Archivio del Tag ‘alternativa’
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Castells: grazie a Internet, la libertà non è più utopia
Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.Lo spiega in un dialogo con Tomás Ibañez, a cui dobbiamo un ottimo “elogio del relativismo” pubblicato da Elèuthera nel 2012 (”Il libero pensiero”). Elèuthera ora ripropone anche questo botta e risposta informale, pubblicato in Spagna nel 2006. Titolo: “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”. Un libretto agile. Più che altro un’introduzione al tema. In cui si sostiene che l’era digitale ha creato le condizioni perché l’anarchismo (lui lo definisce “neoanarchismo”) e il pensiero libertario tornassero d’attualità. «Nella società attuale esiste un’esigenza di libertà» che va al di là dell’ideologia o delle battaglie condotte dai nuovi movimenti “alteromondisti”. E’ una questione empirica e strutturale. Ha a che vedere con la possibilità di costituire facilmente «reti di relazioni tra individualità», quindi non più individui atomizzati che subiscono passivamente il mercato anonimo e la comunicazione di massa.I movimenti si auto-organizzano e a volte riescono a darsi strutture autonome senza gerarchie stabilite, che lavorano in una sorta di assemblea permanente (una delle pratiche utopiche tipiche del pensiero anarchico). D’altra parte oggi è «la stessa struttura produttiva a richiedere, per essere più efficiente di prima, un funzionamento basato su strutture organizzative non gerarchizzate». Sta cambiando anche il modello di sviluppo, nel quale si intravvedono «modalità e relazioni che si allontanano dalle posizioni propriamente capitaliste e che si avvicinano al libertarismo». Nei tempi in cui viviamo, lo Stato, contro cui ha tradizionalmente lottato l’anarchismo, è diventato uno “strumento di dominio secondario”. La battaglia si è spostata sul piano della produzione e diffusione delle idee.E’ vero che le tecnologie informatiche non sono in grado di «promuovere, di per sé, un cambiamento sociale positivo», anche perché consentono alle autorità di avere un controllo senza precedenti sugli individui e le reti che li uniscono. Ma è pur vero che si tratta di “tecnologie di libertà” malleabili, flessibili: sono insomma un’occasione senza precedenti. Attraverso Internet ti possono sorvegliare, certo, ma potevano farlo anche prima, la differenza è che ora, grazie a Internet (a un suo utilizzo consapevole) «anche tu li puoi sorvegliare». Molto utile la postfazione di Andrea Staid, che mette i puntini sulle “i” e aggiorna il dialogo ai tempi (recentissimi) delle cosiddette “wikirivolte”, i nuovi movimenti insurrezionali che hanno spazzato via dittature longeve «nel più completo stupore delle democrazie occidentali».Non c’è rivoluzione che non abbia sfruttato il medium dell’epoca (una citazione di Foucault ci ricorda la funzione rivoluzionaria dei discorsi di Khomeini diffusi sotto forma di audiocassette) e quindi anche i social media possono essere uno strumento importante. Ma non potranno mai sostituire «la condivisione fisica delle emozioni» che avviene nelle strade e nelle piazze. Staid avverte: «Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che sarà la rete a salvarci… Non basterà Internet per risolvere il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sugli animali, sulla terra. La mutazione culturale libertaria deve essere in grado di penetrare nelle reti di rapporti reali fra esseri umani». Insomma, la cara vecchia battaglia per “decostruire il dominio”». Una cosa è certa: il pensiero libertario (l’anarchismo) non può che essere pluralista, “in divenire” e anti-dogmatico, si deve nutrire di una “concezione relativista critica”, quindi deve essere in grado di adattarsi ai contesti e alle circostanze, soprattutto oggi, in un’epoca in cui, come dice Castells, «il nodo problematico che caratterizza la società rimanda all’idea di libertà», che non può essere solo quella dell’individuo ma la «libertà di tutti».(Fabrizio Tassi, “Tecnologie di libertà”, da “Micromega” dell’11 marzo 2014. Il libro: Manuel Castells e Tomàs Ibañez, “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”, Eléuthera, 67 pagine, 7 euro).Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.
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Sveglia, sinistra: i nemici dell’Europa sono l’euro e l’Ue
La sinistra vorrebbe “un’altra Europa”, completamente rifondata? Errore: prima bisogna radere al suolo «l’attuale architettura dell’Unione Europea» e, letteralmente, «demolire i presupposti alla base dell’unione monetaria». Riformare i trattati vigenti? Missione impossibile, spiega Enrico Grazzini: per modificare il Trattato di Maastricht e lo statuto della Bce occorre l’unanimità del voto di tutti i 28 paesi Ue. A bloccare tutto basterebbe l’opposizione di un solo Stato, di un solo governo. «E’ più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli». L’Unione Europea, semplicemente, non è riformabile. E’ un non-Stato, un mostro giuridico che «opprime i popoli». Nient’altro che «una istituzione intergovernativa diretta dalla finanza e guidata da una sola nazione, la Germania», nonché «debolmente legittimata da un Parlamento senza potere», peraltro «eletto nel 2009 solo dal 43% dei cittadini europei». Ergo: impossibile fondare “l’Europa dei popoli” partendo da questa Unione Europea.«Oggi – scrive Grazzini su “Micromega” – bisogna avere il coraggio di affrontare dei punti di frattura con il governo di questa Ue che nessun cittadino europeo ha eletto, che toglie sovranità alle nazioni e schiaccia i popoli in difficoltà». I promotori della “Lista Tsipras” hanno scelto di non fidarsi più della socialdemocrazia europea, e in Italia del Pd, «che sono tra i promotori e complici di obbrobri ultraliberisti come il Fiscal Compact – cioè il taglio selvaggio della spesa pubblica in tempi di crisi – e il pareggio in bilancio in Costituzione». Anche il governo Renzi, dopo quelli di Letta e di Monti, «si fa garante del rispetto dei crescenti vincoli europei». Grazzini non ha dubbi: «Siamo già allo stremo, ma se seguiremo la politica della Ue e di Renzi faremo la fine della Grecia». E dal centrosinistra, solo e sempre propaganda: a parole, Martin Schulz è contro la disastrosa politica europea di intransigenza liberista, ma la Spd «ha finora promosso la deregolamentazione finanziaria e la famigerata politica autoritaria europea di disoccupazione e di immiserimento della Ue».La cieca politica di austerità dettata dalla Ue e dalla Troika (Bce, Fmi, Ue) sarà sempre più intrusiva, rigida e antisociale, continua Grazzini. «La Ue impone ai governi di tagliare il costo del lavoro e il welfare in nome della competitività. La sua politica è destinata a provocare crisi economiche e democratiche dei paesi sottoposti ai suoi diktat, o anche a provocare il crollo dell’euro (e quindi della Ue stessa)». Romano Prodi, già presidente della Commissione Europea e protagonista dello sciagurato ingresso dell’Italia nell’Eurozona, oggi ha preso atto della politica egemonica tedesca e propone di costruire un’alleanza alternativa tra Italia, Francia e Spagna e gli altri paesi del Sud Europa per contrastare «la folle (ma lucida) politica della Merkel». Soluzione impraticabile, avverte l’ex ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, intervistato dal “Corriere della Sera”: la Francia del socialista Hollande non accetterà mai di allearsi con noi, perché ha fatto della partnership con la Germania sull’euro il suo scudo (di latta) di fronte alla speculazione internazionale.Nulla all’orizzonte che preluda a qualcosa di diverso dal disastro nel quale stiamo sprofondando: «Ormai i bilanci dei paesi Ue vengono decisi non dai parlamenti e dai governi nazionali ma in maniera preventiva a Bruxelles, Francoforte e Berlino. E chi sgarra avrà delle sanzioni e poi verrà commissariato dalla Troika». Il disinvolto Renzi? «Magari otterrà qualche contentino da Bruxelles, ma il suo governo probabilmente cadrà proprio perché sarà costretto a trasmettere le politiche impopolari dettate dalla Ue», fatte di «lavoro sempre più precario, chiusura di aziende, disoccupazione dilagante ed eliminazione dei servizi sociali». Risultato: «Così dalla crisi non usciremo mai. E la crisi, soprattutto in Italia, potrebbe diventare irreversibile. La Grecia è vicina».Per rifondare l’Europa, dice Grazzini, occorre essere euroscettici. La sinistra respinge l’euroscetticismo come marchio infamante, denunciando le destre nazionaliste, xenofoba e neofasciste, il populismo nazionalista anti-europeo, senza vedere il vero pericolo, cioè l’autoritarismo dell’Ue e che fa a pezzi la