Archivio del Tag ‘Aleppo’
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Siria: Putin ferma l’Isis, cioè Erdogan (che rinnega Ataturk)
Giovedi scorso, all’inizio del colloquio-maratona di Mosca, il presidente russo Vladimir Putin si è rivolto al presidente turco Recep Tayyip Erdogan con quella che probabilmente è la più straordinaria mossa diplomatica di questo giovanissimo 21° secolo. Putin ha detto: «All’inizio del nostro incontro, vorrei esprimere ancora una volta le mie sincere condoglianze per la morte dei vostri militari in Siria. Sfortunatamente, come vi avevo già riferito durante la nostra telefonata, nessuno, comprese le truppe siriane, conosceva i loro spostamenti». È così che un vero leader mondiale dice – di persona, ad un leader regionale – di astenersi dal posizionare le sue forze a sostegno dello jihadismo, in incognito, nel bel mezzo di un esplosivo teatro di guerra. La discussione faccia a faccia fra Putin ed Erdogan, con solo gli interpreti presenti nella stanza, è durata tre ore, prima di un’altra ora con le rispettive delegazioni. Alla fine, tutto si è risolto con Putin che ha trovato un modo elegante di salvare la faccia ad Erdogan per mezzo di, avete indovinato, un ulteriore cessate il fuoco a Idlib (iniziato giovedì a mezzanotte) scritto e firmato in turco, russo ed inglese, “tutti i testi con la stessa validità giuridica”.Inoltre, il 15 marzo comincerà il pattugliamento congiunto turco-russo lungo l’autostrada M4, il che significa che le infinite e mutevoli frange di Al-Qaeda in Siria non potranno riconquistarla. Se tutto questo sembra un déjà vu, è perché lo è. Molte foto ufficiali dell’incontro di Mosca mostrano in primo piano il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov e il ministro della difesa Sergey Shoigu, gli altri due pesi massimi presenti all’incontro, a parte i presidenti. Sulla scia di Putin, Lavrov e Shoigu devono aver aver dato, senza mezzi termini, una bella lavata di capo ad Erdogan. È abbastanza: adesso, per favore, comportati bene oppure pagane le dure conseguenze. Una caratteristica prevedibile del nuovo cessate il fuoco è che sia Mosca che Ankara, che fanno parte del processo di pace di Astana insieme a Teheran, rimangono impegnate a garantire “l’integrità territoriale e la sovranità” della Siria. Ancora una volta, non vi è alcuna garanzia che Erdogan la rispetterà.È fondamentale ricapitolare le cose fondamentali. La Turchia è in una profonda crisi finanziaria. Ankara ha bisogno di soldi, molti soldi. La lira sta crollando. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) ha perso le elezioni. L’ex primo ministro e leader del partito, Ahmet Davutoglu, il teorico del neo-ottomanesimo, ha lasciato il partito e si sta ritagliando la propria nicchia politica. L’Akp è impantanato in una crisi interna. La risposta di Erdogan è stata quella di passare all’offensiva. È così che vorrebbe ripristinare il proprio carisma. Mettiamo insieme Idlib con le sue pretese marittime sulle acque intorno a Cipro e il ricatto all’Unione Europea, attuato sommergendo di rifugiati l’isola greca di Lesbo, e avremo il modus operandi tipico di Erdogan in pieno svolgimento. In teoria, questo nuovo cessate il fuoco costringerà finalmente Erdogan ad abbandonare tutte quelle miriadi di metastasi di Al-Nusra/Isis, quelli che l’Occidente chiama i “ribelli moderati”, debitamente armati da Ankara. Questa è la linea rossa definitiva di Mosca e anche di Damasco. Non sarà lasciato alcun territorio a disposizione degli jihadisti.L’Iraq è un’altra storia: l’Isis è ancora presente tra Kirkuk e Mosul. Nessun fanatico della Nato lo ammetterà mai, ma – ancora una volta – è stata la Russia a prevenire la minaccia dell’”invasione musulmana” dell’Europa pubblicizzata da Erdogan. Anche se, in primo luogo, non si è mai trattato di una vera e propria invasione: solo poche migliaia di migranti economici dall’Afghanistan, dal Pakistan e dal Sahel, non di siriani. Non esiste “un milione” di rifugiati siriani in procinto di entrare nell’Ue. L’Ue, come sempre, continuerà a blaterare. Bruxelles e la maggior parte delle capitali europee non hanno ancora capito che è stato Bashar al-Assad ad aver sempre combattuto Al-Nusra/Isis. Semplicemente, non comprendono la correlazione delle forze sul terreno. La loro posizione di ripiego è sempre stato il disco rotto dei “valori europei”. Nessuna meraviglia che l’Ue sia un attore secondario nell’intera tragedia siriana.Mentre cercavo di collegare le motivazioni di Erdogan-Khan alla storia della Turchia e agli imperi delle steppe, avevo ricevuto un eccellente feedback da alcuni analisti turchi progressisti. La loro posizione, in sostanza, è che Erdogan è un internazionalista, ma solo in termini islamici. Dal 2000 in poi è riuscito a creare un clima di negazione delle antiche motivazioni nazionaliste turche. Usa l’identità turca, ma, come sottolinea un analista, «questo non ha nulla a che fare con i turchi antichi. È un Ikhwan. Neanche a lui importa dei curdi, finché rimangono i suoi ‘islamisti buoni’». Un altro analista sottolinea che «nella Turchia moderna, l’essere ‘turco’ non è legato alla razza, perché la maggior parte dei turchi sono anatolici, una popolazione mista». Quindi, in breve, ciò che interessa ad Erdogan è Idlib, Aleppo, Damasco, La Mecca e non l’Asia sud-occidentale o l’Asia centrale. Vuole essere il “secondo Ataturk”.Eppure nessuno, tranne gli islamisti, lo vede in questo modo, e «talvolta lui mostra la sua rabbia proprio per questo motivo. Il suo unico obiettivo è quello di battere Ataturk e creare un opposto islamico di Ataturk». E la creazione di quell’anti-Ataturk passerebbe attraverso il neo-ottomanesimo. L’eccellente storico indipendente Can Erimtan, che avevo avuto il piacere di incontrare quando viveva ancora ad Istanbul (ora si è auto-esiliato), offre un ampio background eurasiatico dei sogni di Erdogan. Bene, Vladimir Putin ha appena dato un po’ di respiro al secondo Ataturk. Nessuno però scommette più sul fatto che questo nuovo cessate il fuoco non si trasformi in una pira funeraria.(Pepe Escobar, “Putin salva Erdogan da se stesso”, da “Asia Times” del 6 marzo 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Giovedì scorso, all’inizio del colloquio-maratona di Mosca, il presidente russo Vladimir Putin si è rivolto al presidente turco Recep Tayyip Erdogan con quella che probabilmente è la più straordinaria mossa diplomatica di questo giovanissimo 21° secolo. Putin ha detto: «All’inizio del nostro incontro, vorrei esprimere ancora una volta le mie sincere condoglianze per la morte dei vostri militari in Siria. Sfortunatamente, come vi avevo già riferito durante la nostra telefonata, nessuno, comprese le truppe siriane, conosceva i loro spostamenti». È così che un vero leader mondiale dice – di persona, ad un leader regionale – di astenersi dal posizionare le sue forze a sostegno dello jihadismo, in incognito, nel bel mezzo di un esplosivo teatro di guerra. La discussione faccia a faccia fra Putin ed Erdogan, con solo gli interpreti presenti nella stanza, è durata tre ore, prima di un’altra ora con le rispettive delegazioni. Alla fine, tutto si è risolto con Putin che ha trovato un modo elegante di salvare la faccia ad Erdogan per mezzo di, avete indovinato, un ulteriore cessate il fuoco a Idlib (iniziato giovedì a mezzanotte) scritto e firmato in turco, russo ed inglese, “tutti i testi con la stessa validità giuridica”.
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Soleimani: dalla lotta all’Isis alla difesa dei cristiani in Siria
L’ascesa della Mezzaluna Sciita è strettamente legata a una figura umile, misteriosa, non ordinaria. Il suo nome è Qassem Suleimani. Nacque l’11 marzo 1957 nella città di Qom (secondo il Dipartimento di Stato Usa) o nel villaggio di Rabord, vicino alle montagne afghane, nella provincia sud-orientale del Kerman (secondo le fonti persiane); ma quello che si sa per certo è che proviene da una famiglia di poveri contadini. La determinazione geografica dell’infanzia di Suleimani è importante: chi ha vissuto a contatto con il mondo agricolo non dimentica il debito dell’uomo verso la terra. A differenza di Qom, centro di scuole teologiche e città di pellegrinaggio, Rabord è un posto remoto e con una società organizzata in modo tribale. La conoscenza ottenuta vivendo a contatto con tale struttura sociale gli diede le capacità di coordinare in guerra le diverse tribù che popolano il Vicino e Medio Oriente. Sebbene non ci siano informazioni sulla famiglia di Qassem, il suo cognome lo riconduce alla tribù dei Suleimani, spostatasi nel Kerman dalla provincia Fars nel Settecento. Poiché la famiglia di Qassem aveva un debito verso il governo, si può immaginare che i genitori lavorassero come mezzadri. Per ripagare il debito, finite le scuole primarie nel 1970, Suleimani trovò qualche anno dopo lavoro come tecnico per la Kerman Water Organization.Dal 1976 subì l’influenza dei fermenti rivoluzionari attraverso le prediche che Hojjat al Eslam Reza Kamyab (assassinato del 1981) recitava durante il Ramadan a Kerman, anche se secondo diverse fonti non ebbe un ruolo preciso durante i sollevamenti del 1979. Si arruolò subito dopo nel neonato Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica (i Pasdaran) e nei primi quarantacinque giorni di addestramento diede prova di quelle abilità militari che solo un giovane di provincia, lontano dalle mollezze della città e abituato al lavoro può possedere a quella età; venne nominato istruttore e successivamente impiegato a Mahabad (una zona di confine con Iraq e Turchia) nella repressione di gruppi separatisti curdi, affidando con estrema intelligenza a un gruppo di combattenti irregolari di Kerman la protezione della città. Durante la guerra con l’Iraq partecipò a numerose operazioni militari, ottenendo, dal 1981 al 1988, numerosi successi. Tornato a Kerman eseguì l’ordine di combattere i traffici di droga in quella zona, una delle più instabili dell’Iran a causa della forte presenza sunnita (nella quale rientrano i Beluci) e del narcotraffico.Suleimani venne promosso Comandante della Brigata Gerusalemme (Quds Force, forza speciale dei Pasdaran che si occupa delle operazioni extraterritoriali), in un periodo di vulnerabilità della Repubblica islamica dell’Iran, la quale perdeva influenza in Afghanistan in seguito all’ascesa dei gruppi talebani, e giocò un ruolo chiave nell’agosto del 1998, quando i talebani sunniti occuparono l’ambasciata dell’Iran a Mazari Sharif, uccidendo un giornalista e nove diplomatici iraniani. La svolta della sua popolarità avvenne nel 2014, parallelamente alla nascita dello Stato Islamico. Nel corso di un diretta televisiva promise al popolo iraniano di sconfiggere il Califfato in soli tre anni. Quelle immagini diventarono virali sul web al punto che, prima ancora di partire in missione per conto di Allah, le botteghe già lo raffiguravano ovunque con la sua solita espressione sobria, incorniciato dalla divisa militare verde e la barba grigia. Suleimani non è un generale che passa il tempo dietro una carta geografica e, nelle poche immagini che lo immortalano, lo vediamo vicino ai suoi soldati, seduto per terra a bere tè, mangiare, pregare, con gli stivali sporchi di fango. Numerosi testimoni rimangono impressionati dalla sua presenza.Quando mi recai a Mashhad ebbi la fortuna di avere una conversazione con il comandante iraniano Sayyad Mohammad Yayavi, il quale partecipò alla riconquista di Aleppo nel dicembre 2016, al fianco del Generale Qassem Suleimani. «Era umile, calmo, faceva sentire tutti importanti». Allo stesso tempo però era inafferrabile, fugace, compariva e scompariva, nel solco della grande tradizione sciita della “parusia” e del Dodicesimo Imam. Qualche anno dopo, caduto lo Stato Islamico grazie alla ragnatela che silenziosamente aveva costruito nel tempo con Bashar al Assad e Hassan Nasrallah, in un momento in cui la Repubblica islamica dell’Iran era sotto pressione internazionale, molti lo invitarono a candidarsi alle elezioni successive. Aveva mantenuto una promessa militare, quella elettorale sarebbe stata una passeggiata. E invece scrisse una lettera ad Ali Khamenei, diventata di dominio pubblico, in cui diceva: «Sono nato soldato e morirò da soldato coi miei soldati».(Estratto dal libro “Mezzaluna sciita” di Sebastiano Caputo, pubblicato da “L’Intellettuale Dissidente” il 3 gennaio 2020 subito dopo la morte del generale Soleimani, assassinato dagli Usa all’aeroporto di Baghdad. Il libro di Caputo, sottotitolo “Dalla lotta al terrorismo alla difesa dei cristiani d’Oriente”, 188 pagine, è stato stampato da Gog nel 2018).L’ascesa della Mezzaluna Sciita è strettamente legata a una figura umile, misteriosa, non ordinaria. Il suo nome è Qassem Suleimani. Nacque l’11 marzo 1957 nella città di Qom (secondo il Dipartimento di Stato Usa) o nel villaggio di Rabord, vicino alle montagne afghane, nella provincia sud-orientale del Kerman (secondo le fonti persiane); ma quello che si sa per certo è che proviene da una famiglia di poveri contadini. La determinazione geografica dell’infanzia di Suleimani è importante: chi ha vissuto a contatto con il mondo agricolo non dimentica il debito dell’uomo verso la terra. A differenza di Qom, centro di scuole teologiche e città di pellegrinaggio, Rabord è un posto remoto e con una società organizzata in modo tribale. La conoscenza ottenuta vivendo a contatto con tale struttura sociale gli diede le capacità di coordinare in guerra le diverse tribù che popolano il Vicino e Medio Oriente. Sebbene non ci siano informazioni sulla famiglia di Qassem, il suo cognome lo riconduce alla tribù dei Suleimani, spostatasi nel Kerman dalla provincia Fars nel Settecento. Poiché la famiglia di Qassem aveva un debito verso il governo, si può immaginare che i genitori lavorassero come mezzadri. Per ripagare il debito, finite le scuole primarie nel 1970, Suleimani trovò qualche anno dopo lavoro come tecnico per la Kerman Water Organization.
