Archivio del Tag ‘Alpi’
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Io sto col Valsusa Filmfest, 10 euro per sorridere al futuro
“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.Tempi duri anche per le casse del Valsusa Filmfest? Niente paura: sul portale “Produzioni dal basso” è stata predisposta una pagina speciale per una campagna di crowdfunding. «Bastano davvero anche solo 10 euro per darci una mano», sostengono i promotori, tutti volontari. «Se saremo in tanti, potremo assicurare il futuro della nostra rassegna». In valle di Susa, il volontariato è da record: non solo per via delle tante associazioni alleate nella promozione culturale. Accanto al vasto network sociale del movimento NoTav, la rassegna “Il Grande Cortile” attira ogni anno personalità di primissimo piano, che da ogni parte d’Italia salgono in valle di Susa per discutere i maggiori temi di attualità. Fondamentale l’elaborazione culturale del festival cinematografico, che in quasi due decenni ha prodotto straordinari incontri ravvicinati: con artisti come Felice Anderasi, Paolo Pietrangeli, Daniele Segre, Florestano Vancini. E poi Enzo Iachetti, Enrico Lo Verso, il compianto Alberto Signetto, lo sceneggiatore occitano Fredo Valla, autore de “Il vento fa il suo giro”, e il regista del film, Giorgio Diritti.«Facciamo parte di una schiera infinita di piccoli festival disseminati lungo la penisola, realtà che mantengono viva la cultura diffusa, elemento caratteristico dell’Italia», spiegano i cinefili valsusini. «Quelli come i nostri chiamano festival ma sono lontani anni luce dai tappeti rossi e dagli sfarzi del cinema, sono indipendenti e danno spazio e voce a documentaristi, produzioni e registi attenti al territorio». Festival, per inciso, «abituati a organizzare le famose nozze coi fichi secchi e, più di recente, capaci di realizzare veri miracoli». Ne sa qualcosa il pubblico, che grazie al festival valsusino, nato nel cuore delle Alpi per riflettere sull’identità europea della montagna, grande frontiera di pace e di scambi tra popoli e culture, ha potuto incontrare voci preziosissime per decifrare i nostri anni. Da Marco Revelli a Bruno Gambarotta, dal pionere himalayano Walter Bonatti al climatologo Luca Mercalli. Il festival ha accolto una paladina dei diritti civili come Bianca Guidetti Serra, insieme ad altri campioni democratici, da don Andrea Gallo ad Alex Zanotelli. E poi musicisti del calibro di Gianni Basso e Fulvio Albano, Gian Maria Testa, Simone Cristicchi. Tra gli scrittori, Erri De Luca è ormai valsusino d’adozione. Ed è in ottima compagnia: ha incrociato le sue parole con quelle di Massimo Carlotto, Mauro Corona e tanti altri, compresa Nicoletta Bocca, che oggi produce dolcetto a Dogliani ma è legata quanto suo padre, il grande Giorgio Bocca, al singolare destino della valle di Susa.«Il progetto del Valsusa Filmfest – sintetizzano gli organizzatori – nasce dalla consapevolezza di vivere in un territorio molto vivace, sia culturalmente che politicamente». In questi anni, il festival si è impegnato a fondo per diffondere la cultura della comunità e del confronto, «in una valle alpina che ha saputo da sempre accogliere altre culture, come testimoniato dal patrimonio artistico presente sul territorio, acquisendo la capacità elaborare le modificazioni che via via nel tempo si sono rese necessarie». Le Alpi non più viste come barriera, ma come cerniera. «Una montagna in movimento, viva, fuori da ogni retorica. La montagna come memoria e come innovazione, come radici e come futuro, ricerca e palestra di vita. La montagna come leggerezza, divertimento, solitudine. Come silenzio». Il Valsusa Filmfest parla la stessa lingua di “Unkatahe”, il dio-bisonte: venite in pace, qui non ci sono nemici. Siamo parte del mondo, anche noi. E vorremmo continuare a incontrarlo, il mondo. Non è difficile, basta non spegnere la luce. Lo conferma Tommaso Cerasuolo, cantante dei “Perturbazione”, che il 16 gennaio regaleranno al pubblico l’ennesimo evento. Aiutateci a sopravvivere, dicono i valsusini, già proiettati verso la prossima edizione del festival (per gli amici, si sa, l’Hotel Valsusa non chiude mai).“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.
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Val Susa, Gaglianone: anche se i NoTav avessero torto
A volte bisogna aggrapparsi alle parole: chi le pronuncia e chi le ascolta. Quando sembra che non restino che quelle perché il resto non c’è più ed è finita, oppure quando si sente che solo da quelle si può ricominciare. Nei ritratti di questo documentario un gruppo di persone si racconta attraverso parole e silenzi. Con vissuti tra loro lontani e con attitudini distanti, si sono ritrovati dalla stessa parte ad abitare la stessa lotta contro la linea ad alta velocità Torino-Lione che dovrebbe passare in valle di Susa, una valle già attraversata da due statali, un’autostrada e una linea ferroviaria dove transitano i Tgv, Train à Grande Vitesse. Per alcuni, questa nuova linea pare rappresentare la linea Maginot del futuro del paese; per altri è un’opera inutile economicamente, devastante per l’ambiente e per le finanze pubbliche. Nel corso degli anni la politica – quella mediaticamente intesa come politica dei partiti – sembra essere scomparsa intorno al problema, incapace di gestire una situazione lasciandola incancrenire (oppure scientemente convinta di doverla gestire esattamente così).In val di Susa invece non è scomparsa, o è ricomparsa, in questi 25 anni di opposizione al progetto, la politica intesa come incontro fra gente che discute sul proprio presente e sul proprio futuro, fra gente che si ritrova per porre delle domande insieme e insieme a cercare delle risposte. Ma nel frattempo una questione politica, sociale ed economica è stata fatta slittare sul piano inclinato dell’ordine pubblico. La questione non è più treno sì, treno no, ma è diventata sistema – questo sistema – sì, sistema no. E allora, sempre di più, il rapporto tra cittadino e Stato si riduce alla sola relazione con un agente in tenuta antisommossa. Per alcuni tutto questo non fa che svelare con evidenza la truffa di un sistema di fisiologica prevaricazione; per altri è la crisi inaccettabile e umiliante della fiducia nella democrazia. Non sono nodi che riguardano solo la val di Susa: nel nostro paese sono sempre più numerosi i fronti in cui tutto sembra ridursi a una faccenda da sbrigare chiamando la polizia.“Qui” è una parola che viene pronunciata spesso, durante i racconti presenti nel documentario. Indica che qui e ora, in questo posto e in questo preciso momento, sta accadendo qualcosa. Indica un luogo in cui si vive e si subisce qualcosa che è vissuta come un’ingiustizia ma indica anche una possibilità di vivere qualcosa di unico e irripetibile. Siamo qui e non altrove. Siamo in val di Susa e non in un altro posto. Eppure, anche se tutto rimanda a fatti e ambienti molto concreti, i racconti svelano, dietro l’urgenza dell’accadimento e dell’attualità, una dimensione che trascende le stesse cause scatenanti del conflitto: e allora “Qui” non è altrove: è ovunque. Le cose narrate, i volti (amareggiati arrabbiati, tristi, allegri e di un’allegria inconsueta, liberatoria e liberata) che le raccontano al di là delle parole, le parole stesse, si rivelano anche come un’astrazione, una riflessione su una condizione che non è solo quella di chi si trova laggiù, in un angolo di mondo: è la intensa consapevolezza di trovarsi di fronte a una contraddizione profonda del nostro modo di vivere che riguarda tutti, anche quelli che pensano che laggiù (qui), questi NoTav son solo degli imbecilli, dei disadattati, dei recalcitranti disfattisti, dei montanari bifolchi e anche egoisti, dei sabotatori cripto-terroristi che non vogliono piegarsi allo “Stato democratico” e al “volere della maggioranza”.E allora, dopo aver fatto un documentario come questo, può suonare paradossale scrivere che le persone incontrate durante la visione potrebbero persino avere torto: la Torino-Lione è “utile e necessaria”. Io credo nelle ragioni dei protagonisti del documentario. Ma alla fine, a me come regista di questo film, non è più questo che importa, il torto o la ragione. A me importa che, alla fine di questo viaggio, chi ha guardato questi volti e ascoltato queste voci comprenda che è possibile trovarsi nella loro condizione e fare le loro scelte, e che tutto questo, “qui e ovunque”, merita molto rispetto. E anche tanta gratitudine.(Daniele Gaglianone, autopresentazione critica al documentario “Qui”, dedicato alla valle di Susa alle prese con la vertenza NoTav,A volte bisogna aggrapparsi alle parole: chi le pronuncia e chi le ascolta. Quando sembra che non restino che quelle perché il resto non c’è più ed è finita, oppure quando si sente che solo da quelle si può ricominciare. Nei ritratti di questo documentario un gruppo di persone si racconta attraverso parole e silenzi. Con vissuti tra loro lontani e con attitudini distanti, si sono ritrovati dalla stessa parte ad abitare la stessa lotta contro la linea ad alta velocità Torino-Lione che dovrebbe passare in valle di Susa, una valle già attraversata da due statali, un’autostrada e una linea ferroviaria dove transitano i Tgv, Train à Grande Vitesse. Per alcuni, questa nuova linea pare rappresentare la linea Maginot del futuro del paese; per altri è un’opera inutile economicamente, devastante per l’ambiente e per le finanze pubbliche. Nel corso degli anni la politica – quella mediaticamente intesa come politica dei partiti – sembra essere scomparsa intorno al problema, incapace di gestire una situazione lasciandola incancrenire (oppure scientemente convinta di doverla gestire esattamente così).