nostra libertà, la nostra democrazia. «L’euroscetticismo ci riporta alla realtà», avverte Grazzini, citando uno dei maggiori storici marxisti, Eric Hobsbawn, fa poco scomparso, pessimista sul futuro europeo: «Penso che bisognerà abbandonare la speranza di trasformare l’Unione Europea in qualcosa di più di una semplice alleanza di Stati e di una zona di libero scambio». Troppo diversi gli interessi delle diverse aree, troppo liberista l’ideologia della Ue e troppo forte l’egemonia della Germania, ciecamente convinta «dell’austerità forzata e di questa architettura deflazionista e repressiva dell’euro perché sia possibile invertire facilmente la direzione di marcia».L’Europa unita, continua Grazzini, è importante se offre cooperazione, pace, democrazia e benessere dei popoli, non se genera povertà, disoccupazione, divisione e democrazie autoritarie e magari conflitti sanguinosi. «L’unione europea va, se possibile, salvaguardata nelle sue parti migliori, ma non adorata». Sicché, «occorre lottare per democratizzare la Ue e per dare al Parlamento Europeo il potere di fare proposte di legge», potere oggi affidato alla sola Commissione. La parola chiave, per uscire dal tunnel, si chiama sovranità. «E’ indispensabile rivalutare la sovranità nazionale, e quindi anche la sovranità monetaria», perché «solo recuperando la sovranità nazionale è possibile che i popoli possano difendersi dalle rigide politiche liberiste e neocoloniali della Ue e della Germania, e sperimentare nuovi modelli di sviluppo sostenibile. Solo così i governi europei potranno trovare delle forme efficaci di cooperazione per resistere alla speculazione finanziaria internazionale».Grazzini propone apertamente un’uscita concordata dall’euro, non-moneta palesemente insostenibile. «Bisognerebbe abolire il Trattato di Maastricht e concordare politicamente il ritorno alla sovranità monetaria degli Stati». Per prevenire la speculazione internazionale, la Ue e la Bce dovrebbero però anche creare e gestire, sulle orme di quanto proponeva Keynes a Bretton Woods, una moneta comune europea, l’Euro-Bancor, di fronte al dollaro e allo yen. «Purtroppo però gran parte (ma non tutta) della sinistra radicale ritiene che la questione della sovranità nazionale sia da demonizzare perché di destra. Eppure senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia».Senza moneta sovrana, resta solo questa Europa di oggi, «che schiaccia le nazioni» e le lascia in balia dello strapotere speculativo della finanza. «La sinistra – in particolare quella che si richiama al marxismo – dovrebbe ricordare le nozioni di imperialismo e di dominazione straniera, e dovrebbe sapere che le forze progressiste hanno sempre appoggiato e promosso le lotte di liberazione nazionale, in Sud America, in Africa e in tutti i paesi del mondo, di fronte all’oppressione straniera». Ora che più evolute forme di neocolonialismo economico minacciano per la prima volta anche i paesi europei, conclude Grazzini, sembra che una parte della sinistra afflitta da masochismo chieda “ancora più Europa”.La sinistra vorrebbe “un’altra Europa”, completamente rifondata? Errore: prima bisogna radere al suolo «l’attuale architettura dell’Unione Europea» e, letteralmente, «demolire i presupposti alla base dell’unione monetaria». Riformare i trattati vigenti? Missione impossibile, spiega Enrico Grazzini: per modificare il Trattato di Maastricht e lo statuto della Bce occorre l’unanimità del voto di tutti i 28 paesi Ue. A bloccare tutto basterebbe l’opposizione di un solo Stato, di un solo governo. «E’ più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli». L’Unione Europea, semplicemente, non è riformabile. E’ un non-Stato, un mostro giuridico che «opprime i popoli». Nient’altro che «una istituzione intergovernativa diretta dalla finanza e guidata da una sola nazione, la Germania», nonché «debolmente legittimata da un Parlamento senza potere», peraltro «eletto nel 2009 solo dal 43% dei cittadini europei». Ergo: impossibile fondare “l’Europa dei popoli” partendo da questa Unione Europea.
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Generazione decrescente: la crisi e la formica utopista
Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.Certo, l’attuale modello di sviluppo ha avvelenato la Terra e prodotto solitudine e depressione. E ora che s’è inceppato, abbandona al suo destino la prima “generazione decrescente” della storia occidentale moderna, quella che sa di non poter avere quello che ebbero tutte le generazioni precedenti: la legittima speranza di crescere ancora. Il che però non significa, di per sé, precipitare nell’abisso: ci si può attrezzare per vivere meglio, comunque, a prescindere dall’ecatombe del Pil. E’ la tesi di Andrea Bertaglio, classe 1979, espressa nella sua ultima dolente ricognizione editoriale presentata da Maurizio Pallante, di cui è stretto collaboratore. Il libro si affaccia con angoscia sul panorama desolante dei coetanei, traditi dalle false promesse dello sviluppo illimitato e condannati all’esilio o al call center, in precaria alternativa alla disoccupazione perenne, mentre intorno si sfasciano, giorno per giorno, tutte le certezze del sistema Italia. Sta franando, il nostro paese, che pure militava nel G7 – settima potenza industriale del mondo – e che l’Eurozona dell’austerity ha letteralmente declassato, stroncato, ridotto a mendicare clemenza dai potenti signori di Bruxelles, che peraltro nessuno ha mai eletto.Tutto questo accade, sostengono ormai molti analisti, perché l’élite mondiale non tollera di dover “dividere la torta” con ormai 7 miliardi di esseri umani e le loro inevitabili aspirazioni di consumo. Cibo e terre, acqua, energia, tecnologia, merci. Il risveglio dell’ex terzo mondo, oggi guidato dai Brics, dopo la caduta dell’Urss ha fatto esplodere il business della globalizzazione selvaggia, le delocalizzazioni, il lavoro schiavistico. L’industria? Sempre meno conveniente, per gli antichi “padroni”: meglio la pura speculazione finanziaria. A una condizione, essenziale: sbaraccare l’ostacolo della politica democratica, il welfare, la sovranità degli Stati, le leggi a tutela del cittadino, i diritti del lavoro. Per teorici intransigenti come Paolo Barnard – che cita economisti come il francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo – basta dare un’occhiata alle biografie dei padri fondatori dell’Unione Europea (l’autoritario Mitterrand, “monarchico” come il suo guru Jacques Attali, e il primo presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, definito “uomo dell’Opus Dei”) per capire che razza di progetto – a vocazione feudale – sia quello dell’Ue, di cui l’euro rappresenza il braccio armato, con un unico grande obiettivo: radere al suolo la sovranità finanziaria degli Stati membri, e quindi la loro residua capacità di proteggere le rispettive comunità nazionali.Il tracollo è ovvio, perfettamente voluto. Se privatizzi la moneta crolla tutto, a cascata: credito, spesa pubblica, settore privato dell’economia, occupazione, risparmi delle famiglie. “Masters of the Universe”, li chiama Noam Chomsky. Sono l’élite planetaria, erede dell’oligarchia occidentale che per due secoli, e in particolare nella seconda metà del ‘900, ha subito come un affronto la nascita della democrazia moderna, l’avvento dello Stato come erogatore di benessere materiale per i propri cittadini, grazie alla libera creazione di moneta. Oggi? Si stanno semplicemente riprendendo tutto, abolendo di fatto la democrazia. E lo fanno in un mondo sovrappopolato e minacciato da più crisi, concomitanti e tutte potenzialmente letali: energia, clima, economia, acqua, cibo, ambiente. Per Giulietto Chiesa, autore del saggio “Invece della Catastrofe” che parte dalle drammatiche profezie del Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo del capitalismo coloniale e mercantile, ci sono tutte le condizioni geopolitiche per temere l’avvento di una Terza Guerra Mondiale.Dopo l’11 Settembre la storia s’è rimessa a correre: Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, ora Ucraina. Evidente il tentativo degli Usa di coinvolgere l’Europa in una drammatica sfida con la Russia. Obiettivo: fermare l’avanzata della Cina, sfruttando l’unico vero vantaggio di cui gli Stati Uniti ancora dispongono, cioè la supremazia tecnologico-militare. Il guaio, avverte uno storico medievista come Franco Cardini, è che ormai a decidere non sono più i governi eletti dal Parlamento, perché tutte le maggiori istituzioni nazionali e soprattutto internazionali – politiche, diplomatiche, economiche, finanziarie – sono capillarmente infiltrate dalle lobby dell’élite, che tende a militarizzare