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L’eroe Soleimani: una vita contro la droga e il terrorismo
Nell’ormai lunga storia dell’intervento iraniano in Siria e Iraq in opposizione all’avanzata dei gruppi jihadisti, Stato islamico in primis, la figura del generale Qasem Soleimani ha assunto sempre maggior rilevanza. Sessantuno anni, originario della povera provincia di Kerman, Soleimani ha vissuto da soldato e uomo d’armi sin dal 1980, quando l’Iran rivoluzionario dovette affrontare la sfida mortale lanciatagli dall’Iraq di Saddam Hussein e l’attuale generale, arruolatosi nei Guardiani della Rivoluzione l’anno precedente, dette prova del suo valore dapprima come comandante di compagnia e, in seguito, come leader di unità sempre più consistenti, ultima e più importante delle quali la leggendaria 41esima divisione Tharallah (Sarallah). Protagonista negli anni Novanta di una durissima campagna di repressione del narcotraffico ai confini con l’Afghanistan e vicino all’area politica più conservatrice, tanto da essere uno degli ufficiali dei Pasdaran che nel 1999 firmarono una lettera inviata al presidente Mohammad Khatami, chiedendogli di reprimere la rivoluzione degli studenti, minacciando in caso contrario di rovesciarne il governo, Soleimani fu nominato nel 1998 a capo della Forza Quds, l’unità di élite dei Pasdaran destinata alle operazioni speciali, che attualmente dirigeva. E alla testa della quale ha costruito il suo mito.L’ascesa dell’allora quarantenne generale dei Guardiani alla guida della Forza Quds anticipò di poco l’inizio della tempesta geopolitica che ha sconvolto il Medio Oriente a inizio millennio. Per le strategie iraniane, Soleimani è stato l’uomo giusto al posto giusto: in una fase cruciale per gli interessi del paese, si può affermare che il generale è stato l’uomo che più di ogni altro ha determinato le politiche concrete di Teheran sul campo. Nel 2013, Dexter Filkins ha rivelato sul “New Yorker” che poco dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 Ryan Crocker, del Dipartimento di Stato statunitense, si era recato a Ginevra per trattare con un gruppo di ufficiali iraniani guidato da Soleimani una collaborazione strumentale tra intelligence volta a accelerare la fine del regime dei talebani in Afghanistan, contro cui Teheran si era schierata a causa delle persecuzioni contro la locale minoranza sciita. Tale collaborazione ebbe vita breve e fu interrotta dalla svolta neoconservatrice dell’amministrazione Bush nel 2002, che portò l’ostilità iraniano-americana ai massimi storici. Dopo l’invasione statunitense dell’Iraq del 2003, Soleimani fornì supporto logistico all’insorgenza sciita e modellò la crescita dell’influenza iraniana sull’Iraq, testimoniata dal sostegno garantito all’elezione alla carica di primo ministro di Nuri al Maliki.L’impegno diretto più importante sul campo, per Soleimani, sarebbe tuttavia arrivato nel 2012, quando fu chiamato a garantire il decisivo sostegno dell’Iran al legittimo governo siriano impegnato nella guerra civile. Nella seconda metà del 2012 il regime di Assad è alle corde: colpito dall’isolamento internazionale e assediato dalle orde dei ribelli e dei jihadisti, si prepara a difendere la capitale Damasco da un assalto in grande stile. L’Iran, alleato geopolitico della Siria, interviene assieme alle milizie sciite libanesi di Hezbollah per sostenere le forze governative, e Soleimani ha un ruolo decisivo in questa operazione. Il generale iraniano stabilisce il suo comando a Damasco e porta i pasdaran ad addestrare, motivare ed equipaggiare le forze regolari siriane, a organizzare un sistema di monitoraggio continuo delle comunicazioni nemiche e a formare un corpo di milizie di sostegno denominato National Defence Force (Ndf). Bret Stephens del “Wall Street Journal” ha paragonato gli esiti dell’intervento della Forza Quds di Soleimani in Siria a quello, travolgente, seguito all’arrivo di Erwin Rommel in Africa nel 1942: nel 2013 la battaglia di Al Qusayr, organizzata da Soleimani e contraddistinta dall’intervento sul campo degli Hezbollah, sancì l’inizio della riscossa per il legittimo governo siriano.Dopo l’intervento russo nel 2015, la controffensiva amplificò il suo raggio d’azione. Nel settembre 2015 Soleimani fu più volte ospite dei vertici militari russi a Mosca per concordare l’azione congiunta aria-terra tra gli alleati pro-Assad. A partire dal 2016, essa si concentrò sulla regione di Aleppo: tra febbraio e dicembre 2016, gli iraniani giocarono un ruolo fondamentale nelle battaglie contro i jihadisti che aprirono la strada all’assalto diretto alla città, la cui liberazione ha rappresentato l’evento più importante della seconda fase del conflitto siriano. Nel dicembre 2016, degli scatti fotografici sembrano ritrarlo nella cittadella di Aleppo da poco liberata. Le foto sono contestate, perché Soleimani è praticamente irrintracciabile. Come scritto dall’”Intellettuale Dissidente”, «numerosi testimoni rimangono impressionati dalla sua calma presenza, incorniciata dalla divisa militare e dalla barba grigia. Allo stesso tempo è inafferrabile, fugace: compare e scompare, come fosse in un gioco per bambini. Leggenda narra che si permettesse di passeggiare senza guardie del corpo a Baghdad durante l’occupazione statunitense del paese».E proprio con l’Iraq Soleimani ha fatto più volte la spola negli anni passati, sostenendo l’azione delle milizie sciite intente a combattere l’Isis. Dapprima nel 2014, per rompere l’assedio di Amirli, poi, nel 2015, per completare la liberazione di Tikrit, in entrambi i casi alla guida delle tenaci e, non di rado, efferate milizie sciite denominate Forze di Mobilitazione Popolare. La guerra in Iraq e Siria è un conflitto brutale, senza pietà: la memoria dei 1.500 cadetti d’aviazione iracheni massacrati dalle bandiere nere a Camp Sepicher è viva nei liberatori della città natale di Saddam Hussein nel momento in cui questi, al termine di un aspro combattimento che ha visto l’inedito supporto dei raid aerei occidentali agli sciiti, cacciano l’Isis dai suoi sobborghi. Si parla di crimini di guerra, e non sarà l’unica volta dopo la cacciata dell’Isis dalle città irachene. Qasem Soleimani non ha mai nascosto la sua vicinanza all’ayatollah Khamenei e all’ala più conservatrice della politica iraniana. Da soldato tutto d’un pezzo, ha applicato al meglio le direttive politiche della presidenza Rouhani, ma è anche stato in grado di adattarsi ad esse plasticamente. Di fatto, Soleimani ha forgiato l’intera strategia regionale iraniana e rafforzato il sistema d’alleanze di Teheran nel paese.Ci si chiedeva spesso se il generale, che nel 2017 aveva guidato altre importanti offensive in Siria nella regione di Hama, potesse sfruttare la sua popolarità per un futuro in politica. I conservatori guardavano alla sua figura come all’ideale candidato alla presidenza capace di sfruttare una popolarità immensa, ma Soleimani ha sempre fatto del campo di battaglia il suo mondo ideale e raramente ha pronunciato parole di peso esclusivamente politico. Mentre tuttavia la nuova amministrazione repubblicana degli Usa rafforzava la sua ostilità verso Teheran, Soleimani ha compiuto due gesti importanti che hanno segnalato prese di posizione nette: nel dicembre 2017, sprezzante, ha rifiutato di rispondere a una lettera minacciosa del direttore della Cia Mike Pompeo e, più di recente, ha attaccato direttamente Donald Trump. «Vi stiamo addosso, arriviamo dove neanche vi potete immaginare. Noi siamo pronti. Se voi iniziate la guerra, saremo noi a finirla», ha dichiarato il generale ad Hamedan in risposta alle provocazioni Usa seguite al ripudio dell’accordo sul nucleare. Parole che segnano un cambio di registro nell’approccio pubblico del silenzioso, enigmatico Soleimani. Ma che sicuramente saranno suonate come musica a chi vedeva, in lui, il leader futuro di un Iran a guida conservatrice, fieramente anti americano.Nonostante le indiscrezioni su un possibile futuro politico, Soleimani continuò anche dopo il 2017 a dirigere sul campo le unità in Iraq, con la Quds Force schierata a fianco delle Forze di mobilitazione popolare di matrice sciita intente a spazzare via gli ultimi resti dell’Isis e a posizionarsi per la contesa politica per il futuro del paese. Pensatore strategico di ampio respiro, Soleimani riteneva infatti necessario per l’Iran consolidarsi nella regione di influenza superata la fase di aperta conflittualità, preservando i legami con i proxy regionali di Teheran. Di fatto, nel momento più acuto della ripresa degli screzi tra Usa e Iran Soleimani è parso quasi eclissarsi, eccezion fatta per alcuni battibecchi via social e stampa con i vertici di Washington, come a dare l’impressione di una sua assoluta concentrazione sugli affari geopolitici della Repubblica Islamica. Soleimani non ha mai voluto, di fatto, lo scontro a viso aperto con gli Usa, da lui ritenuto logorante e rovinoso. Tra il 2018 e il 2019 Soleimani fa a lungo la spola oltre il confine iraniano-iracheno su cui la sua carriera militare ha avuto, in gioventù, il battesimo del fuoco.Tra problemi politici e instabilità interna l’Iraq si contorce tra elezioni contese, influenze esterne e emersione di un polo trasversale di sciiti e sunniti oppositori dell’ingerenza esterna iraniana e irachena. Soleimani fece da consulente al governo iracheno quando nella seconda metà del 2019 le proteste contro il caro-vita, la corruzione e l’instabilità divamparono tra la capitale e il resto del paese, mentre le truppe a lui fedeli davano sempre maggior segno di irrequietezza. Sospetti non confermati individuano nei Kata’ib Hezbollah e nelle altre Fpm i principali responsabili della repressione delle proteste avvenuta tra settembre e ottobre 2019. Nel caos iracheno si sono inseriti gli Usa, colpendo Kata’ib Hezbollah nel suo quartier generale vicino Al Qa’im il 29 dicembre in risposta a un attacco a una base militare a Kirkuk. Soleimani è arrivato in Iraq a cavallo tra il 2019 e 2020, mentre a Baghdad gli iracheni assaltavano l’ambasciata americana, ma proprio nell’aeroporto della capitale irachena è stato sorpreso da un raid americano in cui ha perso la vita il 3 gennaio 2020.(Andrea Muratore, “Chi era il generale Qasem Soleimani”, ricostruzione aggiornata nell’inserto “InsideOver” del “Giornale” dopo l’omicidio dello stratega iraniano).Nell’ormai lunga storia dell’intervento iraniano in Siria e Iraq in opposizione all’avanzata dei gruppi jihadisti, Stato islamico in primis, la figura del generale Qasem Soleimani ha assunto sempre maggior rilevanza. Sessantuno anni, originario della povera provincia di Kerman, Soleimani ha vissuto da soldato e uomo d’armi sin dal 1980, quando l’Iran rivoluzionario dovette affrontare la sfida mortale lanciatagli dall’Iraq di Saddam Hussein e l’attuale generale, arruolatosi nei Guardiani della Rivoluzione l’anno precedente, dette prova del suo valore dapprima come comandante di compagnia e, in seguito, come leader di unità sempre più consistenti, ultima e più importante delle quali la leggendaria 41esima divisione Tharallah (Sarallah). Protagonista negli anni Novanta di una durissima campagna di repressione del narcotraffico ai confini con l’Afghanistan e vicino all’area politica più conservatrice, tanto da essere uno degli ufficiali dei Pasdaran che nel 1999 firmarono una lettera inviata al presidente Mohammad Khatami, chiedendogli di reprimere la rivoluzione degli studenti, minacciando in caso contrario di rovesciarne il governo, Soleimani fu nominato nel 1998 a capo della Forza Quds, l’unità di élite dei Pasdaran destinata alle operazioni speciali, che attualmente dirigeva. E alla testa della quale ha costruito il suo mito.
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Dezzani: guerre per procura, dietro la retorica sui curdi
Il 10 ottobre la Turchia ha infine lanciato l’invasione del Nord della Siria, per debellare le milizie curde alleate degli Usa e scongiurare la nascita di un qualsiasi soggetto autonomo a ridosso dei propri confini: termina dunque così il tentativo delle potenze marittime anglosassoni (cui si somma ovviamente lo Stato di Israele), avviato nel lontano 2011, di alimentare ulteriormente la balcanizzazione della regione mediorientale, introducendo almeno due nuove entità: un Kurdistan e un Sunnistan monopolizzato dall’Isis. Ciò che ci interessa, infatti, è soprattutto leggere i recenti avvenimenti in chiave geopolitica: dove per geopolitica non si intende “rapporti internazionali”, bensì rivalità tra potenze marittime e potenze continentali, tra cui va annoverata a buon diritto (per geografia e quindi “weltanschauung”) anche la Turchia. Non che la condotta di Ankara sia stata sempre lineare: sia ben chiaro. Facendo leva sull’atavico interesse per i territori siriani (la battaglia di Aleppo del 1918 decreta la disfatta militare dell’Impero Ottomano), gli angloamericani attraggono in un primo momento la Turchia nello schieramento delle forze “destabilizzanti”: c’è comunque da dire che Ankara ne accetta pienamente le conseguenze, ospitando sul proprio territorio circa tre milioni di profughi.La manipolazione della Turchia tocca il proprio apice nel novembre 2015, quando l’aviazione turca, contando sull’appoggio della Nato, abbatte il celebre Su-24 nei cieli siriani. Ankara capisce allora che gli angloamericani non hanno nessuna intenzione di impegnarsi militarmente in nuovo conflitto mediorientale: lavorano soltanto per la destabilizzazione a buon mercato della regione, destabilizzazione che, presto o tardi, colpirà anche la Turchia, attraverso la nascita di un Kurdistan filo-occidentale. Inizia così il progressivo avvicinamento dei turchi alla Russia, fonte di non pochi scossoni: primo fra tutti il tentato golpe dell’estate 2016 ed il successivo assassinio dell’ambasciatore Karlov. La reazione scomposta degli angloamericani denota la chiara percezione di rischi insiti nell’alleanza turco-russa: come portare avanti la balcanizzazione della regione, se i russi bombardano l’Isis e i turchi passano nel campo avversario? Operazione impossibile: è dunque sul finire del 2016 che va collocato il punto di svolta nella “guerra per procura” che le grandi potenze potenze combattono in Siria.Neppure l’accanimento della speculazione sulla lira turca riesce a impedire la rielezione del presidente Erdogan nel giugno 2018, né a modificarne la politica estera di tacito sganciamento dalla Nato: le milizie curde dello Sdf e Ypg, che controllano la zona siriana (peraltro scarsamente popolata) a Nord-Est dell’Eufrate sono ormai spacciate, perchè la loro liquidazione è solo questione di tempo. Le potenze angloamericane se ne sono servite (inondando i media occidentali con la propaganda sulle “amazzoni curde” e sull’eroica resistenza di Kobane) promettendo loro uno Stato autonomo, esteso anche al nord dell’Iraq: ma come difenderle, se l’intera manovra iniziata nel 2011 (e costata centinaia di migliaia di morti, specie tra le antichissime comunità cristiane) è fallita? Significherebbe per le potenze marittime proteggere e rifornire (con un ponte aereo?) le roccaforti curde nel cuore della Mesopotamia, un’impresa che gli strateghi angloamericani non prendono neppure in considerazione. Quindi, Donald Trump fa ciò che avrebbe fatto qualsiasi altro inquilino della Casa Bianca: abbandona i curdi al loro destino, dando luce verde all’invasione turca.Si noti, però: con o non senza il placet di Washington, i turchi si sarebbero comunque messi in azione, perché ciò che ormai conta è la coordinazione con la Russia, che “supervisiona” le mosse di Ankara, Teheran, Baghdad e Damasco. Attualmente Ankara si è impegnata a non estendere la sua fascia d’occupazione oltre i trenta chilometri dalla frontiera, ma non è escludibile che in prospettiva questa sia allargata a tutto il “cuneo” siriano a est dell’Eufrate, tra Turchia e Iraq: una zona a maggioranza curda su cui il governo siriano non esercita più nessun controllo da anni. Una politica estera russa moderatamente aggressiva potrebbe sostenere il dinamismo turco verso sud, in cambio, in primis, di un riassetto del Caucaso. Russia e Turchia sono due grandi Stati continentali, che nel corso del Novecento sono stati troppo compressi delle potenze marittime: un’alleanza di ampio respiro apporterebbe vantaggi a entrambe.(Federico Dezzani, “Operazione ‘Fonte di Pace’: l’Heartland si muove”, dal blog di Dezzani dell’11 ottobre 2019).Il 10 ottobre la Turchia ha infine lanciato l’invasione del Nord della Siria, per debellare le milizie curde alleate degli Usa e scongiurare la nascita di un qualsiasi soggetto autonomo a ridosso dei propri confini: termina dunque così il tentativo delle potenze marittime anglosassoni (cui si somma ovviamente lo Stato di Israele), avviato nel lontano 2011, di alimentare ulteriormente la balcanizzazione della regione mediorientale, introducendo almeno due nuove entità: un Kurdistan e un Sunnistan monopolizzato dall’Isis. Ciò che ci interessa, infatti, è soprattutto leggere i recenti avvenimenti in chiave geopolitica: dove per geopolitica non si intende “rapporti internazionali”, bensì rivalità tra potenze marittime e potenze continentali, tra cui va annoverata a buon diritto (per geografia e quindi “weltanschauung”) anche la Turchia. Non che la condotta di Ankara sia stata sempre lineare: sia ben chiaro. Facendo leva sull’atavico interesse per i territori siriani (la battaglia di Aleppo del 1918 decreta la disfatta militare dell’Impero Ottomano), gli angloamericani attraggono in un primo momento la Turchia nello schieramento delle forze “destabilizzanti”: c’è comunque da dire che Ankara ne accetta pienamente le conseguenze, ospitando sul proprio territorio circa tre milioni di profughi.
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Omran e la fake news sulla Siria riesumate da Mattarella
Che a diffondere fake news fossero “Repubblica” e affini eravamo abituati – a proposito, aspettiamo sempre che Facebook inizi un attento monitoraggio in linea con quanto affermato recentemente nella cosiddetta lotta alle pagine che diffondono bufale. Che fosse il presidente della Repubblica in modo così plateale meno, siamo onesti. In occasione di una commemorazione per i 100 anni di Save The Children, in uno stralcio del discorso, Mattarella ha dichiarato, secondo quanto riportano Agi, Ansa e altre agenzie: «Credo che tutti rammentiamo l’immagine del bambino siriano in ospedale, coperto di polvere, dopo il bombardamento della sua abitazione: quell’immagine ha commosso tanti nel mondo. Ma occorre che la commozione, la sollecitazione che queste immagini determinano non sia effimera e non si dimentichi in poco tempo». Sulle fake news che hanno giustificato i crimini contro la Siria, Save the Children è esperta (come abbiamo spesso denunciato), ma Mattarella ha proprio scelto la madre di tutte le bufale per elogiare la Ong oggi.Non nominandolo direttamente, il presidente Mattarella infatti allude chiaramente alla storia di Omran Daqneesh, divenuta celebre in tutto il mondo perché strumentalizzata dai famigerati “Caschi Bianchi” durante la propaganda mondiale prima della liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano e dei suoi alleati (in particolare Russia, Iran e Hezbollah). Vi ricordate le mani di Saviano, Boldrini e Volo davanti la bocca in quei momenti? Ecco, Omran faceva parte di quella stessa strategia per impedire che gli abitanti di Aleppo tornassero a vivere in uno stato laico e moderno, dopo anni di torture sotto il giogo di quei terroristi che l’Occidente ha finanziato, supportato e armato. Qualcosa, tuttavia, si inceppò, nella macchina della propaganda. E proprio sul caso di Omran: l’autogol fu tanto clamoroso quanto censurato da tutti gli organi mainstream. Fu il padre stesso di Omran a denunciare la messa in scena, e la Russia portò il caso al Consiglio dei diritti umani di Ginevra, chiedendo formalmente ai mass media di rettificare la fake news diffusa. In questo resoconto di Rossi sul “Giornale” è raccontata molto bene l’intera vicenda.Per un politico come Mattarella, che ha recentemente preso aperta posizione a sostegno del golpe Usa contro il Venezuela e che in passato ha avuto un ruolo attivo nella decisione italiana di aderire ai bombardamenti contro Belgrado, non può certo sorprendere la sua posizione sulle vicende siriane. Meno chiaro a molti, proprio perché immersi nelle fake news quotidiane, è chi governava ad Aleppo prima della liberazione. E chi continua ad infestare la Siria, ad esempio ad Idlib. Proprio oggi i terroristi (ribelli moderati nella vulgata di regime) hanno pubblicato questo video (“Gruppo ribelle, appoggiato dai turchi, che vuol passare per ‘moderato’, decapita soldato siriano”). E’ altamente sconsigliato ad un pubblico sensibile ma è più efficace di ogni parola possibile. Perché «la commozione, la sollecitazione che queste immagini determinano non sia effimera e non si dimentichi in poco tempo», è necessario estirpare completamente il terrorismo importato dall’Occidente in Siria. Chi non si esprime chiaramente in merito, Ong o politico che sia, non ha nessun diritto di pontificare sui diritti umani.(“Sergio Mattarella e le fake news contro la Siria”, da “L’Antidiplomatico” del 13 maggio 2019).Che a diffondere fake news fossero “Repubblica” e affini eravamo abituati – a proposito, aspettiamo sempre che Facebook inizi un attento monitoraggio in linea con quanto affermato recentemente nella cosiddetta lotta alle pagine che diffondono bufale. Che fosse il presidente della Repubblica in modo così plateale meno, siamo onesti. In occasione di una commemorazione per i 100 anni di Save The Children, in uno stralcio del discorso, Mattarella ha dichiarato, secondo quanto riportano Agi, Ansa e altre agenzie: «Credo che tutti rammentiamo l’immagine del bambino siriano in ospedale, coperto di polvere, dopo il bombardamento della sua abitazione: quell’immagine ha commosso tanti nel mondo. Ma occorre che la commozione, la sollecitazione che queste immagini determinano non sia effimera e non si dimentichi in poco tempo». Sulle fake news che hanno giustificato i crimini contro la Siria, Save the Children è esperta (come abbiamo spesso denunciato), ma Mattarella ha proprio scelto la madre di tutte le bufale per elogiare la Ong oggi.
