Archivio del Tag ‘Aldo Giannuli’
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Crolla il nano Macron (non Putin, il Papa, Xi Jinping: giganti)
Ad aprile, quando Macron fu trionfalmente eletto con il 62% dei voti, feci una scommessa: che la popolarità del nuovo e brillante capo di Stato della Francia sarebbe durata anche meno di quella di Hollande, per non dire di Sarkozy. Mi pare di aver vinto la scommessa: i sondaggi, a solo un mese dalle politiche che gli hanno regalato una maggioranza inaudita, la sua popolarità è calata di colpo di 10 punti. Peggio di lui solo Chirac nel 1995, ma il povero Chirac doveva reggere il confronto con un grande presidente come Mitterrand, mentre Macron deve confrontarsi solo con quell’ectoplasma di Hollande. Eppure credo che i francesi non sappiano apprezzare le qualità di questo nuovo presidente: ad esempio sceglie bene le scarpe, osservatele bene. Il quadro europeo attuale è questo: Inghilterra premier la May che non è sopportata neppure dal suo partito, Francia Macron di cui s’è detto, Spagna Rajoy che regge solo perché gli spagnoli si sono stufati di votare a ripetizione, Italia sede vacante e, in mezzo a tutti questi, la Merkel che, pur essendo una discreta massaia che eccelle nel bucato, sembra Bismarck. Peraltro va detto che dopo di lei sarà il diluvio perché si scorge solo una folla di mediocri ciabattini.Degli Stati Uniti non vale neppure la pena di dire. Ormai il ceto politico europeo sembra Biancaneve e i sette nani, dove anche Biancaneve è un po’ rachitica. Mi pare che sia arrivato il momento di porci qualche domanda: ma come mai stiamo selezionando un personale politico così scalcinato e che si preannuncia sempre peggiore? E per di più dopo che c’è stata l’esaltazione dell’uomo solo al comando, del leader carismatico e via dicendo. Bel risultato, parlare di uomo forte, di condottiero e trovarsi con questa schiera di molluschi andati a male! Ma il punto è proprio questo: la retorica dell’uomo forte è uno degli ingredienti del disastro, perché ha spostato tutta l’attenzione sulle caratteristiche eccezionali del leader, riducendo i partiti a mere appendici elettorali. In Italia siamo stati all’avanguardia producendo porcherie impresentabili come Forza Italia o il Pd, ma anche gli altri stanno messi decisamente male. Dove è più la Spd di un tempo, con i suoi rapporti di massa e i suoi centri studi? E che fine ha fatto il Ps francese, che un tempo ferveva di dibattiti politici e culturali? Solo comitati elettorali animati da piccoli faccendieri o, al massimo, qualche onesto funzionario di periferia. I partiti europei non producono più idee, non formano classi dirigenti, non organizzano conflitto sociale. Raccolgono solo voti sull’immagine del leader di turno.Ma un leader carismatico, per definizione, è un materiale umano un po’ raro e non si inventa. Sarebbe come dire “adesso ci serve un Leonardo da Vinci, cerchiamo chi fa da Leonardo”. Solo che di Leonardo o di Napoleone ne nascono uno ogni tanto e non è affatto detto che ogni tempo ne abbia a disposizione qualcuno. E allora che si fa? Si costruisce quel che manca, o meglio, si costruisce l’immagine dell’uomo eccezionale che ci guiderà nei prossimi anni: “Vedrete, questo sarà migliore di tutti gli altri che lo hanno preceduto!”. E i media si mettono al lavoro per inventarsi il nuovo Napoleone: e ci riescono, nel senso che producono una emozione collettiva che dura il tempo di una campagna elettorale. Passato il giorno del voto, nel giro di qualche mese (a volte settimane) la parure da grande condottiero crolla come cartapesta sotto la pioggia e viene fuori il nanerottolo che stava sotto il trucco. I nostri leader sono solo prodotti da laboratorio pubblicitario. Ormai operiamo la selezione del ceto politico sulla base della “capacità comunicativa” del prodotto da vendere.Direte: ma quando uno non ha niente da dire, come fa a comunicare? Non è importante che dica qualcosa, ma che dia la sensazione di farlo; e per questo è più importante la pausa, il piglio deciso, il gesto con cui accende una sigaretta, la battuta studiata a tavolino ma recitata con naturalezza, il sorriso seduttore e la grinta da domatore di belve. L’importante è che “buchi il video”. Semplicemente noi non stiamo cercando un grande stratega, ma l’attore che, per qualche settimana, può vestirne i panni. In questo la televisione è stata un castigo di Dio che ha potenziato tutte queste pulsioni verso il nulla (mi torna in mente il Popper di “Cattiva maestra televisione”). Facciamo una controprova di quel che dico: proviamo a indicare tre personaggi di cui oggi possiamo dire, sul piano internazionale, che emergono come grandi decisori, in grado di esercitare un peso sulla scena internazionale. Io vi propongo Putin, Xi Jinping e Papa Francesco. Sia chiaro che questo non significa condividere gli orientamenti di ciascuno o anche solo di uno di essi, ma solo una valutazione delle capacità politiche al netto di ogni altra considerazione. Poi mi direte se la triade è ben scelta o meno.E la prima considerazione che viene da fare è che questi tre personaggi hanno alle spalle grandi istituzioni, con una storia molto consolidata, con gruppi dirigenti reali: il partito comunista sovietico e il Kgb-Fsb per Putin (che si è formato in epoca sovietica), il Partito Comunista Cinese per Xi Jinping e la Chiesa cattolica per Papa Bergoglio. Strutture elitarie (certamente non democratiche) con apparati pesanti e una selezione durissima. In strutture del genere si imparano tante cose, soprattutto si impara che la politica è un’arte che chiede intelligenza, visione ampia a livello mondiale, densità strategica, tempismo, duttilità, intuito, eccetera. Anche semplicemente per scansare la tisana corretta al cianuro (cosa che ha la sua importanza in questi ambienti) ci vogliono queste capacità. E il risultato è una classe dirigente forse cinica, non sempre all’altezza dei suoi compiti; comunque, mediamente si tratterà di un personale politico di spessore (anche se questo non garantisce da momenti di decadenza). Non sono un estimatore dell’elitismo e spero sempre in classi dirigenti frutto di una selezione democratica, ma questa attuale è solo una caricatura della democrazia.(Aldo Giannuli, “La popolarità di Macron è in discesa precipitosa: ma va! Ma non mi dire!!”, dal blog di Giannuli del 26 luglio 2016).Ad aprile, quando Macron fu trionfalmente eletto con il 62% dei voti, feci una scommessa: che la popolarità del nuovo e brillante capo di Stato della Francia sarebbe durata anche meno di quella di Hollande, per non dire di Sarkozy. Mi pare di aver vinto la scommessa: i sondaggi, a solo un mese dalle politiche che gli hanno regalato una maggioranza inaudita, la sua popolarità è calata di colpo di 10 punti. Peggio di lui solo Chirac nel 1995, ma il povero Chirac doveva reggere il confronto con un grande presidente come Mitterrand, mentre Macron deve confrontarsi solo con quell’ectoplasma di Hollande. Eppure credo che i francesi non sappiano apprezzare le qualità di questo nuovo presidente: ad esempio sceglie bene le scarpe, osservatele bene. Il quadro europeo attuale è questo: Inghilterra premier la May che non è sopportata neppure dal suo partito, Francia Macron di cui s’è detto, Spagna Rajoy che regge solo perché gli spagnoli si sono stufati di votare a ripetizione, Italia sede vacante e, in mezzo a tutti questi, la Merkel che, pur essendo una discreta massaia che eccelle nel bucato, sembra Bismarck. Peraltro va detto che dopo di lei sarà il diluvio perché si scorge solo una folla di mediocri ciabattini.