il mondo impiegando missili-fantasma, droni-killer, milizie private, eserciti mercenari. Si preparano soluzioni sbrigative, repressioni, abolizioni di diritti sociali. Un incubo, che aiuta a comprendere lo scenario nel quale sono paracadutati i trentenni di oggi, a cui anche in Germania viene spiegato che i mini-job da 500 euro al mese sono un lusso, dati i tempi che corrono. C’è una guerra in corso, appunto. Ma ancora si stenta a riconoscerla.Di recente, in un incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice, un intellettuale ultra-indipendente come Guido Ceronetti ha ammesso la propria nostalgia per il socialismo, cioè un sistema in cui lo Stato garantisca pari opportunità per tutti. Lo Stato è il grande assente dei nostri giorni: privandolo della sua sovranità fisiologica, i trattati-capestro di Bruxelles lo costringono a trasformarsi in spietato esattore, non avendo più altra fonte finanziaria che quella fiscale. Un libero pensatore come Alex Langer, profeta europeo dell’ambientalismo politico, si battè già negli anni ‘80 per il grande cambiamento oggi invocato dagli ecologisti: sapeva benissimo che solo il governo, investendo denaro sovrano attraverso la spesa pubblica e quindi il debito, può imprimere una forte eccelerazione a qualsiasi politica di ricoversione sostenibile dell’economia. Bertaglio lo cita in un passaggio del suo libro: «La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile». E’ esattamente il crinale – innanzitutto culturale – su cui si impegnano i promotori della decrescita intelligente, da Pallante a Latouche.E’ anche il cuore dell’indagine che Andrea Bertaglio conduce con voce disarmata, partendo dalla propria esperienza personale, a confronto con quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. E’ crollato un mondo, il loro. E questo di oggi, popolato di giovani spaesati e costretti a farsi mantenere dai genitori, rinunciando all’idea di metter su casa, è qualcosa che – per la prima volta – fa davvero paura. Quella della decrescita (s’intende: decrescita del Pil, degli sprechi, dei veleni) è una sorta di bussola: se lavori come un pazzo e spendi tutto quello che guadagni, finisci col non sapere neppure più cosa stai facendo, e perché. A cosa serve il lavoro che attualmente – quando c’è – ci dà da vivere? Riconversione: di certo, un lavoro socialmente utile fa vivere meglio, anche se magari fa calare il Pil perché comporta meno consumi, meno spostamenti, meno spese. E’ la filosofia della filiera corta, dei territori sostenibili, del “meno e meglio”. La strada imboccata da Roberto, che ha mollato il lavoro d’ufficio a Cagliari e si è messo a fare l’orticoltore in un paesino della provincia. O quella – spettacolare – dei ragazzi di Pescomaggiore, l’ecovillaggio fatto di case di paglia.I pionieri dell’economia sostenibile sembrano scansare il dilemma politico dei rapporti di forza, quelli cioè che – attraverso le elezioni – possono far vincere un’idea, trasformandola in azione pubblica regolarmente finanziata. Si diffida, purtroppo (ma comprensibilmente) delle organizzazioni politiche, preferendo l’azione diretta, promossa dal basso. Come quella del Comitato Rifiuti Zero che, ricorda Bertaglio, ha imposto «la vittoria del popolo valdostano contro l’affarismo», che voleva il solito inceneritore. Leader del comitato di lotta, il giovane medico Jean-Luis Aillon, dirigente Mdf. Un ragazzo di 29 anni, che ha scelto di lavorare meno – come guardia medica – per avere più tempo per l’orto e la produzione di formaggi destinati all’autoconsumo. «Se lavorassi soltanto per diventare ricco e famoso, sarei presto molto depresso».L’ennesimo ingenuo utopista? «La selezione naturale ha prescelto l’istinto utopista», risponde il dottor Aillon. «Sperare in un mondo migliore, mettere in crisi il reale, lottare per i propri sogni, è qualcosa che è stato iscritto nel nostro parimonio genetico. Perché favorisce la sopravvivenza della specie». Utopia, maneggiare con cura: quello che può apparire debolezza, è esattamente il suo contrario. Nel libro di Bertaglio, Jean-Luis ricorre a una parabola: «Se paragoniamo il nostro cinquantenne medio, disilluso e senza speranze, e una specie di formiche utopista, che sogna e si batte per un mondo diverso, possiamo vedere che quest’ultima è molto più forte e sopravvive». Inutile negarlo: «Noi abbiamo dentro questo patrimonio genetico, che la cultura odierna cerca di spegnere. L’ingenuo, semmai, è chi non lo riconosce». Farà in tempo, la “formica utopista”, a fermare i carri armati neoliberisti di Harvard, quelli che suggeriscono all’euro-totalitarismo la dottrina dell’austerity espansiva che uccide come mosche i bambini di Atene e avvicina alla Grecia anche il nostro paese?(Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, riflessione autobiografica sul mondo che è – e che potrebbe essere, con prefazione di Maurizio Pallante, Edizioni Età dell’Acquario, 103 pagine, 14 euro).Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.
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Soldi alle aziende? C’è Blackrock, futuro padrone d’Italia
I prestiti bancari ormai vengono sistematicamente negati e servono alternative per finanziare lo sviluppo delle imprese. La notizia: la Cassa Depositi e Prestiti vuole sfruttare l’enorme liquidità inutilizzata di Blackrock, il più grande fondo finanziario del mondo, per dare così un nuovo sostegno alle medie aziende del Belpaese. Il piano, riferisce “Libero”, sembra trovare il gradimento del colosso Usa che, proprio per studiare a fondo l’economia italiana, ha intensificato le visite dentro i nostri confini: dal quartier generale londinese, i “pellegrinaggi” di manager Blackrock in Italia si sarebbero intensificati da inizio anno. E forse non è un caso che quest’anno la convention dei 150 top manager Blackrock si terrà in Italia, a Milano. Dopo l’ingresso in Mps, Intesa Sanpaolo e Unicredit, oltre che in Telecom, Generali, Fiat Industrial e Mediaset, il gigante d’investimento americano starebbe preparando l’assalto alle medie imprese italiane.Il colosso guidato da Larry Fink – ebreo della California che in 20 anni ha creato un colosso da 4.300 miliardi di dollari di investimenti su scala globale – potrebbe far scattare l’operazione Pmi, scrive Francesco De Dominicis sul quotidiano diretto da Maurizio Belpietro. Il progetto, per ora a livelli embrionali, è allo studio con i vertici della Cdp. «Pochi giorni fa, secondo indiscrezioni, emissari di Blackrock arrivati dalla sede di Londra hanno incontrato a Roma Bernardo Bini Smaghi, responsabile progetti speciali di Cdp. Sul tavolo, la creazione di un “fondo dei fondi” volto a incentivare il mercato dei mini-bond. Si tratta di strumenti di indebitamento sostenuti, ma senza successo, dal decreto “Destinazione Italia” varato a febbraio dal governo di Enrico Letta». La Cdp, continua “Libero”, sta passando al setaccio varie soluzioni volte ad aiutare le aziende per utilizzare queste speciali obbligazioni, che hanno l’obiettivo di aggirare il “credit crunch”.«Comunque, non sarebbero solo i soldi dello “zio Sam” ad alimentare il fondo disegnato dalla Cdp», precisa De Dominicis. «I soldi americani potrebbero essere accompagnati da altre fonti di liquidità: la Cassa intenderebbe coinvolgere nel progetto enti di previdenza e fondi pensione». Il tutto, «sotto l’attenta regia del presidente della Spa controllata dal Tesoro, Franco Bassanini», il quale «sta progressivamente mutando la natura della Cdp». Senza dimenticare, che lo stesso esecutivo di Matteo Renzi scommette proprio sulla Cassa Depositi e Prestiti per sbloccare definitivamente il pagamento dello stock di debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. «La crescita del Pil italiano, insomma, passa da via Goito».I prestiti bancari ormai vengono sistematicamente negati e servono alternative per finanziare lo sviluppo delle imprese. La notizia: la Cassa Depositi e Prestiti vuole sfruttare l’enorme liquidità inutilizzata di Blackrock, il più grande fondo finanziario del mondo, per dare così un nuovo sostegno alle medie aziende del Belpaese. Il piano, riferisce “Libero”, sembra trovare il gradimento del colosso Usa che, proprio per studiare a fondo l’economia italiana, ha intensificato le visite dentro i nostri confini: dal quartier generale londinese, i “pellegrinaggi” di manager Blackrock in Italia si sarebbero intensificati da inizio anno. E forse non è un caso che quest’anno la convention dei 150 top manager Blackrock si terrà in Italia, a Milano. Dopo l’ingresso in Mps, Intesa Sanpaolo e Unicredit, oltre che in Telecom, Generali, Fiat Industrial e Mediaset, il gigante d’investimento americano starebbe preparando l’assalto alle medie imprese italiane. -
