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Archivio del Tag ‘Anima’

  • Elegantissimo, aristocratico, anarchico Paolo Villaggio

    Scritto il 04/7/17 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Elegantissimo, come nessuno. Lui, Paolo Villaggio, con gli zoccoli di plastica rossi e il caftano di foggia maghrebina. Italiano e rabdomante, come il cantautore Paolo Conte, come lo scrittore Maurizio Maggiani. Anime raffinatissime, capaci di raccontare anche tacendo, di affermare per negazioni, per assenze. In grado di stare ovunque, sempre e comunque, partendo da quella porzione di cielo dove si stagliano le idee che poi maturano, diventando pensieri, vocati a incarnarsi in qualcosa di terreno, masticabile, a volte emozionante, persino profetico. Puoi scegliere il sentiero dell’asceta o quello del guitto, ma è lo stesso: cambia soltanto l’abito. Il doppiopetto, oppure lo “spigato siberiano” con la sciarpa amorevolmente accomodata dalla signora Pina, quel “curioso animale domestico, dai capelli color topo”. Non c’era, la signora Pina, nella “Voce della Luna”. C’era il prefetto Gonnella, con il suo sploverino sdrucito, che – sorgendo dal caos infernale della discoteca-hangar – all’improvviso fa il vuoto attorno a sé guidando, in un valzer di cristallo, una soave dama dei tempi che furono, direttamente discesa dai paradiso dei sogni affrescato da Federico Fellini. Un paradiso in cui il prefetto Gonnella sbalordisce tutti, surclassando l’eroe nazionale più convenzionale, Roberto Benigni.
    Sempre elegantissimo, Paolo Villaggio, anche nei panni dell’austero e perfido colonnello Pròcolo, che per tutta la durata del film (“Il segreto del bosco vecchio”, di Ermanno Olmi) tenta di assassinare il nipote, il giovane Benvenuto, per carpirgli l’eredità e abbattere la sua foresta sacra, simbolo della vita prima di noi – la vita che continua dopo di noi, malgrado noi. Paolo Villaggio anziano, alle prese con reading e presentazioni sempre altamente spettacolari dei suoi 28 titoli, incluso l’esilarante e folle “Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda”, in cui il poeta mette l’anima all’asta, alla maniera di Majakovskij, deliziando anche il pubblico della Russia profonda, che l’ha sempre amato considerandolo un grande scrittore popolare, come autorevolmente confermato da superstar della letteratura internazionale del calibro di Evgenij Evtushenko (con grande scorno – come ricordato dallo stesso Paolo, gongolante – dei vari Moravia dell’intellighenzia regolare, seriosamente ufficiale). Sarà stato decisamente divertente, un vero premio alla carriera, per un finto cialtrone d’alta scuola perfettamente a suo agio in un perimetro popolato di nomi come Fabrizio De André, Vittorio Gassman, Mario Monicelli, accanto a quello dell’inseparabile Gigi Reder.
    Finto cialtrone d’alta scuola ma senza scuola, e che ha fatto storia. La scuola è stata l’Italsider, sono state le navi da crociera, i piano-bar col Fabrizio e il Silvio, quello fissato con la televisione. Villaggio poeta: l’amore, al profumo dei pitosfori in fiore. Arte di puro istinto, intelligenza prontamente liquefatta in un copione tragicomico, grottesco, inattendibile, felicemente in fuga nel regno dell’iperbole. Cifra stilistica, diranno i critici. «Stronzate, io ormai mi cago addosso», li ha zittiti regolarmente il principe Bakunin, l’anarchico genovese, l’aristocratico della risata che ti costringe a pensare, senza mai scendere a patti con l’angusto lessico delle chiacchiere mainstream. Non un’intervista lineare, in decenni di esposizione mediatica. Giacimenti di verità sparsi qua e là, in mezzo a pernacchie e livide freddure, nutrite di cinismo divertito: trovalo tu, l’umano in me, io non posso scodellartelo sul piatto, sono costretto a insolentirti – con affetto, sempre, ma senza mai venire meno alla regola monastica che ho scelto, di cavaliere in missione per conto di voi tutti, me compreso. “Storia della libertà di pensiero”, scrisse, divertendosi – ancora – a fare scempio di monumenti, totem e tabù. L’ultimo atto editoriale vale un’epigrafe: “Siamo nella merda”, testualmente. Lo siamo eccome, ora, non avendo più con noi Paolo Villaggio, il gigante goffo, l’elegantissimo signore che stava sotto i riflettori solo per dirci come siamo veramente: impresentabili, indecenti, regolarmente inadeguati, cioè bellissimi.