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Giannuli: ma gli anti-Renzi del Pd sono peggiori di Matteo
Come al solito, non nascondo le mie opinioni e, nel nuovo braccio di ferro interno al Pd dico subito che sto dalla parte di Renzi senza se e senza ma. E vengo a spiegare il perché. Cominciamo da chi sono i suoi attuali contestatori: Romano Prodi, Walter Veltroni, Dario Franceschini, Nicola Zingaretti, tutti militanti “antemarcia” del Pd che ne hanno condiviso ogni nefandezza pre-renziana, ma che poi hanno seguito pedissequamente anche ogni nefandezza renziana, dalla “buona scuola”, all’abolizione dell’articolo 18, sino a quella riforma autoritaria della Costituzione per la quale hanno votato Sì anche nel referendum (e questo non glielo perdoneremo mai). Quindi, degli opportunisti incalliti. Dopo il 4 dicembre 2016, non hanno azzardato nessuna autocritica, nessun ripensamento, si sono limitati a fare i pesci in barile come se il referendum non ci fosse stato, e tantomeno hanno avuto il coraggio di mettere sotto processo il segretario che li aveva portati alla disfatta. Quindi anche vigliacchi. Poi è venuto il congresso e si sono schierati come un sol uomo con la sua maggioranza, magari nell’illusione di poterlo condizionare, così perdendo l’ultima occasione di deporre il despota. Quindi anche imbecilli.Ora cercando di disarcionare il tiranno con una congiura di palazzo che, ovviamente, si sgonfierà appena Renzi tossirà. E dovremmo fare il tifo per questa congrega di opportunisti vigliacchi ed imbecilli? Ma, mi si dirà, Renzi non ammette nemmeno la sconfitta e “non ragiona”. Ma quando mai?! Renzi, che non è un’aquila, ma non è nemmeno scemo, lo sa perfettamente che si è trattato di una sconfitta pesantissima. Ma, proprio perché ragiona, sa di non poterlo ammettere: se lo facesse, dovrebbe anche riconoscere che questo è il risultato dei suoi errori, magari dovrebbe accettare di riaprire il discorso sulle coalizioni e subire veti e oltraggi vari, o addirittura farsi da parte. Come ha giustamente detto Sorgi: la coalizione di centrosinistra si fa se Renzi fa un passo indietro, ma Renzi non ha alcuna intenzione di fare quel passo. Ma così condanna il Pd a perdere? Sì, ma a Renzi del Pd non interessa assolutamente nulla, a lui interessa la sua posizione di potere anche a costo di una nuova scissione. E sa che di possibilità di arrivare al 40% non se ne parla nemmeno.Secondo voi perché è diventato proporzionalista? A lui interessa restare alla testa di quella che ormai è la lista Renzi. Questo non lo hanno capito i suoi “oppositori” della venicinquesima ora che, peraltro, non riescono a pensare altro che la minestra riscaldata del centrosinistra anni Novanta riunito intorno ad un nome nuovo: Romano Prodi! Renzi è un avversario, per la verità un po’ grossier, sleale, cafone, di destra, truffatore. Tutto vero, ma ha almeno la qualità di esistere e avere qualche consistenza; i suoi avversari sono mediocri ectoplasmi. E poi, diciamocelo, qui il problema non è quello di un miglior segretario del Pd ma quello di cancellare il Pd dalla carta geografica. E, sotto questo profilo, Renzi ci dà forti garanzie di farlo più in fretta degli altri, che magari se la trascinano per chissà quanto altri tempo. Ergo: dai Matteo, pestali!(Aldo Giannuli, “Forza Matteo: rottamali, smembrali, pattumierizzali!!!”, dal blog di Giannuli del 3 luglio 2017).Come al solito, non nascondo le mie opinioni e, nel nuovo braccio di ferro interno al Pd dico subito che sto dalla parte di Renzi senza se e senza ma. E vengo a spiegare il perché. Cominciamo da chi sono i suoi attuali contestatori: Romano Prodi, Walter Veltroni, Dario Franceschini, Nicola Zingaretti, tutti militanti “antemarcia” del Pd che ne hanno condiviso ogni nefandezza pre-renziana, ma che poi hanno seguito pedissequamente anche ogni nefandezza renziana, dalla “buona scuola”, all’abolizione dell’articolo 18, sino a quella riforma autoritaria della Costituzione per la quale hanno votato Sì anche nel referendum (e questo non glielo perdoneremo mai). Quindi, degli opportunisti incalliti. Dopo il 4 dicembre 2016, non hanno azzardato nessuna autocritica, nessun ripensamento, si sono limitati a fare i pesci in barile come se il referendum non ci fosse stato, e tantomeno hanno avuto il coraggio di mettere sotto processo il segretario che li aveva portati alla disfatta. Quindi anche vigliacchi. Poi è venuto il congresso e si sono schierati come un sol uomo con la sua maggioranza, magari nell’illusione di poterlo condizionare, così perdendo l’ultima occasione di deporre il despota. Quindi anche imbecilli.
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Un Macron italiano: i poteri forti vogliono sostituire Renzi
Girano voci, riprese da giornali come il “Foglio”, su chi potrebbe essere il Macron italiano in un prossimo futuro. I nomi più gettonati sono tre: lo scontatissimo Mario Draghi, il ministro dell’interno Marco Minniti e l’editore Urbano Cairo. «Dire Macron – sottolinea Aldo Giannuli – significa dire una cosa: un nuovo partito “liquido” (anzi gassoso) che si presenti come “né di destra né di sinistra”, ma “della nazione”, raccolto intorno ad un personaggio con simpatie trasversali e che si presenti in rottura delle tradizioni politiche precedenti». Di solito, aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «questi discorsi preparano un partito di destra», sostanzialmente «tutto interno al sistema neoliberista», non nuovo ma «solo ben truccato». Ma chi potrebbe interpretare questo ruolo? E con quali probabilità di successo? Soprattutto: che impatto ha già, sul sistema, il semplice fatto che se ne parli? Per Giannuli, in pole position è saldamente il supremo tecnocrate della Bce, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni”, del 2014) presenta come autorevole leader della supermassoneria internazionale reazionaria, espressione dell’élite neo-feudale che, con l’ideologia del rigore, ha azzerato gli storici diritti sociali conquistati negli anni ‘70.Minniti? «Sembra solo una boutade», scrive Giannuli nel suo blog. «Anche se Macron non era esattamente vergine di impegno politico, essendo stato più volte ministro, Minniti è una vecchia stella del varietà che calca le scene da un quarto di secolo: a spacciarlo per nuovo non riuscirebbe nemmeno Paolo Rossi in preda al brandy». E poi il ministro dell’interno «non ha nemmeno “le phisique du role”: dote essenziale di questi nuovi politici è di essere giovani e bellocci». La vera novità sarebbe invece Cairo, che non è giovanissimo ma «ha un esercito mediatico dietro le spalle, una immagine di successo». Inoltre «non si è mai compromesso né a destra né a sinistra (o meglio: né con Berlusconi né con Renzi) e potrebbe andar bene per tutte le stagioni». Ma sia Draghi che Cairo, aggiunge Giannuli, non è detto che ci stiano: il primo potrebbe puntare verso il Fmi o altro incarico finanziario di livello mondiale, il secondo «potrebbe avere la tentazione di essere un nuovo Murdoch e consolidare a livello europeo il suo ruolo di grande tycoon: e fare il presidente del Consiglio in Italia, con i tempi che arrivano, non è che sia una prospettiva così eccitante».Possibilità di successo della manovra? «Intanto dobbiamo vedere quanto dura la popolarità del Macron originale, cosa della quale è lecito dubitare», continua Giannuli. «Ma poi, sono anni che dura questa infatuazione esterofila degli italiani che di volta in volta hanno cercato il Blair italiano, il Sarkozy italiano, lo Zapatero italiano, persino lo Tsipras italiano (e qualcuno ci ha addirittura intestato la sua lista elettorale), ma la cosa non ha mai prodotto particolari risultati, proprio per il carattere artificiale ed effimero del tentativo». Copione che non cambierà nemmeno stavolta: probabilmente sforneranno «un prodotto vendibile fra gli elettori italioti», la platea del “Partito della Nazione” già ventilato da Renzi. Piuttosto, Giannuli si concentra sul motivo di queste voci insistenti: può significare che «i poteri forti e le centrali di sistema non si fidino più di Renzi e diano per spacciato Berlusconi che, con i suoi 80 suonati, non ha più prospettive neanche di medio periodo». Si cerca «qualcosa di apparentemente nuovo, che rompa anche con l’ombra delle tradizionali famiglie politiche», considerando che «i partiti della Seconda Repubblica furono pallide imitazioni di quelli della Prima».La vera novità, ragiona Giannuli, «è la liquidazione dei partiti come forme di partecipazione organizzata stabilmente sul territorio, sostituiti dal ruolo di personalità apparentemente carismatiche». Ma oggi nessuno degli aspiranti a questo ruolo sarebbe pronto per le prossime elezioni, per cui «la prossima legislatura sarà solo un intermezzo per permettere la costituzione dei nuovi soggetti e sgombrare il terreno da quelli attuali». Tutto questo, conclude Giannuli, «ha come suo avversario dichiarato il M5S (il “populismo” italiano)». Ma la manovra di riassetto dei poteri forti «probabilmente si avventerà prima di tutto sulla Lega, la cui presenza è di forte disturbo ad una operazione del genere». In altre parole, queste «sono le doglie del parto della Terza Repubblica». E nessuno (a parte Salvini con i suoi slogan) si prenota per l’unica vera battaglia utile: affrontare di petto la distorsione dell’assetto Ue, con Bruxelles che impone agli Stati i suoi diktat, suggeriti dall’élite finanziaria. Lo stesso Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, sta pensando a un nuovo soggetto politico, il Partito Democratico Progressista, guidato da un economista come Nino Galloni. «La prima cosa da fare? Eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione, andare a Bruxelles e dire, a muso duro: o riscriviamo i trattati europei, o l’Italia abbandona l’Ue».Girano voci, riprese da giornali come il “Foglio”, su chi potrebbe essere il Macron italiano in un prossimo futuro. I nomi più gettonati sono tre: lo scontatissimo Mario Draghi, il ministro dell’interno Marco Minniti e l’editore Urbano Cairo. «Dire Macron – sottolinea Aldo Giannuli – significa dire una cosa: un nuovo partito “liquido” (anzi gassoso) che si presenti come “né di destra né di sinistra”, ma “della nazione”, raccolto intorno ad un personaggio con simpatie trasversali e che si presenti in rottura delle tradizioni politiche precedenti». Di solito, aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «questi discorsi preparano un partito di destra», sostanzialmente «tutto interno al sistema neoliberista», non nuovo ma «solo ben truccato». Ma chi potrebbe interpretare questo ruolo? E con quali probabilità di successo? Soprattutto: che impatto ha già, sul sistema, il semplice fatto che se ne parli? Per Giannuli, in pole position è saldamente il supremo tecnocrate della Bce, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni”, del 2014) presenta come autorevole leader della supermassoneria internazionale reazionaria, espressione dell’élite neo-feudale che, con l’ideologia del rigore, ha azzerato gli storici diritti sociali conquistati negli anni ‘70.
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Attacco hacker WannaCry, prove generali di cyber-golpe?