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Gaglianone, film: val Susa, la strana guerra contro tutti noi
Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.Travolti dal loro problema – il conflitto fisiologico tra grande opera e benessere del territorio – si sono comportati da cittadini democratici, appellandosi ai diritti previsti dalla Costituzione. Tutto inutile: sono convinti che il potere non abbia lasciato loro altra scelta che vedersela coi reparti della polizia antisommossa. La vertenza NoTav ha origini ormai lontane anni luce dall’attualità odierna, risale infatti a prima del Duemila. Nel documentario di Gaglianone, il primo grande scontro – quello del 2005 – è rievocato dal sindaco di Venaus, Nilo Durbiano, che fece suonare le campane a distesa per far accorrere la popolazione a sostegno degli inermi manifestanti, manganellati a freddo in piena notte. La rottura istituzionale è già perfettamente leggibile: Durbiano racconta di come, in quanto primo cittadino, fu convocato alle tre di notte alla Prefettura di Torino. Un colloquio gelido, evidentemente per sondare il sindaco alla vigilia del pestaggio destinato a sgomberare i NoTav dall’area di Venaus, dove allora doveva sorgere il cantiere della galleria preliminare esplorativa, oggi trasferito a Chiomonte.Assenza di dialogo: come se fosse già in corso una sorta di guerra, non dichiarata, contro la popolazione. L’unico precedente, all’epoca, era stato il trauma del G8 di Genova, la Diaz e Bolzaneto, che stroncò il movimento no-global, di cui le multinazionali globaliste avevano paura. Subito dopo, l’infarto mondiale dell’11 Settembre e la “guerra infinita” da esso originata: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libia, Siria, Ucraina. E poi ancora Iraq, seguendo le eroiche imprese dell’Isis guidato dal “califfo” Al-Baghdadi. Un avventuriero che, secondo varie fonti – ultimo, il massone Gioele Magaldi col suo libro sulle super-logge del potere occulto – fu liberato proprio perché mettesse in piedi l’armata jihadista. Quanto è lontana la valle di Susa dalle “armi chimiche” siriane e dalla manipolazione dello spread per imporre Monti a Palazzo Chigi? Molto meno di quanto si pensi, stando ai resoconti disarmati degli interlocutori di Gaglianone, praticamente smarriti di fronte alla dissoluzione di ogni solido punto di riferimento: la solitudine siderale del cittadino trova parziale conforto solo nella democrazia spontanea che la stessa cittadinanza alimenta, sotto forma di movimento civile.Servono risposte, e non arrivano mai. Così, dopo un po’ ci si arrende all’evidenza. Magari pregando, come fanno gli attivisti cattolici, il gruppo di Gabriella Tittonel che accompagna la troupe lungo i reticolati di Chiomonte, filo spinato di fabbricazione israeliana. O cercando di dialogare coi reparti antisommossa, come fa l’infermiera Cinzia Dalle Pezze, esasperata dall’abuso di lacrimogeni e gas tossici. Il documentario propone la voce di antagonisti come Aurelio Loprevite di “Radio Blackout”, in diretta telefonica con Luca Abbà quando l’attivista precipitò dal traliccio sul quale si era arrampicato per protesta, e militanti dal passato sorprendente come Alessandro Lupi, carabiniere in congedo e convinto NoTav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno. La telecamera raccoglie parole e silenzi di persone finite in carcere, pensionati decisi ad ammanettarsi alle recinzioni militarizzate, famiglie disposte a tutto per difendere la loro casa, minacciata dalla nuova arteria ferroviaria.Sullo sfondo, i fantasmi di ogni realizzazione faraonica – devastazione ambientale, crisi idrogeologica, dissesto urbanistico, impatto insostenibile dei cantieri, rischi concreti per la salute e l’incolumità della popolazione – e in più, in questo caso, la sordità autistica ed esasperante dell’élite di potere di fronte alle più argomentate osservazioni tecniche, sciorinate dai migliori esperti dell’università italiana: la linea Tav Torino-Lione non è solo l’ennesimo attentato alle dissanguate finanze pubbliche del paese, non è solo l’ennesimo invito a nozze per l’imprenditorialità mafiosa, ma è anche e soprattutto uno spreco totalmente folle, visto che l’attuale linea ferroviaria internazionale che già attraversa la valle di Susa è praticamente deserta. Nonostante il recente e costoso ammodernamento del traforo del Fréjus, non esiste più traffico merci tra Italia e Francia: secondo l’osservatorio europeo per i trasporti alpini, affidato alla Svizzera, l’attuale linea valsusina italo-francese potrebbe tranquillamente incrementare del 900% il volume dei transiti. Perché allora incancrenire lo scontro sociale rincorrendo il miraggio di un super-treno miliardario da imporre a mano armata?Perché non siamo più in tempo di pace, e da parecchi anni, sembrano suggerire i valsusini ascoltati da Gaglianone, i primi a constatare sulla loro pelle l’avvento del cambio d’epoca: loro erano già sulle barricate molto prima di Occupy Wall Street, prima degli “attentati” all’articolo 18, prima della guerra di Marchionne contro la Fiom. Erano in campo, i cittadini italiani della valle di Susa, ben prima della riforma Fornero, o delle recenti “rivelazioni” di Geithner sul “golpe dello spread”. La Merkel, Draghi, la “dittatura bancaria” dell’euro, la privatizzazione globale. E poi il Ttip, le torture inflitte alla Grecia, la teologia disonesta dell’austerity, la fine del welfare europeo. Ormai il capolinea lo vedono tutti: l’abisso precario della disoccupazione, la sparizione del futuro. Loro, i valsusini, l’hanno avvistato in anticipo. Se c’è una parola che può riassumerli tutti, probabilmente questa parola è “democrazia”. Se ne avverte la dolorosa assenza, la nostalgia. «Se qualcuno mi parla ancora di Tav», scrisse Giorgio Bocca all’indomani dell’insurrezione popolare della valle del 2005, «tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo seppellito nel ‘45».Vedeva lungo, il giornalista-partigiano. E oggi, la causa NoTav vanta autorevolissimi sostenitori, nel mondo culturale italiano: ormai le istanze democratiche della popolazione hanno trovato piena cittadinanza, nell’Italia tramortita dalla cosiddetta crisi. Malgrado il costante depistaggio dalla disinformazione “mainstream”, ognuno percepisce la minaccia concreta di un declino che pare inesorabile. Finalmente, con Gaglianone, protagonisti e testimoni della remota trincea valsusina ora affiorano in superficie, mostrando le loro voci e i loro volti, in una quotidianità che si sforza di restare ordinaria, benché terremotata dagli eventi. E’ un’umanità che si esprime con gesti semplici e rivela una natura mite, costretta a misurarsi con la violenza dell’imposizione, nel vuoto cosmico della politica. Anni fa, espressioni come “destra” e “sinistra” avevano ancora maschere rappresentative. Puro teatro, ormai, come sperimentato nella valle alpina che unisce Torino alla Francia. Dove però la grande calamità collettiva ha cementato una comunità plurale, di italiani che resistono e sperano. E che, nel film di Gaglianone, parlano una lingua immediatamente riconoscibile e universale.(Il film: “Qui”, di Daniele Gaglianone, Italia 2014, 120′, prodotto da Gianluca Arcopinto e Domenico Procacci – produzione “Axelotil Film”, “Fandango”, in collaborazione con Babydoc Film – distribuito da “Pablo”).Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.