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Cabras: bagno di sangue a Caracas, se tifiamo per Guaidò
E’ evidente che in Venezuela siamo alla fine di un lungo ciclo politico, segnato fin qui dai governi di Chavez e Maduro. Il Venezuela cerca una svolta, e merita di trovarla. Dobbiamo tutti chiederci cosa dobbiamo fare, per assicurare una transizione pacifica, verso un nuovo equilibrio che garantisca tutti ed eviti un immenso bagno di sangue. I due blocchi sono lì, entrambi abbastanza forti da potersi giocare alla pari la partita: o la guerra civile, o la conciliazione nazionale costituzionale. Chi oggi vuole ignorare lo spettro di una guerra civile con risvolti internazionali compie un azzardo politico irresponsabile: tutti i precedenti ce lo dicono, in modo evidente. Più volte abbiamo visto potenze esterne esasperare una crisi, introdursi nel nucleo cesaristico di un potere statale, sgretolarlo e cercare di afferrarne i dividendi fra le macerie. Ma quello che riescono a creare davvero è solo il caos, fatto di infiniti compromessi coi “signori della guerra”. Noi non vogliamo vedere delle milizie che scorrazzano tra le macerie di Caracas con enormi mitragliatrici caricate sui cassoni dei pick-up come abbiamo visto a Baghdad, a Tripoli o ad Aleppo. Non vogliamo una guerra in Venezuela. Il modo migliore di evitarla è la non-interferenza, che è un ottimo principio base delle Nazioni Unite.A quanti qui a Roma pensano di aver già saputo dirimere le controversie costituzionali a Caracas propongo una constatazione semplice: noi non siamo la Corte Suprema del Venezuela. Siamo invece un paese tenuto a tutelare al meglio i propri cittadini e a rispettare la carta dell’Onu. Riconoscere Guaidò, come presidente già ora pienamente in carica, può avere risvolti politici rilevanti: ne capiamo le ragioni contingenti ma, in termini diplomatici, è un atto impraticabile e incompatibile con gli obiettivi dell’Italia, non riconosciuto né riconoscibile dall’Onu. Guidò non controlla i poteri dello Stato venezuelano, non ha presa sull’amministrazione, non dirige i ministeri, non ha in mano le forze dell’ordine, non ha strumenti per garantire gli impegni internazionali. Il rischio di un riconoscimento prematuro è quello di un vicolo cieco diplomatico, che annichilirebbe le chance per il dialogo e la lascerebbe esposta la comunità italiana in Venezuela a incertezze intollerabili. Da questo aspetto non si scappa.Nell’immediato, Guaidò può riuscire a esercitare davvero il potere solo in tre modi, che comportano tutti un enorme incremento della violenza: o un’insurrezione militare, o una rivolta popolare armata (che si scontrerebbe con l’altro blocco politico e sociale, che è abbastanza forte) oppure con un intervento straniero. E in effetti l’8 febbraio, in una dichiarazione, Guaidò dice che non esclude la possibilità di autorizzare (attenzione a questa parola: autorizzare) un intervento militare statunitense per aiutare a rimuovere dal potere il presidente Maduro, naturalmente sotto l’eterno ombrello giustificativo di una crisi umanitaria. Ecco perché sostenere le forzature istituzionali per il “regime change” significa facilitare la guerra nelle case dei venezuelani: c’è ancora qualcuno che può pensare che in Venezuela si possano tenere libere elezioni e ci sia una governabilità praticabile, in assenza di un accordo politico fra i due blocchi? E senza il supporto delle organizzazioni internazionali? Servono meccanismi di mediazione approvati dell’Onu, in ossequio all’ordinamento internazionale, con l’obiettivo di una via pacifica e democratica alla crisi del Venezuela, come il faticoso tentativo in atto con il meccanismo di Montevideo.In questi giorni ci sono state molte polemiche e distorsioni sulla nostra posizione. Siamo ben lontani dal considerare Maduro un modello di qualcosa. Ma una parte della stampa e della politica ragiona così: se non ritieni auspicabile spalleggiare una forzatura istituzionale, allora sei automaticamente un fan entusiasta del presidente. Viceversa, noi non siamo tifosi di nessuno: riteniamo che, in politica estera, sia sbagliato fare il tifo e usare approcci ideologici. E’ molto più utile capire le ragioni del consenso e del dissenso, e capire perché – a sostegno di un potere che si vuole rimuovere con la logica della “debellatio” – si muovono invece forze storiche molto solide, che hanno alleanze internazionali resistenti. La base sociale del chavismo è stata creata negli anni di punta dei prezzi elevati del petrolio. E’ un buon esercizio, leggere i dati economici degli ultimi vent’anni nella scheda-paese del Venezuela compilata dal Fondo Monetario Internazionale.Ecco, i dati ufficiali non descrivono un paradiso, ma un fenomeno politico notevole, radicato, che ha fondato ex novo uno Stato sociale dentro una rete di relazioni internazionali in cui investivano Cina, Russia e altri paesi. Uno Stato sociale oggi sfiancato dalle sue contraddizioni, degli errori gestionali, da un centro di intermediazione burocratica inadeguato e corrotto, dal calo del prezzo del petrolio e delle sanzioni di Washington, che hanno inciso pesantemente negli ultimi due anni. Si tratta tuttavia di un blocco di interessi ancora consistente, che non sopporterebbe un revanscismo che volesse smantellarlo totalmente, riportando il modello classico dell’America Latina di trent’anni fa: quello di una borghesia esclusivamente orientata al Nord America e indifferente alle disuguaglianze sociali. Dal canto suo, l’opposizione ha solidissimi rapporti con il National Endowment for Democracy, l’ente statunitense che spende ogni anno milioni di dollari (e sono tutti i dati pubblici) per sorreggere il tessuto delle organizzazioni del blocco sociale alternativo venezuelano. Insomma, tutte le grandi potenze sono portatrici di vasti interessi economici e geopolitici, non riducibili alla sola questione – pur ingombrante – del petrolio.E c’è dell’altro: qualcosa di cui finora nel nostro Parlamento non si è discusso, ma che merita l’attenzione di tutti. La recentissima fine del trattato Inf sui missili nucleari a raggio intermedio può riaprire una pericolosa corsa agli armamenti: le grandi potenze nucleari guardano all’Europa e ai Caraibi come possibile teatro di dislocazione dei nuovi missili. Non possiamo trascurare questo scenario drammatico, in grado di ridurre a pochi minuti il tempo delle decisioni che possono evitare la catastrofe atomica. L’Europa ha un interesse vitale a costruire un sistema di relazioni internazionali che sia il più lontano possibile dalla “mezzanotte nucleare”, di cui sarebbe la prima vittima. E per fare questo deve ridurre le faglie che si stanno aprendo ormai su troppi fronti interconnessi, incluso questo fronte tropicale. In Venezuela si tenga conto dell’interesse di venezuelani a trovare una via di conciliazione nazionale pacifica, indipendente, attenta alle interdipendenze mondiali e al riconoscimento democratico di tutte le formazioni sociali e politiche del paese. I due polmoni della democrazia del Venezuela devono respirare nello stesso petto.(Pino Cabras, dichirazioni rilasciate nei giorni scorsi alla Camera dei Deputati sulla crisi del Venezuela, riprese su YouTube e sul blog “Megachip”. Parlamentare del Movimento 5 Stelle, Cabras è membro della Commissione Affari Esteri della Camera).E’ evidente che in Venezuela siamo alla fine di un lungo ciclo politico, segnato fin qui dai governi di Chavez e Maduro. Il Venezuela cerca una svolta, e merita di trovarla. Dobbiamo tutti chiederci cosa dobbiamo fare, per assicurare una transizione pacifica, verso un nuovo equilibrio che garantisca tutti ed eviti un immenso bagno di sangue. I due blocchi sono lì, entrambi abbastanza forti da potersi giocare alla pari la partita: o la guerra civile, o la conciliazione nazionale costituzionale. Chi oggi vuole ignorare lo spettro di una guerra civile con risvolti internazionali compie un azzardo politico irresponsabile: tutti i precedenti ce lo dicono, in modo evidente. Più volte abbiamo visto potenze esterne esasperare una crisi, introdursi nel nucleo cesaristico di un potere statale, sgretolarlo e cercare di afferrarne i dividendi fra le macerie. Ma quello che riescono a creare davvero è solo il caos, fatto di infiniti compromessi coi “signori della guerra”. Noi non vogliamo vedere delle milizie che scorrazzano tra le macerie di Caracas con enormi mitragliatrici caricate sui cassoni dei pick-up come abbiamo visto a Baghdad, a Tripoli o ad Aleppo. Non vogliamo una guerra in Venezuela. Il modo migliore di evitarla è la non-interferenza, che è un ottimo principio base delle Nazioni Unite.
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Akakor, Amazzonia: l’impero segreto dei Figli delle Stelle
Nel 13.000 avanti Cristo, «brillanti navi dorate» raggiunsero le foreste lussureggianti del Sudamerica. Ne scesero «maestosi stranieri con la carnagione bianca, il volto contornato dalla barba, folta chioma nera con riflessi blu». Avevano anche «sei dita alle mani e ai piedi», proprio come i Nephilim (giganti) di cui parla la Bibbia, il cui ultimo discendente, Golia, secondo il racconto biblico fu abbattuto dal mitico Davide. I personaggi comparsi in Amazzonia «dissero di provenire da Schwerta, una costellazione lontanissima con innumerevoli pianeti, che incrocia la Terra ogni 6.000 anni». Sconosciuta la tecnologia in loro possesso: «Pietre “magiche” per guardare ovunque nel mondo, arnesi che scagliano fulmini e incidono le rocce, la capacità di aprire il corpo dei malati senza toccarlo». Fiabe? Chissà. In ogni caso, si tratta di storie pericolose: spesso sono costate la vita ai ricercatori che tentarono di approfondirle, capirle, svelarle (compreso un vescovo cattolico, monsignor Giocondo Grotti). E’ un vero e proprio cimitero – sconosciuto ai più – quello dei “cercatori” dell’altro Eldorado, l’ipotetica civiltà dei Figli delle Stelle che, in Amazzonia, avrebbero fondato imponenti città-Stato (sotterrannee) tra piramidi sepolte nella giungla, rivelando all’umanità la sua vera origine. Prima vittima di questa leggendaria scoperta: un giornalista tedesco, Karl Brugger, stabilitosi nel dopoguerra a Manaus.La sua avventura inizia nel 1972, nell’ex capitale del caucciù alla confluenza tra l’Amazonas e il Rio Negro. Dopo tante esplorazioni tra gli indios, Brugger fa l’incontro che gli cambierà la vita: entra in contatto con Tatunca Nara, che si considera l’ultimo capo degli Ugha Mongulala, misteriosa Tribù degli Alleati Eletti. Da lui proviene un racconto straordinario, tratto direttamente dai “libri sacri” che costituiscono la cronistoria di un regno scomparso, Akakor. La “Cronaca di Akakor” racconta Dino Vitagliano sul blog “Acam”, ripreso da “La Crepa nel Muro”, si compone di vari testi: “Il Libro del Giaguaro”, “Il Libro dell’Aquila”, “Il Libro della Formica” e “Il Libro del Serpente d’Acqua”. C’è scritto che gli Alleati Eletti, provenienti dal cielo, «con infinito amore donarono agli indios il lume della civiltà e gettarono le basi di un impero vastissimo». Il reame comprendeva «Akakor, l’imprendibile fortezza di pietra nella vallata sui monti al confine tra Perù e Brasile», ma anche «Akanis in Messico e Akahim in Venezuela», senza contare «le grandiose città di Humbaya e Patite in Bolivia, Cadira, Emin sul Grande Fiume e maestosi luoghi sacri: Salazare, Tiahuanaco e Manoa sull’altopiano a sud». L’antropologo Samir Osmanagich, scopritore delle Piramidi di Visoko in Bosnia datate 28.000 anni, avverte: l’Amazzonia e l’America Centrale ospitano migliaia di antichissime piramidi, sepolte dalla vegetazione: costruite da chi?La disposizione delle piramidi, incluse quelle egizie – aggiunge Osmanagich – riproduce sempre il sistema stellare di qualche precisa costellazione. E’ il caso delle 13 “città invisibili” di Akakor, costruite nel sottosuolo per sfuggire alla vista degli intrusi: «La loro pianta riproduce fedelmente Schwerta, la dimora cosmica degli Antichi Padri». Secondo il racconto della “Cronaca di Akakor”, di sapore mitologico, «una luce innaturale» illumina le città dall’interno, mentre un ingegnoso complesso di canalizzazioni assicura l’afflusso di aria e acqua anche in profondità. Nella narrazione poi compaiono numeri precisi, per raccontare l’improvvisa scomparsa dei “padri celesti”: «Il potente dominio, che contava sotto di sé 362 milioni di individui, durò 3.000 anni». Poi, nell’Ora Zero – identificata nel 10.481 avanti Cristo – gli Antichi Padri «ripresero la via del cielo», sia pure «con la promessa di ritornare». Un viavai astronautico, che ricorda quello che Mauro Biglino ricava direttamente dalla rilettura letterale, in ebraico, dell’Antico Testamento (solitamente tradotto con un’infedeltà clamorosa, capace di trasformare in “gloria” l’inesplicabile “Khavod” con cui, si legge, l’Eohim chiamato Yahvè era solito volare, come su un’astronave capace di varcare le “porte del cielo” che conducono “le olàm”, nello spazio sconosciuto).La partenza dei Figli delle Stelle dall’Amazzonia, prosegue la sintesi offerta da Vitagliano, fu decisamente traumatica: «La Terra parve piangere la loro scomparsa e, 13 anni dopo, un’immane catastrofe si abbattè sul pianeta e sconvolse il suo aspetto, seminando ovunque morte e desolazione». Sapevano, gli “dei” precipitosamente partiti, che cosa sarebbe successo al nostro pianeta? Al che, gli uomini «persero la fede» in quelli che avevano cominciato a considerare “dèi”. La società umana degenerò, e gli individui presero a commettere «azioni crudeli», pessima abitudine protrattasi «nei millenni a venire». Ma non è tutto: «Seguì un seconda catastrofe: una stella gigantesca dalla coda rossa impattò la Terra, provocando un immane diluvio», altro “topos” narrativo citato in tutte le letterature antiche. Secondo le parole di quelli che, nel frattempo, erano diventati sacerdoti, «quando la disperazione avesse raggiunto il culmine, i Primi Maestri sarebbero tornati». Circa 6.000 anni dopo, infatti – nel 3.166 avanti Cristo – ricomparvero le “navi d’oro”. Un nuovo ciclo di regalità “illuminata”: «Lhasa, il Sublime, regnò ad Akakor». E attenzione: «Suo fratello Samon volò sul Nilo per fondare un secondo impero». In più, il nuovo potere egizio «approdava regolarmente in terra sudamericana», sempre «a bordo di immense navi».A che punto era, nel resto del mondo, la civiltà umana attorno al 3000 avanti Cristo? A Creta stava per nascere la cultura minoica, sulla sponda orientale del Mediterraneo sorgeva il villaggio da cui sarebbe nata Troia, mentre sul Nilo regnava la primissima dinastia di faraoni. Più avanzata la civiltà dei Sumeri in Mesopotamia, con importanti città come Ur e Uruk, mentre in Siria si stagliavano le mura di Aleppo. Grandi movimenti da oriente verso occidente: la Cina già molto sviluppata, i contatti con l’Iran, i primi stanziamenti indoeuropei in Ucraina e l’agricoltura che si affaccia sul Baltico, mentre in Inghilterra sorgono le prime tracce di Stonehenge. Legami con l’Amazzonia? Reperti di varia natura scoperti dagli archeologi confermano la presenza egiziana in Sudamerica, come la Roccia delle Scritture che l’antropologo statunitense George Hunt Williamson rinvenne sulle Ande nel 1957, istoriata da geroglifici simili a quelli egizi, venerata dai nativi e collegata alla discesa di antenati spaziali che dimoravano nel “Gran Paititi”. Fili non proprio invisibili, che collegano continenti lontani, fino al mitico impero delle Amazzoni.