    Elegantissimo, come nessuno. Lui, Paolo Villaggio, con gli zoccoli di plastica rossi e il caftano di foggia maghrebina. Italiano e rabdomante, come il cantautore Paolo Conte, come lo scrittore Maurizio Maggiani. Anime raffinatissime, capaci di raccontare anche tacendo, di affermare per negazioni, per assenze. In grado di stare ovunque, sempre e comunque, partendo da quella porzione di cielo dove si stagliano le idee che poi maturano, diventando pensieri, vocati a incarnarsi in qualcosa di terreno, masticabile, a volte emozionante, persino profetico. Puoi scegliere il sentiero dell’asceta o quello del guitto, ma è lo stesso: cambia soltanto l’abito. Il doppiopetto, oppure lo “spigato siberiano” con la sciarpa amorevolmente accomodata dalla signora Pina, quel “curioso animale domestico, dai capelli color topo”. Non c’era, la signora Pina, nella “Voce della Luna”. C’era il prefetto Gonnella, con il suo sploverino sdrucito, che – sorgendo dal caos infernale della discoteca-hangar – all’improvviso fa il vuoto attorno a sé guidando, in un valzer di cristallo, una soave dama dei tempi che furono, direttamente discesa dal paradiso dei sogni affrescato da Federico Fellini. Un paradiso in cui il prefetto Gonnella sbalordisce tutti, surclassando l’eroe nazionale più convenzionale, Roberto Benigni.

  • Nuova sinistra, fai la guerra a questo sistema (o stai a casa)

    Scritto il 23/6/17 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l’urgenza della proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l’assalto soverchiante di tutti quelli che “mamma mia, come superiamo il 5%?”. Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte. Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.
    Si parte dalla Costituzione, anzi dalla sua anima sociale e antiliberista affermata meravigliosamente dall’articolo 3, e si sostiene che si deve prima di tutto rispondere a quel popolo di sinistra che in nome di quell’anima ha votato No il 4 dicembre. Benissimo, questo però significa esplicitare subito alcune discriminanti. Prima di tutto non possono essere interlocutori di questa proposta coloro che hanno votato Sì, per capirci sono fuori Giuliano Pisapia e Romano Prodi. Il problema si pone però anche verso chi ha votato No, ma prima ha sostenuto il Jobsact, la legge Fornero e soprattutto quella mina a orologeria contro i principi sociali della Costituzione, quale è il nuovo articolo 81 che obbliga al pareggio di bilancio in ottemperanza al mostruoso Fiscal Compact. Durante il governo Monti il Parlamento quasi unanime ha costituzionalizzato quella austerità che giustamente Falcone e Montanari vogliono rovesciare. E se non sono solo buoni propositi, la rottura con l’austerità significa soppressione immediata delle misure che emblematicamente la realizzano. Chi le ha votate naturalmente può ammettere di essersi sbagliato e sostenere un programma che proponga di cancellare quelle misure, ma lo deve fare con rigore e sofferenza e non per furbizia.
    Jeremy Corbyn ha riconquistato fiducia nel mondo del lavoro, dopo essere stato svillaneggiato dalle sinistre liberali e dai loro mass media, accettando il voto sulla Brexit e proponendo un programma secco di nazionalizzazioni. Questa parola da noi è tabù nei sindacati confederali e anche in buona parte della sinistra più radicale, eppure è proprio sul terreno delle privatizzazioni che si gioca la possibilità di arrestare e veder dilagare ancora le politiche economiche liberiste. Alitalia e Ilva sono i primi banchi di prova, poi seguiranno le Poste, le Ferrovie, Enel ed Eni e naturalmente ciò che resta del sistema bancario. O torna l’intervento pubblico diretto nell’economia, o da noi va tutto in mano alle multinazionali, visto che la grande borghesia italiana non esiste più come classe autonoma dai poteri della globalizzazione. O pubblico, o si svende ciò che resta del paese, questa è l’alternativa reale oggi e che scelta fa al riguardo la sinistra prefigurata da Falcone e Montanari?
    Lavoro con diritti, scuola pubblica e stato sociale, ambiente, territorio e beni comuni sono dichiaratamente al centro della proposta di nuova sinistra. Anche qui possiamo solo dire giustissimo, ma dobbiamo però aggiungere: che misure concrete si vogliono subito attuare, che leggi si vogliono cancellare, che nuovi atti si vogliono varare? Naturalmente ci sono programmi decennali da individuare, ma il buongiorno si vede dal mattino, per esempio dall’impegno a cancellare tutta la buona scuola e la controriforma della sanità, a quello a fermare tutte le grandi opere, a partire dalla famigerata Tav in valle Susa. Non è solo questo che basta, ma è questo che serve per capire se si vuol fare sul serio. Il bilancio delle spese militari dello Stato italiano è in continua ascesa e Gentiloni si è impegnato quasi a raddoppiarlo per raggiungere quel 2% del Pil posto dagli accordi Nato. Si ribalta questa scelta nel suo opposto con il taglio delle spese ed il ritiro dalle missioni all’estero, o ci si accontenta di partecipare alla sfilata del 2 giugno con la spilla della pace?
    Anche qui le scelte programmatiche, che Falcone e Montanari pongono giustamente come discriminanti, se sono vere individuano già di che pasta e di quali persone dovrebbe essere composta la nuova sinistra. Che alla fine dovrà misurarsi con la questione di fondo: le politiche del lavoro, dell’ambiente e dello stato sociale, in alternativa alla austerità e alle spese di guerra, sono realizzabili accettando i vincoli Ue e Nato? Noi che abbiamo costituito Eurostop pensiamo di no, che senza la rottura con quelle istituzioni nulla di buono sia possibile per i poveri e gli sfruttati. Noi pensiamo così, ma siamo disposti ad accettare la sfida di chi invece pensa che quelle istituzioni siano positivamente riformabili. Chi crede a questo però deve essere disposto a rompere se poi dovesse verificare che il suo programma posto è posto all’indice proprio da quelle istituzioni. E deve dirlo.
    Chi ha votato No il 4 dicembre non può dimenticare che tutta la governance europea si era spesa per il Sì. Né può ignorare che la Costituzione del 1948 e i trattati di Maastricht e Lisbona sono formalmente e concretamente incompatibili. Si può non volere la rottura con la Ue nel programma, ma si deve essere disposti a farla se le istituzioni comunitarie quel programma ti impediscono di realizzarlo. Tsipras tra il rispetto del referendum popolare e quello dei diktat della Troika ha scelto il secondo. La sinistra proposta da Falcone e Montanari è disposta a fare la scelta esattamente opposta? Siccome nel testo di Falcone e Montanari non ho trovato risposte chiare a domande per me decisive per capire cosa essi vogliano fare, mi sono permesso alcune di quelle domande di formularle io. Mi permetto di suggerire ai due estensori dell’appello di parlarne esplicitamente nell’assemblea del 18 giugno. Magari si affermi l’opposto di quanto scritto qui, ma per favore si faccia chiarezza. E non si parli d’altro per favore, sappiamo tutti che i nodi sono questi e non si sciolgono coprendoli di grandi valori e buoni propositi.
    (Giorgio Cremaschi, “Vorrei che Falcone e Montanari facessero chiarezza sulla loro idea di sinistra”, dal blog di Cremaschi sull’“Huffington Post” del 9 giugno 2017).

    Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l’urgenza della proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l’assalto soverchiante di tutti quelli che “mamma mia, come superiamo il 5%?”. Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte. Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.

  • Il neoliberismo ha conquistato lo Stato, complice la sinistra

    Scritto il 15/6/17 • nella Categoria: idee • (6)

    Vi hanno raccontato che il liberismo è contro l’ingerenza dello Stato nell’ecomomia? Mentivano: il neoliberismo ha assoluto bisogno dello Stato, per creare un ambiente di leggi favorevoli alle multinazionali, che moltiplichi in modo esponenziale i profitti speculativi. Lo ricorda Sandro Vero, che denuncia il ruolo dei sedicenti progressisti in questa distorsione: «Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione». Le politiche ultraliberiste, dalla Thatcher a Reagan nei primi anni ‘80 «si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la “third way” di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale». La sinistra si è convertita «alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale», reiterando una «arrogante bugia», quella di «raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello Stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra». Due bugie: la sinistra non ha difeso un bel niente, e la destra – anziché svuotarlo – lo Stato lo ha plasmato in funzione pro-business.
    «Già da tempo, e completamente dentro al suo dibattito interno – scrive Vero su “Megachip” – il neoliberismo aveva precisato la funzione fondamentale dello Stato nella cornice teorica e politica che assegnava ai mercati – al loro giudizio finale – una sorta di priorità metodologica nella definizione dei programmi economici e sociali». Quindi uno Stato in funzione di coordinatore strategico dei grandi interessi economici. «Il cosiddetto “laissez faire” era ed è rimasta solo una delle posizioni che compongono la galassia neo-liberale». Nell’accezione più diffusa, invece, proprio lo Stato «deve costruire, mantenere, sorvegliare una complessa struttura istituzionale che garantisca la realizzazione dei princìpi fondamentali della governamentalità neoliberista: la concorrenza sempre e dovunque, la misura della valorizzazione economica applicata alle materie più refrattarie, il dispiegamento pieno e privo di intralci della cultura del “capitale umano”». Una distinzione «fasulla», quella tra destra e sinistra, figlia di una narrazione «fraudolenta» del rapporto con l’istituzione statale.
    Quella attuale, aggiunge Vero, è «una sinistra che consegna l’anima e il corpo a una “razionalità” irriducibile, moderna, autocentrata, senza deroghe, fatta di progressive mortificazioni del patrimonio keynesiano di una politica economica e di una economia politica nel segno del compromesso sociale». Questa è una post-sinistra, «il cui sogno, da realizzare mediante la sostituzione della lotta per l’uguaglianza con la lotta alla povertà, è divenuto la scomparsa delle classi: e non nel senso vaticinato da Marx». Ma la responsabilità della sinistra, «specie nell’imminenza del varo dell’euro e dell’Europa come fetazione di quel processo ambiguo che è la globalizzazione (altra infatuazione ingovernabile)», secondo Vero non si esaurisce nel fatto di aver fornito alla destra finanziaria i suoi strumenti istituzionali: «Il potere di penetrazione che la nuova ragione del mondo ha dispiegato nel passaggio al nuovo millennio proviene dalla sottile, pervicace, quotidiana costruzione di una soggettività perfettamente speculare alle necessità oggettive di cui lo Stato si fa garante».
    E la “forgia” di un soggetto costantemente richiamato al suo diritto-dovere di essere libero e concorrenziale «è stata portata avanti nelle officine di una sinistra che ha fatto valere il peso delle sue rinunce, della sua sconfitta, della sua colpa, quasi come un enorme motivo di vanto». Per Sandro Vero è stata «una gara con la destra nella partita della modernità, una vigliacca dimostrazione di cambiamento epocale sulle spalle di un’intera umanità del lavoro, che ha visto stravolgere giorno dopo giorno il modo di intendere, di vivere, di sognare il rapporto con il proprio fare e con il proprio essere, entrambi risucchiati dentro la logica dell’auto-misurazione, dell’auto-premiazione, perfino dell’auto-esecrazione». La solidarietà sociale? «E’ divenuta presto una sorta di materia purulenta che infetta la mente e l’anima dell’individuo, privandolo dell’energia che gli occorre per realizzare la piena forma del suo essere: un capitale da amministrare, nei rischi e nei successi, nella certezza che l’infelicità è riconducibile solo e soltanto a un errore di computo!».

    Vi hanno raccontato che il liberismo è contro l’ingerenza dello Stato nell’ecomomia? Mentivano: il neoliberismo ha assoluto bisogno dello Stato, per creare un ambiente di leggi favorevoli alle multinazionali, che moltiplichi in modo esponenziale i profitti speculativi. Lo ricorda il filosofo Sandro Vero, che denuncia il ruolo dei sedicenti progressisti in questa distorsione: «Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione». Le politiche ultraliberiste, dalla Thatcher a Reagan nei primi anni ‘80 «si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la “third way” di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale». La sinistra si è convertita «alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale», reiterando una «arrogante bugia», quella di «raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello Stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra». Due bugie: la sinistra non ha difeso un bel niente, e la destra – anziché svuotarlo – lo Stato lo ha plasmato in funzione pro-business.

  • Zurlini: quelli che cercano i super-poteri nella New Age

    Scritto il 19/3/17 • nella Categoria: idee • (6)