Ttip, fine del diritto: ci giudicherà un Tribunale Speciale
Votare alle europee? A un patto: che i candidati si impegnino, per prima cosa, contro l’approvazione del Trattato Transatlantico. Nessuna bozza, traccia o schema di Ttip è a oggi disponibile. Di certo sappiamo solo che il presidente Obama e la Commissione Europea hanno dato mandato all’ambasciatore Usa Michael Froman e al Commissario Ue al commercio Karel de Gucht di confezionare un trattato dai mirabolanti obiettivi: incrementare il commercio Usa-Ue di 120 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e creare due milioni di posti di lavoro. A quale prezzo? «Non si deve sapere. Le trattative si svolgono in segreto, a porte chiuse, e in quelle segrete stanze si sono già tenuti oltre 100 incontri con i più importanti lobbisti, su corpose documentazioni di parte, a totale insaputa della società civile». Le uniche vere notizie a nostra disposizione, scrive Mariangela Rosolen, provengono da blog come “s2bnetwork”, riprese da “Attac”, che presenta “Un trattato dell’altro mondo” e le informazioni diffuse da Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale dell’università di Torino.Il Trattato di Partenariato Usa-Ue per il Commercio e gli Investimenti, riassume Rosolen sul sito di “Attac Italia”, ci promette un reddito aggiuntivo per famiglia di 545 dollari all’anno, «a condizione che siano smantellate tutte le leggi e regolamenti di tutela sanitaria, ambientale, del lavoro, che attualmente impediscono o limitano la possibilità di realizzare il massimo profitto negli scambi e negli investimenti». Il che significa: «Libera produzione, circolazione e vendita sul mercato europeo degli organismi geneticamente modificati, della carne agli ormoni, dei polli al cloro». Addio al “principio di precauzione” contro la sospetta nocività di singoli prodotti, processi produttivi e componenti, adottato in Europa all’inizio degli anni ‘90 in seguito all’epidemia della “mucca pazza”. Obiettivo: ridurre o eliminare – tramite decisioni di prevenzione – quei rischi che non sono ancora scientificamente provati. Se verrà approvato il Ttip, dovremo dunque dire addio alle tutele a cui siamo abituati: cioè l’etichettatura e la tracciabilità dei prodotti alimentari e chimici.Emblematica, continua Rosolen, la situazione riguardante l’estrazione e lo sfruttamento del gas di scisto (fracking): circa 11.000 nuovi pozzi scavati in un anno negli Stati Uniti contro una dozzina in Europa, per effetto di divieti e moratorie in attesa di verificare i rischi che quella spericolata tecnologia estrattiva può arrecare alla salute e alla sicurezza delle persone e dell’ambiente. «La segretezza dei negoziati si confà egregiamente alla passività dei grandi mezzi d’informazione del nostro paese, che si guardano bene dal rompere il silenzio, appena scalfito dall’impegno dei “soliti” mezzi d’informazione alternativi. E poiché la Commissione Europea tratta e firmerà l’accordo a nome e per conto degli Stati membri – aggiunge Mariangela Rosolen – rischiamo di trovarci a fine 2014, data prevista per la conclusione dei negoziati, con la brutta sorpresa del pacco di Natale già confezionato e pronto per l’uso sotto l’albero». Forse però siamo ancora in tempo per fermare la macchina infernale.Alla fine degli anni ‘90, «un analogo pacco-dono del libero mercato, l’Ami – Accordo Multilterale sugli Investimenti – era stato preparato segretamente dalle stesse oligarchie che oggi lo traducono nel Ttip, e venne fatto saltare proprio grazie al fatto che i suoi demenziali contenuti erano divenuti di pubblico dominio». Certo, allora «c’erano ancora i tribunali a cui ricorrere per il ripristino dei diritti negati». Oggi è sempre più dura, ma fino a quando la sovranità giudiziaria non sarà stata smantellata siamo autorizzati a sperare che qualche autorità nazionale intervenga: «La totale cancellazione dello Stato Sociale Europeo che ora il Trip si propone, la dichiarata subordinazione al profitto di ogni tutela sul lavoro, la salute, l’ambiente che non sia compatibile con il profitto, può incontrare ancora forti resistenze nel sistema giudiziario dei paesi più evoluti».Se invece Washington e Bruxelles – obbedendo ai “suggerimenti” delle multinazionali – riusciranno ad imporci il Ttip, sarà tecnicamente finita anche l’attuale possibilità di avere giustizia: l’ultima parola infatti l’avrà il Tribunale Speciale, «organismo sovranazionale, extra-territoriale – si dice con sede presso la Banca Mondiale», pensato sul modello del collegio arbitrale, «le cui sentenze non saranno appellabili essendo sovraordinate alle stesse Costituzioni nazionali». Secondo Rosolen, è molto probabile che si tratti di tribunali simili a quelli già previsti da accordi come il Nafta, modellati su giurie private composte da tre arbitri, scelti generalmente tra “principi del foro” «un po’ distratti rispetto ai loro conflitti di interessi». Strani “giudici” che, «una volta nominati, non devono più rendere conto a nessuno», perché possono avvalersi di «lucrosissime consulenze, test e perizie», per emanare decisioni definitive e non più impugnabili. «Una gestione della giustizia di ricchi per i ricchi», che infatti non emette sentenze ma impone «multe, sanzioni, risarcimenti».Così facendo, aggiunge Rosolen, la giustizia si misura in dollari. La Lone Pine ad esempio, impresa californiana dell’energia, ha chiesto al Tribunale Speciale istituito dal Nafta di condannare lo Stato del Canada a un risarcimento di 191 milioni di dollari per aver imposto una moratoria sul fracking, il sistema di frammentazione idraulica per estrarre il gas o il petrolio di scisto. La moratoria canadese era dettata dalla preoccupazione per i rischi per la salute e l’ambiente provocati da quelle lavorazioni. La Philip Morris ha invece denunciato l’Australia al Tribunale Speciale del Wto per le leggi anti-fumo e chiesto un enorme risarcimento per i mancati profitti. Addirittura 3,7 miliardi di euro, per i mancati profitti delle sue due centrali nucleari tedesche, sono stati chiesti dalla svedese Vattenfall alla Germania, che ha abbandonato la produzione di energia nucleare dopo il disastro di Fukushima. Si contano ben 514 cause legali di questo genere negli ultimi vent’anni: 123 sono state promosse da investitori Usa, 50 da maxi-imprese olandesi, 30 britanniche e 20 tedesche.«La sola minaccia di cause legali per milioni di euro, intentate da studi legali con centinaia di avvocati per conto delle multinazionali, può mettere sul chi va là i governi e indurli ad attenuare o addirittura rinunciare a emanare leggi a tutela del lavoro, della salute e dell’ambiente», conclude Mariangela Rosolen. Traduzione: «Se le decisioni politiche a livello locale, regionale o nazionale corrono questi rischi di strangolamento economico, ben più disarticolanti di una sentenza civile o penale, è a rischio la stessa democrazia». Sarebbe la fine della nostra civiltà giuridica, difettosa e inefficiente fin che si vuole nella sua amministrazione, ma pur sempre consacrata alla difesa dei diritti fondamentali del cittadino, della sua sicurezza sociale e della sua salute. Per fortuna, un po’ ovunque – dall’Europa agli stessi Stati Uniti – si stanno organizzando movimenti sociali e sindacali che rivendicano trasparenza dei negoziati e il rifiuto dei tribunali speciali per qualsiasi tipo di trattato. Serve un impegno democratico, ora: «Chiediamolo con forza e determinazione anche ai prossimi candidati al Parlamento Europeo».Votare alle europee? A un patto: che i candidati si impegnino, per prima cosa, contro l’approvazione del Trattato Transatlantico. Nessuna bozza, traccia o schema di Ttip è a oggi disponibile. Di certo sappiamo solo che il presidente Obama e la Commissione Europea hanno dato mandato all’ambasciatore Usa Michael Froman e al Commissario Ue al commercio Karel de Gucht di confezionare un trattato dai mirabolanti obiettivi: incrementare il commercio Usa-Ue di 120 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e creare due milioni di posti di lavoro. A quale prezzo? «Non si deve sapere. Le trattative si svolgono in segreto, a porte chiuse, e in quelle segrete stanze si sono già tenuti oltre 100 incontri con i più importanti lobbisti, su corpose documentazioni di parte, a totale insaputa della società civile». Le uniche vere notizie a nostra disposizione, scrive Mariangela Rosolen, provengono da blog come “s2bnetwork”, riprese da “Attac”, che presenta “Un trattato dell’altro mondo” e le informazioni diffuse da Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale dell’università di Torino.