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Frana la fiaba Torino-Lione? Tutt’intorno, intanto, è guerra
Il progetto Tav Torino-Lione resta un oggetto misterioso, anche dopo le polemiche mediatiche sulla “tratta internazionale” di una linea che la Francia ha già ufficialmente declassato, dichiarando che tornerebbe a esaminare l’ipotesi solo a partire dal 2030. Voci di protesta, da parte di sostenitori della grande opera, manifestano sorpresa e sconcerto per la decisione di Rfi di elevare a 7 miliardi di euro il costo inziale della parte “internazionale” della futura galleria transalpina, fino a ieri quotata 2,9 miliardi. Nessuno si premura di ricordare le ragioni del “no”, ribadite ancora nel 2012 in un appello al presidente della Repubblica, firmato da 360 docenti, tecnici ed esperti dell’università italiana. La Torino-Lione sarebbe infatti un inutile doppione della linea internazionale esistente in valle di Susa, la Torino-Modane, già ora disertata dalle merci. Inoltre devasterebbe il territorio alpino alle porte di Torino: crisi idrica, cantieri dall’impatto insostenibile, dissesto urbanistico, pericoli per la salute causa uranio e polveri di amianto. Infine, la linea Tav gonfierebbe in modo spaventoso il debito pubblico con una spesa palesemente inutile e improduttiva, senza futuro visto che la rotta europea del traffico merci non è più il “corridio 5” est-ovest, abbandonato dall’Ue, ma la tratta nord-sud Genova-Rotterdam.Giornali e televisioni parlano dei costi dell’opera dando per scontata la sua utilità, assunto dimostratamente falso, e si guardano bene dal citare la recente indagine della magistura antimafia che indica il rischio di infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’unico cantiere finora aperto, quello per la piccola galleria esplorativa di Chiomonte. Le uniche indagini degne di cronaca sono invece quelle contro il movimento NoTav, che si fermano all’aspetto dell’ordine pubblico, la cui gestione è entrata in crisi nel momento in cui la politica ha provocatoriamente rifiutato di dare risposte ai sessantamila abitanti della valle di Susa, lasciando sul campo – come unico interlocutore – i reparti antisommossa. Questo ha inevitabilmente trasformato la valle di Susa in una trincea nazionale di protesta, che oppone i cittadini a istituzioni sempre più lontane e anonime, tenocratiche, evidentemente dominate da lobby affaristiche economico-finanziarie. Lobby interessate al business di grandi cantieri affidati all’opaca gestione di “general contractor” che agiscono in piena autonomia, grazie a leggi speciali: un copione che in Italia ha determinato il puntuale “impazzimento” dei costi e il prosperare della filiera dei subappalti a cascata, in cui molto denaro passa di mano in mano, per la felicità delle banche, ma i posti di lavoro restano pochissimi e costosissimi.Sul piano politico, resta da decifrare il significato della cerimonia pubblica dello stupore, esibito per il “sorprendente” lievitare dei costi dell’ipotetico futuro traforo ferroviario italo-francese, già definito l’opera pubblica più costosa della storia italiana, nonché la più inutile della storia europea. Denunciarne il rincaro preventivato significa cominciare a prendere le distanze da un’operazione ormai insostenibile e non più difendibile, dati i tempi di crisi? Agitare il problema dei “nuovi” costi può servire anche a disertare dalla lobby pro-Tav senza dover dare ragione agli oppositori del progetto, che non sono più solo i valsusini: da qualche anno il movimento NoTav ha infatti conquistato l’attenzione di milioni di italiani. I distinguo e le richieste di chiarimento potrebbero essere l’inizio di una ritirata strategica? E’ presto, per dirlo. Ma va ricordato che il progetto fu ritirato già una prima volta, nel 2006, dopo l’insurrezione nonviolenta della popolazione valsusina alla fine del 2005. Non volò una pietra, ma decine di migliaia di manifestanti – guidati dai sindaci in fascia tricolore – pretesero di essere trattati come cittadini e non come sudditi.Problema che dalla valle di Susa si è esteso al resto d’Italia, dal momento in cui è Bruxelles a scrivere il bilancio del governo di Roma, dettando i tagli alla spesa pubblica che condannano l’economia nazionale alla recessione perpetua. Eppure, nonostante lo sfacelo istituzionale di questi anni, simboleggiato dal governo della Troika affidato a Mario Monti, oggi il mainstream se la cava facendo le pulci al peventivo di Rfi sulla Torino-Lione. Come se fossimo ancora in tempo di pace, come se la sorda guerra programmata dall’élite finanziaria non avesse già accerchiato quel che resta delle nazioni sovrane, coi rottami dei loro diritti e le macerie del welfare e del lavoro che fu. Le “riforme” in arrivo mirano a sbaraccare il residuo ingombro di quote di democrazia, cominciando dal potere civico esercitato mediante libere elezioni. La vittoriosa battaglia civile dei NoTav nel 2005 assomiglia sempre più a una pagina da libri di storia, una esemplare protesta – condotta in tempo di pace – in nome dello Stato di diritto e delle prerogative della cittadinanza garantite dalla Costituzione italiana nata dalla Resistenza antifascista. Nulla che possa più fare davvero notizia, nell’imperante barbarie euroatlantica che semina guerre ai confini, dall’Est al Medio Oriente al Nordafrica, terremotando nel frattempo la vita dei cittadini europei e cancellando il loro diritto al futuro dignitoso nel quale crebbero i padri, convinti di costruire un avvenire di pace, benessere e giustizia.Il progetto Tav Torino-Lione resta un oggetto misterioso, anche dopo le polemiche mediatiche sulla “tratta internazionale” di una linea che la Francia ha già ufficialmente declassato, dichiarando che tornerebbe a esaminare l’ipotesi solo a partire dal 2030. Voci di protesta, da parte di sostenitori della grande opera, manifestano sorpresa e sconcerto per la decisione di Rfi di elevare a 7 miliardi di euro il costo inziale della parte “internazionale” della futura arteria transalpina, fino a ieri quotata 2,9 miliardi. Nessuno si premura di ricordare le ragioni del “no”, ribadite ancora nel 2012 in un appello al presidente della Repubblica, firmato da 360 docenti, tecnici ed esperti dell’università italiana. La Torino-Lione sarebbe infatti un inutile doppione della linea internazionale esistente in valle di Susa, la Torino-Modane, già ora disertata dalle merci nonostante il costoso ampliamento del traforo del Fréjus, capace di ospitare treni carichi di container. Inoltre l’opera devasterebbe il territorio alpino alle porte di Torino: crisi idrica, cantieri dall’impatto insostenibile, dissesto urbanistico, pericoli per la salute causa uranio e polveri di amianto. Infine, la linea Tav gonfierebbe in modo spaventoso il debito pubblico con una spesa palesemente inutile e improduttiva, senza futuro visto che la rotta europea del traffico merci non è più il “corridio 5” est-ovest, abbandonato dall’Ue, ma la tratta nord-sud Genova-Rotterdam.
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Presi per il Pil? Noi no: storie di italiani che non ci stanno