    Il fenomeno della New Age ci ha portati nel mondo dei chakra, della kundalini, della meditazione, della respirazione forzata, delle iniziazioni a pagamento ed ha alimentato, con l’esaltazione della “tecnica” da imparare in seminari di un giorno in grandi auditorium, il desiderio di “saltare i gradini” per acquisire i poteri sulla materia. Ha presentato ai curiosi e ai ricercatori, la “Via Veloce del Potere” e dell’Energia da manipolare a piacimento, partendo da una base egoistica. In altre parole, ha presentato la possibilità di acquisire Potere personale, senza gli altri due punti del triangolo basilare della Vita Universale: l’Amore e l’Intelligenza. Praticare tecniche fisiche o mentali per accelerare la realizzazione dei propri desideri, permette un grande afflusso di energia sul Plesso Solare, il Centro Sacrale, il Cuore e la Gola. Questo prova congestioni, problemi fisici e psichici. Anche se molti partono da “buone intenzioni”, quest’ultime non bastano. L’energia è neutra e non guarda le intenzioni di partenza, ma espande quello che trova! Le fasi alchemiche di trasformazione di sé richiedono pazienza e anni di lungo e lento lavoro, quelli che vogliono tutto e subito rischiano di bruciare tutto e rovinare la “cottura”…
    All’inizio non ci si accorge di questi “errori spirituali”, poi pian piano si avverte di essere sotto l’effetto di forze fisiche, emotive e mentali che hanno aumentato gli impulsi sessuali, hanno aumentato l’irascibilità, la separatività, la critica continua verso chi pratica forme diverse di ricerca spirituale, l’egoismo, l’insensibilità verso gli eventi negativi (esempio: “questo evento negativo accaduto a queste persone non mi tocca per niente, perché è il loro karma negativo che li sta punendo”), oppure l’indifferenza verso i bisogni degli altri, nonostante i mantra, gli esercizi di risveglio e le tecniche utilizzate per attrarre a sé il partner e la macchina nuova, si rimane ancora fondamentalmente egoisti, separativi e con il “cuore chiuso”. Ci sono persone che dopo dieci anni di meditazioni sono diventate peggio di prima, poiché non avendo seguito un solo percorso, hanno mescolato (senza uso del discernimento e la saggezza di una Guida dal cuore puro) fra di loro diverse energie creando ingorghi e blocchi energetici. Questo non aiuta l’umanità a prendere fiducia e iniziare un cammino di risveglio su scala più ampia, ma permette all’opinione pubblica di aumentare la separazione e il giudizio, creando maggiore conflitto tra materialità e spiritualità.
    I grandi problemi dei Movimenti Spirituali, delle Scuole Esoteriche, delle Chiese e della moltitudine di insegnanti e guide spirituali, sono sempre stati la coerenza e l’esempio. Il fatto, cioè, della contraddizione tra il parlato e il vissuto. Perché questo? Perché noi stiamo vivendo in un periodo storico in cui lo “spirituale” sta emergendo sempre più potentemente come reazione al materialismo dilagante. Molti quindi si dedicano allo spirituale e all’esoterismo, entrano in scuole e movimenti vari. Perché lo fanno? Alcuni perché sono in crisi esistenziale e pensano di risolverla col Divino e con le tecniche spirituali. Quindi per sollievo. Altri perché hanno paura del mondo e dunque si ritirano in luoghi appartati, comunitari, eco-villaggi, ecc. Altri ancora perché hanno bisogno di lavorare e di affermarsi e trovano nello “spirituale” un terreno molto fertile. Si guadagna bene e possono dispensare consigli di vita e promesse miracolose di illuminazione a tutti gli inconsapevoli. Così fanno del male a se stessi e anche agli altri, rovinando la credibilità di Scuole, Movimenti, Insegnanti e Guide.