Siamo al primo attacco informatico globale: decine di migliaia di siti e server infettati (9.000 all’ora, di ben 99 paesi diversi) sia di comuni cittadini che di banche, ospedali, imprese di trasporto o istituzioni da parte di un virus denominato WannaCry. Il virus ha attaccato i pc con la richiesta di 300 dollari in bitcoin per poter essere sbloccato. Peraltro un giovanotto poco più che ventenne è riuscito in 24 ore a fornire il programma che ha neutralizzato (forse solo in parte) l’attacco. Di che si tratta? In apparenza, per l’ampiezza e la contemporaneità dell’attacco, sembrerebbe l’impresa di un gruppo di hacker particolarmente dotati. Non sono un esperto in materia e non so giudicare quanto sia stata tecnologicamente sofisticata l’azione (chiederò lumi ai miei amici), ma ad occhio e da profano, non mi sembra una cosa tanto comune, visto che è riuscito a neutralizzare molti dispositivi antivirus anche di qualche livello: fra gli infettati c’è stato anche il sito della banca centrale russa che, si immagina, abbia antivirus un po’ più potenti di quelli di un comune utente di Internet. Quindi, non sembrerebbe una cosa alla portata di qualsiasi hacker, ma di un gruppo particolarmente agguerrito; ma di cosa può trattarsi?L’apparenza farebbe pensare ad un’azione a scopo estorsivo, quindi un episodio, per così dire, di cybercriminalità comune. Può darsi, perché no? Ma la cosa convince poco, per diversi motivi. Logica vorrebbe che attacchi di questo tipo mirino ai grandi numeri di utenti comuni, per chiedere piccoli riscatti, oppure, al contrario (ma è molto più impegnativo) pochi siti importanti per chiedere riscatti ben più consistenti. Qui abbiamo una strana ammucchiata con la richiesta di poche centinaia di dollari, per di più in bitcoin, che non sappiamo se e come pensino di convertire in valuta ufficiale. Insomma: ti attrezzi per violare siti particolarmente protetti e che, dopo, scateneranno una reazione di potenti servizi segreti, il tutto per 300 dollari? Poi, che io sappia, è la prima volta che si chiede un riscatto in bitcoin che espone a rischi di tracciabilità ben più consistenti del comune denaro. Ne so poco, ma immagino che, se si segnano con inchiostri simpatici le banconote dei riscatti, sia ancora più realizzabile “marcare” l’algoritmo di un bitcoin in modo da renderlo riconoscibile e risalire a chi lo abbia speso. Poi sorprende la grande rapidità con cui l’attacco sia stato neutralizzato. Insomma, la cosa vi convince?Sarebbe più credibile l’ipotesi di una specie di “spot pubblicitario” di una qualche impresa che venda antivirus, anche se si tratterebbe di una cosa molto rischiosa. E, peraltro, la facilità con cui il virus è stato neutralizzato farebbe pensare ad un flop. L’ipotesi più consistente è quella dell’attacco di un servizio segreto statale e, infatti, due giganti della lotta al cybercrime come l’americano Symantec ed il russo Kaspersky hanno offerto elementi che indicano come possibile responsabile il servizio segreto nord-coreano. Sostanzialmente gli elementi sarebbero questi: l’attacco è avvenuto in concomitanza con il lancio del missile balistico a lungo raggio da parte del regime di Kim Jong-un; in secondo luogo, “WannaCry” avrebbe al suo interno codici che risalgono ad una precedente versione dello stesso virus usato in passato dal “Lazarus Group”, che opererebbe nella Corea del Nord, che proprio con questa precedente versione di “WannaCry” riuscì a depredare 81 milioni di dollari da una banca del Bangladesh. Resta da capire perché questa volta si accontenterebbero di soli 300 dollari in bitcoin.Intendiamoci: l’ipotesi ci sta tutta, perché è evidente che in un paese come la Nord Corea un gruppo hacker del genere non potrebbe operare se non fosse una costola dei servizi segreti; peraltro, Kim Jong-un è sospettabilissimo di qualsiasi cosa. Però, qui abbiamo solo indizi: la coincidenza con il lancio del missile potrebbe essere del tutto occasionale e la presenza di pezzi di un programma precedente non vuol dire molto, dato che potrebbero benissimo esser stati usati da altri, magari interessati proprio ad attaccare la Nord Corea. Dunque ipotesi possibile, ma sin qui non provata. C’è un’altra ipotesi che merita d’essere valutata: che questo colpo venga da un qualche servizio segreto statale, ma diverso dalla Nord Corea e magari di qualche grande potenza, che non proviamo neppure a identificare sulla base di questi dati. Con che scopo? E se fossimo in presenza di una sorta di grande prova? Come cantava Jannacci, qualcosa per “vedere di nascosto l’effetto che fa”. O anche un sasso lanciato in piccionaia per vedere che uccelli si alzano in volo. Fuor di metafora: per saggiare i punti vulnerabili e la reazione degli altri. Una sorta di grandi manovre “cyber”, in preparazione di qualcosa. Non è un segnale tranquillizzante, decisamente.(Aldo Giannuli, “L’attacco hacker WannaCry, bruttissimo segno”, dal blog di Giannuli del 17 maggio 2017).Siamo al primo attacco informatico globale: decine di migliaia di siti e server infettati (9.000 all’ora, di ben 99 paesi diversi) sia di comuni cittadini che di banche, ospedali, imprese di trasporto o istituzioni da parte di un virus denominato WannaCry. Il virus ha attaccato i pc con la richiesta di 300 dollari in bitcoin per poter essere sbloccato. Peraltro un giovanotto poco più che ventenne è riuscito in 24 ore a fornire il programma che ha neutralizzato (forse solo in parte) l’attacco. Di che si tratta? In apparenza, per l’ampiezza e la contemporaneità dell’attacco, sembrerebbe l’impresa di un gruppo di hacker particolarmente dotati. Non sono un esperto in materia e non so giudicare quanto sia stata tecnologicamente sofisticata l’azione (chiederò lumi ai miei amici), ma ad occhio e da profano, non mi sembra una cosa tanto comune, visto che è riuscito a neutralizzare molti dispositivi antivirus anche di qualche livello: fra gli infettati c’è stato anche il sito della banca centrale russa che, si immagina, abbia antivirus un po’ più potenti di quelli di un comune utente di Internet. Quindi, non sembrerebbe una cosa alla portata di qualsiasi hacker, ma di un gruppo particolarmente agguerrito; ma di cosa può trattarsi?
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Nuovo disordine mondiale: morti gli Stati, c’è solo il denaro
L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.Quanto alle sconclusionate avventure degli Usa nei paesi mediorientali e della loro misera conclusione non è neppure il caso di dire. E, date queste premesse, perché mai sarebbe dovuta andare diversamente? E’ andata come era logico che andasse. L’idea che la globalizzazione sarebbe stata un’epoca di stabile “ordine mondiale”, nonostante il deperimento degli Stati nazionali, si basava essenzialmente sulla convinzione che di Stato ne bastasse uno, quello Usa, di cui tutti gli altri sarebbero stati solo pallide agenzie locali. Molto successo ebbe chi (Negri) parlava di un mitico Impero acefalo, di cui gli Usa erano solo il principale braccio esecutivo, non si capisce al servizio di quale cervello, una sorta di Impero-processo che superava definitivamente l’ordine westfalico verso non si sa bene cosa. E c’era anche chi (Huntington) parlava, con maggiore realismo, di un ordine mondiale fondato su sette o otto modelli di civiltà, raccolti intorno ad una nazione guida, ma pur sempre basato sull’egemonia occidentale, se non proprio americana e basta. Ma le cose non sono andate in questo senso, e la realtà si è dimostrata molto più fantasiosa dei progettisti del nuovo ordine mondiale.L’esperienza storica dimostra che, quando emerge un credibile disegno egemonico, si forma una coalizione dei soggetti più deboli (o comunque di quanti se ne sentono aggrediti) contro di esso e, non di rado, la coalizione vince. Waterloo, Stalingrado, Verdun, stanno lì a dimostrarlo. E’ accaduto anche questa volta, prima con la Comunità di Shanghai, a guardia dello spazio strategico cino-russo, e poi con la formazione del Bric, che alleava una ex grande potenza in via di ripresa (la Russia) con tre emergenti (Cina, India, Brasile), e cui, poco dopo, si aggiungeva il Sud Africa. Nasceva così l’embrione di un incerto ordine mondiale basato su una sola grande potenza ed un certo numero di grandi potenze regionali. La prima era l’unica in grado di intervenire in ogni angolo del pianeta, grazie alle sue 745 basi militari, alle sue 7 flotte e al predominio satellitare, ma le altre in grado di difendere militarmente il proprio spazio strategico. Per di più la globalizzazione moltiplicava i piani di scontro rendendoli insieme interdipendenti (economia, finanza, guerra cognitiva, soft power, guerra coperta, iperterrorismo) e la stessa dimensione spaziale acquisiva tre nuove sfere (sottosuolo marino, cyber-spazio e spazio satellitare) per cui la difesa del predominio assoluto, in ogni dimensione e su ciascun piano di scontro, comporta costi proibitivi, e questo rende sempre più imperfetto quel predominio unilaterale che sembrava destinato a durare a lungo nel tempo.Negli interstizi di questo ordine ineguale, si inserivano man mano nuovi attori di minore peso (Indonesia, Messico, Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Argentina, Venezuela, Vietnam, Pakistan, le due Coree, eccetera), ma che iniziavano a giocare in autonomia una propria partita nella sfera di appartenenza. Nello stesso tempo, i pilastri delle alleanze occidentali iniziavano a indebolirsi, mostrando vistose crepe: l’Unione Europea, priva di un progetto strategico di sé, iniziava a naufragare con il riemergere dei protagonismi nazionali, la Nato andava perdendo senso, sotto i colpi dell’unilateralismo americano voluto da Bush e poi solo parzialmente smentito da Obama, nel Fmi iniziava a sentirsi la pressione dei nuovi soggetti (Cina in testa) e fra Usa ed Europa iniziavano a manifestarsi i sintomi di una guerra commerciale e monetaria. E il mondo ha iniziato a dividersi in tre aree, così come lo descrive la copertina del libro di Di Nolfo: quella verde del blocco occidentale (Usa, Ue, Australia, Giappone), quella gialla dell’area Bric (India, Russia, Cina, Brasile, cui aggiungeremmo il Sud Africa e i paesi intermedi fra Russia e Cina) e quella viola, che definiremmo “della turbolenza”, che include l’America Latina ispanofona, l’Africa, i paesi islamici e singole aree asiatiche come il Vietnam. Il tutto in un equilibrio precario pronto a far pendere un piatto della bilancia o l’altro.Inizialmente la sfida degli emergenti venne taciuta o avanzata con grande timidezza, tanto che, ancora nel 2012, Kupchan poteva illudersi che il predominio americano, vuoi per i rapporti di forza militari, vuoi per quelli finanziari, non era destinato ad affievolirsi, per cui l’odine mondiale sarebbe rimasto lo stesso ancora per un tempo indefinito, e che eventuali sfidanti potevano al massimo sperare ciascuno di ottenere un rapporto preferenziale con gli Usa. Ma le cose non sono andate in questo modo e la presidenza Trump è solo una brusca accelerazione su una traiettoria precedente, che vede gli Usa come unica superpotenza, ma assediata dai suoi sfidanti e con un rapporto di forse sempre meno favorevole. Contrariamente a quello che la teoria delle relazioni internazionali ha sempre sostenuto, non sempre il peggior pericolo di guerra viene dall’anarchia internazionale; qualche volta è proprio l’ordine a generare il massimo disordine.(Aldo Giannuli, “Elogio del nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 30 marzo 2017; il post sintetizza un intervento di Giannuli su “Limes”).L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.