«Il principe di Akakor – prosegue la “Cronaca” del regno amazzonico – governò con saggezza riorganizzando l’impero distrutto ed eresse nuove città come Manu, Samoa e Kin in Bolivia, e Machu Picchu in Perù. Trecento anni rimase sulla Terra, finchè un giorno si diresse sulla Montagna della Luna, sopra le Ande, e disparve nel cielo in un fuoco». Partenza che riecheggia quella di Quetzalcoatl, misterioso personaggio messicano poi venerato come “divinità”. Millenni di guerre contro le tribù nemiche – aggiunge Vitagliano – videro Akakor cadere e risorgere più volte, stringendo anche alleanze con «stirpi straniere giunte da lontano». Attenzione: le tradizioni degli Ugha Mongulala parlano di «popolazioni bianche, come i Goti che visitarono le loro terre». Nientemeno: sarebbero gli antenati degli stessi Goti che, con Alarico, avrebbero tentato di ripristinare la perduta “regalità iniziatica” resuscitando quel che restava dell’Impero Romano.Ancora una volta, sottolineano i blog “Acam” e “La Crepa nel Muro”, questa citazione si rivela una notevole conferma delle antiche cronache medievali, nelle quali «navi vichinghe partite all’esplorazione di mondi lontani, dopo un naufragio, approdarono sulle coste del Sudamerica». Nella Sierra di Yvytyruzu, in Paraguay, l’archeologo franco-argentino Jacques de Mahieu negli anni ‘70 scoprì un masso istoriato di caratteri runici e disegni dei Drakkar, le navi nordiche, con anche un uomo barbuto protetto da un’armatura. «Le attuali popolazioni di quei territori possiedono la pelle bianca, un torace sviluppato e la barba». Ma un evento ancor più strano, «preconizzato nelle antiche scritture degli Antenati Divini», è l’arrivo ad Akakor di 2.000 soldati tedeschi: militari del Terzo Reich, che aiutarono gli indios ad armarsi contro i “barbari bianchi” (ma senza successo, perché la Germania stava ormai perdendo la Seconda Guerra Mondiale). «I nativi ricordano lo stemma cucito sulla giacche delle truppe, identico ai covoni di grano in foggia di svastica, che rotolavano dalle colline durante cerimonie sacre nel solstizio d’estate».Lo stesso Hitler era ossessionato a tal punto dalle tradizioni esoteriche da abbracciare le idee della società segreta Thule, che prendeva il nome di un vasto territorio esteso dal Mar del Gobi al Polo Nord, abitato dalla “civiltà degli Iperborei”, considerata custode di antiche conoscenze perdute. L’esistenza di una “razza antichissima” che viveva in cavità sotterranee in Amazzonia stimolò la sua curiosità, spingendo il capo del nazismo a inviare numerose spedizioni in tutto il globo per accertare la veridicità dei suoi studi occulti. In questo caso il contingente tedesco “atteso” dagli indios salpò da Marsiglia, a bordo di un sommergibile, per una missione segretissima: tentare di prendere contatto con la mitica Tribù degli Alleati Eletti, quella che – decenni dopo – Karl Brugger avrebbe intercettato, incontrando Tatunca Nara (cioè la fonte principale della leggendaria “Cronaca di Akakor”). Sempre secondo Dino Vitagliano, non fu casuale la scelta, da parte dei nazisti, di partire dal porto mediterraneo: «Un resoconto di viaggio del navigatore greco Pitea di Massalia, nel IV sec a.C., il “De Oceano”, narra la partenza da Massalia, l’antica Marsiglia, per giungere alla mitica Thule ubicata nei ghiacci remoti nel lontano Nord. Molto probabilmente la città francese custodisce segreti esoterici noti ai nazisti da lungo tempo».Sempre secondo la “Cronaca”, il Tempio del Sole di Akakor, vigilato da guardie armate, custodisce mappe segrete, vergate dagli Antichi Padri: mostrano il cosmo com’era millenni prima, con altre Lune, un’isola perduta ad Ovest e una terra in mezzo all’Oceano, «inghiottite dai flutti nel corso di un’epica battaglia stellare», combattuta tra due progenie di “dèi”, le cui conseguenze «investirono persino i pianeti Marte e Venere». A un certo punto, in questa favolosa cosmogonia, compare l’umanità: «I Signori del Cielo portarono l’uomo da un pianeta all’altro, fino a giungere sulla Terra». Già l’austriaco Hanns Hoerbiger, teorico nazista, aveva postulato l’esistenza di varie Lune nelle ère perdute della Terra. Poi c’è un’allusione diretta ai Vimana, le “astronavi” dei Deva (i paleo-astronauti indiani di cui si parla nei Veda, poi trasformati in “divinità” con la nascita dell’Induismo): le mappe di Akakor, citate da Brugger, si ricollegano alla carta astronomica del 4.000 avanti Cristo, appartenuta al compianto ricercatore britannico David Davenport sulle rotte dei Vimana verso il nostro pianeta, provenienti da sistemi stellari lontanissimi. Amazzonia, India, Palestina: è come se venisse raccontata sempre la stessa storia, sia pure in lingue diverse. Qualcuno sarebbe giunto sulla Terra dallo spazio profondo, dando origine all’uomo.Nella foresta pluviale amazzonica, questa “conoscenza” sarebbe stata preservata secondo precise modalità: «Fedeli ai desideri dei Primi Maestri, i sacerdoti raccolsero tutto il sapere e la storia della Tribù Eletta in libri custoditi in una sala scolpita nella roccia all’interno delle dimore sotterranee. Nello stesso luogo gli enigmatici disegni dei Padri Divini sono incisi in verde e azzurro su di un materiale sconosciuto. Disegni che né l’acqua né il fuoco riescono a distruggere». Sempre nel Tempio del Sole, «nei sotterranei giacciono anche armi simili a quelle dei tedeschi appartenute agli “dèi”, l’astronave di Lhasa, un cilindro di metallo ignoto che volava senz’ali, e un veicolo anfibio che attraversava le montagne». Tatunca Nara raccontò a Karl Brugger di aver visto con i suoi occhi «una sala rischiarata da una luminosità azzurrina che mostrava in animazione sospesa quattro persone, tra cui una donna, con sei dita alle mani e ai piedi, entro contenitori di cristallo pieni di liquido». Fervida fantasia fantascientifica – decisamente fuori luogo, in un indio amazzonico degli anni ‘70 – o testimonianza semplicemente sconcertante, così come l’intera storia del regno sotterraneo di Akakor fondato dai Padri Celesti?Il ricercatore italiano Antonio Filangieri verificò le credenziali di Karl Brugger tramite il fratello, Benno, incontrato a Monaco. Benno Brugger rivelò a Filangieri che, dopo l’improvvisa morte di Karl, «colpito in circostanze misteriose da una pallottola nel 1984», il consolato tedesco aveva perquisito l’appartamento di Karl a Rio de Janeiro, confiscando tutta la documentazione relativa alla spedizione di Akakor. «In seguito, le casse con gli incartamenti furono oggetto di diversi tentativi di furto». Di punto in bianco, il console tedesco di Rio venne trasferito in Costa d’Avorio, con i documenti al seguito. Parte del materiale, infine, scomparve non appena giunse in Germania, dov’era arrivato su richiesta di Benno Brugger. Ma non tutto era perduto: «Quando Tatunca Nara avviò delle trattative con alti ufficiali bianchi per fermare lo sterminio indiscriminato degli indios, che prosegue tuttora indisturbato da parte delle autorità, ebbe modo di affidare alcuni scritti degli “dèi” a un vescovo cattolico». Si tratta di monsignor Giocondo Grotti. Dopo aver spedito i documenti in Vaticano, il prelato morì in uno strano incidente aereo, il 28 settembre 1971, durante il decollo dalla pista amazzonica di Sena Madureira, nello Stato dell’Acre, alla frontiera brasiliana con il Perù. Disgustato dai “barbari” bianchi, Tatunca Nara si dichiara orgoglioso delle sue origini: «Noi siamo uomini liberi, del Sole e della Luce. Non vogliamo gravare il nostro cuore del peso della loro fede errata e bugiarda».Con pazienza, conclude Vitagliano, il vecchio Tatunca Nara attende il ritorno degli “dèi”. O forse le “divinità”, tuttora nascoste negli impenetrabili recessi di Akakor, «attendono con pazienza che gli uomini tornino a loro stessi». In ogni caso, aggiunge il ricercatore su “Acam”, il Terzo Reich non fu il solo a interessarsi al mitico regno amazzonico. L’antica civiltà scomparsa, le cui colossali rovine sarebbero sepolte sotto le foreste del Sudamerica, è stato il sogno di numerosi avventurieri nel corso delle varie epoche. Già nel 1530 l’ufficiale di Pizarro, Francisco Orellana, favoleggiava di un reame pieno d’oro tra il Rio delle Amazzoni e il fiume Orinoco. La Chiesa ne sa qualcosa: «I gesuiti sono in possesso di antichi scritti di viaggio relativi a un’antica popolazione che dimora in una città maestosa nella giungla brasiliana». Un gruppo di sette uomini, guidato dal geografo americano Hamilton Rice, nel 1925 si spinse nella Sierra Parima, tra Venezuela e Brasile, alla scoperta di Ma-Noa, la capitale del leggendario El Dorado. Curiosamente, annota Vitagliano, il nome ricorda Manu, una delle 13 città costruite da Lhasa, detto il Sublime, che avrebbe regnato su Akakor 3.000 anni prima di Cristo.La documentazione più importante riguardo l’esistenza di scomparse civilizzazioni antecedenti a quelle conosciute – aggiunge sempre Vitagliano – proviene del colonnello britannico Percy Harrison Fawcett, cartografo della National Geographic Society. «In Sudamerica si dedicò alla consultazione del Manoscritto dei Bandeirantes, della prima metà del 1700», ora custodito al Museo dell’Indio a Rio de Janeiro. Il testo descrive l’esplorazione delle foreste amazzoniche da parte di un gruppo di venti uomini, e la loro clamorosa scoperta: una metropoli di pietra, ormai deserta, protetta da mura ciclopiche. Organizzata una spedizione del 1925 in Mato Grosso, Fawcett «si inoltrò con il figlio Jack lungo il Rio Araguaia, entrando in contatto con varie tribù di indios che conservavano nelle loro tradizioni il ricordo di una provenienza stellare». Proprio quando sembrava aver raggiunto «le vestigia di remote città illuminate da luci fredde», il cartografo inglese «scomparve misteriosamente, in estate, nell’alto Rio Xingu». Nel 1946 è la volta del connazionale Leonard Clark, che in un resoconto di viaggio (“I fiumi scendevano a Oriente”, edito nel 2000 da Tea), narra il ritrovamento di sei delle sette città dell’El Dorado nelle Ande Peruviane.Undici anni dopo, stimolato dai racconti del colonnello Fawcett, Antonio Filangieri ricalcò lo stesso itinerario e constatatò che molti luoghi collimavano. «Partì per un secondo viaggio, in modo da verificarne le scoperte archeologiche e raccogliere informazioni sulla sua scomparsa». Viaggio da cui però dovette desistere, come egli stesso riferisce, «per drammatici eventi sopraggiunti». Poco dopo, nel 1975, l’archeologo brasiliano Roldao Pires Brandao individuò una montagna tra il Brasile e il Venezuela, il Pico De La Neblina, attorno a cui – quattro anni dopo – scoprì tre piramidi di 150 metri, accanto a un complesso urbano nascosto dalla foresta. Ma la ricerca non è finita, aggiunge Vitagliano: ai giorni nostri, il ricercatore Marco Zagni si è assunto il compito di svelare l’esistenza di scomparse civiltà pre-incaiche. Zagni ha organizzato una spedizione in Perù, nelle zone di Pantiacolla, del fiume Pini Pini e di Pusharo, basandosi sulle testimonianze di una spedizione francese smarritasi nel 1979: in quella regione esisterebbero «indios di due metri», che vivono in mezzo a «strane formazioni piramidali, fotografate dal satellite LandSat», in un’area attraversata da una fitta rete di cavità sotterraneee, chiamate Soccabones. Ultime tracce del mitico Akakor?Anche gli archeologi, conclude Vitagliano, ormai sono propensi a riconoscere che – tra il 6.000 e il 4.000 avanti Cristo – sia fiorita una civiltà amazzonica, quella dei Mogulalas, formata da numerose città-Stato. Un dominio estremamente vasto, che si estendeva dal Venezuela alle Ande Peruviane. «Una conferma esoterica giunge anche dal libro di Leo e Viola Goldman, “I Misteri del Tempio” (Edizioni Synthesis, 1998)», che descrive «il cammino iniziatico di una donna nella città nascosta di Ibez, all’interno della montagna sacra del Roncador in Mato Grosso». Una montagna popolata da Maestri Divini che, «scampati alla distruzione di Atlantide con i Vimana», cioè le loro potenti astronavi, crearono le civiltà degli Inca, dei Maya e degli Atzechi. Una storia affascinante, ma costellata da troppe strane morti: non porta fortuna, a quanto pare, inoltrarsi in Amazzonia alla ricerca degli Splendenti, i Padri Celesti come Lhasa il Sublime. Chi erano, dunque, gli esseri “superiori” che, secondo Tatunca Nara (e il suo interlocutore tedesco, Karl Brugger, ucciso misteriosamente) avrebbero addirittura “importato” la vita sul pianeta Terra, trasportandola sin qui da pianeti sconosciuti, fino a dare origine alla stessa presenza dell’uomo?Nel 13.000 avanti Cristo, «brillanti navi dorate» raggiunsero le foreste lussureggianti del Sudamerica. Ne scesero «maestosi stranieri con la carnagione bianca, il volto contornato dalla barba, folta chioma nera con riflessi blu». Avevano anche «sei dita alle mani e ai piedi», proprio come i Nephilim (giganti) di cui parla la Bibbia, il cui ultimo discendente, Golia, secondo il racconto biblico fu abbattuto dal mitico Davide. I personaggi comparsi in Amazzonia «dissero di provenire da Schwerta, una costellazione lontanissima con innumerevoli pianeti, che incrocia la Terra ogni 6.000 anni». Sconosciuta la tecnologia in loro possesso: «Pietre “magiche” per guardare ovunque nel mondo, arnesi che scagliano fulmini e incidono le rocce, la capacità di aprire il corpo dei malati senza toccarlo». Fiabe? Chissà. In ogni caso, si tratta di storie pericolose: spesso sono costate la vita ai ricercatori che tentarono di approfondirle, capirle, svelarle (compreso un vescovo cattolico, monsignor Giocondo Grotti). E’ un vero e proprio cimitero – sconosciuto ai più – quello dei “cercatori” dell’altro Eldorado, l’ipotetica civiltà dei Figli delle Stelle che, in Amazzonia, avrebbero fondato imponenti città-Stato (sotterrannee) tra piramidi sepolte nella giungla, rivelando all’umanità la sua vera origine. Prima vittima di questa leggendaria scoperta: un giornalista tedesco, Karl Brugger, stabilitosi nel dopoguerra a Manaus.
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Questa sinistra che spara (sui bambini siriani e sulla verità)
In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.Ma che la televisione fosse una cattiva maestra ce lo aveva già detto Popper anni fa, che però riponeva fiducia nella classe dirigente e nell’intellighenzia del governo per arginare i danni della Tv. In Italia invece, dove ogni problema pare sempre più grave, l’intellighenzia che per antonomasia si batte per i più deboli, che tenta di annullare le ingiustizie sociali causate dallo sfruttamento del lavoro ed è convintamente contro la guerra (leggasi: la sinistra) è la prima ad essere pronta e sull’attenti quando c’è bisogno di bombardare o, come si dice adesso, “portar democrazia” un paese che gravita fuori dalla nauseabonda ombra dello zio Sam. Intendiamoci: diversi partiti minoritari (relegati per giochi elettorali a non più del 1,5%) della sinistra hanno preso convintamente le distanze dall’atto di aggressione atlantica in Medio Oriente ma ahinoi, qui, per ora, l’intellighenzia che guida la sinistra maggioritaria non è questa, bensì quella di Renzi, della Bonino, della Boldrini, di Riotta e di tutti quelli che prima si fanno foto dove si tappano la bocca per denunciare presunti attacchi chimici (non ancora dimostrati) e preparare l’opinione pubblica a legittimare l’intervento nazionale, ma poi tra qualche mese lanceranno l’ennesima campagna per denunciare i crimini di guerra a Damasco o ad Aleppo provocati dalla guerra che loro stessi, sornioni e convinti di essere sempre dalla parte della ragione, hanno cercato di legittimare e mistificare.In questo paradossale panorama politico l’unica frangia della politica che si è in massa imposta contro l’intervento in Siria è stata la destra, la brutta e cattiva destra, quella che “i buoni” ci dicono essere razzista, populista, fascio-leghista, xenofoba e quant’altro. Questi signori dal selfie facile hanno legittimato tutto, hanno creduto alla farsa di Colin Powell che sventolava finte boccette di veleno per convincere il consiglio dell’Onu ad attaccare Saddam, non hanno fiatato quando abbiamo bombardato la Libia e deposto Gheddafi – ma poi hanno voluto renderci edotti di quanto fosse drammatica la situazione sociale da quando non c’era più un governo –, non hanno detto nulla quando i loro beniamini europei che dovevano arginare i populismi euroscettici hanno varcato i nostri confini, preso i nostri mari e bombardato la Siria. Amano definirsi contro la guerra e contrari ad avere un arsenale militare ma nella loro ipocrisia riescono pure ad essere atlantisti e non fiatano se ci sono delle testate militari made in Usa depositate nel nostro mezzogiorno o se centinaia di unità aero-navali partono per ordine di Washington e vanno a bombardare i paesi mediorientali. Abbiamo concesso alla open society tutto e abbiamo perso tutto, ora siamo senza terra, senza identità e senza spina dorsale, in balia degli eventi che si decidono altrove ma che colpiscono le nostre coste, i nostri habitat naturali per diritto storico, l’Europa è in mano a degli scellerati e noi, italiani e ed europei siamo caduti in un torpore dal quale par impossibile svegliarsi.(Daniele Ruffino, “La sinistra che spara”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 20 aprile 2018).In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.