    Sono pochi purtroppo quelli che nello Spirituale riconoscono se stessi come strumenti di servizio verso l’umanità e la Natura. Proprio questa è stata la crisi delle Religioni, delle Scuole e dei Movimenti Spirituali: la mancanza di credibilità. Perché, a parole, tutti dicono frasi molto belle e meravigliose ma poi nei fatti si comportano all’opposto perché non sono pronti al servizio, nel quale si deve dimenticare se stessi per cercare di aiutare gli altri ad evolvere. Molti hanno ancora bisogno di affermare se stessi e di compiere la loro esperienza nell’ego e nella personalità. Anche se l’Anima fa sentire la sua voce e chiama il suo discepolo, egli è ancora perso nel successo e nell’auto realizzazione attraverso lo spirituale. Bisogna porre attenzione a quel mondo dell’energia che è stato presentato in modo estremo e parossistico, tipicamente infantile e adolescenziale (es. l’apertura dei chakra a tutte le ore, le attivazioni di codici numerici a pagamento, “pulizia del karma” con una passata della mano, magliette che trasformano l’aura, canalizzazioni di ogni tipo con angeli, santi, morti, ecc.).
    Il Sentiero Spirituale è un’esperienza di Magia e Alchimia, di Osservazione lenta e paziente nella conoscenza di se stessi, di lavoro profondo sul dolore del proprio sistema familiare, di manipolazione di energia psichica e spirituale fatta in modo totalmente consapevole e ordinato. E soprattutto non è un processo veloce (dove basta la lettura di un paio di libri) per imparare l’arte. Il primo passo, basilare e fondamentale è la “purificazione” dei corpi. Solo questo protegge l’individuo dalla forza che sta muovendo. Nelle antiche Scuole non si permetteva mai di meditare quando l’Aspirante aveva una bassa vitalità, emozioni ancora negative o pensieri di critica e separazione perché, come abbiamo detto prima, la meditazione rafforza quello che trova! Prima occorre purificare i veicoli con vari esercizi fisici, emotivi e mentali, bisogna radicare una visione elevata nel cuore e nella mente dell’aspirante, insegnandogli ad alimentarsi senza intossicarsi. A relazionarsi con gli altri senza intossicarsi. A lavorare quotidianamente senza farsi depredare dal lavoro stesso. Ci sono persone che mangiano al ristorante (carne e formaggi) fino alle metà pomeriggio, e con il corpo pieno di cibo (e tossine), di sera, fanno la loro meditazione e la loro pratica spirituale! Questa è follia pura.
    Studiare e leggere, meditare, volere educare se stessi e l’ego a sviluppare la comprensione amorevole, la consapevolezza di sé, il perdono e la gioia, tenendo però il tutto solo sul piano mentale, senza azione, crea una congestione energetica. Se sul piano dell’azione, quello quotidiano e ordinario, con la propria famiglia, datori di lavoro, colleghi, amici e partner, si esprimono solo le forze della personalità, quelle ordinarie e conformi alla norma della massa, questo fa sbagliare strada e ritarda notevolmente il progresso sul Sentiero Evolutivo. In ultimo, ma non per complicare le cose, ma solo per esigenza di totale chiarezza: il Sentiero Spirituale non è mai repressivo, chiuso, forzato, bensì spontaneo, fatto di entusiasmo e gioia. Se c’è tristezza, eccessivo rigore, incapacità a sorridere di sé, freddezza, critica verso tutti gli altri movimenti spirituali e insegnanti, separatività e mancanza di collaborazione col “diverso da sé”, allora è bene riflettere: si sta sbagliando qualcosa! Che il fuoco del discernimento di questo scritto possa essere utile ai cercatori della verità sugli errori da evitare e la strada da percorrere al meglio.
    (Andrea Zurlini, “Le trappole sul sentiero spirituale”, dal blog di Zurlini del 18 dicembre 2016).