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Le Pen vince o perde? Da noi è uguale, va male a Pd e M5S
Cattive notizie, per i maggiori partiti italiani – 5 Stelle e Pd – sia in caso di vittoria di Marine Le Pen, sia in caso di sconfitta della “signora” del Front National. E’ il politologo Aldo Giannuli a provare a valutare i riflessi, sul nostro paese, dell’evento europeo più atteso (e temuto), le presidenziali francesi, tra poco più di due mesi. «La prima conseguenza sarà di carattere generale e riguarderà l’Europa: se a vincere sarà la Le Pen, non c’è dubbio che salterà tutto in aria, euro, Ue e compagnia cantante». Se invece dovesse affermarsi Fillon, o più probabilmente Macron, «questo non risolverà la crisi della Ue, ma, al massimo, gli darà un po’ di fiato per qualche tempo, soprattutto se la Le Pen dovesse superare il 45%». Quanto all’Italia, in caso di vittoria della Le Pen, «ovviamente il maggior beneficiario sarebbe Salvini, che potrebbe aspirare alla leadership della destra e ad un risultato con almeno il 2 davanti per il suo partito, soprattutto se Toti e i suoi amici dovessero staccarsi da Fi». Tramonterebbe la stella del Cavaliere, che dovrebbe «rassegnarsi alla marginalità o ad accettare la leadership di Salvini», e si aprirebbe uno «scenario da incubo per il Pd», che dovrebbe «fronteggiare una marea anti-euro».Il Pd, continua Giannuli nella sua analisi, in caso di boom No-Euro «non avrebbe neppure un possibile alleato di governo (Fi)», e sarebbe «costretto a schiacciarsi contro la sua sinistra e cercare qualche intesa con il M5S». Se il segretario fosse ancora Renzi, «il suo declino acclererebbe e la crisi del Pd si approfondirebbe, con rischio di nuove scissioni». Ma lo scenario sarebbe «non bello» anche per il Movimento 5 Stelle, «che scoprirebbe che la Lega non è un possibile alleato, ma un temibile concorrente che inizierebbe a insidiare il suo elettorato». Per il Mdp – gli scissionisti bersaniani – potrebbero aprirsi spazi nel caso di crisi del Pd, «ma potrebbero ridursi se questo portasse ad una nuova segreteria più di “sinistra”» del Partito Democratico, «che potrebbe portare al rientro di almeno una parte del partito appena nato». Di riflesso, in questo caso, “Sinistra Italiana” «potrebbe giovarsi del rapido declino di Mdp». Morale: se Marine Le Pen conquista l’Eliseo, in Italia «fine della legislatura già dal giorno dei risultati, e nuove elezioni entro sei mesi».E lo scenario che vede la Le Pen sconfitta? «Ovviamente, il maggiore danneggiato sarebbe Salvini, che forse pagherebbe il prezzo di una scissione di Bossi e vedrebbe archiviato il suo sogno di diventare il leader di tutta la destra». Per contro, «questo segnerebbe il rilancio del Cavaliere, che potrebbe tornare ad essere il punto di attrazione della destra», e non solo per i leghisti e “Fratelli d’Italia”, «ma anche per la residua area di centro (Alfano, Casini, Verdini e frattaglie varie, da Tosi a Marchini a Fitto e ai resti dell’ex area Giannino)», e questo, secondo Giannuli, potrebbe riportare Forza Italia oltre il 20% e l’area di centrodestra «verso un pericoloso 34-35%». Per il Pd «sarebbe una (amarissima) mezza vittoria, perché gli darebbe l’alleato con cui fare un governo di “unione nazionale” o giù di lì, ma potrebbe farlo diventare terzo schiacciato fra la nuova destra ed il M5S: brutto affare, che riproporrebbe la crisi interna». I 5 Stelle potrebbero «uscirne bene, evitando la concorrenza della Lega», che però, in uno scenario del genere, «difficilmente potrebbe appoggiare dall’esterno un governo Di Maio, ammesso che i voti possano bastare». Ma, se (come sembra probabile) il partito di Grillo non dovesse raggiungere il 40%, «si troverebbe a fare i conti con la delusione della sua base». Risultato: «Probabile governo Fi-Pd e durata un po’ più lunga della legislatura, diciamo 2 anni».Cattive notizie, per i maggiori partiti italiani – 5 Stelle e Pd – sia in caso di vittoria di Marine Le Pen, sia in caso di sconfitta della “signora” del Front National. E’ il politologo Aldo Giannuli a provare a valutare i riflessi, sul nostro paese, dell’evento europeo più atteso (e temuto), le presidenziali francesi, tra poco più di due mesi. «La prima conseguenza sarà di carattere generale e riguarderà l’Europa: se a vincere sarà la Le Pen, non c’è dubbio che salterà tutto in aria, euro, Ue e compagnia cantante». Se invece dovesse affermarsi Fillon, o più probabilmente Macron, «questo non risolverà la crisi della Ue, ma, al massimo, gli darà un po’ di fiato per qualche tempo, soprattutto se la Le Pen dovesse superare il 45%». Quanto all’Italia, in caso di vittoria della Le Pen, «ovviamente il maggior beneficiario sarebbe Salvini, che potrebbe aspirare alla leadership della destra e ad un risultato con almeno il 2 davanti per il suo partito, soprattutto se Toti e i suoi amici dovessero staccarsi da Fi». Tramonterebbe la stella del Cavaliere, che dovrebbe «rassegnarsi alla marginalità o ad accettare la leadership di Salvini», e si aprirebbe uno «scenario da incubo per il Pd», che dovrebbe «fronteggiare una marea anti-euro».
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Nuova Tangentopoli, ci risiamo? Ma stavolta senza Piano-B
Vincenzo De Luca indagato per voto di scambio, Beppe Sala per l’Expo, la romana Paola Muraro per reati ambientali, Raffaele Marra per corruzione, Luca Lotti per rivelazione di segreto d’ufficio. Sotto tiro un po’ tutti, da Renzi alla Raggi. «In meno di una settimana piovono avvisi di garanzia, arresti, interrogatori fiume: sembrano tornati i tempi di Mani Pulite», scrive Aldo Giannuli, che osserva: si tratta di casi non esattamente “freschi”, lasciati dormire per mesi e fatti esplodere solo dopo il referendum: «E’ come se il 4 dicembre sia scattato il via libera», così adesso «piovono sberle», con alcuni giornali che lasciano capire che «dopo Lotti seguirebbe il padre di Renzi, poi Renzi stesso». In attesa che emergano elementi certi, aggiunge Giannuli, «non possiamo non notare questa nuova somiglianza con il 1992-93: allora fu una ondata di inchieste giudiziarie che precedette un referendum chiave», quello sulla legge elettorale maggioritaria. «Ora sembra il contrario: un referendum che apre la strada ad una valanga giudiziaria». E se all’inizio degli anni ‘90 lo tsunami di Tangentopoli aiutò ad affermarsi «un nuovo ordine mondiale monopolare, in piena espansione finanziaria e con classi dirigenti che godevano di un sufficiente (se non ampio) consenso popolare», oggi è l’esatto contrario: «L’ordine mondiale monopolare è franato, ma non è stato sostituito da un diverso ordine mondiale multipolare».Gli Usa, scrive Giannuli sul suo blog, conservano ancora consistenti residui dell’ordine monopolare: il controllo della moneta di riferimento internazionale, una supremazia militare scossa dalle sconfitte mediorientali ma che ne fa ancora la maggiore potenza mondiale, militare e finanziaria, con peso preponderante negli organismi internazionali. Ma gli Stati Uniti «non hanno più la forza di imporre unilateralmente le decisioni della comunità internazionale, non riescono ad avere un colpo d’ala che li trascini fuori dalla crisi, e questo determina un malessere interno che si è espresso nell’elezione di Trump». D’altra parte, i Brics sono fortemente cresciuti: paesi emergenti come Messico, Indonesia e Corea si stanno affermando sul piano economico, India e Cina stanno diventando anche potenze militari, mentre la Russia lo sta ridiventando. Tuttavia «iniziano a risentire della crisi euro-americana», quindi «hanno perso lo slancio economico di otto anni fa», e ancora «non riescono a sovvertire la preponderanza americana». In altre parole, «gli Usa non hanno più la forza imperiale di vent’anni fa, ma hanno la forza per impedire che si affermi un equilibrio multipolare basato su grandi potenze regionali». A loro volta, «i Brics hanno la forza per impedire l’ordine monopolare, ma non quella per ricacciare gli Usa entro la rispettiva area regionale».Per di più, continua Giannuli, «c’è una profonda asimmetria fra i paesi occidentali, a regime liberaldemocratico e ad economia liberista, nei quali la finanza ha un forte potere condizionante, ed i paesi emergenti, in particolare Russia e Cina, dove il potere politico ha assai meno condizionamenti ed in cui sussistono molti elementi di capitalismo di Stato». E così «non abbiamo due ipotesi di ordine mondiale» ma, di fatto, «nessun ordine mondiale vigente», mentre i vari “attori” si sfidano indirettamente in tante crisi locali sempre più numerose: Ucraina, Siria, Iran, Oceano Pacifico, Oceano Indiano. Crisi che, «per ora, scaricano la tensione che si va accumulando», in una situazione di “stallo instabile”. A monte, s’è inceppato il motore dell’Occidente, «investito da una crisi finanziaria che è man mano divenuta economica, con i tassi occupazionali più bassi dell’ultimo trentennio, una massiccia erosione dei salari e una conseguente caduta dei consumi». Il suo eccezionale prolungamento – di fatto, questa è l’unica crisi paragonabile alla Grande Depressione del 1929 – sta ora ripercuotendosi sui paesi fornitori di materie prime (Brasile in primo luogo, ma anche Russia ) e sui paesi in cui era stata delocalizzata la manifattura (in particolare la Cina, che resiste in parte grazie alla tenuta del mercato interno).Di fronte a questo andamento economico-finanziario, continua il politologo dell’ateneo milanese, le banche centrali e quelle di investimento «non hanno trovato altro rimedio che continue ondate di liquidità che hanno avuto soprattutto l’effetto di ingigantire il debito grazie al meccanismo degli interessi». La sostanza è che «le classi dirigenti rifiutano di prendere atto dell’origine della crisi», cioè «la strutturazione iper-finanziaria dei mercati, che ha trovato sfogo prima nel crollo dei mutui sub-prime e dopo nello scoppio delle successive bolle delle materie prime e nel gonfiamento dei debiti pubblici». Dell’enorme massa di liquidità emessa, ben poco è andato all’economia reale (forse neppure il 10%) mentre il resto ha trovato re-impieghi finanziari: «Si è affermato un modello di “produzione di denaro a mezzo denaro” saltando il passaggio della merce che nessuno ha messo o mette in discussione». Allo stesso modo, nessuno ha contestato «l’assurdo ordinamento tributario punitivo nei confronti dei ceti medi