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Giannuli: punita la sinistra, complice dell’euro-dittatura
Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.Dunque, non ha bisogno di sindacati e Parlamento, che devono sopravvivere solo come feticci, mentre lo stato sociale deve semplicemente sparire e la stessa Costituzione diventa un inutile intralcio. Ma la sinistra riformista senza Parlamento, sindacati e stato sociale, semplicemente non esiste. E tanto più nel tempo della crisi, quando il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia in favore dello stato d’eccezione. La sinistra moderata, che si candida a gestire una forma temperata di dittatura neoliberista, può reggere con difficoltà questa posizione sin quando non precipiti la crisi; dopo, se conquista il governo è costretta solo a fare il lavoro sporco. Quello che rende debole la posizione della sinistra “riformista” è la sua incapacità di immaginare un “altro” rispetto all’ordinamento esistente. Costitutivamente, la sinistra moderata accetta la dittatura dell’esistente e ritiene che il suo compito sia quello di temperare le ingiustizie del capitalismo, con una serie di conquiste parziali e creando “nicchie” di giustizia sociale.Quando poi, con la crisi, il capitalismo travolge irresistibilmente conquiste parziali e nicchie di equità, la sinistra moderata in un primo momento cerca di resistere, poi si appiattisce, in attesa di tempi migliori. Ma, così facendo, perde il contatto con la sua base e inizia fatalmente a declinare, mentre la protesta sociale contro la repressione capitalistica prende altre strade. A volte assai sbagliate o pericolose. Ora, come in altre circostanze storiche simili, la sinistra moderata diventa la sinistra dell’impotenza, perché non comprende che, lungi dal ridurre il tiro e abbassare i toni, queste situazioni esigono un confronto radicale sul modello di società: se il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia, alla sinistra spetta fuoriuscire dall’ordinamento esistente in direzione opposta. Nelle circostanze storicamente presenti – qui ed ora – la questione che si pone è quella dell’ordinamento neoliberista dell’Europa, costruito intorno alla Ue ed all’euro: c’è da decidere se cercare di mantenere in piedi tutta la baracca o buttarla giù a spallate.Su questo sta montando una fortissima protesta popolare, di cui il risultato francese è uno dei sintomi, ma non l’unico e non il più pesante. Quello che si capisce, senza troppa difficoltà, è che vasti settori di ceti popolari (che ormai sfiorano il 25%-30% del corpo elettorale, senza tener conto degli astenuti) attribuiscono all’euro e alle politiche di mantenimento di esso (come il Fiscal Compact) la responsabilità dell’inasprirsi della crisi e, conseguentemente, chiedono il superamento della moneta unica. E si badi che la protesta viene sia da chi guarda dal punto di vista dei paesi debitori (come Italia e Grecia), ma anche dio paesi creditori (come la Germania, l’Olanda o la Finlandia), che chiedono di tornare alla moneta nazionale o del Nord Europa, perché si ritengono danneggiati dalla condivisione della moneta con i “peccatori del debito”. Le elezioni francesi, in questo senso, sono solo il vento che annuncia la tempesta di fine maggio.Di fronte a questo, chi si schiera più risolutamente in difesa dell’attuale ordinamento europeo è proprio la sinistra moderala del Pd, Ps francese e spagnolo, Spd. E persino la “Sinistra Europea”- Gue (accusata di essere euroscettica perché osa mettere in discussione il Fiscal Compact) pur vagheggiano una vaga ed improbabile “altra Europa”, non osa mettere in discussione l’attuale assetto istituzionale europeo. A testimoniare dell’incredibile ottusità dei socialisti francesi, viene l’appello alla “solidaritè repubblicaine” verso la destra gaullista. Geniale: c’è una protesta che monta sulla base del fatto che la gente ritiene uguali sinistra e destra moderate ed i socialisti che fanno? Propongono il blocco elettorale comune fra loro e i gaullisti! Con maggiore intelligenza, la destra ha lasciato subito cadere la proposta e si predispone ad avere le mani libere nel rintuzzare l’assalto lepenista. Adesso, magari capite perché è una fortuna che in Italia ci sia il M5s, senza del quale rischieremmo che il malessere si incanali verso la Lega o magari Forza Nuova.Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.
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Russia isolata? No, più vicina alla Cina. E addio dollaro
La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.Tradotto in parole semplici, riassume “Zero Hedge” in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, significa che Mosca «potrebbe fare a meno degli acquisti occidentali di debito russo», a loro volta finanziati dagli acquisti cinesi di T-bonds statunitensi, e andare «direttamente alla fonte», ovvero la Cina. E’ questo che intende Mosca quando dice che le sanzioni per l’annessione della Crimea sarebbero «controproducenti». Chiaro il messaggio proveniente dalla Rosneft: se l’Europa e gli Stati Uniti dovessero isolare la Russia, Mosca cercherà nuovi affari, accordi energetici, contratti militari e alleanze politiche ad Oriente. Già per maggio si attende che Putin, in visita in Cina, firmi l’accordo per il super-gasdotto destinato a collegare la Russia con Pechino, sostituendo così l’Occidente come “grande cliente”. Già a partire dal 2018, la Gazprom spera di pompare 38 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno verso la Cina.«Quello che è dolorosamente evidente a tutti», aggiunge il blog, è che «più peggiorano le relazioni della Russia con l’Occidente, più la Russia vorrà averne di buone con la Cina». A questo si aggiungono gli scambi bilaterali denominati sia in rubli che in renminbi (o in oro) con paesi come Iran e India. Presto toccherà anche all’Arabia Saudita, il maggior fornitore di greggio per la Cina: il principe ereditario ha appena incontrato il presidente Xi Jinping per espandere ulteriormente i commerci. «Possiamo cominciare a dire addio ai petrodollari», ipotizza “Zero Hedge”. Per il leader di Pechino, l’asse con Mosca «sarebbe utile ad entrambi i paesi, come contrappeso agli Stati Uniti». Quest’anno, inoltre, la Cina ha superato la Germania come più grande acquirente di petrolio russo, grazie alla Rosneft, che ha aumentato le forniture di petrolio verso est, attraverso il gasdotto che unisce la Siberia Orientale all’Oceano Pacifico, e quello che attraversa il Kazakhstan.«Se Mosca fosse isolata da un nuovo round di sanzioni occidentali – continua “Zero Hedge” – Russia e Cina potrebbero rafforzare la cooperazione anche in altri settori, oltre all’energia. La crescita dei rapporti bilaterali include investimenti strategici nelle infrastrutture ma anche forniture militari, come quella per i caccia Sukhoi Su-35. Un declino del commercio con l’Occidente potrebbe costringere Mosca ad abbandonare alcune delle sue riserve sugli investimenti cinesi nei settori strategici. Il volume del commercio russo-cinese è cresciuto del 8,2% nel 2013, raggiungendo quota 8,1 miliardi di dollari, ma la Russia lo scorso anno era ancora solo il settimo più grande partner cinese per le esportazioni, e non era tra i primi 10 paesi per le merci importate. E’ l’Unione Europea il principale partner economico della Russia, e ancora oggi rappresenta quasi la metà di tutto il suo fatturato commerciale.«E se spingere la Russia verso un caldo abbraccio con la nazione più popolosa del mondo non fosse ancora abbastanza, c’è anche a disposizione il secondo paese più popoloso del mondo, l’India». Putin, in effetti, non ha perso tempo: non si è limitato a rigraziare la Cina per la “comprensione” dimostrata col voto non contrario, all’Onu, sull’annessione della Crimea, ma si è affrettato a riconoscere anche la “moderazione e obiettività” dell’India, intavolando relazioni col premier Manmohan Singh sulla possibilità di sviluppare accordi con un paese non-allineato come l’India. Per l’editore del quotidiano “The Hindu”, autorevole voce dell’establishment di New Delhi, sulla Crimea «la Russia ha degli interessi legittimi». Così, «mentre il più grande spostamento geopolitico dai tempi della Guerra Fredda sta accelerando, con l’inevitabile consolidamento dell’“asse asiatico”», per “Zero Hedge” l’Occidente «monetizza il suo debito e si crogiola nella ricchezza di carta creata da un mercato azionario fortemente manipolato», mentre la propria economia si indebolisce e il futuro svolta verso Oriente.La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.