    Il fenomeno della New Age ci ha portati nel mondo dei chakra, della kundalini, della meditazione, della respirazione forzata, delle iniziazioni a pagamento ed ha alimentato, con l’esaltazione della “tecnica” da imparare in seminari di un giorno in grandi auditorium, il desiderio di “saltare i gradini” per acquisire i poteri sulla materia. Ha presentato ai curiosi e ai ricercatori, la “Via Veloce del Potere” e dell’Energia da manipolare a piacimento, partendo da una base egoistica. In altre parole, ha presentato la possibilità di acquisire Potere personale, senza gli altri due punti del triangolo basilare della Vita Universale: l’Amore e l’Intelligenza. Praticare tecniche fisiche o mentali per accelerare la realizzazione dei propri desideri, permette un grande afflusso di energia sul Plesso Solare, il Centro Sacrale, il Cuore e la Gola. Questo prova congestioni, problemi fisici e psichici. Anche se molti partono da “buone intenzioni”, quest’ultime non bastano. L’energia è neutra e non guarda le intenzioni di partenza, ma espande quello che trova! Le fasi alchemiche di trasformazione di sé richiedono pazienza e anni di lungo e lento lavoro, quelli che vogliono tutto e subito rischiano di bruciare tutto e rovinare la “cottura”…

  • Vietato amare: così Ray Dalio metterà fine all’umanità

    Scritto il 03/3/17 • nella Categoria: idee • (9)

