies.
-
Chomsky e Barnard: se gridare di rabbia non basta più
«C’erano due milioni di italiani a manifestare contro la guerra in Iraq a Roma nel 2003… per un giorno. Bravi. Ma li vedi tu per il resto dell’anno passare di casa in casa a informare le masse? Dai. Se lo facessero allora sì che, assieme a nuovi metodi di comunicazione, le cose cambierebbero». Così Paolo Barnard scrive a Noam Chomsky, il linguista statunitense che il “New York Times” considera il maggior intellettuale vivente. Si tratta di un carteggio privato, datato 2007, cioè «prima dell’esplosione della crisi finanziaria, che ha sbattuto in faccia al mondo quanto in realtà ci siamo involuti e non evoluti nella difesa dei diritti dell’uomo e nella gestione dell’interesse pubblico». Tema cruciale: che fare, per cambiare le cose. Chomsky si appella a una variante della scommessa di Pascal: «Se decidiamo di rinunciare alla speranza, siamo certi che il peggio accadrà. Se invece manteniamo la speranza, possiamo immaginare che un futuro migliore arriverà». Barnard invece non ci crede più, non gli basta. Vede che tutto il nostro attivismo per i diritti finisce nel tritacarne del mainstream, senza che le atrocità del mondo vengano minimamente arginate.«Ancora non riusciamo a fermare l’orrore delle guerre, le ingiustizie su macro-scala, la fame di milioni di bambini, l’avanzare del Vero Potere, la dittatura dei mercati», scrive oggi Barnard. «Ebbi quindi un’idea. Scrissi a Chomsky e gli proposi la formazione di un pannello di esperti a livello mondiale che per la prima volta studiassero “che cosa cambia l’umanità in meglio”, partendo da cosa l’ha cambiata in passato, per arrivare a cosa la può veramente cambiare oggi. Un pannello di storici, antropologi, psicologi, intellettuali e veri combattenti». Assioma di partenza: «Non possiamo dare per scontato che ciò che è riuscito a stemperare la barbarie di 5.000 anni – passando per la Rivoluzione Francese e illuminista, quella socialista, per quella femminista, sulla scia dell’olocausto delle guerre mondiali, durante il prodigioso arrivo della rivoluzione delle tecnologie e mezzi di comunicazione – possa funzionare anche oggi. Talmente tanto è cambiato, soprattutto il Vero Potere ha ottenuto una tale rivincita a livello planetario, che dire – come diceva proprio Noam Chomsky – che “l’umanità è sempre uscita dalla barbarie e non c’è motivo per cui questo non debba continuare”, mi appariva superficiale».Se gli attivisti che lottano “per un mondo migliore” sbagliano l’analisi e gli strumenti per il cambiamento, rischiano di consegnarsi alla vittoria finale di quello che Barnard chiama “Vero Potere”. Sì, «c’è motivo di dubitare che l’attivismo possa ottenere qualcosa», ammette Chomsky, secondo cui però “ieri si stava peggio”. Ovvero: se si crede che il punto di svolta negativo e irreparabile sia maturato negli anni ‘70, fino al fallimento dell’opinione pubblica mondiale che non è riuscita a scongiurare la guerra in Iraq, il grande intellettuale americano cita gli anni ‘60, in cui «gli Usa compivano atrocità ben peggiori di quelle fatte in Iraq». Un solo esempio, il Vietnam: «Già nel 1967 il più rispettato storico militare sul Vietnam, Bernard Fall, dubitava che quel paese potesse persino sopravvivere ad attacchi di quella ferocia. Ma le proteste erano minime. In Europa non si mosse un dito mentre mezzo milione di soldati americani, coreani, thailandesi e mercenari stavano devastando il Vietnam del sud». L’Iraq? «E’ certamente un crimine, ma non si avvicina neppure pallidamente alle atrocità della guerra in Vietnam».Non si tratta di «rinunciare alla speranza», replica Barnard, ma – al contrario – dobbiamo «prendere atto del terrificante cambiamento nelle dinamiche sociali che ha reso apatici milioni di occidentali, e trovare un antidoto a questo finché possiamo». Secondo il giornalista, già inviato di “Report”, «i tempi migliori per la rivolta sociale alla brutalità vennero negli anni ‘70, che rappresentano il culmine, la “crema” se si vuole, di 250 anni di rivoluzioni sociali». La triste novità, invece, è «la paralisi odierna delle masse occidentali, frutto di 35 anni di “esistenza commerciale” e “cultura della visibilità massmediatica”, che hanno eroso la nostra psiche collettiva, e