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L’ipocrita Bono, falsa coscienza umanitaria dell’élite
La star degli U2? «Ha creato un’Africa che funziona come fantasia di redenzione per le élite occidentali». Verso la fine dell’estate del 2010 Louis Vuitton pubblicò una pubblicità per una serie di valigie in tela Monogram prodotte in numero limitato, le Keepall 45, dal costo di mille dollari al pezzo. La pubblicità mostra Bono e la moglie, Ali Hewson, nella savana africana, portando le borse dietro di sé, come se fossero appena scesi da un aeroplanino. “Ogni viaggio comincia in Africa”, dice il sottotitolo, nel caso avessimo dubbi su quale continente fosse reso importante dalla presenza di Bono. La coppia è molto glamour (Ali mostra un velato décolleté), ma al tempo stesso risulta molto sobria, impegnata. Non sembrano in vacanza: non c’è altro da vedere se non erba, montagne basse e cielo. Il lettore è portato a immaginare che, appena fuori dall’inquadratura, ci sia un campo di rifugiati o un orfanotrofio o un pozzo, con bambini pronti a essere salvati, vaccinati o dissetati dalla grazia avvincente della coppia.E proprio della star degli U2 e di Africa parla il libro del giornalista irlandese Harry Browne, “The Frontman”. Un volume smaccatamente che proviene dalla sinistra militante, pubblicato in Italia dalle edizioni no global Alegre e in Inghilterra dalla Verso, celebre per pamphlet di cultura alternativa e di critica al sistema. Il libro soffre dunque di eccesso di moralismo quando fa le pulci a Bono per i suoi soldi e la sua rete di banchieri, industriali e leader politici con legami con il Fmi e la Banca Mondiale, come Paul Wolfowitz. Ma il libro è audace nella critica all’umanitarismo di quello che Oprah Winfrey ha definito “il re della speranza in carica”. «Ovunque due o tre siano riuniti nel nome della ricchezza e del potere, là c’è anche Bono, a garantire per la loro bontà. Bono non si limita a riempire di belle parole posti come i meeting di Davos: lancia progetti, illustra piani d’azione, promuove cause. Tanto lavoro per l’eminenza planetaria della filantropia, per questo è certo di meritarsi il titolo».Alcuni giorni fa anche il “Daily Mail”, giornale di segno ideologico opposto a quello di Browne, ha massacrato Bono con un lungo articolo che ha messo insieme tutte le incoerenze del cantante e, soprattutto, tutte le sue sconfinate ricchezze: un patrimonio immobiliare da sceicco, un parco macchine da emiro, un tenore di vita da faraone e un’attrazione fatale per la grande finanza e per la Borsa, grazie al coinvolgimento di noti “squali” che gli permetteranno, se tutto andrà per il verso giusto, di raddoppiare in dieci anni il patrimonio personale, che lo stesso “Daily Mail” quantifica oggi in un miliardo di sterline. «Da quasi tre decenni, e soprattutto nel nuovo secolo, Bono ha quasi sempre fatto da megafono ai discorsi dell’élite, difeso soluzioni inefficaci, parlato dei poveri in modo paternalistico e leccato i culi dei ricchi e dei potenti».Browne non fa mistero di detestare la rock star: «Bono è ricco: indossa abiti firmati, vola su jet privati, guida cinque diverse automobili di lusso, adora i cibi e i vini più raffinati. Bono è famoso: è il leader del gruppo musicale più stabilmente popolare degli ultimi trent’anni, ha milioni di fan, è l’interprete di alcune delle canzoni più conosciute della nostra epoca. Indossa occhiali da sole che attirano l’attenzione su di lui anziché ripararlo dagli sguardi. Bono è potente: la sua opinione è ricercata, ascoltata e apprezzata ai più alti livelli governativi nazionali e internazionali». Browne è perfido con Bono, definito «ispirato cercatore di verità» e «ultrà dell’euro-postmodernismo», campione del «filantrocapitalismo» ed esponente del «potere taumaturgico dello sviluppo dell’Africa elaborato dalle élite occidentali». L’Africa di Bono e delle altre star come Bob Geldof, anziché essere un luogo reale, viene trasformato in «un progetto per la coscienza occidentale, una specie di vocazione».Secondo il giornalista irlandese, «i discorsi sulla grande benevolenza, sull’impegno e la compassione dell’Occidente, mentre sembrano con ogni apparenza occuparsi della vita di coloro che cercano di salvare e risollevare, in realtà collocano attivamente ‘i nostri ragazzi’ come le star dello spettacolo dello sviluppo, mentre chi è oggetto della benevolenza nazionale (e del nord del mondo) non è altro che lo sfondo di una storia che in realtà si occupa di ‘noi’, individui del Primo mondo». In altre parole, scrive Browne, la figura della celebrità umanitaria incarnata da Bono «funziona come fantasia di redenzione in cui gli abitanti del sud del mondo sono collocati retoricamente come lo sfondo su cui ‘i bravi ragazzi del Primo mondo’ possono mettere in risalto il senso di sé». Per usare le parole di Alex de Waal, «è il grande carnevale umanitario, la moda delle celebrità».(Giulio Meotti, “Un libro di sinistra contro Bono, «leccaculo di ricchi e potenti»”, da “Il Foglio” del 26 febbraio 2014. Il libro: Harry Browne, “The Frontman. Bono, nel nome del potere”, Edizioni Alegre, 283 pagine, 15 euro).La star degli U2? «Ha creato un’Africa che funziona come fantasia di redenzione per le élite occidentali». Verso la fine dell’estate del 2010 Louis Vuitton pubblicò una pubblicità per una serie di valigie in tela Monogram prodotte in numero limitato, le Keepall 45, dal costo di mille dollari al pezzo. La pubblicità mostra Bono e la moglie, Ali Hewson, nella savana africana, portando le borse dietro di sé, come se fossero appena scesi da un aeroplanino. “Ogni viaggio comincia in Africa”, dice il sottotitolo, nel caso avessimo dubbi su quale continente fosse reso importante dalla presenza di Bono. La coppia è molto glamour (Ali mostra un velato décolleté), ma al tempo stesso risulta molto sobria, impegnata. Non sembrano in vacanza: non c’è altro da vedere se non erba, montagne basse e cielo. Il lettore è portato a immaginare che, appena fuori dall’inquadratura, ci sia un campo di rifugiati o un orfanotrofio o un pozzo, con bambini pronti a essere salvati, vaccinati o dissetati dalla grazia avvincente della coppia.
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Revelli: temo Renzi, pericoloso funambolo dilettante
L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del Governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.Tutto, come in una grande matrioska dal volto di roditore. Cosicché davvero, se fallisce, cade tutto: finisce il Pd, si scioglie il Parlamento, si commissaria il Paese, si accelera la dissoluzione sociale… Motivo per cui, appunto, non resta che “sperare”. Sperare a prescindere. Contro l’evidenza, che ci dice che così non può farcela. Renzi non ha né le competenze, né l’autorevolezza, né la forza politica (ha seminato troppi cadaveri nella sua marcia forzata), per fare questo “miracolo”. Di Craxi ha l’arroganza e la presunzione, ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo che aveva ridato orgoglio a un Psi umiliato dal compromesso storico) e l’aura dell’Internazionale socialista intorno, oltre che il partito nel pugno. Di Berlusconi ha lo stile da istrione e la ciarlataneria che piace a molti italiani, ma non il capitale monetario e umano che Mediaset e Publitalia (con qualche compartecipazione mafiosa) assicuravano. Punta su un’unica risorsa: il mito della velocità.Mito marinettiano (un po’ frusto per la verità, un secolo più tardi). E problematico per uno che vanta tra i principali supporter quello che dello slow ha fatto un brand, sia pur rispetto al food… Come nel caso della nuova tecnologia usata in America per produrre idrocarburi frantumando gli strati scistosi, anche Matteo Renzi pratica il fracking, generando energia dalla frantumazione di tutto ciò che gli sta sotto, a cominciare dal partito che l’ha portato fin qui, e dalla macchina dello Stato. Ma come gli ambientalisti ci spiegano che il fracking inquina le falde, così il renzismo rischia di inquinare il nostro spazio pubblico. Accelerando non la soluzione, ma la crisi stessa. Rischiando di lasciarci – dopo aver fagocitato tutto – “nudi alla meta”. Per questo è così necessario, e così pressante, costruire uscite di sicurezza. Piani di emergenza (e di evacuazione). Alternative politiche in cui i naufraghi possano approdare. Noi, che siamo prudenti e predichiamo il “principio di responsabilità!” di cui parla Hans Jonas, lavoriamo a questo.(Marco Revelli, “Il renzismo come esorcismo”, dal sito “Lista Tsipras” del 24 febbraio 2014).L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.