Fino a ieri il sistema ha inseguito la crescita del Pil per diffondere consumi e sostenere l’industria. Oggi sappiamo che in Europa non è più così: gli stessi politici che continuano a predicare “crescita”, in realtà hanno promosso una deliberata, drammatica inversione di rotta. Non “dobbiamo” più crescere, perché a farlo saranno soltanto le élite, che hanno realizzato un colossale trasferimento di ricchezza, dall’industria alla finanza, dal lavoro alla rendita speculativa. Matematico: la crescita del benessere diffuso comporta maggiore consapevolezza culturale, quindi l’acquisizione di diritti “scomodi”, che il sistema politico – sempre più centralistico e sempre meno democratico – non è più disposto a tollerare. E quindi: precariato, disoccupazione, tagli al welfare, erosione del risparmio, super-tassazione, eclissi delle pensioni, privatizzazione dei servizi vitali. Da anni stiamo “decrescendo” in modo vertiginoso, proprio grazie ai politici che, a parole, si dichiarano favorevoli alla “crescita”. Che peraltro, come sappiamo, minaccia di far esplodere il pianeta: sovrapproduzione di merci superflue, boom demografico, progressiva penuria di risorse.Il blackout della politica, ormai colonizzata dall’oligarchia tecno-finanziaria che manipola l’immaginario collettivo attraverso il ferreo controllo dei media, non ha impedito il diffondersi di esperienze individuali di resistenza libertaria. Messe assieme, fanno rete. Specie se vengono spiegate, mostrate, raccontate. Come accade nel documentario “Presi per il Pil”, realizzato da Stefano Cavallotto col giornalista Andrea Bertaglio, su soggetto elaborato da Lorenzo Fioramonti, economista dell’università sudafricana di Pretoria. Tema: come vivere «senza più essere schiavi dei soldi», peraltro sempre meno abbondanti. Lo spiegano Marta e Giorgio, che hanno deciso di trasferirsi coi figli in valle Maira, sulle montagne di Cuneo, allevando capre e producendo formaggi. E poi Roberto, che si è «dimesso da avvocato» lasciando Cagliari per il natio borgo selvaggio, dove – insieme alla famiglia – ha imparato ad auto-prodursi «tutto quello che gli serve per vivere». Non mancano le comunità organizzate: come quella degli abitanti di Pescomaggiore, alle porte dell’Aquila, che – con l’aiuto volontari italiani e stranieri – costruiscono un eco-villaggio modello, seguendo i metodi della bioedilizia.«Storie sorprendenti ed emblematiche», che aiutano a capire «il desiderio di liberarsi dal dogma del Pil», per immaginare «un mondo più giusto, iniziando dalle nostre vite». Quelle incrociate dal documentario sono «persone che hanno scelto di vivere senza più inseguire il mito della crescita infinita imposto dal sistema», liberandosi dell’ideologia dominante. Il narratore è lo stesso Bertaglio, autore di saggi sulla decrescita (l’ultimo si intitola “Generazione decrescente”, edizioni L’Età dell’Acquario). Tutto nasce quando Andrea, incuriosito dal progetto energetico “Coltiviamo il sole”, decide di partecipare a una riunione dell’associazione che l’ha ideato. Lì incontra Giorgio, interessato all’installazione di un impianto fotovoltaico per la propria stalla. Da quel momento, Andrea inizia «un viaggio fisico e soprattutto interiore» tra questi «pionieri della decrescita», nel loro caso sicuramente “felice”. Morale: specie in un momento di crisi devastante, sorprende la facilità con cui è possibile dribblare il disastro, rimboccandosi le maniche. Purché si abbiano le idee chiare: massima sobrietà, minime esigenze, autosufficienza alimentare. A quel punto, può anche crollare il Pil: lo sostituisce una nuova economia di prossimità, fondata sullo scambio alla pari.Non mancano voci eterodosse, a spiegare perché tutto questo accade, e accadrà sempre di più: da Enrico Giovannini, già a capo dell’Istat e poi ministro del governo Letta, favorevole a «elaborare indicatori di benessere alternativi al Pil», fino a battitori liberi (e famosi) come l’inglese Rob Hopkins, fondatore del movimento delle “Transition Towns”, e il francese Serge Latouche, padre del moderno pensiero decrescista, insieme all’italiano Maurizio Pallante. Parlano docenti universitari come Mario Pianta, tra i promotori della campagna “Sbilanciamoci!”, attivisti e scrittori come Giulio Marcon, già coordinatore del Servizio Civile Internazionale, e autrici come Helena Norberg-Hodge, studiosa dell’impatto dell’economia globale sulle culture e sull’agricoltura a livello mondiale. La Hodge, fondatrice dell’Isec (International Society for Ecology and Culture) è anche produttrice e co-regista del documentario “L’economia della felicità”. Ed è esattamente di questo – economia e felicità – che parla l’ex avvocato Roberto, 45 anni, “scappato” dal capoluogo sardo per farsi coltivatore, nella casa della sua infanzia: «Paradossalmente – dice – oggi ho molti meno problemi economici dei colleghi che mi sono lasciato alle spalle, rimasti schiavi di mutui, finanziamenti e orari di lavoro ormai insostenibili».Stessa musica in Abruzzo, tra i ragazzi di Pescomaggiore, molti dei quali rimasti senza casa dopo il terremoto del 2009. La soluzione si chiama Eva, eco-villaggio interamente auto-costruito, col materiale meno consueto e più ecologico: la paglia. «La manodopera ce la mettiamo noi, riscoprendo la comunità». Un’esperienza umana che cambierà per sempre la loro vita: «Famiglie che si ritrovano, padri e figli che lavorano insieme con un obiettivo comune». Parole come sostenibilità e benessere diventano all’improvviso realtà. «I giovani di Pescomaggiore, molti dei quali precari che hanno trovato una dimensione sociale e lavorativa proprio in questo eco-villaggio, si aiutano nel lavoro, mangiano e parlano insieme, organizzano le proprie giornate in un clima di cooperazione e convivialità», racconta Andrea, che traccia anche un parallelo con l’esperienza – stavolta metropolitana – dei ragazzi del circolo torinese Mdf, il Movimento per la Decrescita Felice: «Si impegnano a vivere una città come Torino quasi come se fosse un paese, a cominciare dai trasporti – la bicicletta in primis – promuovendo uno stile di vita ecologico, basato sul consumo critico». Orti urbani, per esempio, da impiantare anche nelle scuole e attraverso progetti speciali, alcuni dei quali in collaborazione con associazioni come Slow Food».Il documentario, montato da Roberto Allegro e sorretto da musiche originali degli Yo-Yo Mundi, si arrampica anche sulle Alpi, scovando i silenzi incontaminati del Puy, dove pascolano le capre bianche di Marta e Giorgio, marito e moglie, «due tra le persone più lucide che si possa avere la fortuna di incontrare nel corso di un’intera vita», garantisce Andrea. «Vivono e lavorano con i loro cinque figli e pochi buoni amici nel comune di San Damiano Macra, dove sono arrivati da Torino nel 1995». Lei è medico e lavora part-time in zona. Lui, laureato in filosofia e originario della vicina valle Po, per lavoro traduceva libri per case editrici. Nel 1999, la grande scommessa: recuperare un’intera borgata abbandonata per poi avviare un’azienda di capre da latte, che col tempo è diventata anche agriturismo. «Nonostante si possa pensare il contrario, Marta e Giorgio non sono degli “alternativi”», spiega Andrea. «Hanno solo capito prima di altri che per vivere sereni non c’era bisogno di puntare sui soldi». I loro figli – tutti musicisti – ora crescono in un paradiso verde, e tra le vecchie case di pietra è tornata la vita. E’ una strana impresa, super-sostenibile: niente mangimi industriali, farmaci o gasolio. E funziona benissimo: «E’ uno schiaffo a chiunque si rassegni a dire che non è possibile, che oggi il mondo non ti permette di fare certe scelte».(Il documentario: “Presi per il Pil”, Italia 2014, 65 minuti. E’ possibile promuovere la proiezione del film, una produzione low-budget di Settembre Film, e acquistare il filmato in formato dvd, al prezzo di 10 euro, mediante il sito del progetto).Fino a ieri il sistema ha inseguito la crescita del Pil per diffondere consumi e sostenere l’industria. Oggi sappiamo che in Europa non è più così: gli stessi politici che continuano a predicare “crescita”, in realtà hanno promosso una deliberata, drammatica inversione di rotta. Non “dobbiamo” più crescere, perché a farlo saranno soltanto le élite, che hanno realizzato un colossale trasferimento di ricchezza, dall’industria alla finanza, dal lavoro alla rendita speculativa. Matematico: la crescita del benessere diffuso comporta maggiore consapevolezza culturale, quindi l’acquisizione di diritti “scomodi”, che il sistema politico – sempre più centralistico e sempre meno democratico – non è più disposto a tollerare. E quindi: precariato, disoccupazione, tagli al welfare, erosione del risparmio, super-tassazione, eclissi delle pensioni, privatizzazione dei servizi vitali. Da anni stiamo “decrescendo” in modo vertiginoso, proprio grazie ai politici che, a parole, si dichiarano favorevoli alla “crescita”. Che peraltro, come sappiamo, minaccia di far esplodere il pianeta: sovrapproduzione di merci superflue, boom demografico, progressiva penuria di risorse.