che va peggiorando. Sono due fenomeni che vedono la luce anch’essi negli anni ‘70 e lì iniziarono ad avvelenarci». Sono due fenomeni «interamente nuovi nella storia dell’umanità», mai tanto manipolata, «così come è inedito l’effetto di addormentamento oppiaceo che hanno sulle masse». In concreto, «la nostra esistenza oggi ci priva del tempo di capire, studiare e attivarci contro la barbarie del Vero Potere, ci toglie l’autostima per essere liberi pensatori (con conseguenze catastrofiche fra i sindacati italiani e i loro lavoratori)».Per Barnard, questi sconvolgenti cambiamenti «sono una “prima” assoluta nelle dinamiche sociali umane da 5.000 anni, non possono non aver causato mutamenti nel nostro sviluppo sociale». Sono troppo enormi per essere scartati e il giornalista vi scorge «la più grave minaccia alla nostra capacità di organizzazione collettiva contro i poteri». Dunque, aggiunge: «Io invoco che noi scopriamo la chiave di quella minaccia e la disattiviamo». Questa paralizzante mutazione antropologica, replica Chomsky, in realtà «iniziò negli anni ‘20 per poi massimizzarsi negli anni ‘70». Ha certo «plasmato il pubblico», ma secondo il linguista «con risultati del tutto diversi da quelli che il potere voleva ottenere», se è vero che «l’attivismo dagli anni ‘80 ha raggiunto cime mai viste prima, e ora sta inventandosi altri percorsi creativi». I movimenti tuttavia non sono all’altezza della sfida, né dei nuovi mezzi di cui pure disponiamo? «Argomento interessante», ammette Chomsky: «Un’idea intrigante, ma non so come misurarla».«La speranza, Noam, è nei nuovi metodi», risponde Barnrad, perché «quelli consueti nell’attivismo sono diventati privi di significato», siamo assuefatti anche alla protesta, che il mainstream digerisce senza turbarsi. E allora, «che senso ha continuare ad appellarsi a masse drogate da quei e fenomeni? Quindi perché non cercare nuovi metodi, che sappiano raggiungere le immense masse di maggioranza, quelle che non sanno neppure cosa significhino le parole Fondo Monetario, quelle che credono che la Palestina sia nata da Isreale, che non s’immaginano neppure lontanamente cosa veramente costi alle vite dei contadini africani la nostra tazza di caffè della mattina?. La speranza c’è a tonnellate, Noam, ma solo se abbiamo l’umiltà di accettare che i vecchi metodi sono morti e che un nuovo arsenale va costruito». Chomsy non è d’accordo: è «travolto da richieste di conferenze, interviste, attivismo». E poi, quali sarebbero le nuove forme di lotta? Neppure Barnard lo sa, ma – almeno – è certo che i “girotondi”, le raccolte di firme e i cortei di protesta non servano più a niente.«Quali erano le vecchie forme di lotta? Nominiamole: conferenze sempre piene di fans già convertiti; le solite manifestazioni; pubblicazioni e libri, di nuovo però ospitati da editori e media “amici”; i forum sociali, ancora zeppi di amici degli amici già simpatizzanti; l’equo-solidale col Sud, ok, bene, ma sempre minuti gruppi di “belle anime”. Insomma, le “belle anime” che parlano fra di loro Noam, sempre. Ma dimmi: è sufficiente ’sta roba a combattere una macchina colossale di potere finanziario, mediatico, industriale, politico e massmediatico che ha intrappolato 800 milioni di persone in una frenesia di vita e di indebitamento? Dimmi, Noam: le “belle anime” stanno convincendo e dando potere al taxista, al negoziante, all’impiegato, al pensionato, ai tifosi, alle discotecare, ai poliziotti, ai contadini, agli operai, ai conservatori, ai manager, ai colletti bianchi, gli anziani, ai qualunquisti, ai confusi, a chi non ha tempo per respirare la sera a casa? Sono milioni e votano! Non so, forse negli Usa avete fatto una miracolo, ma qui il movimento No-Global è conosciuto dal 99% come i black block che spaccano le vetrine, e nessuno sa nulla delle loro battaglie contro il Wto e i trattati di libero scambio coi poveri del Sud».