    Che personalità deve avere un direttore dell’Fbi, cioè il reale Principe delle Tenebre della politica interna degli Stati Uniti dall’assassinio di Jfk e anche prima? Come dev’essere, nell’anima, uno che regge il potere assoluto? Risposta più che ovvia: «Non può essere un umano, deve essere una macchina senza scrupoli, un androide di spietata logica, occhi vitrei, implacabile. Oggi questo uomo si chiama James Comey». E allora, scrive Paolo Barnard, che effetto fa scoprire che «un siffatto micidiale androide», anni fa, fu assunto in un’organizzazione che lo ha fatto addirittura collassare? «Che razza di apocalittico luogo deve essere quello dove una macchina spietata come un direttore dell’Fbi non ce la fa, vacilla e fugge?». Si chiama Bridgewater. E’ il mondo di Ray Dalio. Bridgewater è un Hedge Fund, un fondo d’investimento dove i multimiliardari del pianeta mettono fortune con lo scopo di proteggerle da rischi e, al tempo stesso, di azzardare scommesse finanziarie mozzafiato per decuplicare i guadagni. Bridgewater è oggi il più potente Hedge Fund del mondo. «Perché? Il motivo è semplice ma centrale, in questo racconto dell’orrore che sarà la vita da incubo dei vostri figli». Bridgewater “indovina” sempre, non sbaglia mai. E Ray Dalio è il suo guru.
    Racconta Barnard, straordinario giornalista investigativo: «Lessi in un luogo oscuro una dichiarazione di Ray Dalio che parlava dell’amigdala, cioè della minuta porzione del cervello umano che si pensa gestisca le emozioni. E Dalio ne parlava, a lungo, nel corso di quella che invece doveva essere una nota sui mercati per gli investitori». Warning: «Ma che razza di viaggio lisergico è il gestore dell’Hedge Fund più miliardario del pianeta che invece di parlare agli investitori di spread, tassi, Bull Markets, trends, meccanismi di trasmissione monetaria o Credit Defaults, parla di amigdala cerebrale?». Cliccando sul sito di Bridgewater, si scopre che «lì dentro sta succedendo qualcosa d’indicibile, ma indicibilmente orrendo», perché «spazzerà via tutto ciò che dal 18esimo secolo si è aggregato attorno alla parola lavoro – tutto: leggi, filosofie, diritti, organizzazioni». Ray Dalio? «E’ l’esatto contrario dei suoi omologhi, cioè dei Blankfein, Soros, Fink, Mustier, Cuccia, Agnelli, che, com’è noto, passano o passarono la vita a “giocare a Dio”. Dalio passa la sua vita nella convinzione di essere talmente fallato, che solo un orwelliano lungo processo di aggregazione, limatura ed eliminazione dei suoi errori e dei suoi autoinganni potrà portare lui ad essere una Macchina infallibile, e Bridgewater al successo eterno».
    E infatti, continua Barnard, «Dalio aspira a morire nella carne solo dopo che la sua mente sarà stata trasformata in una Macchina, in una Machine, ma proprio alla lettera, perché Ray sostiene, ripeto, che solo un orwelliano lungo processo di aggregazione, limatura ed eliminazione degli errori e degli autoinganni, e quindi solo eliminando le falle umane di cui lui e noi tutti siamo zeppi per causa dell’amigdala emotiva, cioè divenendo Machines, si ottiene l’efficiente vittoria perpetua nella competizione». Ma attenti: Dalio non prepara solo la sua mutazione in Machine, ma la mutazione in Machines di chiunque respiri e lavori, e lavorerà. E non solo a Bridgewater. «Dovrà essere trasformato, e per prima cosa non deve avere l’amigdala delle emozioni». Sicché Dalio «non solo prepara, ma ha già pronto tutto il progetto di trasformazione». E qui sta il fatto agghiacciante: «Il mondo che conta, dalla Fiat Chrysler alla General Motors, dalla Sony Corp. alla Carrefour, dall’Eni a Google, da Goldman Sachs a Banca Intesa, lo stanno guardando e… hanno capito. Hanno capito che l’apocalittico disegno di Ray Dalio è un “Money Winner”, cioè vince nella gara dei soldi, e va copiato. Sarà copiato alla stessa velocità con cui si sparge un incendio dopo un anno di siccità».
    Il virus-Dalio «colerà a pioggia dai colossi dell’impiego ai gruppi minori fino all’azienda nostrana», e quindi «segnerà nella storia dell’umanità la fine del mondo del lavoro così come lo conosciamo, incenerendone ogni diritto o umanità rimasti. E vincerà anche perché il modello Ray Dalio-Bridgewater frantuma la storia del lavoro umano senza violare un singolo diritto sindacale, una singola legge, una singola Costituzione». A chi scrollerà il capo con scetticismo, Barnard ricorda nel 1946, «l’epoca delle radio gracchianti e dei telefoni a rotella», un uomo di nome George Orwell predisse che l’umanità fosse spiata da un Grande Fratello in ogni sua mossa. «Settant’anni dopo Edward Snowden rivelò al mondo che il Grande Fratello Nsa esisteva davvero». E come ci è arrivato, Ray Dalio, a concepire un mondo in cui si possa morire nella carne solo dopo essere diventati «Macchina che aggrega, lima ed elimina i suoi errori e i suoi autoinganni, senza Amigdale emotive di mezzo», anche a costo di perdere per strada i “deboli” come James Comey, ora capo dell’Fbi?