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Tribunale dei Popoli, la valle di Susa si appella al mondo
Sicuri che sia accettabile la legge imposta alla valle di Susa in nome dell’opaco business finanziario chiamato Tav? Sicuri che il trattamento inflitto alla popolazione sia conforme alle prescrizioni dei trattati internazionali? Nel silenzio delle autorità italiane – caduti nel vuoto tutti gli appelli alle istituzioni romane, da Palazzo Chigi al Quirinale – da oggi se ne occuperà il Tribunale Permanente dei Popoli, fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso per tutelare i diritti delle genti calpestate dalla storia. L’appello degli amministratori valsusini, che si rivolge a questa prestigiosa tribuna internazionale di giuristi, è stato subito sottoscritto da personaggi mondiali di prima grandezza, da Dario Fo al brasiliano Leonardo Boff, fondatore della teologia della liberazione, dal profeta francese della decrescita Serge Latouche al regista cinematografico inglese Ken Loach, insieme a docenti universitari di tutto l’Occidente. Domanda: il mondo civile può accettare che una popolazione sia maltrattata per vent’anni e costretta a subire una maxi-opera completamente inutile, pericolosa e devastante per il territorio?A firmare l’esposto è Livio Pepino, già alto magistrato italiano, insieme a Sandro Plano, presidente della Comunità Montana, appena rieletto primo cittadino di Susa. Con loro i sindaci dei principali centri della valle, da Avigliana a Bussoleno. Tra i firmatari, celebrità internazionali come l’economista Riccardo Petrella e l’archeologo Salvatore Settis, combattenti per i diritti come Alex Zanotelli, grandi giornalisti del calibro di Paolo Rumiz. Insieme a nomi da sempre accanto alla battaglia civile della valle di Susa – dal professor Marco Revelli al climatologo Luca Mercalli – condividono l’appello al Tribunale dei Popoli la presidente di Emergency Cecilia Strada e popolari vignettisti come Ellekappa e Sergio Staino. Con la valle di Susa si schierano l’Associazione Nazionale Giuristi Democratici (avvocato Roberto Lamacchia), l’omologa International Association of Democratic Lawyers e la European Association of Lawyers for Democracy & World Human Rights. Aderiscono autorevolissimi magistrati: Domenico Gallo, consigliere presso la Corte di Cassazione, e Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale. Firma anche il giurista Giovanni Palombarini, già procuratore generale aggiunto della Cassazione.Mentre il movimento No-Tav è alla sbarra in seguito agli scontri con la polizia susseguitisi a partire dal 2011 a Chiomonte, sito dell’unico mini-cantiere finora attivato (solo una galleria esplorativa, nulla a che vedere con l’ipotetico traforo ferroviario), i media mainstream e la politica al potere evitano accuratamente, da vent’anni, di accettare la sfida democratica ingaggiata dai valsusini. I tecnici universitari scesi in campo accanto al movimento – centinaia di professori e ingegneri – dimostrano che la grande opera in progettazione è un attentato alla salute (rischio tumori, a causa delle polveri di amianto e uranio), una garanzia di devastazione del territorio (catastrofe abitativa e idrogeologica), un bagno di sangue per il debito pubblico italiano (almeno 20 miliardi di euro, mentre l’Ue ha appena dimezzato il già irrisorio contributo europeo). Sacrifici ritenuti intollerabili, soprattutto per una ragione: la linea Tav italo-francese, destinata alle merci, sarebbe completamente inutile.Il traffico lungo l’asse est-ovest è infatti crollato, e l’attuale linea internazionale valsusina che già collega Torino a Lione è praticamente deserta, nonostante l’Italia abbia recentemente speso 400 milioni di euro per migliorare la capacità del traforo del Fréjus. Il tunnel, tra Bardonecchia e Modane, oggi è in grado di accogliere treni con a bordo Tir e grandi container navali. Secondo la Svizzera, cui Bruxelles ha affidato il monitoraggio dei trasporti alpini, oggi la valle di Susa potrebbe incrementare del 900% il trasporto Italia-Francia. Perché costruire un inutile doppione, costosissimo e da vent’anni avversato dalla popolazione? A rendere particolarmente odiosa la grande opera più contestata d’Italia, il sospetto che l’ombra della mafia si allunghi sulle operazioni di cantiere: i No-Tav hanno inutilmente sottoposto al tribunale di Torino il corposo dossier del Ros inerente l’indagine “Minotauro” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte. In base al lavoro antimafia dei carabinieri, i militanti denunciano collegamenti pericolosi tra le cosche del Canavese e alcune imprese coinvolte nei lavori di movimento terra in valle di Susa.Molti aspetti della crisi scoppiata attorno alla Torino-Lione vanno ben oltre la valle di Susa, sostengono i firmatari, che denunciano «questioni di evidente rilevanza generale»: dalle crescenti devastazioni ambientali, «lesive dei diritti fondamentali dei cittadini attuali e delle generazioni future», fino alla «drastica estromissione dalle relative scelte delle popolazioni», anche in violazione di trrattati internazionali come la Convenzione di Aarhus del 1998. Ecco il punto: la valle di Susa è «espressione e simbolo» del grande male odierno, cioè l’esproprio antidemocratico del futuro, sotto forma di «trasferimento a poteri economici e finanziari nazionali e internazionali di decisioni di primaria importanza per la vita di intere popolazioni». I firmatari segnalano «situazioni in cui la violazione dei diritti fondamentali di persone e popolazioni avviene in modo meno brutale di quanto accaduto in altre vicende prese in esame dal Tribunale», che si è occupato delle maggiori tragedie umanitarie, da Timor Est all’Afghanistan. Ma la valle di Susa segna «la nuova frontiera dei diritti a fronte di attacchi che mettono in pericolo lo stesso equilibrio (ecologico e democratico) del pianeta».Ne sono convinti attivisti internazionali di prima grandezza: dal boliviano Oscar Olivera, paladino dell’acqua di Cochabamba, premio Goldman per l’ambiente, alla canadese Laura Westra, presidente dell’Ecological Integrity Group. Con la valle di Susa anche l’olandese Rembrandt Zegers di Greepeace International, lo statunitense David Bollier (Commons Strategy Group per i beni comuni) e il messicano Gustavo Esteva, economista, fondatore dell’Universidad de la Tierra a Oaxaca. Imponente il parterre universitario italiano: Marco Aime (Genova), Gaetano Azzariti, Piero Bevilacqua e Gianni Ferrara (Roma), Luciano Gallino e Angelo Tartaglia (Torino), Tomaso Montanari (Napoli) e Danilo Zolo (Firenze). E poi universitari di mezzo mondo, uniti per la causa valsusina: Weston Burns (Iowa, Usa), Fritjof Capra e Herbert Walther (Vienna), Vito De Lucia (Norvegia), Ugo Mattei (California), Laura Nader (Berkeley), Simon Read (Londra) e Anna Grear (Waikato, Nuova Zelanda). Fortissima anche la presenza dei cattolici latinoamericani, che come Leonardo Boff si sono riavvicinati al Vaticano con il pontificato di Papa Francesco: firmano per la valle di Susa il domenicano brasiliano Frei Betto, il connazionale benedettino Marcelo Barros, celebre biblista e scrittore, e il teologo Waldemar Boff che in Brasile dirige “Água Doce Serviços Populares”.Sicuri che sia accettabile la legge imposta alla valle di Susa in nome dell’opaco business finanziario chiamato Tav? Sicuri che il trattamento inflitto alla popolazione sia conforme alle prescrizioni dei trattati internazionali? Nel silenzio delle autorità italiane – caduti nel vuoto tutti gli appelli alle istituzioni romane, da Palazzo Chigi al Quirinale – da oggi se ne occuperà il Tribunale Permanente dei Popoli, fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso per tutelare i diritti delle genti calpestate dalla storia. L’appello degli amministratori valsusini, che si rivolge a questa prestigiosa tribuna internazionale di giuristi, è stato subito sottoscritto da personaggi mondiali di prima grandezza, da Dario Fo al brasiliano Leonardo Boff, fondatore della teologia della liberazione, dal profeta francese della decrescita Serge Latouche al regista cinematografico inglese Ken Loach, insieme a docenti universitari di tutto l’Occidente. Domanda: il mondo civile può accettare che una popolazione sia maltrattata per vent’anni e costretta a subire una maxi-opera completamente inutile, pericolosa e devastante per il territorio?
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Tav Brennero, l’altro mostro: 63 miliardi nella spazzatura
«Costerà 63 miliardi la più onerosa e imponente opera pubblica italiana, ed è del tutto inutile». E’ scritto, nero su bianco, in uno studio commissionato all’università austriaca di Innsbruck dalla stessa società costruttrice, e tenuto ben chiuso in un cassetto dal governo. «Ma noi del Movimento 5 Stelle siamo riusciti ad aprire quel cassetto e a rivelarne il contenuto», afferma deputato trentino Riccardo Fraccaro. La linea Tav del Brennero? «Un’opera mastodontica di cui nessuno parla, ma che supera per impegno di spesa anche quella della valle di Susa». Stesso copione: zero trasparenza, e tecnici indipendenti pronti a dimostrare l’assoluta inutilità dell’opera. Secondo gli scienziati di “Public Health”, un dossier di mille pagine rimasto «nascosto per otto anni» dimostra che quell’opera «non serve né per migliorare in modo significativo la salute pubblica né per diminuire il traffico merci autostradale e quindi l’inquinamento che ne deriva».Il progetto, spiegano i parlamentari 5 Stelle sul blog di Grillo, prevede la realizzazione della “galleria di base” del Brennero (55 chilometri da Innsbruck a Fortezza, di cui 23 in territorio italiano) e le tratte di accesso sud che collegherebbero Fortezza a Verona. Su 218 chilometri di tracciato, dal confine a Verona, dovrebbero essere scavati 191 chilometri di gallerie. Obiettivo: trasferire sulla futura linea il traffico merci che attualmente si serve dell’autostrada A-22 del Brennero e della ferrovia storica. «Tutti condizionali d’obbligo: nel 2006, quando lo studio sugli effetti che la galleria di base avrebbe prodotto fu consegnato, la previsione era che il tunnel sarebbe entrato in esercizio per il 2015». In realtà, oggi i chilometri scavati sono ben pochi, appena due. Secondo l’Italia, il tunnel di base costerebbe 9,7 miliardi, mentre secondo la Corte dei Conti austriaca 24. Tutto il progetto, secondo stime indipendenti, verrebbe a costare 63 miliardi di euro, in difetto.Leggendo il “Public Health”, continuano i grillini, si capisce bene perché è stato chiuso nei cassetti dalla Bbt Se, la società che sta costruendo l’opera e che è per metà austriaca e per metà italiana (posseduta da Rfi più le province di Bolzano, Trento e Verona). Al 2015 – si legge nel rapporto – il nuovo tunnel sarebbe stato in grado di assorbire solo la crescita di traffico su gomma prevista, lasciando sulla A-22 un numero di Tir esattamente uguale al passato. «Opera inutile, dunque, visto che lungo l’autostrada si registrano emissioni inquinanti superiori del 50% ai limiti imposti dall’Ue». Secondo lo studio, infatti, a galleria di base ultimata si registrerebbe una riduzione del 12% degli inquinanti, «ma ciò sarebbe dovuto alla prevedibile evoluzione tecnologica dei camion e non allo spostamento di traffico determinato dalla nuova ferrovia». Secondo i promotori della maxi-opera, nel 2012 avrebbero dovuto essere trasportate sulla A-22 41 milioni di tonnellate di merci, che sarebbero state ridotte a 32 con il nuovo tunnel. Invece nel 2012 le merci su gomma non superavano le 29 tonnellate.«Trascurabili», inoltre, gli effetti positivi sull’ambiente e sulla salute, dato che non è previsto lo spostamento del traffico merci dalla gomma alla rotaia. «Il rumore elevato e l’inquinamento non si ridurrebbero», calcolano i medici di Innsbruck. Per farlo, sarebbe necessario introdurre barriere acustiche e materiale rotabile moderno. E soprattutto, utilizzare al massimo la ferrovia storica, oggi impiegata appena al 30% della sua capacità. Il Movimento 5 Stelle chiede di incentivare il traffico merci ferroviario, disincentivando quello su gomma: «Si dovrebbe infatti equiparare il pedaggio della A-22 a quello degli altri valichi alpini: più della metà del traffico di Tir della A-22 transita al Brennero, pur allungando il tragitto, perché costa 6 volte di meno rispetto alle autostrade austriache e svizzere».«Costerà 63 miliardi la più onerosa e imponente opera pubblica italiana, ed è del tutto inutile». E’ scritto, nero su bianco, in uno studio commissionato all’università austriaca di Innsbruck dalla stessa società costruttrice, e tenuto ben chiuso in un cassetto dal governo. «Ma noi del Movimento 5 Stelle siamo riusciti ad aprire quel cassetto e a rivelarne il contenuto», afferma deputato il trentino Riccardo Fraccaro. La linea Tav del Brennero? «Un’opera mastodontica di cui nessuno parla, ma che supera per impegno di spesa anche quella della valle di Susa». Stesso copione: zero trasparenza, e tecnici indipendenti pronti a dimostrare l’assoluta inutilità dell’opera. Secondo gli scienziati di “Public Health”, un dossier di mille pagine rimasto «nascosto per otto anni» dimostra che quell’opera «non serve né per migliorare in modo significativo la salute pubblica né per diminuire il traffico merci autostradale e quindi l’inquinamento che ne deriva».