«Gli Usa – replica Chomsky – sono oggi una nazione molto più civile di prima, e non è stato per magia. Questo include anche le aggressioni militari. Oggi nessun presidente qui potrebbe cavarsela con quello che hanno fatto Kennedy e Johnson nel sud est asiatico. E lo sanno». Chomsky è felice di essere riuscito a tenere una conferebza a mille cadetti e ufficiali di West Point sul tema della “guerra giusta”. E’ vero, il più delle volte la platea è fatta di “amici”, ma comunque «anni fa gli amici erano tre persone in una chiesa, oggi possono essere 5.000 di ogni estrazione in alcuni dei posti più reazionari d’America, e che ti ascoltano con attenzione. Questo è il risultato di molti anni di attivismo da parte di un sacco di gente, e mi sembra un’ottima cosa». Era solo il 2007, Chomsky non aveva ancora visto la Grande Crisi nella sua espressione più disumana, quella europea: un pugno di criminali, ha detto di recente, ha distrutto l’Europa. «Si credono i padroni del mondo. Dobbiamo fermarli». Già, ma come?«C’erano due milioni di italiani a manifestare contro la guerra in Iraq a Roma nel 2003… per un giorno. Bravi. Ma li vedi tu per il resto dell’anno passare di casa in casa a informare le masse? Dai. Se lo facessero allora sì che, assieme a nuovi metodi di comunicazione, le cose cambierebbero». Così Paolo Barnard scrive a Noam Chomsky, il linguista statunitense che il “New York Times” considera il maggior intellettuale vivente. Si tratta di un carteggio privato, datato 2007, cioè «prima dell’esplosione della crisi finanziaria, che ha sbattuto in faccia al mondo quanto in realtà ci siamo involuti e non evoluti nella difesa dei diritti dell’uomo e nella gestione dell’interesse pubblico». Tema cruciale: che fare, per cambiare le cose. Chomsky si appella a una variante della scommessa di Pascal: «Se decidiamo di rinunciare alla speranza, siamo certi che il peggio accadrà. Se invece manteniamo la speranza, possiamo immaginare che un futuro migliore arriverà». Barnard invece non ci crede più, non gli basta. Vede che tutto il nostro attivismo per i diritti finisce nel tritacarne del mainstream, senza che le atrocità del mondo vengano minimamente arginate.
-
Chiesa: siamo seri, Putin non voleva nemmeno la Crimea
L’Occidente è compatto con un monolite nelle smisurate menzogne che racconta. Non solo oggi. Sempre. La Russia, invece, non ha voce in Occidente. Nessuna. Storicamente l’ha avuta solo fino a che esistettero i partiti comunisti. Ma questi non esistono più da ormai 35 anni circa. E, infatti, la voce, le opinioni, le posizioni della Russia (non dico dei russi, per il momento) letteralmente non esistono in tutto l’Occidente. E, data l’assoluta ormai uniformità propagandistica del mainstream occidentale, le opinioni del Cremlino sono affidate esclusivamente alle capacità propagandistiche di Vladimir Putin. Che non bastano per bucare il muro di silenzio, e di russofobia, che circonda la Russia. Un bel guaio per noi europei che dissentiamo dalle linee guida del “consenso washingtoniano” e che non abbiamo strumenti per cambiare il corso delle cose, essendo stati espropriati delle regole della democrazia liberale.Vero, per carità, che Putin non ha “controparti interne”. Ma occorre aggiungere che il consenso che oggi circonda Putin è altissimo e tale che nemmeno in Occidente lo si mette in discussione (se non per dire che i russi sono un popolo bue, incompatibile con la nostra, superiore democrazia). Resta il fatto che il grande pubblico della società dello spettacolo, al 99%, non sa nulla né delle reali intenzioni della Russia di Putin, né dei suoi gesti politici. Si afferma, come un dato scontato (e scontato non è affatto) che Putin voglia conquistare l’Ucraina e che lo stia facendo in modo subdolo, “allestendo la protesta sul suolo ucraino”. Ho numerosi argomenti forti a sostegno della tesi che Putin desidera, in ogni modo, evitare l’annessione delle due regioni del sud est ucraino, cioè il Donbass e il Lugansk. Aggiungo che ho abbondanza di prove che Putin avrebbe volentieri evitato anche il referendum della Crimea.Ma capisco che questo lo si può capire solo se ci si libera di una parte del veleno russofobico che tutti siamo costretti a ingoiare. Basti un solo dato di fatto, incontrovertibile. I dodici milioni di russi dell’Ucraina sud-orientale (inclusi i due milioni di crimeani) non hanno mosso nemmeno il mignolo del piede sinistro durante i cinque mesi che hanno preceduto il colpo di Stato che ha abbattuto Yanukovic. Come mai? Il fatto è che non Putin ha assunto l’iniziativa dell’offensiva, ma gli Stati Uniti. I russi di Ucraina