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Costretto a usare la forza, Putin ha già perso l’Ucraina
I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.Ogni qual volta una o più potenze occidentali da un lato, e la potenza russa dall’altro, hanno deciso di sconvolgere, o viceversa, di tentare il consolidamento degli equilibri strategici consolidatesi in queste regioni, hanno frequentemente fallito. Ottenendo, talune volte, risultati catastrofici. Opposti alle rispettive aspettative iniziali. Accadde durante la guerra di Crimea. Accadde con le iniziative politiche e diplomatiche antecedenti le due guerre mondiali. E’ accaduto in parte durante la guerra fredda. Nonché successivamente al crollo dell’Urss. E’ appena accaduto con l’espansione frenetica ad est, effettuata dall’Unione Europea negli anni duemila. E accade oggi. Con la differenza che il colpo che si è tentato di assestare alla Russia, con l’inclusione nell’orbita occidentale ed europea dell’Ucraina, ha tutta l’aria del colpo definitivo. Inaccettabile per Mosca.Molti si ricorderanno la “Rivoluzione Arancione”, iniziata nel 2004. Esperienza terminata con la coabitazione ai vertici dello Stato fra i due leader rivali Yanukovich e Juscenko. Le recenti vicende di piazza Maidan sembravano molto simili a quelle del decennio scorso. A tratti speculari. Eppure il risultato è stato assai diverso, con il degenerare di un crisi che è parsa fin da subito inevitabile. Oggi, a differenza di allora, la crisi è sfociata in una occupazione militare ad opera della Russia. L’instabilità ha varcato i confini nazionali ucraini, ora rischia di diffondersi, destabilizzando l’intera regione. Le motivazioni di ciò sono diverse, ma alcune evidenti e di facile individuazione: oggi, a differenza di allora, lo scenario globale è cambiato.Dall’inizio della crisi economica, sono andate sempre più consolidandosi nuovi interessi e nuove alleanze strategiche. Alleanze che agli inizi del decennio scorso si intravvedevano appena. Terminato definitivamente il tentativo unipolare dell’America di Bush, il mondo è andato dividendosi. Sono aumentate le potenze regionali in competizione fra loro per il controllo di aree strategiche, economiche e commerciali. In questo contesto, la strategia obamiana prevede un rapido ridispiegamento, attraverso una riduzione drastica dell’esercito statunitense e la creazione di due zone di libero scambio, una Trans-Pacifica (Tpp) e l’altra Trans-Atlantica (Tap). Un ridispiegamento della potenza americana che lascerà molti spazi liberi sullo scacchiere mondiale. Spazi che altre potenze regionali tenteranno rapidamente di colmare. L’Europa si trova al centro di uno di questi spazi. L’Unione Europea “potrebbe” scegliere fra la possibilità di adesione al nuovo disegno obamiano delle aree di libero scambio, attraverso la Tap, o alternativamente valutare la possibilità di apertura e consolidamento delle relazioni con la Federazione Russa. Conseguentemente anche con il Caucaso, l’ Asia Centrale e poi l’intera regione euroasiatica.Ma per l’Est europeo l’amministrazione Obama ha piani ben precisi. Ereditati dalle precedenti amministrazioni e che si sostanziano nell’attività di contenimento della Federazione Russa. Da un lato attraverso lo scudo antimissilistico in fase di dislocamento nei paesi dell’Est e, dall’altro, attraverso l’adesione degli ex paesi europei del blocco socialista, alla Nato. Favorendo lo spostamento del “confine politico” dell’Unione Europea e dei paesi che ruotano nella sua orbita, a ridosso dei confini giuridici della Federazione Russa. Eliminando ogni governo filo-russo che si interponga fra questi confini giuridici e i “confini politici” dell’Unione. Un disegno fondamentale per gli interessi americani, funzionale all’inclusione dell’Unione Europea nell’area di libero scambio Trans-Atlantica. Un disegno che si scontra con la percezione russa dei propri “confini”, mai individuati come un limite statico, ma come un limite dinamico, a seconda dei propri interessi. Un disegno, quello americano, che ha ottenuto il sostegno favorevole di numerosi Stati europei.In questo contesto, il tentativo di sottrarre l’Ucraina alla sfera di influenza russa ha sconvolto un equilibrio che aveva profonde radici storiche. Inoltre, la Federazione Russa ha percepito il tentativo di passaggio dell’Ucraina nella sfera europea e occidentale come un passaggio potenzialmente definitivo e irreversibile. Come una minaccia senza precedenti. L’ipotesi di vedere, nell’arco di un decennio, lo Stato ucraino come un partner consolidato della Nato, dotato dello scudo antimissilistico americano, schierato lungo i confini con la Russia, è apparsa a Putin come uno dei peggiori incubi. Al quale si sarebbe aggiunto la perdita della Crimea, con il conseguente venir meno del controllo esercitato sul Mar Nero. Di fronte all’eventualità di questi cambiamenti radicali, Putin non poteva restare a guardare. Ma, nel medesimo tempo, si è trovato senza alternative. Ha dovuto optare per una reazione forte. L’utilizzo della forza militare. Oggi in Ucraina, come ieri in Georgia.Ma non si tratta di un punto di forza a suo favore, come molti credono. Anzi, si tratta dell’evidente dimostrazione che la Russia di Putin è sprovvista di validi strumenti di politica estera, diversi dall’uso della forza e dall’esercizio del ricatto energetico. Ricatto che può attuare solo in parte, necessitando dei proventi economici ottenuti dalla commercializzazione degli idrocarburi. Si tratta quindi di una Russia caratterizzata da una manifesta debolezza. Non in grado di esercitare nessun “Soft Power”. Obbligata ad aggrapparsi all’uso della potenza militare. La quale, a sua volta, non garantisce la possibilità di esercitare una influenza continuativa. Non garantisce nemmeno la stabilità interna, nel medio periodo, delle aree sottoposte a questa influenza. A ciò si aggiunge il fatto che il ricorso alla forza può essere esercitato solo per periodi limitati, all’interno del contesto occidentale, pena la marginalizzazione dallo scenario internazionale.Quindi, uno dei vantaggi di Puntin, ovvero il fatto che l’Ucraina non ha un esercito degno di questo nome, non può esser sfruttato pienamente. Putin ne è consapevole e per questo la sua strategia odierna si protrae lungo tre direttrici. L’occupazione militare della Crimea, al fine di mantenere inalterati i vantaggi strategici che la penisola offre, compresa l’egemonia navale russa nel Mar Nero e sul Caucaso. Occupazione che Putin spera di consolidare con il “referendum” previsto per fine mese. “Referendum” che si limiterà a confermare una indipendenza da Kiev già sancita nei fatti. Si tratta inoltre di una occupazione che svolge una funzione di “sfogo” parziale delle tensioni e di riassetto, a favore della Russia, dopo il crollo dell’equilibrio precedente. Il secondo obbiettivo, in realtà di primaria importanza per Putin, è la destabilizzazione interna dell’Ucraina. Senza realizzare occupazioni estese ad ampie regioni del territorio. Destabilizzazione da realizzarsi semplicemente mantenendo una presenza militare minima, anche indiretta, ma accompagnata da una minaccia costante di un impiego massiccio della forza.Alcune zone si proclameranno indipendenti da Kiev, Mosca ne garantirà l’“indipendenza”, senza la necessità di intervenire in forze all’intero del territorio ucraino. L’intento di Putin è quello di impedire al governo di Kiev di consolidarsi. Sia all’interno del territorio ucraino stesso, sia come partner credibile nei confronti dei paesi europei. Questi due aspetti sono funzionali ad uno scopo ben preciso: poter esercitare maggior peso durante le trattative con la Germania e l’Unione Europea, volte alla risoluzione della crisi. Trattative in cui Putin si aspetta di ottenere quante più garanzie possibili sul futuro dell’Ucraina, sul ruolo che la Nato avrà in questo paese. Così come punta a veder riconosciute ampie garanzie sugli spazi di manovra che Mosca vorrà riservarsi, come prerogativa, sul futuro ucraino.Tuttavia Putin, in queste trattative, parte perdente. Questo Putin lo sa, chiaramente. Il suo sogno di fare della Federazione Russa un nuovo centro strategico nei confronti di Stati e potenze minori è fallito. Naufragato ad occidente, con pochi superstiti. Uno di questi è la Bielorussia, ormai rimasta sola, con un semplice salvagente che non le permetterà di restare a galleggiare di fronte ai prossimi cambiamenti europei. Fallito perché ancora una volta Mosca è dovuta ricorrere ai suoi blindati, alla forza, la forza bruta. Uno strumento, quest’ultimo, che può anche risultare funzionante nell’immediato, ma che usato nel contesto occidentale contemporaneo appare sempre più come uno strumento vecchio, un “ferro arrugginito”. Soprattutto se viene visto nelle mani chi voleva fare del proprio paese una potenza, dotata di una valida capacità attrattiva nei confronti di altri Stati della regione euroasiatica.L’uso della forza oggi, da parte di Mosca, appare come una mannaia nelle mani di un chirurgo. Allontanerebbe chiunque. Esattamente ciò che sta accadendo in queste ore. In molti Stati minori, all’interno dell’orbita della Federazione Russa, si registrano preoccupanti reazioni di fronte alla vicenda Ucraina. Di fronte al fatto, evidente, che la propria libertà finisce dove gli interessi della Russia hanno inizio. Il presidente russo è già stato sconfitto. Il suo progetto, il suo disegno del ruolo che la Federazione Russa avrebbe dovuto ricoprire nel mondo, agli inizi del XXI secolo, è fallito. Il suo paese non è in grado di esercitare nessuna pressione differente da quelle derivanti dal ruolo di semplice fornitore di risorse energetiche, materie prime e armi. La Russia non ha espresso nessun modello economico e culturale alternativo e, al tempo stesso, attrattivo nei confronti di altri Stati. Lo “spazio russo” rappresenta semplicemente un’alternativa per gli Stati che, non essendo integrati o integrabili in aree strategiche di altre potenze, non vogliono restare soli nel nuovo scenario internazionale.Putin ha perso l’Ucraina. Anche se dovesse riconquistarla interamente con l’uso della forza. Cosa che, quasi certamente, si guarderà bene dal fare. Tratterà quindi una soluzione con la Merkel, ma tratterà da perdente. Putin, in queste condizioni, può solo puntare al raggiungimento di un momentaneo pareggio, illusorio. A molti osservatori è sfuggito il fatto che questa è la più grave crisi europea dal dopoguerra ad oggi. Probabilmente la più grave, dal punto di vista internazionale, dalla crisi dei missili di Cuba. A molti è anche sfuggito il fatto che i fattori per una ulteriore destabilizzazione regionale, e un ulteriore deterioramento della crisi, ci sono tutti. Una grande potenza in declino, obbligata ad affidarsi all’uso della forza, lo scenario internazionale frammentato, una grave crisi della legittimità nel contesto internazionale, una crisi del multilateralismo, la crisi dell’ordine nella società internazionale, una crisi economica con pochi precedenti. E un leader non incline a compromessi. Il presidente russo è già stato sconfitto. Non serve umiliarlo. In queste condizioni è logico offrire a Putin un pareggio, dietro al quale possa nascondere l’irrecuperabile sconfitta. Offrire alla Russia una soluzione accettabile. Al più presto.(Lorenzo Andorni, “Nella crisi ucraina Putin entra sconfitto, ma da sconfitto non vorrà uscirne”, dal blog di Aldo Giannuli del 4 marzo 2014).I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.