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Seminare avvenire: orticoltori di tutta Europa unitevi
E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.Piccolo è bello: mai stato più vero. «Da parte nostra – dice Marie Beysson, giovane coltivatrice di peperoni nella zona del Vaucluse – si tratta di offrire ai consumatori un’alternativa valida, permettendo loro di assaggiare sapori diversi». Fa eco il conterraneo Thierry Varis: «Rinunciare agli ibridi e puntare sui semi autoprodotti significa scommettere sul valore del gusto e della genuinità». Filiere corte, chilometri zero, economia locale dei territori. Volendo, sovranità alimentare. E riconversione ecologica del sistema produttivo. Decrescita virtuosa: se ad essere tagliati sono gli sprechi (trasporti, carburante, energia) ci guadagnano tutti. Il video “Seminare futuro”, che documenta il ciclo vitale del progetto, offre un piccolo affresco di umanità resistente, pienamente consapevole del difficile momento mondiale. «Noi teniamo duro – taglia corto Alberto Lombardo, dalla valle di Susa – perché la salvaguardia del territorio non ha prezzo, e la piccola agricoltura locale resta un baluardo».La pensa così anche Eraldo Dionese, agricoltore-poeta delle Langhe, con all’attivo libri di versi pubblicati da Vallecchi. Eraldo è un “mago” dei fagioli: i suoi “scozzesi” vanno a ruba, contesi dai gruppi d’acquisto solidale. Dice: «Il mercato ci ha abituati a “comprare con gli occhi”, trascurando gli ortaggi più rari e più validi: bisogna impegnarsi a farli sopravvivere, bisogna crederci». Il progetto – presentato nel sito ufficiale – è anche una piccola narrazione di ritrovamenti fortunati. «Lavorando negli impianti vinicoli di Gigondas, a nord di Avignone – racconta Françoise Genies – un giorno mio marito si è imbattuto in un pomodoro particolarissimo, assolutamente delizioso e sconosciuto: l’ho recuperato, e ora è diffuso in diverse zone del Vaucluse, per la felicità dei consumatori». Il paniere della “rete transfrontaliera” trabocca di delizie poco note: la cipolla piatta di Leinì, il prelibato ravanello di Moncalieri, il pisello “quarantin” di Casalborgone, l’insalatina invernale di Castagneto Po che cresce anche sotto la neve.Sul versante francese si segnalano varietà rare come la lattuga sanguigna, coltivata dai suoi agricoltori-custodi sulle colline di Saignon in una sorta di campo sperimentale per le biodiversità orticole, coordinato da Jean-Luc Danneyrolles e Hervé Coullet. Ci sono melanzane locali, pomodori-cachi, peperoncini della Costa Azzurra e peperoni come quello di Lagnes, recuperati grazie alle risorse genetiche di un istituto come l’Inra e ora al centro di un vasto programma di reintroduzione, per dare vita a una filiera locale in grado di realizzare sul posto anche la trasformazione del prodotto. Piccoli passi, ma significativi, partendo dalle verdure di stagione, che grazie all’impegno degli agricoltori-custodi stanno tornando stabilmente sui mercati locali. «E sono tutti prodotti rustici, robusti», assicura Vianney Le Pichon. Ortaggi conservati per generazioni dalla sapienza contadina, oggi trasferita a quelli che vengono chiamati “seed savers”.Orticoltori di tutta Europa unitevi. Il momento è propizio: sotto i colpi della crisi economica, cresce ovunque il ritorno alla passione per l’orto, come dimostra anche il proliferare degli orti urbani nelle grandi città. Il progetto transfrontaliero, fondato sull’incontro sistematico tra italiani e francesi, lascia intravedere un germe di futuro, un possibile modello socio-economico alternativo e pieno di vantaggi: «C’è più autonomia per gli agricoltori, che scelgono di coltivare i prodotti che preferiscono», dice Massimo Pinna, «e al tempo stesso più scelta per i consumatori, a cui si offrono varietà locali e genuine». Un modello da replicare: condividendo i suoi saperi sulla coltivazione del proprio prodotto, ogni singolo agricoltore più aiutarlo a sopravvivere e diffondersi, scongiurando l’estinzione. «Il nostro nemico infatti è l’erosione genetica, che impoverisce il patrimonio della biodiversità europea», dice Antonio Balbo, di Leinì. «Coltivare ortaggi locali – insiste Alberto Lombardo – significa anche fare cultura, perché dietro di essi c’è sempre l’umanità».C’è da augurarsi che la “rete delle biodiversità” valichi altri confini europei, sviluppando un’alleanza ecologica e sostenibile fra territori, contadini, consumatori. Del resto, le vie dei semi sono infinite: «Ho recuperato un fagiolo in via di estinzione, il “crochet di Nizza”, grazie a un’appassionata italiana che ho incontrato casualmente a una fiera», racconta Arnaud Dauvillier, agricoltore a Sisteron nella valle della Durance. «Io invece ho già provato a piantare nel mio terreno, con ottimi risulati, i semi che ho ricevuto dai colleghi italiani: sono prodotti come il cavolfiore di Moncalieri e il peperone di montagna», racconta Sylvain Martin, che riesce a coltivare ottimi ortaggi in alta montagna, nel parco nazionale francese degli Écrins. Loris Leali, originario del lago di Garda, si è trasferito in Provenza e ha impiantato un’azienda biologica sulle alture che sovrastano Nizza, a Massoins, nella valle del Var: «Spero che domani i semi recuperati da questo progetto possano diventare patrimonio comune», dice. «Abbiamo bisogno di conoscerci, di essere uniti e solidali, di scambiarci saperi». Anche questa è Europa, sebbene non parli la lingua fredda di Bruxelles.E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.