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Fake-war, dopo l’annuncio di Trump sul ritiro dalla Siria
«Lo scenario che si sta delineando in queste ore nel conflitto siriano ricorda da vicino la “pistola fumante” delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein con cui gli Usa giustificarono agli occhi del mondo l’invasione dell’Iraq nel 2003». Lo afferma Gianandrea Gaiani, su “Analisi difesa”. «Ci sono infatti molte ragioni per esprimere scetticismo di fronte alla denuncia dell’ennesimo attacco chimico contro i civili siriani attribuito al regime di Damasco». Già in passato, scrive Gaiani, «attacchi simili sono stati attribuiti ai governativi senza che emergessero prove concrete», mentre notizie e immagini diffuse dai “media center” sul terreno (Douma, Idlib, Aleppo e altre località in mano ai “ribelli”) «sono evidentemente propagandistiche e palesemente costruite». Lo schema si è già ripetuto più volte fin dalla guerra in Libia del 2011 e poi in Siria: «Fonti “umanitarie” strettamente legate alle milizie jihadiste e ai loro alleati arabi diffondono notizie non verificabili per l’assenza di osservatori neutrali». La situazione in Siria non è mai stata tanto critica, scrive Marcello Foa sul “Giornale”: nel giro di pochi giorni siamo passati dall’annuncio di un possibile ritiro dei soldati americani a quello di un possibile e devastante attacco con i missili su Damasco. «Il rischio di una spirale, e dunque di una guerra, è concreto».Alla Casa Bianca, avverte Foa, ora c’è John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale: è l’architetto delle inesistenti super-armi di Saddam. «Trump riuscirà anche questa volta a resistere ai ricatti o dovrà mettersi a bombardare la Siria?». Se lo domanda lo scrittore Paolo Mosca, sul blog “Mosquicide”, che offre un’insolita analisi sul profilo psico-politico di Trump: «In questo momento storico Jeremy Corbyn è forse il mio politico preferito – premette – e lui non si sognerebbe mai di dire cose diverse da quelle che fa. E questo forse è un suo punto debole». Al contrario, “The Donald” «dissocia parola, tweet e atto». E così facendo «mette totalmente in crisi il Deep State che cerca costantemente di manovrarlo dietro le quinte». Infatti: «Trump abbaia contro il dittatore nord coreano, ma poi fa in modo che si distendano le relazioni tra le due Coree», quindi espelle i diplomatici russi «ma poi invita Putin a New York». Ancora: «Apre verso Israele, ma poi cerca di tirarsi fuori dalla guerra siriana». E non appena lo fa, sottolinea Mosca, accadono due cose: «La notizia di un nuovo attacco chimico in Siria (smentito dalla Russia che invoca l’intervento di ispettori) e la visita dell’Fbi al suo avvocato personale, Michael Cohen, a cui vengono sequestrati documenti riguardanti il presidente».E’ sempre il Deep State, secondo Paolo Mosca, a premere per i missili sulla Siria, in una pericolosissima sfida con la Russia: «Se il modo di parlare di Trump è da cattivo uomo di destra, il suo modo di agire è da presidente moderato che cerca di barcamenarsi tra le forze vischiose del potere che lo circonda». Aggiunge Mosca: «Credo che per molti aspetti queste elezioni avrebbe preferito perderle», magari per poi contrattare maxi-appalti da posizioni di forza, come leader dell’opposizione. Meno possibilista Foa, spaventato dagli sviluppi: annunci di attacchi imminenti, navi da guerra in avvicinamento, aerei d’attacco pronti al decollo. Il tweet dell’altro giorno in cui Trump ha accusato Putin di proteggere “un animale” come Assad è di una violenza incredibile, «volto chiaramente ad aprire il terreno a un attacco missilistico». Per Foa, «il Trump di queste ore non ha più nulla a che vedere con quello che è stato eletto 18 mesi fa». La nomina di un supefalco come Bolton (cioè «l’uomo, pericolosissimo, che sussurra all’orecchio del capo della Casa Bianca) secondo Foa «segna la conversione del presidente americano sulle posizioni che egli stesso e i suoi consiglieri della prima ora dichiaravano di aborrire».Il Trump di una volta, agiunge Foa, desiderava che il suo paese non fosse trascinato in nuovi inutili conflitti, mentre «il Trump di oggi è irriconoscibile: è diventato un neoconservatore, ovvero ha fatto proprio lo spirito aberrante che ha guidato la mano di Bush, in buona parte quella di Obama, e che eccitava quella di Hillary Clinton». Il copione della guerra “umanitaria” è invariato, nella sua monotonia: il presunto attacco chimico sulla popolazione civile «ha tutta l’aria di essere una fake news istituzionale creata ad arte per creare un casus belli». Gli spin doctor dimostrano scarsa fantasia: usano sempre il solito schema, ricorda Foa. «Nel 2013 l’attacco con le armi chimiche che provocò la morte di 1300 persone e per il quale Obama era sul punto di scatenare l’inferno, risultò essere, in seguito, un caso di “false flag”, ovvero un attacco lanciato dai ribelli affinché la colpa ricadesse su Assad al fine di giustificare un intervento della Nato. L’anno scorso, la dammatica notizia dei forni crematori in cui venivano inceneriti i prigionieri politici alle porte di Damasco, lanciata da Amnesty ed enafatizzata dal Dipartimento di Stato Usa, è risultata essere una bufala per sorprendente ammissione dello stesso governo Usa».Nei giorni scorsi, aggiunge Foa, abbiamo assistito al caso Skripal – che ricorda, nello “spin”, quello di Douma: «Una furia accusatoria implacabile e urgente nasconde quasi sempre un bluff». Ricordate? «Mosca ha 24 ore di tempo per discolparsi, ma non ci sono dubbi, sono stati i russi», tuonavano il premier May e il ministro degli esteri Johnson, rilanciati da una stampa occidentale come sempre straordinariamente priva di senso critico e analitico. A ruota, Washington e i paesi europei decisero l’espulsione dei diplomatici, e il governo americano adottò nuove sanzioni. «Ma la prova che l’attentato sia stato compiuto dal Cremlino non è mai arrivata. Gli esperti hanno dovuto ammettere che è impossibile stabilire chi abbia davvero prodotto il gas, che peraltro non è risultato nemmeno letale». Ora ci risiamo, sottolinea Foa: l’attacco al cloro è molto dubbio.«Dovrebbe essere verificato da una commissione indipendente, a cui però gli Usa non sono interessati. Bastano le immagini, commoventi, di bambini intubati per trascinare l’opinione pubblica. Molto probabilmente un giorno scopriremo la verità, ma la verità non interessa agli spin doctor». Concorda Gaiani, su “Analsi Difesa”: notizie e immagini di presunti attacchi chimici vengono subito diffuse dalle tv arabe appartenenti alle monarchie del Golfo, cioè agli sponsor dei “ribelli”, per poi rimbalzare quasi sempre in modo acritico in Occidente.«Basti pensare che in sette anni di guerra la fonte da cui tutti i media occidentali attingono è quell’Osservatorio siriano per i diritti umani che ha sede a Londra, vanta una vasta rete di contatti in tutto il paese di cui nessuno ha mai verificato l’attendibilità, è schierato con i ribelli cosiddetti “moderati” ed è sospettato di godere del supporto dei servizi segreti anglo-americani», scrive Gaiani, certo non sospettabile di posizioni filo-siriane o filo-russe. «Anche per questo non bastano i cadaveri dei bambini o dei sopravvissuti con mascherine collegate a supposte bombole ad ossigeno per dimostrare l’esito di un attacco chimico e la sua paternità». Ma peggio: Jaysh al-Islam, la formazione colpita a Douma, «è una milizia salafita nota per aver impiegato i civili come scudi umani e per aver utilizzato il cloro nelle battaglie contro i curdi dell’aprile 2016». Il cloro? «Non è un’arma ma un prodotto chimico che può essere letale in forti concentrazioni e in ambienti chiusi, facilmente reperibile e già utilizzato nel conflitto siriano anche dallo Stato Islamico. I miliziani dispongono quindi da tempo dello stesso aggressivo chimico e non è difficile ipotizzare, a Douma come in tanti altri casi incluso quello di Khan Sheykoun l’anno scorso, che siano stati gli stessi ribelli a liberare cloro ad alta concentrazione per uccidere civili e attribuirne la colpa a Damasco, puntando così a incoraggiare una reazione internazionale contro il regime di Assad».Quanto al “cui prodest”, Gaiani non ha dubbi: «Il presidente siriano è certo uomo senza scrupoli ma non ha alcun interesse a usare armi chimiche che sono, giova ricordarlo, armi di distruzione di massa idonee a eliminare migliaia di persone in pochi minuti, non a ucciderne qualche decina: per stragi così “limitate” bastano proiettili d’artiglieria e bombe d’aereo convenzionali». Assad sta “ripulendo” le ultime sacche di resistenza in mano ai ribelli jihadisti e sta evacuando i civili dalle zone di combattimento: perché mai – si domanda “Analisi Difesa” – dovrebbe scatenare la riprovazione internazionale proprio mentre sta per cacciare i ribelli anche da Douma? «Perché dovrebbe colpire quei civili che i suoi uomini stanno evacuando, per giunta dopo un accordo raggiunto con i miliziani di Jaysh al-Islam che consentirà il loro trasferimento forse in un’area vicina a Jarablus, al confine con la Turchia?». Israele ha intanto bombardato la base siriana T-4 vicina a Palmira, con missili lanciati dallo spazio aereo libanese, mentre Trump ora accusa anche Russia e Iran «in nome di un attacco chimico che nessuna fonte neutrale ha potuto finora verificare». Tutto questo, scrive Gaiani, «induce a ritenere che ci troviamo di fronte all’ennesima operazione propagandistica messa a punto usando lo spauracchio delle armi chimiche».La situazione sembra stia precipitando: Washington parla apertamente di azioni militari contro Damasco, caldeggiate anche da Parigi (che potrebbe partecipare a eventuali raid punitivi) mentre la Russia mette in guardia gli Usa contro un «intervento militare sulla base di pretesti inventati» in Siria, che potrebbe «portare a conseguenze più pesanti». Letteralmente, i russi avvertono: intercetteranno i missili americani e colpiranno anche le loro basi di lancio. Uno scenario teoricamente esplosivo, “perfetto” per chi sogna lo scatenarsi dell’apocalisse. Per Gaiaini, la cautela dovrebbe quindi essere d’obbligo, «specie dopo la figuraccia rimediata dal ministro degli esteri britannico Boris Johnson che sulla responsabilità russa nel “caso Skripal” è stato smentito dal direttore dei laboratori militari di Sua Maestà». Ed ecco il punto: «La denuncia dell’attacco chimico a Douma sembra cadere a proposito per scoraggiare il ritiro delle forze americane dalla Siria settentrionale e orientale, annunciato da Trump dopo il fallimento del proposito della Casa Bianca di far pagare ai sauditi qualche miliardo di petrodollari per finanziare le operazioni dei militari americani»Il ritiro dei duemila soldato americani rischia però di lasciare carta bianca alle truppe turche nel nord del paese e a quelle di Damasco nell’est, «per questo oltre agli arabi e agli israeliani anche il Pentagono si oppone alla decisione annunciata da Trump», che ora sembra “costretto” a cambiare idea di fronte all’indignazione dell’opinione pubblica e della “comunità internazionale” per i bambini “uccisi dal cloro di Assad”, cioè “l’animale” alleato di russi e iraniani per il quale Trump minaccia una punizione esemplare. E’ la tesi di Paolo Mosca: l’ennesima strage (forse addirittura inventata – secondo i russi, non ci sono neppure vittime) si è verificata con puntualità cronometrica, a orologeria, non appena Trump ha annunciato il ritiro dalla Siria. Legge dietro l’ufficialità è difficile. A frenare è il ministro della difesa, l’ex generale dei marines James Mattis: «Niente è ancora stato deciso», fa sapere. «Prima bisogna verificare cos’è successo davvero, in Siria».«Lo scenario che si sta delineando in queste ore nel conflitto siriano ricorda da vicino la “pistola fumante” delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein con cui gli Usa giustificarono agli occhi del mondo l’invasione dell’Iraq nel 2003». Lo afferma Gianandrea Gaiani, su “Analisi difesa”. «Ci sono infatti molte ragioni per esprimere scetticismo di fronte alla denuncia dell’ennesimo attacco chimico contro i civili siriani attribuito al regime di Damasco». Già in passato, scrive Gaiani, «attacchi simili sono stati attribuiti ai governativi senza che emergessero prove concrete», mentre notizie e immagini diffuse dai “media center” sul terreno (Douma, Idlib, Aleppo e altre località in mano ai “ribelli”) «sono evidentemente propagandistiche e palesemente costruite». Lo schema si è già ripetuto più volte fin dalla guerra in Libia del 2011 e poi in Siria: «Fonti “umanitarie” strettamente legate alle milizie jihadiste e ai loro alleati arabi diffondono notizie non verificabili per l’assenza di osservatori neutrali». La situazione in Siria non è mai stata tanto critica, scrive Marcello Foa sul “Giornale”: nel giro di pochi giorni siamo passati dall’annuncio di un possibile ritiro dei soldati americani a quello di un possibile e devastante attacco con i missili su Damasco. «Il rischio di una spirale, e dunque di una guerra, è concreto».
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Barnard: è in arrivo l’inferno. Saremo Tech-Gleba, schiavi
Non mangiano più “libri di cibernetica, insalate di matematica”, ma divorano volumi di Cartesio, Galileo, Newton. Sono i nuovi stregoni della meccanica quantistica, a metà strada tra scienza e metafisica. Sono stati assoldati dall’élite planetaria, quella che ormai ha compreso che il capitalismo è storicamente finito. Al suo posto, avanza quella che Paolo Barnard chiama tech-gleba. O meglio: “Tech-Gleba Senza Alternative”, sottoposta al cyber-potere del computer “quantico”, fantascienza in mano a pochissimi. Una super-macchina “pensante”, in grado di far sparire ogni lavoratore dalla faccia della terra, sostituendolo con robot, droni e androidi cobots, i cui servizi i neo-schiavi ridotti all’apatia saranno costretti a “noleggiare”. «Questo non è un fumetto, è il futuro vicino, vicinissimo, ed è tutto già pronto. Solo che nessuno di noi se ne sta accorgendo», perché i cittadini più “svegli”, che stanno in guardia contro minacce visibili (mafie, corruzione, Eurozona, migrazioni, “climate change”) non vedono «un mostro immensamente peggiore», che ormai «è dietro la porta di casa». L’umanità retrocessa alla servitù della gleba (tecnologica). E’ l’incubo al quale Barnard dedica svariate pagine sul suo blog, lo stesso che nel 2011 ospitò il profetico saggio “Il più grande crimine”, sulla genesi politico-finanziaria dell’Eurozona – riletta, appunto, in chiave criminologica: puro dominio, fraudolento, dell’uomo sull’uomo.«La schiavitù, letteralmente, è già pronta per 10 miliardi di esseri umani», premette Barnard, citando lo storico precedente della guerra civile americana, a metà dell’800. «I libri ci raccontano che il paese si spaccò in due, col Nord nazionalista che combatté una guerra sanguinaria contro i secessionisti del Sud per 4 anni. I primi fra le altre cose ambivano all’abolizione della schiavitù, i secondi la difendevano a spada tratta». Ma in realtà l’America «era spaccata in tre, e la terza forza in campo non era armata, era la Rivoluzione Industriale del paese». L’allora presidente Abraham Lincoln «era un uomo di un’intelligenza incredibile». Mentre combatteva la guerra civile «si era già reso conto che un mostro immensamente più micidiale della spaccatura della nazione e della schiavitù dei negri era dietro la porta di casa: era la schiavitù del lavoro salariato su scala industriale e agricola». Per i repubblicani di allora, il lavoro salariato era «una forma transitoria di schiavitù che andava abolita tanto quanto la schiavitù dei negri». Essere operai stipendiati nelle grandi industrie o nei campi era «un attacco inaccettabile all’integrità personale». I repubblicani «disprezzavano il sistema industriale che si stava allora sviluppando perché costringeva l’umano a essere sottoposto a un padrone, tanto quanto lo schiavo del Sud, anzi peggio».Per dirla semplice: «Chi ti possiede avendoti comprato ti tratta meglio di chi ti “noleggia”». E qui Lincoln aveva visto lunghissimo, dice Barnard: oltre la mostruosità della schiavitù dei neri d’America, aveva avvistato «il mostro immane della schiavitù del lavoro salariato su scala industriale e agricola». E’ storia: studiando le Rivoluzioni Industriali dal 1700 in poi, si scopre che le sofferenze di centinaia di milioni di operai e contadini salariati, cioè “noleggiati”, furono per più di due secoli assai più atroci di quelle sofferte dagli schiavi delle piantagioni Usa. «Abbiamo tutti nella memoria immagini delle frustate agli schiavi, i ceppi ai piedi e al collo, tutto vero. Ma il numero di manovali salariati, cioè “noleggiati”, picchiati a morte dai “caporali”, morti di stenti e malattie sul lavoro o trucidati dal lavoro stesso per, appunto, almeno due secoli, è infinitamente maggiore. Si pensi che durante la sola costruzione del Canale di Suez nel 1869 morirono come sorci 150.000 operai. La costruzione del Canale di Panama nel 1914 ammazzò l’esatta metà di tutti coloro che ci lavorarono, cioè 31.000 operai. Ancora di recente, nel 1943, il progetto della Burma-Siam Railway trucidò di fame, letteralmente di fame 106.000 disgraziati pagati centesimi a settimana».In Europa, ricorda Barnard, fu questa agghiacciante realtà schiavistica ad animare la lotta di Rosa Luxemburg o Anton Pannekoek. Lincoln, per primo, «aveva spiato il sorgere del nuovo mostro mondiale che avrebbe sputato olocausti dopo olocausti: ma