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Occhetto: rottamata la sinistra, nel Pd vince il potere
«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.Eppure, nonostante il granitico impianto ideologico di Letta, Renzi e Napolitano – tagli allo Stato, privatizzazioni necessarie, “sacrifici” sociali inevitabili (secondo i dettami del pensiero unico dell’élite) per Occhetto evidentemente il Pd non è affatto liberista, è ancora “di sinistra”. Intervistato da “Il Giorno” a fine novembre 2013, l’ex segretario rievoca la sua “svolta” che aprì la strada alla Seconda Repubblica del bipolarismo berlusconiano. «La mia era una scommessa storica: coniugare la libertà a una politica radicalmente alternativa al modello neoliberista», dice Occhetto. «La domanda è ancora oggi senza risposta: è possibile abbracciare la libertà senza andare a destra?». Grigio lo spettacolo offerto dai dirigenti Pd: «Sembrano zombie che si muovono nel vuoto senza sapere dove andare. Non si può costruire il nuovo unendo il peggio del Pci e il peggio della Dc». Tra loro, «ha vinto chi ha interpretato la svolta come l’ingresso nel salotto buono del potere per il potere, del governo per il governo».Manca un passaggio, fondamentale: il livello governativo nazionale – cui Occhetto fa riferimento – è ormai un dettaglio trascurabile. La politica di bilancio è subordinata alle indicazioni vincolanti dei decisori veri, quelli di Bruxelles, che rispondono a Draghi e alla Merkel, oltre che ai “mercati”, ormai padroni di quel che resta dello Stato. Occhetto preferisce limitarsi a denunciare le larghe intese, «una soluzione emergenziale che produce altra emergenza», e puntare il dito contro i difetti del Pd: «E’ afflitto dal male oscuro delle consorterie». Via d’uscita? «Raccogliere il meglio della tradizione della sinistra, a partire dal valore dell’uguaglianza declinato non più in chiave di giustizia sociale ma come tema di economia politica». A Renzi, Occhetto chiede «di andare avanti con la rottamazione, perché la politica smetta di essere il ripostiglio degli ex, ma di non limitarsi alla rottamazione dei nomi: serve anche una rottamazione delle idee, una nuova costituente delle idee, delle primarie sulle idee».«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.
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«Cari terroristi, sparate direttamente a noi No-Tav»
Cari (si fa per dire) terroristi, chi vorreste prendere per i fondelli? Ce l’avete per caso coi No-Tav, cioè i valsusini che hanno raccolto quasi 300.000 euro in sole tre settimane per sostenere la loro battaglia legale contro l’ecomostro chiamato Torino-Lione? Pensate davvero che qualcuno possa credere che chi si rivolge al popolo italiano per difendersi in tribunale, alla luce del sole, poi vada in giro di notte a piazzare bombe o magari a progettare attentati e omicidi? E’ questo il senso dell’appello “Condannateci tutti”, firmato da alcuni esponenti No-Tav all’indomani della strana rivendicazione con la quale la fantomatica sigla “Noa – nuclei operativi armati” pretenderebbe di parlare a nome dei No-Tav, addirittura promettendo di eliminare fisicamente i responsabili della repressione contro la protesta della valle di Susa. Ridicolo il solo pensare che il movimento No-Tav possa “convertirsi alla lotta armata”, proprio mentre mobilita l’opinione pubblica italiana per avere sostegno legale.I firmatari si rivolgono direttamente agli autori della lettera recapitata all’Ansa: «“Misteriosi” Noa, abbiamo appena letto il vostro comunicato, uscito con grande puntualità a tre giorni esatti dalla mobilitazione del 22 febbraio che il movimento No-Tav ha sollecitato in tutta Italia per ribadire la più ferma opposizione allo spreco di denaro pubblico secondo la logica delle grandi opere inutili». Intanto, «non capiamo come mai il movimento dovrebbe convertirsi alla lotta armata se già così, per il solo sospetto di aver causato l’incendio di un compressore, abbiamo quattro amici in carcere da mesi da mesi con l’accusa di terrorismo. Poi non capiamo come qualcuno possa ancora credere alla favola dei No-Tav terroristi quando abbiamo appena dimostrato, con una colossale raccolta fondi spontanea e solidale, a oggi di oltre 285mila € (raccolti in tempi di crisi durissima e in sole tre settimane), di voler ottemperare legalmente agli obblighi derivanti dalla condanna (che pure riteniamo profondamente ingiusta) inflitta a tre di noi nella causa intentataci da Ltf. A chi vi state rivolgendo, dunque?».«Il movimento No-Tav non ha orecchie per ascoltare questo genere di provocazioni», scrivono Eleonora Ponte, Claudio Giorno, Roberta Vair, Alberto Fiorentini, Paola Martignetti, Roberto Perdoncin, Chiara Sasso, Lisa Ariemma, Valerio Colombaroli, Valeria Longo, Cristina Bruno, Daniele Forte, Claudio Piacenza, Loredana Bellone e Mario Solara. «Il movimento è da sempre non violento e ha dimostrato di essere talmente forte da non aver bisogno di armi: abbiamo già dalla nostra la forza della ragione. E siamo tanti, sempre di più». I presunti “terroristi” che si firmano “Noa”? Sono proprio «fuori strada». Oppure, è una strada «che è stata loro indicata, come al solito», da chi vuole criminalizzare i No-Tav: «Il vostro vero obiettivo siamo noi. Ma il giochetto non funziona più. E’ vecchio, ormai».E ancora: «Cercate dei facili obiettivi? E perchè allora mettere di mezzo persone importanti che hanno anche la scorta? E che poi magari si spaventano davvero? Dovreste cominciare col colpire noi, siamo No-Tav e quindi obiettivi facilissimi. Niente scorta, qualcuno di noi non ha nemmeno più l’auto». «Non potremo darvi la soddisfazione di spaventarci – concludono i firmatari – perchè molti No-Tav, come dimostrano da 25 anni, non hanno paura di niente. Trovano solo che la stupidità dei più forti e arroganti sia estremamente fastidiosa, oltreché inutile. Noi le nostre energie le stiamo spendendo tutte per un’altra idea di società, economia, politica. Restiamo attesa di un vostro riscontro (condanna)».Cari (si fa per dire) terroristi, chi vorreste prendere per i fondelli? Ce l’avete per caso coi No-Tav, cioè i valsusini che hanno raccolto quasi 300.000 euro in sole tre settimane per sostenere la loro battaglia legale contro l’ecomostro chiamato Torino-Lione? Pensate davvero che qualcuno possa credere che chi si rivolge al popolo italiano per difendersi in tribunale, alla luce del sole, poi vada in giro di notte a piazzare bombe o magari a progettare attentati e omicidi? E’ questo il senso dell’appello “Condannateci tutti”, firmato da alcuni esponenti No-Tav all’indomani della strana rivendicazione con la quale la fantomatica sigla “Noa – nuclei operativi armati” pretenderebbe di parlare a nome dei No-Tav, addirittura promettendo di eliminare fisicamente i responsabili della repressione contro la protesta della valle di Susa. Ridicolo il solo pensare che il movimento No-Tav possa sposare il terrorismo, proprio mentre mobilita l’opinione pubblica italiana per avere sostegno legale.