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Quando la nostra Europa tornerà nelle strade
«Perché l’America è nata nelle strade», recitava il trailer del kolossal di Martin Scorsese, “The gangs of New York”. E l’Europa di Bruxelles dov’è nata, esattamente? In quali fogne? Nello scantinato di quale tenebroso alchimista? L’Europa vera, l’unica che conti, è da sempre interamente privatizzata. Porta il nome di European Roundtable of Industrialists. E detta ogni giorno le sue condizioni, le future leggi che già l’indomani puniranno i sudditi. Li emana, i suoi diktat, sicura di essere obbedita, all’istante, da servitori opachi e zelanti come José Manuel Barroso. Lui, il portoghese venuto dal nulla, che ai potenti di Bruxelles deve tutto. E’ l’uomo che dall’alto del suo palazzo guarda il suo Portogallo bruciare di rabbia e di fame, mentre, en passant, transita negli innocui salotti televisivi, incluso quello italiano di Fabio Fazio, a ricordare che anche l’Italia “può e deve” fare di più per amputare, senza anestesia, tutto quello che resta del suo stato sociale. Il vero benessere diffuso – infrastrutture, stipendi, servizi vitali – non si chiama più neppure welfare, ma direttamente “debito pubblico”. Sottinteso: è una colpa vergognosa, un problema, un male da estirpare. Come del resto il diritto a una vita dignitosa, a uno straccio di futuro.Dopo vent’anni, ci si accorge all’improvviso che l’attuale Unione Europea è nemica, è interprete di una forma di barbarie particolarmente subdola e disonesta perché non urla le sue livide minacce di guerra e non sventola svastiche. Eppure ha tutt’altro scopo che la promozione dell’umanità. E’ un abile artificio autoritario, costruito con l’inganno. E’ la tomba dell’Europa democratica e popolare, assassinata e poi risorta dal nazifascismo. Non è il Parlamento di Strasburgo regolarmente eletto a governare il continente, ma uno sparuto clan di servitori, agli ordini della Ert e delle altre lobby onnipotenti, che infestano l’anonima capitale belga coi loro costosi uffici e i loro budget miliardari con un unico obiettivo: ordinare alla Commissione di ammantare di legalità le regole assolute del loro business oligarchico progettato per la grande crisi, in tempi di coperta corta. E’ il business della globalizzazione totalitaria e recessiva, in base alla quale retrocedere al medioevo quelli che fino a ieri erano cittadini e lavoratori, consumatori ingenui e inguaribilmente ottimisti.Per tutti loro, miseri e volgari untermenschen, la ricreazione è finita: devono abituarsi all’idea. Lo stato di eccezione – la Grecia insegna – deve diventare la nuova, raggelante normalità. L’orizzonte politico finale è chiaro: la definitiva rassegnazione collettiva. Ci saranno proteste iniziali, grida, dimostrazioni. Ma poi sulle prime fiammate di insofferenza calerà la coltre quotidiana della fatica, il sipario del conforto televisivo fatto di favole, la maschera rassicurante dell’ultimo pagliaccio travestito da politico. E ciascuno, lentamente, tornerà alla sua usuale solitudine, al deserto freddo da cui affrontare – senza più aiuti – l’atroce puntualità degli strozzini.Ci saranno ancora grida, là fuori, ma per attutirne l’urto basterà chiudere le finestre, almeno per il momento. Chiudere le finestre e anche gli occhi, di fronte allo spettacolo quotidiano dei negozi che chiudono, delle aziende che licenziano, degli anziani che frugano tra gli scarti del mercato o mendicano smarriti la carità di una prenotazione per esami clinici nell’ospedale di quartiere martoriato dai tagli e trasformato in centro di primo soccorso per rifugiati di guerra. Così, sempre più velocemente, la mala pianta dell’odio concimata dalla paura ricomincerà a germogliare, rispolverando idiomi che credevamo sepolti per sempre nel cimitero della storia – noi incorreggibili italiani, voi maledetti tedeschi, i soliti presuntuosi francesi.Dopo un sonno lunghissimo, molti studiosi e paludati accademici si risvegliano, e persino qualche politico comincia a rialzare la testa, a denunciare l’imbroglio, a segnalare il pericolo che incombe. Negli ultimi due anni – un manciata di mesi – le analisi si sono fatte acuminate, lo sguardo è stato messo a fuoco con crescente lucidità. Si spera nelle elezioni europee del maggio 2014, che forse saranno un primo vero avvertimento sulla necessità di un’inversione di rotta. Si inizia a delineare una meta – dal nome antico: democrazia – ma senza ancora disporre di una strategia per raggiungerla. Cioè strumenti di pressione, azioni politiche determinanti, rapporti di forza e strumenti da impugnare per costringere gli oligarchi a cedere il loro attuale potere assoluto.L’unico leader occidentale disposto a scendere sul terreno della rivendicazione diretta è Marine Le Pen, che minaccia l’uscita della Francia dall’Unione Europea e dalla sua prigione economica, la non-moneta privatizzata chiamata euro. Ma Marine Le Pen si appella alla nostalgia del suo popolo per la celebrata grandeur nazionale, e – per rimarcare identità elettorale e visibilità – non recede di un millimetro dalla antica crociata contro gli stranieri, cioè i poveri del sud e dell’est. Ancora vaga, suggestiva ma del tutto ipotetica, la proposta di candidare (virtualmente) il greco Tsipras alla guida di Bruxelles, per costituire un cartello organizzato, in grado di esprimere finalmente la voce legittima di centinaia di milioni di europei presi al laccio dai signori della crisi.C’è poi un’altra Europa, che per fortuna non ha mai smesso di esistere. E’ l’Europa che sognavano anime isolate e profetiche come quella di Alex Langer, eretico pioniere dell’ambientalismo come frontiera democratica, basata sulla riconversione sostenibile dell’economia partendo dai territori, dalle filiere corte, quelle che possono contrastare i monopoli irresponsabili che oggi stanno facendo a pezzi il mondo, trascinandolo verso una guerra cieca e disperata. Erano sodali di Langer gli ambientalisti della piccola e periferica valle di Susa che lottarono con successo – insieme ai francesi – per bloccare i maxi-elettrodotti destinati a trasferire in Italia l’energia elettrica prodotta dalla vicinissima centrale nucleare di Creys-Malville, pericolosa perché prossima a Torino e continuamente funestata da incidenti.Quei valsusini lottarono con successo, sempre insieme ai francesi, per scongiurare la costruzione di una nuova autostrada e un nuovo traforo che avrebbe devastato l’area alpina del Monginevro e la valle della Clarée, gioiello naturale transalpino al confine con l’Italia. Il comandante in capo, il sommo protettore politico di ogni grande opera infrastrutturale devastante e inutile, sul versante francese era un certo Michel Barnier, allora governatore locale. Le élite economico-finanziarie che ha servito con tanto zelo gli hanno garantito una super-carriera: oggi monsieur Barnier è il potentissimo “ministro delle finanze” della Commissione Europea.Quell’Europa “nata nelle strade”, per la precisione lungo quelle che collegano Torino a Lione, aveva capito in anticipo molte cose. La prima, fondamentale: la politica, qualsiasi politica, non può che camminare sulle gambe delle persone comuni, disposte a battersi con onestà per affermare un’idea irrinunciabile di giustizia. Italiani e francesi manifestano insieme sui sentieri di Chiomonte, nelle piazze di Lione presidiate dalle forze antisommossa, e affrontano insieme la battaglia per salvare l’area naturale di Notre-Dames-des-Landes, in Guascogna, che la super-multinazionale Vinci vorrebbe asfaltare per far posto a un inutile, mostruoso aeroporto. Sono sempre loro, italiani e francesi, ad aver firmato nel 2010 la Carta di Hendaye, nel paese basco, per affermare che la comunità civile non può più tollerare l’abuso del business che devasta la Terra sulla base di ciniche menzogne, solo per arricchire una casta di super-predatori, protetti dalla copertura legale offerta dalla mafia di Bruxelles.Questa Europa esiste, e a volte ha saputo far parlare di sé, nonostante la feroce interdizione dei media. Negare la verità, dice il generale Fabio Mini, è il primo vero atto di guerra contro tutti noi. Impegnarsi a farla circolare, la verità, oggi più che mai è una meta decisiva. Non solo per “fermare il mostro”, ma per costruire umanità e veicolare le idee necessarie a un’economia democratica, orientata al benessere. Pace, democrazia, convivenza, sostenibilità: oggi, nel delirio autistico del mainstream neoliberista, sembrano gli slogan di un programma eversivo e folle, nell’Italia cannibalizzata dai predoni e appaltata ai loro pallidi maggiordomi. Non è difficile, basterebbe dire: per tutti, o per nessuno. Di queste idee dovrà essere armata, la nostra Europa, quando tornerà nelle strade a dire che nessuno sarà mai più lasciato solo.(Giorgio Cattaneo, “Quando la nostra Europa tornerà nelle strade”, da “Megachip” del 27 dicembre 2013).«Perché l’America è nata nelle strade», recitava il trailer del kolossal di Martin Scorsese, “The gangs of New York”. E l’Europa di Bruxelles dov’è nata, esattamente? In quali fogne? Nello scantinato di quale tenebroso alchimista? L’Europa vera, l’unica che conti, è da sempre interamente privatizzata. Porta il nome di European Roundtable of Industrialists. E detta ogni giorno le sue condizioni, le future leggi che già l’indomani puniranno i sudditi. Li emana, i suoi diktat, sicura di essere obbedita, all’istante, da servitori opachi e zelanti come José Manuel Barroso. Lui, il portoghese venuto dal nulla, che ai potenti di Bruxelles deve tutto. E’ l’uomo che dall’alto del suo palazzo guarda il suo Portogallo bruciare di rabbia e di fame, mentre, en passant, transita negli innocui salotti televisivi, incluso quello italiano di Fabio Fazio, a ricordare che anche l’Italia “può e deve” fare di più per amputare, senza anestesia, tutto quello che resta del suo stato sociale. Il vero benessere diffuso – infrastrutture, stipendi, servizi vitali – non si chiama più neppure welfare, ma direttamente “debito pubblico”. Sottinteso: è una colpa vergognosa, un problema, un male da estirpare. Come del resto il diritto a una vita dignitosa, a uno straccio di futuro.