fu ignorato, e la schiavitù del lavoro salariato s’impadronì del mondo mentre solo un microscopico nugolo di pensatori se ne stava accorgendo». Inutile sperare nei sindacati: non hanno mai combattuto il lavoro salariato come neo-schiavitù, hanno solo lottato per migliorare salari e condizioni di lavoro. «Il solito immenso George Orwell, che visse volontariamente fra i diseredati salariati d’Europa negli anni ’30, predisse ciò che ancora oggi abbiamo: masse moderne immani, di fatto schiave del lavoro per quasi tutta la vita». La fuga da questa schiavitù, scrisse Orwell, «è in pratica solo possibile per malattia, licenziamento, incarcerazione, e infine la morte». Oggi, in Ue, sono crollati tutti gli standard di ieri: siamo al ricatto della disoccupazione, ai pensionati costretti a cercasi un lavoro. In altre parole: Lincoln aveva visto giusto. Ed eccoci alla “Tech Gleba Senza Alternative”, «la ‘visione’ che nessuno di noi ha, ma che ci divorerà».Insiste Barnard: «Dovete capire che il capitalismo non esiste più come progetto, è già stato cestinato». Aveva bisogno di tre elementi: gli sfruttati, la classe consumatrice, l’élite che accumula il profitto, al vertice. «Era così nei primi decenni del XX secolo con qualsiasi prodotto, è così oggi con un qualsiasi gadget digitale, fatto da poveracci in Thailandia, comprato dagli occidentali e dagli ‘emergenti’, e i trilioni vanno alla Apple o Samsung». Ma, secondo Barnard, anche questo schema sta tramontando. Perché? «Per due motivi sostanziali. Il primo è che il Vero Potere ha da molto tempo compreso che non sarà assolutamente più possibile contenere miliardi di diseredati affamati sfruttati (la condizione A- del capitalismo); essi o migreranno in masse colossali, oppure – come in India e Cina – inizieranno a pretendere condizioni economiche migliori e nessuno potrà fermarli. Da ciò l’invitabile destino della crescita esponenziale dei costi di produzione di qualsiasi bene, a livelli di prezzi finali impossibili anche per un occidentale. Poi il Vero Potere ha compreso anche che neppure l’alternativa della robotizzazione degli impianti (per licenziare, abbattere quindi i costi e competere) funziona, è un’illusione immensa, perché le masse licenziate sia qui che in paesi emergenti non avranno reddito, e di nuovo non potranno acquistare prodotti sofisticati».Sicché: crollo profitti (Marx docet). E quindi: chi venderà a chi? «Secondo: Il Vero Potere ha da molto tempo capito che la classica struttura della competizione del mercato, in un mondo appunto con popolazione in crescita ma anche costi di produzione impossibili, non può più funzionare. Alla fine, detta in parole semplici, centinaia di milioni di corporations che producono in una gara disperata oceani di cose e servizi, a chi poi le venderanno nelle economie prospettate sopra? E’ un imbuto che si auto-strangola senza rimedi. Quindi il capitalismo è morto e consegnato alla storia, e “loro” lo sanno da anni». Ma ovviamente «il Vero Potere non sta a dormire», ha già strutturato la risposta «in una forma totalmente nuova di economia, mostruosamente nuova», la “Tech-Gleba Senza Alternative”. Ecco come l’hanno pensata: 10 miliardi di umani elevati a classe medio-bassa ma schiavi delle tecnologie, costretti a togliersi la pelle per consumare beni e servizi essenziali hi-tech. A monte, l’oligarchia «accumula quello che mai fu accumulato da élite nei 40 secoli prima». Scomparirà la sperequazione sociale di oggi, dove il pianeta Terra è frammentato da centinaia di stratificazioni, attraverso centinaia di fasce di reddito. «Si vogliono livellare 10 miliardi di umani a più o meno lo stesso livello economico».Un futuro orwelliano: «Ci sarà il condominio con acqua, bagni, elettricità, connessioni digitali, poi strade, scuole, negozi e servizi anche nei buchi neri del mondo di oggi, come Fadwa nel sud del Sudan, o a Udkuda in India». Morto il capitalismo, sparisce anche «la necessità/possibilità di avere miliardi di poveri di qua, benestanti di là, ricconi al top». Secondo Barnard, al nuovo progetto della “Tech-Gleba Senza Alternative” serve che l’intera massa vivente sia omogeneizzata nello standard di vita, e che consumi ma in modo totalmente diverso, mai visto prima nella storia. Un esempio? L’automobile. Come altri giganti come Google, Apple e Tesla, la Volkswagen «sta investendo miliardi di dollari nelle cosiddette ‘driverless cars’, cioè automobili che si autoguidano, che rispondono a comandi orali del passeggero, talmente zeppe di Artificial Intelligence da far impallidire la parola fantascienza». E la casa tedesca non lo sta facendo da poco: ha iniziato 12 anni fa in collaborazione con la Stanford University e il dipartimento della difesa Usa nel suo laboratorio futuristico chiamato Darpa. «Oggi tutto gira attorno a Silicon Valley, Google-Alphabet e alla Cina. Stanno investendo come pazzi». Una startup cinese di nome Mobvoi che fa “intelligenza artificiale” per l’auto del futuro è passata dal valere nulla al valore di 1 miliardo di dollari in un anno. Una corsa frenetica: anche Fca, l’ex Fiat di Marchionne, «sta rovesciando miliardi in ’ste auto-robot assieme a Wymo di Alphabet-Google».In particolare, continua Barnard, la gara si gioca a chi per primo elaborerà i super-computer, oggi impensabili, che sapranno elaborare trilioni di impulsi e dati ad ogni micro-secondo, per far girare miliardi di auto senza autista ma tutte coordinate, “a colloquio” fra di loro per non creare disastri. «La mole di dati che dovranno essere elaborati dal computer di bordo di ogni singolo veicolo in questo scenario è pari a quella di una spedizione spaziale dello Space Shuttle ogni secondo, tutto però gestito da un computerino sul cruscotto grande come una scatola di caramelle». E allora «giù valanghe di miliardi d’investimenti per arrivare primi». La Volkswagen oggi lavora con D-Wave Systems, «un’azienda di computer che sta ribaltando l’universo, perché applica la fisica quantistica ai software: una roba da far esplodere il cervello, perché la fisica quantistica – se applicata con successo alle tecnologie digitali di oggi – le sparerebbe nell’iperspazio, moltiplicando per miliardi di volte il potere di elaborazione dati del più potente computer del mondo». Insomma, «siamo a una viaggio lisergico digitale allo stato puro, ma dietro ci sono i miliardi veri e concreti. Perché?».Ecco la risposta: «Perché questa è gente che pensa 200 anni avanti, e sa benissimo che, col capitalismo morto – quindi con la sparizione di chi ti fa componenti auto pagato 1 dollaro al giorno, e con l’inevitabile innalzamento delle pretese di vita di miliardi di poveracci di oggi verso classi medio-basse – costruire un’auto con quei costi di manodopera costerà una pazzia e i prezzi si centuplicheranno». In altre parole: «Sanno che le auto non si venderanno più nei prossimi duecento anni perché costerebbero oro, e il 98% della gente del pianeta non se le potrebbe più permettere». Sanno anche che l’alternativa della robotizzazione per tagliare i costi (salari) non funziona, è un’immensa illusione, «perché le masse licenziate non avranno reddito, e di nuovo non potranno acquistare l’auto». Ed ecco allora l’avvento della “Tech-Gleba Senza Alternative”, cioè «10 miliardi di umani economicamente omogeneizzati, ma a un livello appena possibile di classe mondiale medio-bassa». E si badi bene: «Là dove questa “Tech-Gleba Senza Alternative” non potrà arrivare coi propri mediocrissimi redditi, dovrà sopperire lo Stato con un Reddito di Cittadinanza, come già detto dal mega-sindacalista Usa Andy Stern e riportato dal “Wall Street Journal”».Queste masse, aggiunge Barnard, saranno saranno obbligate a spostarsi. «E allora l’auto deve diventare un robot che nessuna casa vende, se non in numeri microscopici». Un robot «che quasi nessuno possiede, ma che tutti possono noleggiare per pochi soldi in qualsiasi istante digitando un codice: un’auto-robot arriva e ti porta, un’altra ti riporta, oppure la mandi a prendere la spesa senza muoverti da casa, o rincasi dal lavoro con 6 colleghi chiacchierando comodamente seduto in un van-robot che riporta tutti a domicilio, e se un’ora dopo vuoi andare a cena fuori digiti un altro codice et voilà». Basta moltiplicare questi “noleggi” anche a pochi spiccioli per 10 miliardi di esseri umani, per 10-20 volte al giorno, per 365 giorni all’anno, «e non è difficile capire che il profitto dalla casa produttrice dalla Driverless Car diventa cosmico, rispetto al preistorico sistema della vendita dell’auto al singolo». E già sanno, pare, che l’intera impresa delle Driverless Cars sarà «destinata poi a essere soffocata e rimpiazzata dalle Auto-Drones, letteralmente i Drones iper-tech di oggi trasformati un mezzi di trasporto che ti atterrano davanti a casa», sicché «l’intero traffico mondiale non sarà più su strada ma a circa 500 metri d’altezza sulle città», come in “Blade Runner”. «Ribadisco: queste masse però saranno obbligate (“senza alternative”) a noleggiare questa tecnologia: saranno prigioniere di quelle spese, anche a costo di altri sacrifici».Ma attenti, aggiunge Barnard, perché in questo progetto c’è altro: in questo modo, l’élite si prepara ad accumulare denaro e potere come mai prima, nella storia dell’umanità. Soprattutto perché il progetto «prevede, alla lettera, la distruzione d’interi comparti industriali (i tradizionali Re dell’industria) a favore dell’esistenza sul pianeta degli Imperatori del Business». Parola di Jeff Bezos, di Amazon: «Tutto questo sbriciolerà interi comparti industriali. Da queste fratture escono morti i tradizionali Re del business, ed escono gli Imperatori». E Bezos è uno che «ha sbriciolato tutto il comparto industriale a cui apparteneva, ha azzerato sei comparti in un colpo solo, e ora l’Imperatore è Amazon». State capendo? Non muore solo il capitalismo, secondo il progetto Tech-Gleba, ma anche la moltitudine delle industrie a favore di colossali monopoli (gli “Imperatori”) come mai visti nella storia, già chiamati col nome di “piattaforme”. Ne immaginate i profitti? Ancora: «Con lo Strumento per Pianificare l’Offerta, i Pensatori Critici e i nuovi software, l’Imperatore possiederà una o più Piattaforme. Le Piattaforme dovranno però interagire nel pianeta, tutto si gioca in questo, nelle Piattaforme… Useremo i software per sbriciolare comparti industriali con prodotti o soluzioni che nessuno ancora possiede». Di nuovo, immaginate i profitti dei pochi Imperatori-élite nelle loro Piattaforme?Chi parla così? Dei lunatici deliranti? Tutt’altro: sono Lloyd Blankfein (Goldman Sachs), Robert Smith (Vista Equity Partners), e Jeff Immelt (General Electric), a un meeting riservato. Ma, «prima che il progetto arrivi a distruggere i milioni di Re a favore degli Imperatori, gente come Amazon di Jeff Bezos con la sua iper-Tech digitale si sta divorando la piccola-media distribuzione, come uno squalo bianco divorerebbe un milione di pesci rossi in una vasca». Se cambia l’universo-automotive, «10 miliardi di viventi saranno “prigionieri” della necessità (Captive Demand) di “noleggiare” tecnologia oggi considerata cosmica per solo spostarsi». Costretti, prigionieri. «Basta solo capire che quasi tutto il resto sarà esattamente così, per quasi ogni prodotto e per quasi ogni servizio esistente. Cioè: 10 miliardi di “Tech-Gleba Senza Alternative”», obbligati a «usare per sopravvivere tecnologie di cui loro non hanno nessun controllo, ma assoluta necessità, e che stanno tutte nelle mani di pochi Imperatori che già oggi le posseggono perché ci stanno investendo cifre incalcolabili e cervelli inimmaginabili».Amazon e Google-Alphabet, Intel, Samsung, Microsoft, Apple, D-Wave Systems e tutti i labs di ricerca in “A.I.” dei colossi come General Electric, Bosch, Mit di Boston, più le migliaia di startup come la cinese Mobvoi. Monopolio totale della conoscenza applicata, in ogni campo: «Potrebbero sparire tutti i tecnici Enel, idrici, progettisti d’auto o medici operativi oggi, che in poco tempo sarebbero sostituiti da altri già esistenti o in formazione. Ma quando invece solo il fatto che tu abbia una connessione senza cui letteralmente non sopravvivi in Terra, o che tu abbia un trasporto da A a B, o un Cobot che ti curi il taglio post-operatorio, quando queste cose essenziali sono in mano a una élite ristrettissima di fisici quantistici, software code-makers da viaggio su Marte, e maghi visionari della A.I., i cui brevetti saranno più segreti dei codici nucleari di Stato… tu sei fottuto, perché nessuno fra i tecnici delle normali formazioni universitarie anche ad altissimo livello ci capirà mai nulla di quella incredibile fanta-vera-scienza. I primi saranno i padroni unici della vita stessa sul pianeta, punto. State capendo?».Trasporti, sanità, acqua, energia, informazione, servizi essenziali, pagamenti, cibo: tutto in mano a pochissimi, il cui sapere non è alla portata dei normali scienziati non-quantistici. Ci sono materiali “magici” come il Graphene, «che è un singolo strato di materiale con proprietà mai esistite in nessun altro materiale al mondo: è più forte dell’acciaio, conduce meglio del rame, è sottile come un singolo atomo, da semiconduttore è praticamente trasparente e ha applicazioni ovunque, dalla chirurgia all’ingegneristica alla purificazione delle acque ai sistemi elettrici di intere nazioni». E ci sono gli Oleds, «che sono tecnologie visive, che trasformeranno le tv e gli smartphone in applicazioni molto più flessibili, intercambiabili, permetteranno a una televisione di casa di essere ripiegata in un tablet e poi anche in uno smartphone». E ci sono i possibili super-computer «di capacità inimmaginabili, oggi nascenti dalla fisica quantistica di D-Wave Systems».La massima incarnazione di tutto ciò si chiama Sergey Brin, il guru di Google-Alphabet. Tutto il potere inimmaginabile che Google ha e avrà nasce da questo concetto partorito da Brin: «Non c’interessa fare prodotti, c’interessa sfondare i limiti dell’inimmaginabile». Brin, continua Barnard, ha dato ordine di sviluppare decine di innovazioni chiamate Ecosystem, da lì il progetto di eliminare tutti i trasporti su ruote o ferrovie del pianeta, e sostituirli con immensi Dirigibili Drones con neppure un umano impiegato a bordo, spostando tutto ciò che si sposta al mondo – dalla Cina all’Argentina e dal Canada a Singapore – da una stanza con una ventina di addetti». Il lettore, aggiunge Barnard, deve comprendere come lavorano i cervelli di questi “alieni umani”. «Per essere semplici: se il 99% degli scienziati stanno lavorando come pazzi per mandare l’uomo su Marte, Sergey Brin riunisce i suoi per trovare le tecnologie per mandare l’uomo su Giove… comprendete? Col Deep Learning di Google, Brin considera oggi come già superata l’Intelligenza Artificiale (A.I.) che ancora deve venire». Con i colleghi Greg Corrado e Jeff Dean, Brin «ha chiuso gli occhi e immaginato livelli di astrazione». Che significa? «Loro sanno che nella sfera dell’Intelligenza Artificiale il problema dei problemi è che i computer lavorano a metodo lineare, e non riescono ad elaborare molti livelli di astrazione. E oggi loro hanno portato l’Intelligenza Artificiale con il loro Deep Learning a saper elaborare almeno 30 livelli di astrazione, dando quindi la capacità ai computer d’imparare ormai allo stesso livello degli umani».Poi c’è David Ferrucci, che fu il guru della A.I. all’Ibm col progetto Watson. Ferrucci lasciò Ibm per passare alla corte di Ray Dalio, il boss dell’hedge fund Bridgewater. «Un altro essenziale transfugo dall’Ibm che è andato a lavorare sulla A.I. in Inghilterra alla Benevolenti A.I. che si occupa di sanità, è Jerome Pesenti: e qui avremo moltissima “Tech-Gleba Senza Alternative”, perché gli ammalati esisteranno sempre e già oggi in Giappone, dove nel 2025 gli anziani sopra i 70 anni saranno quasi il doppio di quelli in Ue o negli Usa, si stanno costruendo gli infermieri robotizzati chiamati Cobots». Continua Barnard: «Adam Coates viene da Stanford e oggi porta il suo genio “demoniaco” alla Cina, dove dirige i progetti di A.I. per la mega-corporation Baidu focalizzandosi su apprendimento, percezione e visione nella A.I». Al colosso Ibm non mancano i rimpiazzamenti: David Kenny che sviluppa proprio la tecnologia per le piattaforme e per i carichi cognitivi. Poi, l’arcinota Uber ha Gary Marcus che lavora sulla A.I. per le Driverless Cars e sul Dynamic Ride Scheduling. «L’uomo che forse più sa di Networking Neuronale al mondo è Jonathan Ross: lavorava a Google con Brin». In Amazon, invece, «Raju Gulabani ha pionierizzato la rete da decine di miliardi di dollari che sostiene la corporation di Jeff Bezos, cioè la Aws Database and Analytics, assieme ai primi mattoni di A.I». E ci sono personaggi Russ Salakhutdinov, di Apple, «anche se l’ex impresa di Steve Jobs è davvero arrivata tardi in questa fanta-vera-scienza».Qualche esempio di cosa inizieremo a vedere? La classica scampagnata: oggi prendi la bici e scorrazzi tra i campi, tra l’odore di fieno, il rombo della trebbiatrice «e quella sensazione di essere nella natura lontano da semafori, antenne o il wi-fi: il casolare del contadino, i contadini magari seduti fuori dal bar di Mezzolara al sabato pomeriggio a giocare a carte». Nella scampagnata in “Tech-Gleba Senza Alternative”, invece, «i contadini scompaiono, letteralmente non ne esiste più uno». Si chiamerà: Agricoltura di Precisione. «Il casolare, se rimane, è ristrutturato in una centrale operativa di Agriscienza. Antenne