e delle classi subalterne», che premia «le grandi centrali finanziarie».Globalizzazione finanziaria: «La mobilità incontrollata dei capitali ha di fatto concesso al grande capitale privato di scegliersi lo Stato cui pagare le tasse». L’inevitabile risultato «è stata una fortissima pressione fiscale dei paesi più indebitati (come Grecia, Portogallo e Italia) che sta soffocando ogni possibilità di ripresa di quei paesi». Non è strano che non ci siano stati ravvedimenti: «Rivedere le regole dell’ordinamento neoliberista implicherebbe una secca perdita di potere delle classi capitalistiche». D’altra parte, «la persistenza del sistema di potere neoliberista è anche prodotta dalla assenza di una opposizione interna al sistema politico: la completa omologazione delle socialdemocrazie al neoliberismo, di cui, ormai, sono solo una piccola variante, ha privato il sistema di ogni possibilità ai autocorrezione». E questo, conclude Giannuli, è il principale motivo dell’ondata neoliberista che si è scatenata tanto in Europa, quanto negli Usa. «La crisi continua a mordere, e non c’è una ipotesi riformista». Risultato: «L’elettorato vota partiti neo-populisti, prevalentemente di destra», protestando contro l’immigrazione di massa e contro un ordinamento che, «minando il principio di sovranità nazionale, svuota di significato il principio della sovranità popolare e, di conseguenza, la democrazia».Il fenomeno dell’immigrazione? «Un comodo nemico su cui scaricare la colpa di tutto, un po’ come con gli ebrei nella crisi degli anni Trenta», con l’aggravante che, oggi, «la coincidenza con il terrorismo jihadista fornisce alimento all’industria della paura». La sinistra non-liberista? Non pervenuta: sulla questione migranti, la sinistra europea – dalla Linke a “Podemos” – non va oltre «un genericissimo internazionalismo venato di buonismo», senza riuscire a prospettare «una concreta politica di accoglienza e integrazione». Silenzio anche su globalizzazione, Ue e euro: la sinistra «teme ogni presa di distanza», leggendola come «un ritorno al nazionalismo, di cui diffida». Il risultato è «una sostanziale paralisi, che rende irrilevante la sinistra che non vuole i tecnocrati di Bruxelles e le politiche di austerità, ma difende l’euro (come se le due cose fossero estranee l’una all’altra), e si accontenta di favoleggiare su “un nuovo euro” che nei fatti non può esistere». Così la piccola trincea della sinista diventa «irrilevante, nello scontro fra l’ondata populista e l’establishment». Per troppo tempo questa sinistra «ha smesso di studiare», di capire la crisi. E ora subisce anch’essa «una ondata di protesta che delegittima le classi dirigenti dall’interno», creando «una condizione favorevole al crollo del sistema politico italiano ancora più spiccata che nel 1992-93».Vincenzo De Luca indagato per voto di scambio, Beppe Sala per l’Expo, la romana Paola Muraro per reati ambientali, Raffaele Marra per corruzione, Luca Lotti per rivelazione di segreto d’ufficio. Sotto tiro un po’ tutti, da Renzi alla Raggi. «In meno di una settimana piovono avvisi di garanzia, arresti, interrogatori fiume: sembrano tornati i tempi di Mani Pulite», scrive Aldo Giannuli, che osserva: si tratta di casi non esattamente “freschi”, lasciati dormire per mesi e fatti esplodere solo dopo il referendum: «E’ come se il 4 dicembre sia scattato il via libera», così adesso «piovono sberle», con alcuni giornali che lasciano capire che «dopo Lotti seguirebbe il padre di Renzi, poi Renzi stesso». In attesa che emergano elementi certi, aggiunge Giannuli, «non possiamo non notare questa nuova somiglianza con il 1992-93: allora fu una ondata di inchieste giudiziarie che precedette un referendum chiave», quello sulla legge elettorale maggioritaria. «Ora sembra il contrario: un referendum che apre la strada ad una valanga giudiziaria». E se all’inizio degli anni ‘90 lo tsunami di Tangentopoli aiutò ad affermarsi «un nuovo ordine mondiale monopolare, in piena espansione finanziaria e con classi dirigenti che godevano di un sufficiente (se non ampio) consenso popolare», oggi è l’esatto contrario: «L’ordine mondiale monopolare è franato, ma non è stato sostituito da un diverso ordine mondiale multipolare».
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Renzi travolto, media ancora umiliati dopo Brexit e Trump
«E fanno tre. Dopo la Brexit e l’elezione di Trump, anche il referendum italiano si può tranquillamente interpretare come un calcio in faccia al pensiero mainstream, per quanto fortemente sostenuto e veicolato dai media di regime», osserva Massimo Mazzucco, mentre i dati scodellano il bruciante 6-4 che costringe Renzi a lasciare Palazzo Chigi, sommerso dal voto contrario della maggioranza degli italiani, il 70% alle urne (solo uno su tre è rimasto fermo all’astensionismo). Ma, insieme al finto “rottamatore” al servizio dei super-poteri europei e finanziari, tra gli sconfitti Mazzucco iscrive soprattutto i media: «Non ha funzionato il terrorismo mediatico contro la Brexit (“crollerà l’economia britannica”, avevano detto), non ha funzionato il terrorismo mediatico contro Trump (“finiremo nelle mani di un incapace”, avevano detto), e non ha funzionato il terrorismo mediatico a favore del Sì (“se vince il No sarà un salto nel buio”, ci hanno detto)». Cosa accadrà ora in Italia nessuno lo sa con certezza, «ma nel frattempo l’unico che può fare il suo bel salto nel buio sarà proprio Matteo Renzi». La vera notizia? «Per tre volte in un anno i media mainstream hanno tentato di condizionare il voto degli elettori su tre eventi di grande importanza internazionale, e per tre volte gli stessi elettori – grazie alla rete e all’utilizzo dei social – si sono rifiutati di farsi infinocchiare».Questo ormai è un punto di non-ritorno, sottolinea Mazzucco su “Luogo Comune”, e «sembra che i grandi conglomerati informatici se ne stiano accorgendo con dolore», se è vero che la stessa Cnn ha promosso un dibattito sul fatto che la televisione abbia “perso il controllo delle masse”, con la sua clamorosa “incapacità di prevedere i risultati”, ovvero di «condizionare il pensiero della popolazione». Nessuna illusione: «La reazione a questo punto sarà durissima», avverte Mazzucco: «Sicuramente assisteremo alla comparsa, da qualche parte nel mondo, di tentativi più o meno goffi di imbavagliare la rete». Per Marcello Foa, è estremamente significativo che la partecipazione alle urne sia stata molto alta: «E’ stato autenticamente un voto popolare, che non lascia spazio ad interpretazioni e ad ambiguità». Anche Foa sottolinea la débacle di giornali e televisioni, editorialisti e analisti mainstream da prima serata: «Ancora una volta le intimidazioni e lo spin attraverso i media tradizionali è risultato inefficiente: le vecchie regole della propaganda e della manipolazione per influenzare e intimidire i popoli, non sono più efficienti come un tempo». Di fatto, gli italiani «si associano al messaggio già formulato con forza dai britannici scegliendo la Brexit e dagli americani eleggendo Donald Trump».Bocciando Renzi, capo del terzo governo consecutivo non-eletto dopo quelli di Monti e Letta, gli elettori sono convinti di aver «detto no all’establishment e alle élite transnazionali ed europee che hanno governato la globalizzazione, l’Europa e di fatto anche l’Italia, limitandone la sovranità e la possibilità di cambiare», scrive Foa sul “Giornale”. «Gli italiani, come gli americani e come i britannici, vogliono un vero cambiamento, vogliono tornare padroni del proprio destino». Ottimista anche Tomaso Montanari aull’”Huffington Post”: «Renzi non ha detto di aver sbagliato. Ha detto di aver perso (difficile dire il contrario). Ma non hanno vinto la Lega, il Movimento 5 Stelle o la Sinistra. Hanno vinto tutti i cittadini». C’è una rivolta in atto: sarà una rivoluzione? Il politologo Aldo Giannuli ringrazia l’elettorato giovanile, quello da 18 a 34 anni: «E’ quello che ha trainato il risultato con quasi un 70% di No». Viceversa, «le generazioni dei sessanta-ottantenni sono state quelle che hanno fatto un ultimo regalo con un 51% del Sì (a quanto pare): decisamente passano alla storia come le peggiori del secolo, le più spregevoli».Se il progetto di Renzi «fallisce e viene ripudiato dalla Repubblica Italiana», in quanto essenzialmente sleale, fondato sull’abuso di potere, come scrive Pino Cabras su “Megachip”, ora «si addensano molte nubi all’orizzonte, perché Renzi in questi suoi mille giorni non ha governato, ha rinviato, ha congelato i problemi, e ci sono sempre i poteri che vogliono spolpare l’Italia». Concorda Giannuli: «Il risultato va molto oltre la questione in sé, come sempre accade quando scattano certi numeri». E’ uno «tsunami», quello che «sta travolgendo il sistema politico». Larghe intese e altre minestre riscaldate? «Sono tutte formule esaurite, mentre sta venendo giù tutto». Ragione di più, scrive Giannuli, perché il M5S pensi davvero al da farsi, evitando passi falsi: «Gestire il successo è molto più difficile che gestire le sconfitte». Per bene che vada, prima di maggio non si voterà, e non certo con questa legge elettorale. «I partiti ne farebbero una peggiore? Possibilissimo». E’ un fatto: «Il sistema politico entra naturalmente in una fase di ristrutturazione interna che lo cambierà profondamente anche con la nascita di nuovi soggetti politici come accadde nel 1992-93 e con questa realtà occorrerà misurarsi».Com’è noto, oggi in Italia non esiste un vero piano-B, paragonabile a quello che Marine Le Pen disegna per la Francia, con il ritorno alla sovranità nazionale. Alle manfrine di Renzi contro la Ue (la minaccia del veto al bilancio comunitario) gli italiani non hanno creduto. E nella cocente bocciatura del fiorentino si possono leggere istanze precise, come scrive lo stesso Cabras: «Renzi voleva riorganizzare efficacemente il blocco sociale conservatore dopo che era crollata l’analoga funzione di Berlusconi, e voleva farlo salvaguardando una fetta ancora molto elevata del suo elettorato tradizionale proveniente da sinistra». Ma ha sbagliato: «Ha sopravvalutato la presa degli incantatori di serpenti volgari e ignoranti che aveva mobilitato, assieme alle clientele, per imbrogliare un paese affezionato alla propria Costituzione». Ricordate il referendum di aprile sulle trivelle? «Non raggiunse il quorum e i corifei renziani perculavano