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La Svizzera: Torino-Lione inutile, non ci sono più merci
L’ultima barzelletta sulla Torino-Lione la raccontano gli svizzeri, solitamente noti per la loro austera serietà. E infatti non si scherza neanche stavolta: perché all’appello non mancano i binari, ma le merci. In valle di Susa, si apprende, transita appena un decimo del carico che già ora potrebbe essere tranquillamente trasportato. Attenzione: a essere semi-deserta è la linea ferroviaria attuale, la Torino-Modane, appena riammodernata. Inappellabile la sentenza dei numeri: il traffico alpino Italia-Francia è letteralmente crollato. Anziché nuove linee, servirebbero treni da far circolare sulla ferrovia che già esiste. E invece – questa è la “barzelletta” – il governo italiano pensa sempre di costruire ex novo il più costoso e inutile dei doppioni, la famigerata linea Tav a cui la valle di Susa si oppone da vent’anni con incrollabile determinazione, confortata dai più autorevoli esperti dell’università italiana. Tutti concordi: la super-linea Torino-Lione (il doppione) sarebbe devastante per l’ambiente, pericolosa per la salute e letale per il debito pubblico, dato che costerebbe almeno 26 miliardi di euro. Ma soprattutto: la grande opera più contestata d’Italia sarebbe completamente inutile.L’ennesima conferma ufficiale viene dall’ultimo rapporto dell’Uft, l’ufficio federale dei trasporti elvetico. Si tratta della raccolta totale dei dati delle merci – su strada e su ferrovia – che attraversano annualmente tutti i valichi alpini, da Ventimiglia fino a Wechsel, a sud di Vienna. Da giugno 2002, questo studio è seguito anche dall’Osservatorio del traffico merci nella Regione Alpina dell’Unione Europea. Su tutti i valichi italo-francesi (Ventimiglia, Monginevro, Moncenisio, Fréjus e Monte Bianco) sono passati complessivamente 22,4 milioni di tonnellate di merci, sia su strada che su ferrovia, rispetto al totale di 190 milioni dell’intero arco alpino. Quanto alla valle di Susa, lo stesso osservatorio tecnico istituito dal governo italiano ha stabilito in 32,1 milioni di tonnellate annue la capacità della attuale ferrovia a doppio binario, la linea “storica” che già collega Torino a Lione attraverso Modane. La valutazione risale al 2007, ma ora la linea è stata ulteriormente ammodernata: nel traforo del Fréjus possono transitare treni con a bordo Tir e grandi container. Il “problema”? Presto detto: nell’ultimo anno, in valle di Susa sono transitate appena14 milioni di tonnellate di merci. E di queste, solo 3,4 su ferrovia.«I numeri parlano chiaro», commenta Luca Giunti, attivista No-Tav e referente tecnico per la Comunità Montana valsusina: «Il traffico globale tra Italia e Francia avrebbe potuto tranquillamente essere ospitato soltanto sull’attuale ferrovia, e senza neppure riuscire a saturarla completamente. Invece, sulla direttrice della val Susa è transitato appena un decimo delle merci trasportabili». E il confronto con i rapporti degli anni precedenti, tutti disponibili sul sito svizzero, conferma un trend in continua diminuzione sul versante occidentale delle Alpi, iniziato ben prima della crisi del 2008, mentre a crescere è il trasporto transalpino verso Svizzera e Austria. Motivo: «Italia e Francia hanno economie mature, interessate soltanto da scambi commerciali di sostituzione, mentre il percorso nord-sud collega il centro e l’est Europa con i mercati orientali in espansione». Per contro, la frontiera di Ventimiglia ha accolto, da sola e quasi interamente su strada, 17,4 milioni di tonnellate, 3 in più di quelle piemontesi. «Laggiù la ferrovia ha stretti vincoli e andrebbe ammodernata, con spese e disagi tutto sommato contenuti perché si lavorerebbe a livello del mare e senza dover traforare le montagne. Inspiegabilmente, invece, quel passaggio è trascurato da ogni politica».Anziché potenziare il valico di Ventimiglia, il governo italiano insiste – contro ogni ragionevolezza – nel voler realizzare ad ogni costo il “doppione” valsusino: cioè il progetto «più difficile, più costoso e lapalissianamente più inutile». Decine di miliardi di euro, con benefici attesi soltanto per il lontanissimo 2070, «ma solo se le mostruose previsioni di incremento dei traffici saranno rispettate: ed evidentemente non lo sono!». Ne tiene conto sicuramente la Francia, che ha già escluso la Torino-Lione della sua agenda lavori: l’opera verrà ripresa in considerazione, eventualmente, solo dopo il 2030. In Italia è aperto solo il mini-cantiere di Chiomonte: da quella galleria però non transiterà mai nessun treno, perché quello in via di realizzazione è solo un piccolo tunnel geognostico. Terminato il quale, il buon senso consiglierebbe di fermarsi, tanto più che – a valle di Susa – la stessa progettazione operativa della futura linea, verso Torino, è praticamente ancora inesistente. «Quando si prenderà finalmente atto che il progetto della Torino-Lione è vecchio, inutile ed esoso?», conclude Giunti. «Quando, semplicemente, si rispetteranno i documenti ufficiali e gli atti governativi?». Parlano chiaro persino quelli italiani: le iniziali previsioni di incremento si sono rivelate pura fantascienza, messe a confronto con la realtà. Già oggi, conferma la Svizzera, in valle di Susa il traffico potrebbe crescere del 900%. E senza bisogno di nuove ferrovie.L’ultima barzelletta sulla Torino-Lione la raccontano gli svizzeri, solitamente noti per la loro austera serietà. E infatti non si scherza neanche stavolta: perché all’appello non mancano i binari, ma le merci. In valle di Susa, si apprende, transita appena un decimo del carico che già ora potrebbe essere tranquillamente trasportato. Attenzione: a essere semi-deserta è la linea ferroviaria attuale, la Torino-Modane, appena riammodernata. Inappellabile la sentenza dei numeri: il traffico alpino Italia-Francia è letteralmente crollato. Anziché nuove linee, servirebbero treni da far circolare sulla ferrovia che già esiste. E invece – questa è la “barzelletta” – il governo italiano pensa sempre di costruire ex novo il più costoso e inutile dei doppioni, la famigerata linea Tav a cui la valle di Susa si oppone da vent’anni con incrollabile determinazione, confortata dai più autorevoli esperti dell’università italiana. Tutti concordi: la super-linea Torino-Lione (il doppione) sarebbe devastante per l’ambiente, pericolosa per la salute e letale per il debito pubblico, dato che costerebbe almeno 26 miliardi di euro. Ma soprattutto: la grande opera più contestata d’Italia sarebbe completamente inutile.
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Tav, bombe e menzogne: storia di una vergogna nazionale
Massimo Numa, destinatario di un misterioso pacco-bomba recapitatogli alla redazione della “Stampa”, è il giornalista più noto in valle di Susa, e il più temuto. Nella rovente estate 2011, gli attivisti lo accusarono direttamente: sostennero che proprio dal suo computer era partita una email-fantasma, firmata “Alessio”, nella quale si tentava di sostenere che un militante No-Tav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno il 23 luglio, fosse in realtà finito all’ospedale per essere semplicemente “caduto da solo”. Lo stesso Numa ammise che quella velenosa mail, palesemente destinata a inquinare la verità, era stata davvero inviata dal suo ufficio, anche se – disse – non era stato lui a spedirla. Nonostante questo increscioso episodio, non solo Numa è rimasto regolarmente in servizio alla redazione della “Stampa”, ma il direttore del giornale, Mario Calabresi, gli ha consentito di continuare a occuparsi quotidianamente della drammatica vertenza della valle di Susa, come se nulla fosse accaduto.
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Manghi: se fossi un pro-Tav, io quei terroristi li pagherei
«Due visioni alternative dell’economia e del rapporto uomo-natura si fronteggiano in cagnesco, fino alla militarizzazione del territorio e al sabotaggio eversivo. Così, un presagio cupo ha preso a serpeggiare per la valle: che adesso ci scappi il morto, perché questi meravigliosi panorami alpini, come denuncia il procuratore torinese Gian Carlo Caselli, rischiano di trasformarsi nell’epicentro dell’antagonismo di tutto il continente europeo». Forse, ai sostenitori della Torino-Lione «potrebbe far comodo ridimensionare a controparte irresponsabile quello che è stato indubbiamente un movimento di popolo No Tav, talmente vasto da avere regalato al “Movimento 5 Stelle” percentuali di voto superiori al 40% perfino in comuni moderati come Susa». Parola di Gad Lerner, il primo opinion leader italiano ad aver ospitato la protesta valsusina in televisione, già nel 2005, quando il movimento No-Tav fece esplodere la protesta nonviolenta che costrinse il governo a ritirare il primo progetto della grande opera più controversa d’Europa.