ovunque. Nessun rombo di trattore, ronzii di decine di Drones di dimensioni che vanno dai 12 centimetri a 10 metri che sorvolano i campi e trasmettono miliardi di dati (100 o 500 per ogni singolo stelo di grano, per ogni singola cipolla) alle centrali. Poi i software dalle centrali diranno ai Drones Seminatori dove piazzare il singolo seme a seconda di una dettagliata analisi chimica del singolo centimetro quadrato di terreno, il tutto in tempi di microsecondi. Welcome la Semina di Precisione. Stessa operazione ai Drones Fertilizzanti. Vi lascio immaginare il resto: meglio che ne approfittiate finché il contadino sta ancora là, oggi».Nel campo industriale, continua Barnard, si aggiungono gli Ecosistemi Virtuali, là dove il prodotto viene razionalizzato da sistemi di A.I. per ridurre i passaggi produttivi di venti volte o più. Una produzione annuale di 40 milioni di di pezzi sarà gestita dai Cobots, cioè sistemi robotizzati che letteralmente “parlano” con un singolo operatore umano, che «non schiaccia più tasti, ma parla e basta», mentre «mostruosi impianti rispondono, obiettano, suggeriscono soluzioni, segnalano problemi». Così per tutto: intrattenimento, qualsiasi attività esterna a casa, istruzione, social media, attivismo, politica. «Qui i primi ad arrivare per cambiare, come mai, il tuo mondo saranno la Virtual Reality (Vr) e la Augmented Reality (Ar) del conglomerato Facebook-Oculus». Il concetto è questo: «Per entrare in contatto con chiunque, e per fare praticamente qualsiasi cosa, non sarà più necessaria la tua presenza fisica, basta quella virtuale. Un bel Rift Head-set di Oculus, o anche solo quegli strani occhiali con cui si fece fotografare Sergey Brin di Google, e il gioco è fatto. Il networking globale in 3d ti permetterà, stando immobile sul divano, di cercar casa visitando decine di appartamenti, dialogare con gli agenti e l’amministratore, stare in classe ma “vedersi” seduti alla Lectio Magistralis del Prof. X all’università di Yale in Usa, o visitare, sempre immobile dalla classe, le distese di Agribusiness in Sudan, partecipare a workshop di A.I. a Cupertino, a Mosca, a New Delhi». E magari «testimoniare la guerra ad Aleppo, ma senza il “disturbo” degli odori dei poveri, dei fetori di sangue rappreso, e con una visione totalmente pilotata dalle autorità occidentali».Poi, i social media «ti permetteranno, dal divano di casa, di essere fra amici a una cena virtuale, o di corteggiare una persona per capire chi è, prima ancora di muovere un passo da casa. O di non muovere neppure più un passo da casa, e avere un orgasmo, toccare un petto o un seno virtuali, e uscirne totalmente soddisfatti». Peggio: «Il progetto provinciale di Casaleggio diverrà devastante nelle dimensioni. L’attivismo politico sarà tutto immobilismo dai divani di casa, nessun corpo umano visibile da nessuna parte, tutti in cortei virtuali, Consigli comunali virtuali, comizi virtuali, dialoghi coi parlamentari virtuali, videogames di scontri di piazza, cioè aria fritta, e apatia di masse immense nel trionfo globale dell’Attivismo di Tastiera». Il denaro? Blockchain e Ledgers sono già realtà oggi: «Sparirà ogni forma di denaro, le Cryptovalute diverranno padrone (oggi abbiamo solo Bitcoins ed Ethereum, ne verranno centinaia). Ogni singola transazione, dai 70 centesimi dell’anziana pensionata alle centinaia di miliardi delle corporations, sarà registrata attraverso la tecnologia Blockchain in registri mondiali chiamati Ledgers che saranno visibili da chiunque al mondo abbia i software per accedere».I pagamenti saranno quindi istantanei e istantaneamente verificati dagli algoritmi matematici di tutta la catena di Blockchain. «Spariranno dunque milioni di posti di lavoro legati alla contabilità, all’avvocatura, nelle banche, con lo strascico di impiegati/e. Ma molto peggio: i maghi dell’informatica dei servizi americani, perché saranno loro ad avere le chiavi di questa allucinazione, passeranno miliardi di dati privati – sui pagamenti degli umani visibili sui Ledgers, quindi sugli stili di vita, sulle abitudini, sulle tendenze di consumo, sullo stato di salute delle persone, su come lavorano, sul business mega-medio-micro». Dati ce finiranno alla Nga, la National Geospatial Intelligence Agency degli Stati Uniti. «La Nga è la più grande intelligence al mondo per raccolta e analisi di immagini e dati; e lo sarà in futuro per capire chi sei tu, o tu azienda, cosa fai ogni 30 secondi della tua vita, cioè se compri gratta&vinci o se hai fatto un’ecografia all’utero, o se hai donato a Greenpeace, ai sovranisti… o per spiare i pacchetti ordini per sapere su quali aziende speculare, o per sapere se davvero come dice “Bloomberg” il rame del Cile ancora tira, o se è meglio dire agli investitori di andare altrove». La Nga «lo farà grazie alla Blockchain e ai Ledgers: sarà la più immane perdita di privacy della storia umana, con la “Tech-Gleba Senza Alternative” del tutto impotente, ma le piattaforme globali in posizione di ovvio favore».E sempre in materia di privacy disintegrata, continua Barnard, saremo il benvenuto al mondo dei Psychoimaging Sofware, a braccetto coi Drones. «E’ noto che i gadget digitali più venduti già oggi sono pronti ad ospitare software che ti leggono impronte digitali, o la mimica dei muscoli facciali, o a registrarti mentre sei a letto col cellulare spento. Ma è anche vero che i dati sulla tua persona che verrebbero trasmessi in questo modo rischiano di essere molto frammentari perché non viviamo sempre incollati ai cellulari, pc o tablets». I droni, invece, come già oggi sperimentato dal Darpa del dipartimento alla difesa Usa, «possono essere ridotti alle dimensioni di un insetto, ed essere su di te in qualsiasi momento, ovunque, e trasmettere i dati a software di Psychoimaging, cioè software che compileranno schede su chi sei, che carattere tendi ad avere, come ti si può convincere meglio e a che ore del giorno, o se sei una minaccia per il sistema, cosa ti potrebbe sospingere a una ribellione, come i media impattano la tua personalità, come formi i tuoi figli». Peggio ancora: «I Drones possono leggere il labiale, quindi avere un accesso ancora più diretto a qualsiasi cosa tu esprimi o intenda fare in ambito sia privato che di business».Per il pessimista Barnard non avremo scampo: «Saremo “Tech-Gleba Senza Alternative”, cioè prigionieri, precisamente perché quando tutto il pianeta funzionerà così, chi si può permettersi di dire “No, non ci sto”?». E il «mostruoso mondo Tech» non è una fantasia, «è già alle porte». Ma a cambiare, sottolinea Barnard, è solo il “come”, lo spaventoso potenziale tecnologico, non il paradigma. Quello è immutato: «Il gran gioco della razza umana dal primo minuto della civiltà è sempre stato identico: fu, e rimane oggi, una guerra spietata fra il desiderio delle élite di dominare, e i tentativi dell’umanità di prendersi invece ciò che gli spetta. I tentativi hanno avuto sempre e solo un nome: le rivoluzioni», considerate dall’élite «fastidiosi incidenti di percorso». Potevano essere represse nel sangue, o tollerate per qualche tempo e poi «dirottate dall’interno verso nuove forme di sanguinario dispotismo di altre élite». E’ il caso della Rivoluzione Francese finita nel Terrore, o della Rivoluzione Russa «che Lenin devastò appena poté». Ma con l’incalzare della modernità, aggiunge Barnard, per le élite divenne sempre più difficile controllare le masse. La prima sperimentazione in grande stile? Negli Usa, tra fine ‘800 e inizio ‘900.«Pochissimi sanno che la parte d’Occidente più “marxista” in assoluto, a cavallo fra il XIX e il XX secolo, fu il nord-est degli Stati Uniti d’America, e in parte l’Irlanda». Negli Usa, il fermento dei lavoratori «impropriamente chiamato socialista», in realtà «anarco-sindacalista, libertario nel vero, storico senso del termine» era tale che, di routine, «venivano stampati quasi 900 quotidiani rivoluzionari, che venivano davvero letti nelle comuni di lavoratori e lavoratrici». Ora, aggiunge Barnard, si può immaginare come l’élite del capitale americano si organizzò per soffocare tutto questo. E di certo, a pochi decenni da una guerra civile costata quasi 800.000 morti, «le élite non potevano reprimere tutto nel sangue. Ci voleva altro per soffocare quella rivoluzione». Ma cosa? Da quell’epoca in poi, «il Vero Potere comprese qualcosa di letteralmente mostruoso – ripeto, mostruoso – per silenziare, sedare, le masse ribelli: l’Apatia del Benessere Minimo». Che significa? «Mantenere miliardi in povertà e disperazione è non solo intenibile, perché si ribelleranno, ma controproducente (fine capitalismo, “Tech-Gleba”)». Furono due intellettuali americani a immaginare la soluzione: Edward Bernays e Walter Lippmann. «Le élite avrebbero dovuto sedare le masse – in quel caso americane – con l’avvento dell’industria mediatica, cinematografica, pubblicitaria e consumistica che ne manipolasse il consenso verso il desiderio di possedere un benessere minimo a qualsiasi costo».E vinsero, perché «chi inizia ad assaggiare l’individualismo del proprio piccolo, modesto progresso edonistico nei consumi e nel piccolo agio», poi ovviamente «abbandona i sacrifici, il coraggio e il pensiero per la lotta sociale». Chiaro: «Vuole avere di più. Per non parlare poi di quando diviene vera classe media». La prima grande ondata di “apatizzazione” delle masse potenzialmente pericolose per le élite «sfondò i popoli negli Stati Uniti fra gli anni ’20 e ’40 del XX secolo», continua Barnard. Celebre l’opinione che Bernays e Lippmann avevano del popolo: «Sono solo degli outsider rompicoglioni», da “domare” verso la docilità. Poi vennero la Seconda Guerra Mondiale, il dilagare del socialismo, il comunismo e la Rivoluzione d’Ottobre, la nascita del Welfare State in Gran Bretagna, «la magica (seppure breve) influenza dell’economista John Maynard Keynes sull’economia per la piena occupazione», fino al ’68 e alle lotte operaie europee. «All’alba degli anni ’70 le élite si resero conto che il piano Bernays-Lippmann di apatizzazione era decaduto, ne occorreva un altro ben più potente»: il Memorandum Powell.Barnard ne ha parlato nel saggio “Il più grande crimine”, citando le gesta dei protagonisti della «seconda grande ondata di apatizzazione delle masse». Lì i compiti furono divisi fra Stati Uniti, Europa e Giappone. «S’inizia con una mattina dell’estate del 1971, quando Eugene Sydnor Jr. della Camera di Commercio degli Stati Uniti chiamò l’avvocato Lewis Powell e gli chiese un progetto di apatizzazione delle masse occidentali in sollevazione». Powell scrisse un Memorandum di sole 11 pagine. Vi si legge: «La forza sta nell’organizzazione, in una pianificazione attenta e di lungo respiro, nella coerenza dell’azione per un periodo indefinito di anni, in finanziamenti disponibili solo attraverso uno sforzo unificato, e nel potere politico ottenibile solo con un fronte unito e organizzazioni (di élite) nazionali». Poi arriva la Commissione Trilaterale, composta appunto dai vertici di Stati Uniti, Europa e Giappone. Chiamano tre influenti intellettuali, Samuel P. Huntington, Michel J. Crozier e Joji Watanuki. Nelle 227 pagine del loro “The Crisis of Democracy” daranno la ricetta letale per l’apatizzazione. Basta leggere questi passaggi: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che hanno permesso alla democrazia di funzionare bene».«La storia del successo della democrazia – continuano i tre – sta nell’assimilazione di grosse fette della popolazione all’interno dei valori, atteggiamenti e modelli di consumo della classe media». Cosa vuol dire? «Significa che, se si vuole uccidere la democrazia partecipativa dei cittadini mantenendo in vita l’involucro della democrazia funzionale alle élites, bisogna farci diventare tutti consumatori, spettatori, piccoli investitori, tutti orde di classe medio-bassa appunto. Apatici». Il risultato, conclude Barnard, è storia contemporanea: «Trionfo dei consumi assurdi, dell’edonismo idiota di Tv e mode, crollo dalla partecipazione alle lotte in strada, apatia di praticamente tutti anche a fronte di fatti gravissimi che distruggono democrazia, lavoro, diritti, Costituzioni. Con l’avvento poi di Internet il tripudio del progetto della Trilaterale raggiunse l’orgasmo». Barnard fui il primo in Italia a coniare il dispregiativo “attivisti di tastiera”, ignaro che negli Usa si parlava di “clicktivism”. «Altra forma di apatia che infettò persino quel 2% dei cittadini che ancora non erano stati divorati da Playstation, Formula 1, Belen, Il Grande Fratello, la Champions, il red carpet di Cannes, il gratta e vinci, il Carrefour, la ‘notte rosa’ al mare». La grande apatia di massa del Duemila.«Le élite protagoniste di tutta questa storia – insiste Barnard – vedono sempre chiaro almeno 50 anni avanti, più spesso 200 anni». I segnali di un nuovo sommovimento delle masse? Divennero chiari, per loro, quasi vent’anni fa. Allora, «i salari reali del paese più potente del mondo, gli Usa, erano stagnanti dal 1973: malcontento diffuso». Inoltre, le bolle speculative (immobiliari e finanziarie, specialmente incoraggiate da Clinton) davano un segnale chiarissimo: le élite sapevano già che sarebbero tutte esplose (net-economy, subprime, crack di Wall Street). Risultato: di nuovo, milioni di occidentali “indignati”. Niente di buono neppure a Est: «La mano del Libero Mercato di quel criminale di Jeffrey Sachs nell’est europeo post-comunista e in Russia stava decimando quei popoli, col tasso di mortalità media in Russia crollato a 56 anni per gli uomini, migrazioni di massa a ovest delle donne, corruzione epica ovunque, di nuovo pericolo di sollevazioni». Poi il disegno dell’Eurozona: «Appena nato, era già stato sancito come una catastrofe sociale dalle Federal Reserve Banks degli Stati Uniti, e quindi dai maggiori “investment bankers” del pianeta, per cui già allora si aspettavano un’Europa di ribellioni populiste, caos politico, e Brexit». Chiarissimo, poi, era il pericolo di conflitto nucleare futuro, con rischi anche per le stesse élites: conflitto «non Usa-Russia, ma Usa-Cina, cioè due progetti imperiali inconciliabili a morte». Infine il “climate change” che già stava divorando il pianeta, con «masse immani di disperati» che si sarebbero mosse «letteralmente per bere, e avrebbero invaso l’Occidente: 500.000 indiani rischiano di non bere più fra meno di un decennio».Attorno al 2.000, «l’elite comprese che una terza, immensa ondata di apatizzazione sarebbe stata vitale, per tenere questo mondo di nuovo in ribellione sotto controllo per i prossimi mille anni». Ed ecco Rift Head-set, Virtual Reality, Blockchain, Drones, Artificial Intelligence e 10 miliardi di umani in “Tech-Gleba Senza Alternative”, «decerebrati del tutto da Facebook-Oculus e altri come loro». Visione deprimente: «Saremo un’umanità omogeneizzata, senza più immensi scarti di redditi ma totalmente nelle mani, per letteralmente sopravvivere, di élite private che possiedono tutte le Tech-chiavi per la vita stessa della specie umana». E naturalmente «non potremo mai più ribellarci, né dare l’assalto alla Bastiglia, perché anche se ci impossessassimo di quelle chiavi non sapremmo né usarle né sostenerle. Saremo prigionieri di consumi High-Tech irrinunciabili, senza nessuna via di fuga, e in più totalmente apatizzati dall’immobilismo del mondo Virtual-Drones, con gli Oleds, la Vr con Ad, e le infinite forme di A.I.». Detto alla buona: «Se oggi è un dramma convincere un cittadino a uscire di casa per contestare il proprio Comune, immaginate in questo futuro, che è già pronto, quando il tizio con la maschera-occhiali contesterà il Comune in Virtual 3D fra un amplesso Virtual 3D e l’altro». Con 10 miliardi di umani conciati così, ed élites «padrone di un potere sull’economia e sulla vita stessa impensato fino a oggi», per Barnard si può davvero decretare la fine della storia. «L’Eurozona è un sogno, in confronto; la mafia è un sogno, in confronto, il lavoro di oggi anche. Ricordate Lincoln e come seppe vedere ‘oltre’. Non fate figli, vi prego».Non mangiano più “libri di cibernetica, insalate di matematica”, ma divorano volumi di Cartesio, Galileo, Newton. Sono i nuovi stregoni della meccanica quantistica, a metà strada tra scienza e metafisica. Sono stati assoldati dall’élite planetaria, quella che ormai ha compreso che il capitalismo è storicamente finito. Al suo posto, avanza quella che Paolo Barnard chiama tech-gleba. O meglio: “Tech-Gleba Senza Alternative”, sottoposta al cyber-potere del computer “quantico”, fantascienza in mano a pochissimi. Una super-macchina “pensante”, in grado di far sparire ogni lavoratore dalla faccia della terra, sostituendolo con robot, droni e androidi cobots, i cui servizi i neo-schiavi ridotti all’apatia saranno costretti a “noleggiare”. «Questo non è un fumetto, è il futuro vicino, vicinissimo, ed è tutto già pronto. Solo che nessuno di noi se ne sta accorgendo», perché i cittadini più “svegli”, che stanno in guardia contro minacce visibili (mafie, corruzione, Eurozona, migrazioni, “climate change”) non vedono «un mostro immensamente peggiore», che ormai «è dietro la porta di casa». L’umanità retrocessa alla servitù della gleba (tecnologica). E’ l’incubo al quale Barnard dedica svariate pagine sul suo blog, lo stesso che nel 2011 ospitò il profetico saggio “Il più grande crimine”, sulla genesi politico-finanziaria dell’Eurozona – riletta, appunto, in chiave criminologica: puro dominio, fraudolento, dell’uomo sull’uomo.