gli avversari con tweet irridenti. Ciaone, dicevano. Gravissimo errore di sottovalutazione». Ma anche allora gli italiani-contro erano tanti, oltre 13 milioni, «nonostante un quorum impraticabile, una propaganda assillante del governo e del Pd per spingere gli elettori a non votare, organi di stampa bugiardi e zitti».Con un’affluenza alle urne del 70% al No, per vincere, «sarebbe bastato prendersi appena un elettore su quattro di quelli che ad aprile non votarono (o votarono per tenere le trivellazioni) e vincere così con il 51%. Invece siamo ben oltre». Perché Renzi, «nella sua hybris costituzionale», ha di fatto «interpretato la propria carica fino a svilirla in una sequela di abusi: ha ridotto la Costituzione al rango di una chiacchiera da Barbara D’Urso, ha buttato a mare equilibri nati dallo studio e dal sangue per triturarli in slogan falsi (“ecco la scheda con cui voterete il Senato”, vergogna Matteo!), ha fatto di tutto per abbagliare, intimidire, costringere a schierarsi per ottenere finanziamenti che spettavano comunque agli enti locali». Senza contare le «squallide passerelle» come quella del presidente campano De Luca, per «giocare intorno al referendum fondi pubblici e risorse». Renzi «ha usato enti pubblici, televisioni, manovrine e mance», in più «ha abusato anche delle ambasciate per condizionare in modo non neutrale il voto degli italiani all’estero».Ma attenzione, conclude Cabras: «Nessuna delle forze di opposizione – alle Agende Monti, Agende Letta e Agende Renzi che ci governano da anni – può bastare a se stessa. Dovremo pensarci». E’ stata solo una micidiale “punizione” inflitta a Renzi, divenuto insopportabile ai più, o c’è anche un po’ di futuro nel voto del 4 dicembre? I 5 Stelle finora sono stati ultra-prudenti, anche su Bruxelles. Un recente sondaggio rivela che 2 italiani su 3 vogliono tenersi stretti sia l’Ue che l’euro, non collegando né l’Unione Europea dei tecnocrati né la moneta della Bce alla crisi che ha piegato l’economia nazionale. Governano, come prima, tecnocrati e banchieri: quanto impiegheranno a sostituire il loro uomo, caduto nell’imboscata democratica del 4 dicembre? O, al contrario: è credibile ipotizzare uno sviluppo non più oligarchico, sull’onda dello “tsunami” che si è abbattuto sul capo del Pd? «Renzi finirà asfaltato dai No», profetizzò tempo fa l’ex ministro socialista Rino Formica. «E il suo successore lo designerà il Vaticano».«E fanno tre. Dopo la Brexit e l’elezione di Trump, anche il referendum italiano si può tranquillamente interpretare come un calcio in faccia al pensiero mainstream, per quanto fortemente sostenuto e veicolato dai media di regime», osserva Massimo Mazzucco, mentre i dati scodellano il bruciante 6-4 che costringe Renzi a lasciare Palazzo Chigi, sommerso dal voto contrario della maggioranza degli italiani, il 70% alle urne (solo uno su tre è rimasto fermo all’astensionismo). Ma, insieme al finto “rottamatore” al servizio dei super-poteri europei e finanziari, tra gli sconfitti Mazzucco iscrive soprattutto i media: «Non ha funzionato il terrorismo mediatico contro la Brexit (“crollerà l’economia britannica”, avevano detto), non ha funzionato il terrorismo mediatico contro Trump (“finiremo nelle mani di un incapace”, avevano detto), e non ha funzionato il terrorismo mediatico a favore del Sì (“se vince il No sarà un salto nel buio”, ci hanno detto)». Cosa accadrà ora in Italia nessuno lo sa con certezza, «ma nel frattempo l’unico che può fare il suo bel salto nel buio sarà proprio Matteo Renzi». La vera notizia? «Per tre volte in un anno i media mainstream hanno tentato di condizionare il voto degli elettori su tre eventi di grande importanza internazionale, e per tre volte gli stessi elettori – grazie alla rete e all’utilizzo dei social – si sono rifiutati di farsi infinocchiare».
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Noi, i Buoni: da Berlinguer a Renzi, tra santità e salvezza
Quando Occhetto annunciò, nella sorpresa generale, che aveva deciso di cambiar nome al partito, il politologo Aldo Giannuli, allora esponente dell’estrema sinistra, esternò le sue perplessità «a un amico militante più che ortodosso del Pci e che, con uguale ortodossia aderiva alla nuova linea». L’amico, ricorda Giannuli, proruppe in un “Ma tu allora non sei anti-Pci, tu sei anti-Noi!”. E ricordò una battuta di “Cuore”, l’allora supplemento satirico dell’“Unità”, nella quale Montanelli diceva in un telegramma: “Confermato il suffisso anti, per il seguito aspettiamo il nuovo nome del partito”. «Dunque – dice oggi Giannuli – c’era un “noi” che prescindeva dall’identità comunista e che le era sottostante», un “noi” che «poteva chiamarsi in qualsiasi altro modo ma che restava uguale a se stesso». Il Pci era in pieno mutamento ideologico, dalla connotazione “comunista” sempre meno certa; «Ma, che quell’identità fosse diventata una sorta di giacca intercambiabile con tanta indifferenza, era cosa tale da sorprendere anche chi, come me, aveva sempre dubitato dell’identità comunista del Pci». Eppure, proprio da lì si può leggere la parabola che porta fino al Pd renziano, sostenuta in modo fideistico dai discepoli del “noi”, la strana chiesa.La cosa era sconcertante, continua Giannuli ripensando allo “strappo” di Occhetto, perché il Pci era il partito con la più radicata ed esibita identità ideologica, unico con scuole di partito, diffusissime riviste ideologiche e frequentissime liturgie celebrative del comunismo sovietico: almeno sino al 1981 era regolarmente celebrata la ricorrenza rivoluzionaria del 7 novembre. Com’era possibile che tutto questo si dissolvesse come un gelato a ferragosto? «Ben presto si capì che, con la sua tradizionale disciplina, il popolo comunista avrebbe ratificato a larga maggioranza la svolta. Questo era possibile solo ad una condizione: che sotto la “pelle” comunista ci fosse un’altra identità, quella sì, davvero radicata». Anche se ci fu la scissione di Rifondazione Comunista (e quella, silenziosa, di centinaia di migliaia di iscritti che non rinnovarono la tessera senza però aderire a nessun’altra formazione politica), nel complesso la maggioranza degli iscritti seguì disciplinatamente il gruppo dirigente. In nome di cosa? «Mi posi il problema di capire a quale “noi” si stava rivolgendo Occhetto – continua Giannuli – quando esortò tutti gli iscritti a non temere la svolta perché “sarebbero rimasti gli stessi di sempre”».Certo, il Pci aveva assorbito settori delle più diverse culture politiche (socialisti riformisti e massimalisti, cattolici, liberali, azionisti, persino anarchici o sinistra fascista) amalgamando tutto in una base ideologica genericamente “socialista”, ma non si trattava di quello: a essere determinante «non era l’irrompere di culture politiche altre che, per anni, avevano covato sotto la cenere comunista», perché, se così fosse stato, «avremmo assistito ad una esplosione, una diaspora». Invece, «si trattava di un flusso ordinatissimo: le sezioni cambiavano la targa all’ingresso con la massima naturalezza, gli iscritti si adattavano rapidamente al nuovo linguaggio e ai nuovi simboli», e la routine – le feste, il tesseramento – riprendeva come se nulla fosse. Il cambio di nome era solo «un astutissimo espediente tattico per superare la conventio ad excludendum e andare finalmente al governo», pensò qualcuno. «Ma la maggioranza capì perfettamente che non si trattava solo di questo e fu ben lieta di togliersi di dosso quel nome troppo pesante da portare». Quello che reggeva tutto, sottolinea Giannuli, «era quel “noi” che cercavo di identificare».Cos’era, in realtà, quell’ostentata allusione a un’identità collettiva? «Ben presto capii che era il frutto del racconto che il partito aveva fatto della sua storia: il “popolo comunista” era l’unica vera sinistra possibile, la parte migliore del paese, quella immune da scandali e corruzione e caricata di una “missione storica”, quella di “salvare l’Italia”», scrive oggi Giannuli. «L’identità comunista era stata funzionale a questo disegno ma, almeno dal 1956 (se non dal 1944) non corrispondeva ad un particolare indirizzo ideologico». Lo dimostra il fatto che, a un certo punto, scomparve dallo statuto il riferimento al marxismo: «Insomma, non era affatto indispensabile essere comunisti per aderire al Pci». D’altra parte, prosegue il politologo, «la leggenda del “comunismo italiano” diverso da tutti gli altri (in parte vera ma in parte no) venne ripetuta all’infinito, sino a cancellare tanto la radice comunista quanto anche solo quella socialista, lasciando solo il senso di appartenenza ad un soggetto che si sentiva chiamato a “salvare l’Italia” perché diverso e migliore di tutti gli altri italiani (la “diversità comunista” di Berlinguer, ricordate?), anche se la perdita della cultura di origine faceva sì che non si sapesse più da cosa si dovesse salvare il paese e come». Voilà: «La nuova identità era nuda ideologicamente, nutrita solo da una autocelebrazione ormai priva di senso. Era la “chiesa”, che è santa anche quando ha perso memoria delle sue origini e del messaggio evangelico da cui era sorta».Quando Occhetto annunciò, nella sorpresa generale, che aveva deciso di cambiar nome al partito, il politologo Aldo Giannuli, allora esponente dell’estrema sinistra, esternò le sue perplessità «a un amico militante più che ortodosso del Pci e che, con uguale ortodossia aderiva alla nuova linea». L’amico, ricorda Giannuli, proruppe in un “Ma tu allora non sei anti-Pci, tu sei anti-Noi!”. E ricordò una battuta di “Cuore”, l’allora supplemento satirico dell’“Unità”, nella quale Montanelli diceva in un telegramma: “Confermato il suffisso anti, per il seguito aspettiamo il nuovo nome del partito”. «Dunque – dice oggi Giannuli – c’era un “noi” che prescindeva dall’identità comunista e che le era sottostante», un “noi” che «poteva chiamarsi in qualsiasi altro modo ma che restava uguale a se stesso». Il Pci era in pieno mutamento ideologico, dalla connotazione “comunista” sempre meno certa; «Ma, che quell’identità fosse diventata una sorta di giacca intercambiabile con tanta indifferenza, era cosa tale da sorprendere anche chi, come me, aveva sempre dubitato dell’identità comunista del Pci». Eppure, proprio da lì si può leggere la parabola che porta fino al Pd renziano, sostenuta in modo fideistico dai discepoli del “noi”, la strana chiesa.