sono stati tranquilli e sottomessi fino a che non è emersa a Kiev la giunta con le pustole naziste che adesso conosciamo. Solo allora hanno cominciato, all’improvviso, a preoccuparsi, prima, e poi a reagire. Se si pensa che sia Putin a allestire la protesta nel Donbass, temo che si sbagli. Un conto è sostenere il peso dell’ingresso della Crimea. Un altro conto sarebbe assumersi il peso di un paese di oltre dieci milioni di persone, due volte la Svizzera.E, probabilmente, non si sa nulla della lettera che, nel pieno della crisi, Putin ha inviato a diciotto capi di governo dell’Europa, invitandoli a sedersi attorno a un tavolo per risolvere, insieme, il problema economico e sociale dell’Ucraina. Il mainstream italiano ha negato le notizie essenziali. L’altro errore, sesquipedale, è nel considerare Yanukovic come un uomo di Putin. Se avessimo seguito da vicino le vicende ucraine degli ultimi 23 anni, sapremmo che nessuno dei quattro presidenti che si sono succeduti a Kiev dopo la sua prima e unica indipendenza nazionale è stato “uomo di Mosca”. Sono stati tutti e quattro degli agenti dell’Occidente. Lo fu Kravchuk; lo fu Kuchma; lo fu, ovviamente, l’arancione Yushenko. Lo era anche l’oligarca Yanukovic. Il quale promosse e condusse, con totale miopia e stupidità, la trattativa con l’Europa che avrebbe dovuto sfociare nel trattato di Vilnius.Ovvio che Putin abbia cercato di fermarlo, nell’interesse della Russia. Ma non risulta che abbia organizzato un colpo di Stato per abbatterlo. Gli promise un prestito a tasso agevolato di 15 miliardi di dollari, più due miliardi all’anno di sconto sulla bolletta del gas. Se questa è un’aggressione, allora io devo aver dimenticato il vocabolario italiano. E poi, una domanda: tutti fanno i propri interessi, o sbaglio? E perché mai l’unico cui non è permesso di fare i propri interessi, per giunta senza spargimento di sangue, per giunta nelle immediate vicinanze delle sue frontiere, dovrebbe essere Putin? Strane pretese. E quale “civile difesa” dei propri diritti resterebbe ai russi di Ucraina alla luce del mostruoso pogrom di Odessa?Mi fermo qui. Io non sono né un “volontario forzato”, né un “partigiano senza domande”. A me pare di ragionare da europeo con la testa sul collo. Questa crisi è stata creata artificialmente da Washington (ricordate il “fuck Eu” della signora Victoria Nuland?). È destinata a colpire la Russia, senza dubbio, ma anche l’Europa, sottoponendola a un controllo strettissimo da parte Usa e tagliandole legami economici vitali, a cominciare da quelli energetici, con la Russia. Resta la domanda: ma non potevano aspettare le prossime elezioni, tra un anno, per fare fuori Yanukovic? Invece hanno avuto fretta. Proviamo a chiederci da dove è venuta tanta fretta americana e di parte dell’Europa. Io penso che l’Europa dovrebbe avere con la Russia un partenariato strategico amplissimo. Non vorrei più essere suddito dell’Impero, proprio mentre l’Impero non è più tale, vacilla, diventa sempre più aggressivo e irresponsabile. Dunque pericoloso. Non voglio andare in guerra. Contro nessuno. Dunque penso. Dunque cerco di difendermi.(Giulietto Chiesa, sintesi dell’intervento “Russia-Ucraina, chi fa propaganda e chi la subisce”, pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” il 7 maggio 2014, in risposta alle domande di un lettore).L’Occidente è compatto con un monolite nelle smisurate menzogne che racconta. Non solo oggi. Sempre. La Russia, invece, non ha voce in Occidente. Nessuna. Storicamente l’ha avuta solo fino a che esistettero i partiti comunisti. Ma questi non esistono più da ormai 35 anni circa. E, infatti, la voce, le opinioni, le posizioni della Russia (non dico dei russi, per il momento) letteralmente non esistono in tutto l’Occidente. E, data l’assoluta ormai uniformità propagandistica del mainstream occidentale, le opinioni del Cremlino sono affidate esclusivamente alle capacità propagandistiche di Vladimir Putin. Che non bastano per bucare il muro di silenzio, e di russofobia, che circonda la Russia. Un bel guaio per noi europei che dissentiamo dalle linee guida del “consenso washingtoniano” e che non abbiamo strumenti per cambiare il corso delle cose, essendo stati espropriati delle regole della democrazia liberale.