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Sycamore, Usa-Siria: il più grande traffico d’armi della storia
Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.E se la Bulgaria è stata uno dei principali esportatori di armi in Siria, aggiunge Meyssan, ha beneficiato di una “triangolazione segreta” con l’Azerbaigian, sempre sotto copertura Cia: per esportare armi destinate al terrorismo non solo in Siria, ma anche in Libia, in Afghanistan e persino in India. «Dall’inizio delle primavere arabe – premette Meyssan in un report su “Megachip” – la Cia e il Pentagono hanno organizzato un gigantesco traffico di armi in violazione di numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Si badi: anche quando società private fanno da paravento, è impossibile esportare “attrezzature sensibili” senza l’autorizzazione dei governi interessati. Qui si tratta di un traffico gigantesco e particolarmente elusivo: gli armamenti trasportati erano infatti di tipo sovietico, per distinguerli da quelli (di fabbricazione Nato) in dotazione alle poche unità non-Isis, ufficialmente inquadrate dal Pentagono. Le altre armi, quelle per i tagliagole dello Stato Islamico, dovevano sembrare sottratte alle truppe di Assad.Forse, in questa ricostruzione, è di aiuto il nome stesso dell’operazione, “Sycamore”, che designa in inglese l’albero di sicomoro. Ancora una volta, le vicende dell’intelligence militare Nato in Medio Oriente sembrano dimostrare l’adozione di nomi tratti da testi antichi e sacre scritture: il sicomoro è l’albero sul quale, secondo il Vangelo, si arrampicò il gabelliere Zaccheo (inviso al popolo) per poter osservare Gesù senza essere visto. Non che fossero tutti ignari, comunque, delle manovre degli “amici del sicomoro”: già si sapeva, dice Meyssan, che la Cia avesse fatto appello proprio alla famigerata Sic di Borisov per produrre urgentemente il Captagon, la nuova “droga dei soldati” destinata agli jihadisti, distribuita in Libia prima ancora che in Siria. Una inchiesta di Maria Petkova, pubblicata dalla rete di segnalazione investigativa balcanica “Brin”, ha rivelato che tra il 2011 e il 2014 la Cia e il Socom (Pentagon Special Operations Command) avevano acquistato armi per 500 milioni di dollari dalla Bulgaria per conto dell’Isis. «Poi, in seguito, abbiamo appreso che altre armi erano state pagate dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti e trasportate da Saudi Arabian Cargo e Etihad Cargo».Secondo Krešimir Žabec, del quotidiano di Zagabria “Jutarnji List”, alla fine del 2012 la Croazia ha consegnato 230 tonnellate di armi a jihadisti siriani per un valore di 6,5 milioni di dollari. «Il trasferimento in Turchia è stato gestito da tre Ilyushin della compagnia Jordan International Air Cargo, e le armi sono state poi paracadute dall’esercito del Qatar». Secondo Eric Schmitt del “New York Times”, l’intero sistema era stato creato dal generale David Petraeus, allora direttore della Cia, agli ordini di Barack Obama. Nel 2012, continua Meyssan, quando la milizia libanese filo-siriana Hezbollah era sulle tracce del traffico Cia-Socom, venne commesso in Bulgaria un attentato contro turisti israeliani all’aeroporto di Burgas, centro nevralgico di quel traffico. «Ignorando l’inchiesta della polizia bulgara e la relazione del medico legale, il governo di Borisov accusò del crimine Hezbollah mentre l’Unione Europea classificò la resistenza libanese come un’organizzazione terroristica». Posizione poi smentita dal nuovo ministro degli esteri, Kristian Vigenin, dopo la caduta provvisoria di Borisov. E non è tutto. Secondo una fonte curda vicina al Pkk, nel maggio-giugno 2014 i servizi segreti turchi hanno noleggiato treni speciali per consegnare armi ucraine a Raqqa, la “capitale” di Daesh. «Le armi ucraine sono state pagate dall’Arabia Saudita, così come un migliaio di veicoli Hilux (pick-up a doppia cabina) appositamente modificati per resistere alle sabbie del deserto».Secondo un’altra fonte, belga, l’acquisto dei veicoli era stato negoziato con la ditta giapponese Toyota dalla società saudita Abdul Latif Jameel. E Andrey Fomin della “Oriental Review” aggiunge che il Qatar, «che non voleva essere tagliato fuori, ha acquistato per i jihadisti la versione più recente del complesso di difesa missilistica Air “Pechora-2D” presso la società statale ucraina UkrOboronProm. La consegna è stata effettuata dalla società cipriota Blessway Ltd». Ancora: secondo Jeremy Binnie e Neil Gibson, della rivista professionale di armamenti “Jane’s”, il comando militare Sealift della Us Navy ha pubblicato due bandi nel 2015 per il trasporto delle armi dal porto rumeno di Costanza fino al porto giordano di Aqaba. Il contratto è stato vinto dalla Transatlantic Lines. Trasporto poi «eseguito il 12 febbraio 2016, subito dopo la firma del cessate il fuoco da parte di Washington, in violazione del suo impegno». Pierre Balanian, di “Asia News”, dichiara che questo sistema è stato esteso nel marzo 2017 con l’apertura di una linea marittima regolare della compagnia statunitense Liberty Global Logistics, che collega il porto italiano di Livorno a quello di Aqaba in Giordania, nonché allo scalo marittimo di Gedda in Arabia Saudita.Secondo il geografo Manlio Dinucci, notista del “Manifesto”, questa linea-fantasma era destinata principalmente alla consegna di blindati in Siria e in Yemen. Stando a due giornalisti turchi, Yörük Işık e Alper Beler, gli ultimi contratti dell’era Obama sono stati eseguiti da Orbital Atk, che ha organizzato, attraverso Chemring e Danish H. Folmer & Co, una linea regolare tra Burgas (Bulgaria) e Gedda. Per la prima volta – precisa Meyssan – stiamo parlando non solo di armi prodotte dalla bulgara Vmz (Vazovski Machine Building Factory), ma anche da Tatra Defense Industrial Ltd, della Repubblica Ceca. «Molte altre operazioni si sono svolte in segreto, come dimostrano gli affari del carico Lutfallah II, ispezionato dalla marina militare libanese il 27 aprile 2012, o il cargo Trader, battente bandiera del Togo, ispezionato dalla Grecia il 1° maggio 2016», aggiunge sempre Meyssan. «Il totale di queste operazioni rappresenta centinaia di tonnellate di armi e munizioni, forse anche migliaia, prevalentemente pagate dalle monarchie assolute del Golfo, con il pretesto di sostenere una “rivoluzione democratica”. In realtà, le petro-dittature intervenivano solo per dispensare l’amministrazione Obama dal rendere conto al Congresso statunitense».In altre parole, il Parlamento Usa doveva restare all’oscuro dell’operazione “Sycamore”. «Tutto questo traffico era sotto il controllo personale del generale Petraeus, dapprima attraverso la Cia, di cui era direttore, poi tramite la società di investimenti finanziari Kkr, per la quale ha lavorato successivamente». Petraeus ovviamente «ha beneficiato dell’assistenza di alti funzionari, occasionalmente sotto la presidenza di Barack Obama e poi – massicciamente – sotto quella di Donald Trump». Gli Usa in cabina di regia, più alleati europei (Belgio, Croazia), nazioni Nato come la Turchia, paesi mediorientali (Giordania) e petro-monarchie del Golfo. E non solo: Meyssan rivela anche il ruolo, fin qui segreto, di uno Stato ex-sovietico come l’Azerbaigian, grande produttore di petrolio attraverso le piattaforme di Baku sul Mar Caspio. Secondo Sibel Edmonds, agente “pentita” dell’Fbi, poi fondatrice della National Security Whistleblowers Coalition (associazione che diffonde notizie riservate e imbarazzanti) l’Azerbaigian vanta un passato estremamente collaborativo, nei confronti del terrorismo Cia: sotto il presidente Heydar Aliyev, dal 1997 al 2001 ha ospitato a Baku nientemeno che la primula rossa di Al-Qaeda, il medico egiziano Ayman Al-Zawahiri, già braccio destro di Osama Bin Laden.Al-Zawahiri sarebbe stato nascosto a Baku «su richiesta della Cia». Sebbene fosse ufficialmente ricercato dall’Fbi, aggiunge Meyssan, il super-terrorista «viaggiò regolarmente su aerei della Nato in Afghanistan, Albania, Egitto e Turchia». Di più: avrebbe anche «ricevuto frequenti visite dal principe Bandar Bin Sultan dell’Arabia Saudita». Per i suoi rapporti in materia di sicurezza con Washington e Riad, aggiunge Meyssan, l’Azerbaigian – la cui popolazione è in prevalenza sciita – si è unito alla sunnita Ankara, «che lo sostiene nel suo conflitto con l’Armenia per la secessione della Repubblica di Artsakh (Nagorno-Karabakh)». L’anziano, storico presidente Heydar Aliyev è morto negli Stati Uniti nel 2003, lasciando il posto al figlio Ilham Aliyev. Dopo la fine dell’Urss, la Camera di Commercio Usa-Azerbaigian è diventata «il retrobottega di Washington», esibendo accanto al presidente Aliyev personaggi del calibro di Richard Armitage, James Baker, Zbigniew Brzezinski, Dick Cheney, Henry Kissinger, Richard Perle, Brent Scowcroft e John Sununu.Secondo la giornalista bulgara Dilyana Gaytandzhieva, nel 2015 il ministro per i trasporti Ziya Mammadov ha messo la compagnia statale Silk Way Airlines a disposizione della Cia, con spese a carico dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, sotto la copertura di “voli diplomatici”, al riparo dalle ispezioni previste dalla Convenzione di Vienna. «In meno di tre anni – sottolinea Meyssan – oltre 350 voli hanno beneficiato di questo straordinario privilegio». Naturalmente, aggiunge, il “voli diplomatici” non sono autorizzati a trasportare materiale bellico. Ma a chiudere un occhio – oltre agli Stati coinvolti direttamente nel traffico – furono paesi come Germania, Serbia, Polonia, Romania, Slovacchia, Repubblica Ceca e Gran Bretagna, più Turchia e Israele. Risultato: «In meno di tre anni, la Silk Way Airlines ha trasportato armamenti per un valore di almeno un miliardo di dollari». Secondo Dilyana Gaytandzhieva, l’organizzazione clandestina ha trafficato armi anche in Pakistan e Congo, sempre a carico di sauditi ed Emirati. Alcune delle armi consegnate in Arabia Saudita sarebbero state “reindirizzate” in Sudafrica e quelle arrivate in Pakistan sarebbero servite a commettere attentati “islamisti” in India, mentre quelle trasportate in Afghanistan «sarebbero pervenute ai Talebani, sotto il controllo degli Stati Uniti, che fingono di combatterli».In questi anni, conclude Meyssan, tra i principali mercanti d’armi figurano le aziende statunitensi Chemring, Culmen International, Orbital Atk e Purple Shovel. Poi i caucasici: «Oltre alle armi di tipo sovietico prodotte dalla Bulgaria, l’Azerbaigian, sotto la responsabilità del ministro dell’industria della difesa Yavar Jamalov, acquistò delle scorte in Serbia, Repubblica Ceca e anche in altri Stati, dichiarando ogni volta che l’Azerbaigian era il destinatario finale di questi acquisti». Per quanto riguarda il materiale elettronico di intelligence, «Israele ha messo a disposizione la ditta Elbit Systems, che ha finto di essere il destinatario finale, in quanto l’Azerbaigian non ha il diritto di acquistare questo tipo di apparecchiature». Israele, che ha finto di essere neutrale lungo tutto il conflitto siriano, ha comunque bombardato più volte l’esercito di Damasco. Ogni volta, Tel Aviv ha accampato «il pretesto di aver distrutto armi destinate agli Hezbollah libanesi». In realtà, oggi sappiamo che Israele ha supervisionato le consegne di armi agli jihadisti, rivestendo quindi un ruolo centrale nella guerra sporca contro la Siria. Per l’Onu, falsificare certificati di consegna per la fornitura di armi a mercenari e terroristi è un crimine internazionale. L’operazione Timber Sycamore, nei suoi vari aspetti, è il caso criminale più importante di traffico di armi nella storia: «Coinvolge almeno 17 Stati e rappresenta diverse decine di migliaia di tonnellate di armi per svariati miliardi di dollari».Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.
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Cancellare i fatti: Obama e il nuovo Ministero della Verità
Vi ricordate il ritornello della canzone di Battiato di vent’anni fa? Strani giorni, viviamo strani giorni… Beh, quei giorni saranno stati forse strani, ma mai come quelli che stiamo vivendo oggi, dove la sovrabbondanza di notizie e la manipolazione incessante da parte dei media fa in modo che la gente non recepisca il ‘peso specifico’ di una notizia rispetto alle altre. Manipolare le coscienze non è solo scrivere il falso o negare il vero; basta semplicemente dare ad una notizia di importanza del tutto trascurabile lo stesso ‘peso’ (corpo tipografico o tempo dedicato nei Tg) di un fatto di grande rilevanza. Questa manipolazione costante produce nel lettore/spettatore una perdita di riferimento, un disorientamento della coscienza; è come se rispetto alla nostra vita noi dessimo pari importanza ad un mal di pancia rispetto ad un ictus. O, meglio, come se interpretassimo i sintomi dell’ictus con la stessa leggerezza con cui osserviamo quelli del mal di pancia… In effetti, i sintomi di questi strange days ci sono tutti, se solo li guardassimo con attenzione, senza farci disorientare da chi ci dovrebbe orientare, vale a dire dai media. A cosa mi riferisco?Prima di tutto all’ultima trovata delle governance mondiali e dei loro “presstitutes” (geniale sintesi che definisce la stampa prostituita al potere) vale a dire la crociata contro le fake news o post-verità, che via web rappresenterebbero una minaccia per le istituzioni. Pensate che il termine originale inglese, post-truth, è stato eletto parola dell’anno 2016 dall’Oxford Dictionary! Queste fake news irritano così tanto l’establishment che da diverse parti si invoca addirittura una sorta di commissione di controllo sulle opinioni espresse in rete. Un Ministero della Verità, insomma, di orwelliana memoria. Ora, considerando la costante e instancabile manipolazione che i mezzi d’informazione esercitano da sempre sull’opinione pubblica attraverso menzogne, falsificazioni dei fatti, mezze verità e fantasie, fa davvero sorridere che si identifichi nelle bufale – indubitabilmente presenti in rete – un rischio per la democrazia. Il fatto è che fino a poco tempo fa il fenomeno del cosiddetto ‘complottismo’ era confinato ad una nicchia di persone che iniziavano a fiutare odore di marcio proveniente dai media e cercavano quindi – visti i mezzi messi a disposizione dalla rete – di capire meglio certe situazioni quando i conti proprio non tornavano.Il fact-checking ha permesso allora a milioni di utenti del web di smascherare le vere e proprie bufale messe in onda dalle televisioni di mezzo mondo. Ma ad un certo punto, questo fenomeno del complottismo, della Conspiracy Theory, ha iniziato a diffondersi sempre di più, tracimando dalla rete ed entrando anche nei salotti buoni dei media mainstream. Fenomeno naturalmente irriso, denigrato e oggi criminalizzato. Certamente grazie anche a tutte le reali bufale presenti sul web, inserite ad arte da falsi idioti o da idioti autentici. Così Obama ha iniziato a fare pressioni su Google e Facebook che dovrebbero – a suo dire – esercitare un controllo su notizie false o presunte tali diffuse in rete. Ora, se i mezzi d’informazione ufficiali diffondessero sempre e solo notizie vere la preoccupazione del presidente americano uscente avrebbe una qualche credibilità ma, dato che è vero esattamente il contrario, questa operazione ha proprio l’aria di un intervento a gamba tesa su tutte quelle comunità virtuali che, collegate tra loro, iniziano a nutrire seri dubbi sulle versioni ufficiali. Pensate che io esageri affermando che “è vero esattamente il contrario”? Bene, allora state a sentire, e parlo solo delle fake news più recenti messe in giro dai media.Negli ultimi mesi i mezzi d’informazione del cosiddetto ‘mondo libero’ hanno ripetuto incessantemente che vi erano tra 250 mila e 300 mila civili intrappolati tutto i bombardamenti russi e siriani ad Aleppo Est, nonostante che le fonti d’informazioni siriane avessero più volte ribadito che il numero delle persone intrappolate non superava un terzo di quella cifra. Ebbene, una volta liberata la parte orientale di Aleppo è emerso che il numero dei civili che erano stati bloccati era inferiore alle 90 mila unità. Pensate che i media occidentali si siano peritati di riconoscere l’errore? No, neppure una riga. L’affermazione secondo la quale hacker russi avrebbero cercato di influenzare le elezioni americane è stata smentita sia da Assange che da Craig Murray – ex ambasciatore inglese in Uzbekistan che si è giocato la carriera quando ha accusato la Cia di complicità nelle torture nell’ex-repubblica sovietica – che ha fatto risalire a due fonti americane, una delle quali ha incontrato personalmente, il leak delle email che hanno inguaiato la Clinton. Risultato? Nessuno: Assange e Murray sono stati definiti spie russe. Così il presidente Obama ha appena firmato una legge di Difesa Nazionale che prevede un investimento di 160 milioni di dollari per nuove operazioni di propaganda Usa, dichiaratamente intese a contrastare la “propaganda russa”.Altre due prove di disinformazione da parte dei media: il risultato delle elezioni presidenziali americane e la Brexit. Nel primo caso non c’è stato un solo mezzo di informazione che non abbia ripetuto ad nauseam che non c’erano dubbi sulla vittoria della Killary. Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. Quanto a Brexit (anch’essa data per inverosimile) le catastrofiche previsioni della vigilia sono state – a oltre sei mesi di distanza – ampiamente contraddette dai fatti. Mentre la quasi totalità degli economisti profetizzavano una flessione immediata, con relativi crolli di Borsa, l’economia britannica è cresciuta negli ultimi mesi, registrando un incremento del Pil rispettivamente dello 0,3% e dello 0,6% nei primi due trimestri del 2016, e dello 0,6% e dello 0,5% negli ultimi due, vale a dire nel semestre successivo all’esito del referendum grazie al quale il Regno Unito è uscito dalla Ue. Che ne dite, ci sono o no buoni motivi per diffidare delle fake news dei media?Ma i mezzi ufficiali d’informazione non ne vogliono sapere – loro non possono sbagliare per definizione – e così oggi ci troviamo di fronte ad una prima spinta censoria mirata direttamente a ostacolare quella libertà di pensiero e di espressione che oggi inizia a preoccupare l’establishment. Il quale non si sporca le mani con divieti palesi ma subdolamente e vigliaccamente interviene su motori di ricerca e social media. Ora, se il loro obiettivo fosse raggiunto, la ratio menzogna/verità dipenderebbe non dalla nostra personale indagine, ma da un algoritmo. In sostanza da una macchina. Questo non vi dice nulla? La seconda questione che mi riporta agli strange days è collegata ad alcuni avvenimenti la cui estrema gravità è passata – e continua a passare – quasi inosservata. Mi riferisco agli eventi che hanno contrassegnato le ultime elezioni americane. Ora, quanto è avvenuto e sta avvenendo sull’altra riva dell’Atlantico è qualcosa di assolutamente nuovo nella storia americana. Mai, neppure nei periodi peggiori della guerra fredda con l’allora Unione Sovietica si è visto un tale palese odio e disprezzo verso la Russia come quello che oggi dilaga sui media americani.Neppure nei giorni più oscuri del trentennio che va dagli anni ’50 agli ’80 presidenti come Eisenhower, Nixon, Reagan si sono rivolti ad un presidente russo con termini come quelli che oggi usano politici come Obama, la Clinton, McCain, Clapper. Quell’Obama, su cui ironizza Ron Paul affermando che il Premio Nobel per la pace è il giusto riconoscimento per un presidente che ha bombardato 7 nazioni ed è stato il primo nella storia degli Stati Uniti ad essere stato in guerra ogni singolo giorno dei suoi otto anni di mandato. Mai una elezione fu così piena di colpi bassi come questa che ha portato The Donald alla Casa Bianca. Mai – anche se è risaputo che vi sono delle aspre rivalità tra i servizi di intelligence Usa – si era verificato uno scontro aperto tra Cia e Fbi come quello che abbiamo sotto gli occhi oggi. E ancora: mai un presidente eletto aveva pubblicamente screditato le motivazioni dei rapporti di intelligence di una delle più potenti strutture di potere come la Cia, affermando che alla base della conferma del presunto hackeraggio da parte dei russi che avrebbero influenzato le elezioni americane ci sono solo “ragioni politiche”.Si tratta di macro-eventi che indicano un cambio globale nella direzione che l’establishment americano sta imboccando, evidentemente obtorto collo. Un cambio di rotta che non viene digerito dalle strutture di potere consolidato che cercano freneticamente di intralciare e sabotare la nuova direzione della Casa Bianca. In tale chiave va vista l’ultima aggressione verbale a Putin con relativa espulsione di diplomatici. E i media mainstream come si sono comportati di fronte a questi veri e propri terremoti politici globali? Minimizzando la magnitudo degli eventi e distogliendo l’attenzione della gente dalle enormi implicazioni a livello mondiale. Attraverso delle vere e proprie armi di distrazione di massa, dunque. Ma al tempo stesso si fanno megafono di una chiamata alle armi contro le fake news. Quelle degli altri, naturalmente.(Piero Cammerinesi, “Strange days”, riflessione pubblicata da “Altrogiornale” il 12 gennaio 2017).Vi ricordate il ritornello della canzone di Battiato di vent’anni fa? Strani giorni, viviamo strani giorni… Beh, quei giorni saranno stati forse strani, ma mai come quelli che stiamo vivendo oggi, dove la sovrabbondanza di notizie e la manipolazione incessante da parte dei media fa in modo che la gente non recepisca il ‘peso specifico’ di una notizia rispetto alle altre. Manipolare le coscienze non è solo scrivere il falso o negare il vero; basta semplicemente dare ad una notizia di importanza del tutto trascurabile lo stesso ‘peso’ (corpo tipografico o tempo dedicato nei Tg) di un fatto di grande rilevanza. Questa manipolazione costante produce nel lettore/spettatore una perdita di riferimento, un disorientamento della coscienza; è come se rispetto alla nostra vita noi dessimo pari importanza ad un mal di pancia rispetto ad un ictus. O, meglio, come se interpretassimo i sintomi dell’ictus con la stessa leggerezza con cui osserviamo quelli del mal di pancia… In effetti, i sintomi di questi strange days ci sono tutti, se solo li guardassimo con attenzione, senza farci disorientare da chi ci dovrebbe orientare, vale a dire dai media. A cosa mi riferisco?