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Se Renzi perde si tiene il Pd, a Palazzo Chigi un altro Monti
Se dovesse perdere il referendum, «Renzi sarebbe ridotto a mal partito, ma non spacciato: per liberarcene occorrerà ancora altro», sostiene Aldo Giannuli, che prova a valutare le mosse del premier in caso di bocciatura, visti i sondaggi che ormai danno vincente il No, nonostante i tanti indecisi. In caso di sconfitta, «è prevedibile che Renzi rassegni le dimissioni del governo già il giorno 5 dicembre e prima che glielo chieda chiunque», perché «in un paese in cui non si dimettono nemmeno i morti e dove nessuno tiene fede alla parola data, un politico che si dimette come aveva promesso ci fa un figurone». Ma attenzione, sarebbe una scelta dovuta a un calcolo molto preciso: «Mantenere la poltrona di segretario del partito e guadagnare tempo». Infatti, «difficilmente gli converrebbe andare alle elezioni subito: dopo la botta del referendum, il Pd probabilmente perderebbe». Anche se la Corte Costituzionale dovesse lasciare immutato l’Italicum, infatti, «la bocciatura del referendum imporrebbe di ripensare la legge elettorale», magari per differenziarla: turno unico al Senato e doppio turno alla Camera. Ci vorrà tempo: e Renzi preferirà cedere temporaneamente Palazzo Chigi a «un altro Monti», dedicandosi nel frattempo alla definitiva “pulizia etnica” nel Pd, divenendone il padrone assoluto.Sempre che, naturalmente, i poteri forti glielo consentano. A decidere, in realtà, sarebbe il Vaticano, scommette l’ex ministro socialista Rino Formica. Il “Financial Times” lascia capire che la finanza anglosassone sta già mollando il Rottamatore: le sue riforme sarebbero «un ponte verso il nulla», scrive il giornale della City. Fin dall’inizio, Renzi è stato sostenuto dall’élite di potere che guida la globalizzazione in senso neo-feudale, predicando il taglio dello Stato a favore delle multinazionali privatizzatrici. La riforma costituzionale sottoposta a referendum sembra recepire alla lettera il “monito” di Jamie Dimon, che dal vertice della Jp Morgan avvertì che la nostra Costituzione è “troppo sensibile” alla tutela dei diritti sociali. Da sempre, Renzi si è affidato a consiglieri strategici non esattamente di sinistra: da Marco Carrai, un uomo con saldi interessi nella finanza di Tel Aviv, a Yoram Gutgeld, economista italo-israeliano e vera “mente” del governo. Per non parlare del consigliere-ombra per la politica estera, il politologo americano Michael Ledeen, esponente dell’ultra-destra atlantista. «Ledeen appartiene alla massoneria internazionale di potere che ha condizionato lungamente la politica italiana», racconta Gianfranco Carpeoro nel libro “Dalla massoneria al terrorismo”: «Ha sponsorizzato prima Craxi, poi Di Pietro, poi Grillo».Stesso schema: sostenere un leader e, al tempo stesso, il suo “demolitore” – ieri Craxi e Di Pietro, oggi Renzi e Grillo. Sempre secondo Carpeoro, il grillino “gestito” da Ledeen sarebbe Luigi Di Maio, ipotetico premier del dopo-Renzi in caso di elezioni. L’evoluzione della crisi italiana preoccupa moltissimo i super-poteri finanziari che governano l’Europa attraverso l’Ue, la Bce e la Germania: il referendum italico segue di poco il terremoto-Brexit e sarà celebrato all’indomani del voto americano, dove il vertice dell’oligarchia teme la vittoria di Trump. Poi, in Europa, seguiranno elezioni delicatissime, a partire da quella di un paese-cardine come la Francia, sempre più ostile all’egemonia di Bruxelles. Se questa è la cornice internazionale nella quale maturano anche gli eventi italiani, per ora Giannuli preferisce concentrarsi sulle mosse del piccolo Renzi: se perdesse il referendum, dice l’analista dell’ateneo milanese, il premier cercherà di evitare lo scioglimento immediato delle Camere (e qui il caos sulla legge elettorale lo soccorrerebbe) e proverà a domare la rivolta nel partito. «Infatti, è più che plausibile che Franceschini, De Luca, Emiliano, e forse i piemontesi (Fassino e Chiamparino) gli si getteranno addosso reclamandone la testa». E, insieme a «quei morti di sonno della minoranza di sinistra», potrebbero «rovesciare il segretario», anche se lo statuto del Pd imporebbe un “regolare processo”, cioè un congresso del partito.«Il disegno di Renzi è facilmente indovinabile: fare un governo di scopo, di larghe intese, proprio perché bisogna rifare la legge elettorale e, di conseguenza, un governo presieduto da un tecnico non iscritto a nessun partito (insomma, un altro Monti)». Questo sia per guadagnare tempo, sia per evitare che su quella poltrona possa andarci Franceschini o un altro esponente Pd che poi, magari, diventerebbe il candidato alla presidenza del Consiglio. «In questo modo, invece – continua Giannuli – la poltrona di Palazzo Chigi sarebbe “sterilizzata” ai fini delle prossime elezioni». Una volta “sistemato” il governo in questo modo, Renzi potrebbe dedicarsi al congresso del partito. Obiettivo: estinguere la minoranza bersaniana, che il segretario non ricandiderebbe più alle elezioni. «Qui l’azione di D’Alema sarebbe perfettamente convergente, perché il Conte Max ragionevolmente userebbe la rete dei comitati per il No come base di un nuovo partito». Ma attenzione, anche qui, ai retroscena: D’Alema, scrive Gioele Magaldi nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, milita nella galassia delle logge sovra-massoniche internazionali di destra, come la storica “Three Eyes”, che annoverebbe tra i suoi autorevoli esponenti personalità come Henry Kissinger e Giorgio Napolitano. Un giurista vicinissimo all’ex capo dello Stato, Valerio Onida, ex presidente della Consulta, sta tentando di far bloccare (per eccesso di quesiti) un referendum che Renzi rischia di perdere. Come dire: il gioco è grande, molto più di Renzi.Se dovesse perdere il referendum, «Renzi sarebbe ridotto a mal partito, ma non spacciato: per liberarcene occorrerà ancora altro», sostiene Aldo Giannuli, che prova a valutare le mosse del premier in caso di bocciatura, visti i sondaggi che ormai danno vincente il No, nonostante i tanti indecisi. In caso di sconfitta, «è prevedibile che Renzi rassegni le dimissioni del governo già il giorno 5 dicembre e prima che glielo chieda chiunque», perché «in un paese in cui non si dimettono nemmeno i morti e dove nessuno tiene fede alla parola data, un politico che si dimette come aveva promesso ci fa un figurone». Ma attenzione, sarebbe una scelta dovuta a un calcolo molto preciso: «Mantenere la poltrona di segretario del partito e guadagnare tempo». Infatti, «difficilmente gli converrebbe andare alle elezioni subito: dopo la botta del referendum, il Pd probabilmente perderebbe». Anche se la Corte Costituzionale dovesse lasciare immutato l’Italicum, infatti, «la bocciatura del referendum imporrebbe di ripensare la legge elettorale», magari per differenziarla: turno unico al Senato e doppio turno alla Camera. Ci vorrà tempo: e Renzi preferirà cedere temporaneamente Palazzo Chigi a «un altro Monti», dedicandosi nel frattempo alla definitiva “pulizia etnica” nel Pd, divenendone il padrone assoluto.
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Giannuli: la sinistra vale zero, ecco perché non esiste più
Perché la sinistra perde sempre, ormai da decenni? Perché non ha saputo leggere la grande crisi geopolitica esplosa con il crollo dell’Urss, risponderebbe Giulietto Chiesa. O magari perché, per dirla con Gioele Magaldi, l’élite neo-aristocratica si è impadronita del vertice della massoneria internazionale, sconfiggendo i “fratelli” progressisti e poi cooptandoli in un patto scellerato, il cartello “United Freemasons for Globalitazion”, all’alba degli anni ‘80. In saggi come “Il golpe inglese” e “Italia oscura”, Giovanni Fasanella rivela le grandi manovre anglosassoni per sabotare la sovranità della Penisola, fino all’epilogo del Britannia. A partire dal saggio “Il più grande crimine”, del 2011, Paolo Barnard ha messo a nudo il cuore del problema: la sinistra, anche italiana, era nel mirino dei grandi globalizzatori. “Dovevano” cadere partiti, movimenti e sindacati che fossero di ostacolo alla svolta neoliberista e neo-feudale dell’oligarchia già terriera, oggi finanziaria, ostile alle conquiste sociali della modernità. Lo conferma l’economista Nino Galloni: la sinistra italiana “doveva” essere piegata, col suo modello di economia sociale mista, pubblico-privata.Sinistra “piegata”, battuta. O meglio ancora “comprata”, attraverso i vertici di partiti e sindacati che, a un certo punto, hanno “tradito” e rinnegato i loro valori: hanno abbandonato la difesa dei diritti e cominciato a spiegare ai lavoratori che avrebbero dovuto rassegnarsi a tirar cinghia. Fino al trionfo del suicidio politico, col Pd di Bersani che vota il governo Monti e la legge Fornero, come richiesto dalla super-massoneria reazionaria. Ma tutto era cominciato molto prima, avverte Barnard: D’Alema vantò il record europeo delle privatizzazioni, dopo che Prodi aveva smantellato l’Iri (per poi diventare premier, presidente della Commissione Europea e advisor di Goldman Sachs). Altro da aggiungere? Sì, una notazione storica, che Barnard affida al famigerato Memorandum di Lewis Powell, l’avvocato d’affari ingaggiato dalla Camera di Commercio Usa per stroncare la sinistra in Europa e negli Stati Uniti. Vademecum perfettamente applicato dal supremo potere, attraverso le direttive della Trilaterale. Era l’inizio degli anni ‘70, ma la condanna per la sinistra era già firmata. In Europa, il nuovo padrone a cui obbedire senza discutere si sarebbe chiamato Unione Europea: bisogna tagliare tutto – salari, pensioni, welfare, sanità – perché “ce lo chiede l’Europa”.Aldo Giannuli, politologo dell’ateneo milanese, fa l’appello degli ultimi discendenti della sinistra che fu: Rifondazione comunista, il Pdci, i Verdi, Sel. Quindi Vendola, Civati, i supporter di Tsipras. In altre parole, il niente: «Riuscireste ad immaginare un quadro più deprimente? Il punto è che i vari soggetti di questo scombinato arcipelago non hanno alcun progetto comune (posto che lo abbia qualcuno di loro)». Zero capacità di analisi sulla crisi in atto: di conseguenza, nessuna vera soluzione. «Impressionante è il vuoto totale di proposta politica: queste organizzazioni sono il nulla assoluto». Giannuli spera che “qualcosa di sinistra” ancora esista, da qualche parte, al di là di «quella truffa indecente che è il Pd». I 5 Stelle? Ancora acerbi, in fase di maturazione. Il professore si augura che “Sinistra Italiana” e M5S «trovino un terreno di convergenza, che inizino a dialogare». Ma, «se la sinistra non vuol passare da un disastro all’altro – aggiunge – è necessario in primo luogo che prenda atto della sua condizione pietosa». Da trent’anni, la sinistra «non produce un grammo di cultura politica». Solo campagne elettorali, con «un ceto politico impresentabile». Servirebbe «un progetto politico adeguato ai tempi», di cui però non c’è traccia. Perfetto, direbbe Lewis Powell: missione compiuta.Perché la sinistra perde sempre, ormai da decenni? Perché non ha saputo leggere la grande crisi geopolitica esplosa con il crollo dell’Urss, risponderebbe Giulietto Chiesa. O magari perché, per dirla con Gioele Magaldi, l’élite neo-aristocratica si è impadronita del vertice della massoneria internazionale, sconfiggendo i “fratelli” progressisti e poi cooptandoli in un patto scellerato, il cartello “United Freemasons for Globalitazion”, all’alba degli anni ‘80. In saggi come “Il golpe inglese” e “Italia oscura”, Giovanni Fasanella rivela le grandi manovre anglosassoni per sabotare la sovranità della Penisola, fino all’epilogo del Britannia. A partire dal saggio “Il più grande crimine”, del 2011, Paolo Barnard ha messo a nudo il cuore del problema: la sinistra, anche italiana, era nel mirino dei grandi globalizzatori. “Dovevano” cadere partiti, movimenti e sindacati che fossero di ostacolo alla svolta neoliberista e neo-feudale dell’oligarchia già terriera, oggi finanziaria, ostile alle conquiste sociali della modernità. Lo conferma l’economista Nino Galloni: la sinistra italiana “doveva” essere piegata, col suo modello di economia sociale mista, pubblico-privata.
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Paura-Renzi, tutti con lui: Usa, Cei, Merkel, Wall Street
Ve lo vedete il nostro ambasciatore a Washington che si intromette nelle campagna elettorale di Trump? Ne verrebbe fuori un putiferio. Invece, rileva Aldo Giannuli, in Italia nessuno apre bocca se mezzo mondo interviene in soccorso di Renzi, in vista del temutissimo referendum d’autunno – temutissimo perché, dopo il Brexit, sarebbe una breccia per altri “pericolosi” referendum, non solo in Italia, sull’euro e la Ue. «La Cei, l’ambasciatore americano, la Merkel, Wall Street, le agenzie di rating come “Fitch”, la Goldman Sachs e la Jp Morgan, la Ue e chissà chi altro nelle prossime ore, stanno accorrendo tutti al capezzale del governo italiano in vista del pericoloso appuntamento referendario che rischia di diventarne l’infarto finale». Per Renzi la strada è in salita: la probabilità di perdere è molto più che una semplice ipotesi. «E pur di scongiurare questo (per loro) infausto evento, si mettono da parte rivalità e vecchi rancori e si travolge persino la prassi diplomatica per la quale è vietatissimo ad un ambasciatore prendere posizione sulle vicende interne del paese presso il quale è distaccato». E, salvo «la timida ma onorevole uscita di Mattarella», non c’è stata nessuna protesta diplomatica del nostro ministero degli esteri.Ormai, scrive Giannuli sul suo blog, «pare che il governo italiano non rappresenti più il popolo italiano ma sia diventato una dépendence del Pd e che, anzi, ringrazi gli Usa per il grazioso appoggio». Ma perché l’opposizione tace? Non una parola dai 5 Stelle o da Sinistra Italiana. In silenzio anche Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia. Perché non chiedere «un dibattito in aula sulle ingerenze straniere nel referendum», o magari «una mozione di sfiducia al ministro degli esteri?». E le gerarchie vaticane, perché si schierano anche loro con Renzi? «Cosa gliene importa ai vescovi italiani (che per il Concordato, dovrebbero tenere il becco chiuso sulla politica in questo paese) se, in Italia, c’è il Senato o no?». Quanto alla Casa Bianca, finora «ha mostrato ben poche simpatie per Renzi a causa delle sue posizioni sui rapporti con la Russia», ma adesso perché di colpo lo difende? E perché anche la Merkel accorre in aiuto del “giullare” fiorentino? No, Renzi non è diventato improvvisamente simpatico a tutti: «Il punto è un altro e va messo in relazione alla Brexit». Una bocciatura della riforma renziana «suonerebbe come la seconda aperta sconfessione di un governo europeo, e questo sarebbe un esempio molto pericoloso».Napolitano e Monti sono stati espliciti, in merito: non sono materie da sottoporre a giudizio referendario, il popolo non deve metter becco in questi argomenti. Il rischio, continua Giannuli, è che «a ruota piombino le richieste di referendum sulla Ue, l’euro o altre materie “sensibili” anche in Francia, Spagna, Portogallo, Olanda e Repubblica Ceca, travolgendo i rispettivi governi come è stato rovesciato Cameron e come lo sarebbe Renzi se vincesse il No». E questo, ovviamente, «potrebbe preludere al crollo della Ue con effetto-domino sugli Usa», anche perché «non dobbiamo perdere d’occhio i venti di rivolta elettorale che soffiano su Europa e Usa come reazione alla crisi ormai quasi decennale». Questa l’analisi di Giannuli: «Le élites dominanti, anzi la élite globale, reagisce mettendo da parte i suoi dissensi interni e opponendo un fronte unico alla sollevazione popolare. D’altra parte, la riforma di Renzi dell’“uomo solo al comando” tutta impostata sul ruolo centrale e quasi esclusivo del governo ai danni di magistratura e, soprattutto, Parlamento si inquadra perfettamente nella “costituzione emergenziale” della globalizzazione: una governance impostata su una sorta di conferenza permanente dei capi degli esecutivi senza impicci parlamentari e tantomeno di organi come le Corti Costituzionali o, più in generale, del potere giudiziario». In altre parole, «l’ordine neoliberista non tollera di essere messo discussione e tantomeno dai popoli dell’Occidente». Se non altro, ora ha gettato la maschera.Ve lo vedete il nostro ambasciatore a Washington che si intromette nelle campagna elettorale di Trump? Ne verrebbe fuori un putiferio. Invece, rileva Aldo Giannuli, in Italia nessuno apre bocca se mezzo mondo interviene in soccorso di Renzi, in vista del temutissimo referendum d’autunno – temutissimo perché, dopo il Brexit, sarebbe una breccia per altri “pericolosi” referendum, non solo in Italia, sull’euro e la Ue. «La Cei, l’ambasciatore americano, la Merkel, Wall Street, le agenzie di rating come “Fitch”, la Goldman Sachs e la Jp Morgan, la Ue e chissà chi altro nelle prossime ore, stanno accorrendo tutti al capezzale del governo italiano in vista del pericoloso appuntamento referendario che rischia di diventarne l’infarto finale». Per Renzi la strada è in salita: la probabilità di perdere è molto più che una semplice ipotesi. «E pur di scongiurare questo (per loro) infausto evento, si mettono da parte rivalità e vecchi rancori e si travolge persino la prassi diplomatica per la quale è vietatissimo ad un ambasciatore prendere posizione sulle vicende interne del paese presso il quale è distaccato». E, salvo «la timida ma onorevole uscita di Mattarella», non c’è stata nessuna protesta diplomatica del nostro ministero degli esteri.