    La home page di Bridgewater, «che è un mostro di mercati, derivati, profitti, speculazioni mondiali sulle Borse e clienti colossali», è piena di foglie, alberi, magliette, jeans, ragazzi in riunioni rilassate, sorrisi. «Sembra la home di una clinica di psicoterapia, di un famoso centro di riabilitazione psicologica per giovani alcolisti, o tossicodipendenti, o problematici, o emotivamente instabili. Una clinica nel verde sereno. Cosa significa?». Questo, continua Barnard, non è affatto il solito “spin” (bluff) all’americana”. «La risposta è di una facilità sbalorditiva: Bridgewater lo è davvero una clinica, Ray Dalio più che sul denaro oggi lavora sulla psiche, e lì si è sviluppato quello che di certo è il più agghiacciante progetto di robotizzazione della personalità del dipendente nella storia dell’umanità». Oggi, Dalio «non può ancora ordinare al genere umano una modifica del codice Dna che elimini dai cervelli dei feti l’amigdala delle emozioni», ma può già «spegnerla con la sua filosofia applicata», che trasforma l’essere umano in Machine da lavoro. Lo ripete fino all’ossessione: «I cervelli umani sono macchine. Il mondo è una macchina. L’economia è una macchina. Se nutriamo queste macchine con un’immensa mole di dati, se eliminiamo l’emotività che porta a scelte irrazionali in politica ed economia, queste macchine non sbaglieranno quasi più».
    Questo che appare come un incubo per il futuro di qualsiasi dipendente, osserva Barnard, «sarà adottato alla velocità di un’epidemia da tutti i maggiori datori di lavoro del mondo, e a cascata anche dai medi e dai piccoli, perché è un incredibile “money winner”: credete che John Elkann non lo abbia già assorbito?». Ray Dalio, aggiunge Barnard, ripete ossessivamente i suoi tre mantra supremi: trasparenza, verità radicale, relazioni intense. «Sono tre punture di cianuro studiate con abilità che definire maligna è riduttivo». Ogni componente del pianeta va ridotto a Machine, e la Machine vince, «perché l’accumulo di dati incrociati e analizzati la rende invincibile, dice Ray». L’amigdala del cervello umano, però, mette i bastoni fra le ruote con l’emotività, che “personalizza” i dipendenti. «Essi allora, continua il Credo-Dalio, vanno totalmente spersonalizzati». In che modo? «Si usano pifferai magici che formulino parole e pratiche che incantano: Ray Dalio ne è il maestro». La decantata “trasparenza”? Suona bellissima, ma a Bridgewater «significa che esiste un sistema dove ogni singolo minuto di lavoro in ufficio è filmato e registrato, e tutto ciò è reso disponibile in una videoteca a chiunque nell’azienda, dal barista a Dalio».
    Il dipendente sa di essere “trasparente” «perché non può nascondere neppure un colpo di tosse di disapprovazione senza che tutta l’azienda possa vederlo». In più, Ray Dalio «ha dato ordine a tutti i suoi dipendenti di sfidare di continuo gli altri con giudizi o polemiche». E questo porta al Dalio-concetto di “verità radicale”: chi lavora sotto monitoraggio, incoraggiato a polemizzare con i colleghi, finisce maciullato «in una pubblica arena giornaliera per ogni respiro fatto e parola detta, in continue riunioni». Di qui le “relazioni intense”. nel Dalio-gergo: «Intense perché ti devastano ogni secondo, e ogni secondo devi poter attaccare o difenderti perché tutta l’azienda ha visto e udito ciò che hai ‘respirato’, detto o registrato in video e audio». Questa psicotizzante pratica, viene detto ai dipendenti, serve  loro «per imparare che solo un orwelliano lungo processo di aggregazione, limatura ed eliminazione dei propri errori e dei propri autoinganni li potrà portare ad essere una Macchina infallibile, cioè li porterà al successo eterno che è prerogativa delle Machines. L’amigdala va polverizzata dalla storia, e se possibile dalla biogenetica in futuro. L’emozione è il nemico della Machine e del successo in ogni sfera del vivere. Questo viene detto ai dipendenti».
    Così Ray Dalio spersonalizza il dipendente, che diventa una Machine «perfetta per i suoi profitti, che fanno record mondiale». E così, domani, «faranno i datori di lavoro di tuo figlio e del figlio di tuo figlio». Il “Wall Street Journal”, tempo fa, scrisse che in realtà a Bridgewater «si udivano singhiozzi convulsi di dipendenti nascosti nei bagni, unici luoghi dove le registrazioni sono vietate». La risposta di Ray Dalio fu: «Talvolta i sentimenti di chi lavora con noi vengono toccati. Ma questo è causato dall’amigdala. La cose non sono come appaiono: i nostri dipendenti vedono le proprie debolezze e si emozionano. Ma poi prendono fiato, si calmano e diventano razionali». Ma i dipendenti, agiunge Barnard, non possono perdere il posto di lavoro, e quindi si adattano. «John Elkann o Benetton o l’imprenditore di Siena lo vedono, hanno questo potere di ricatto sui sottoposti, e capiscono il ‘genio’ di Ray». In più, Bridgewater sta sviluppando un software che riproduce i “princìpi” di Dalio: si chiama di PriOs, «cortesia di David Ferrucci, ex leader del progetto di intelligenza artificiale della Ibm». Profetizza Barnard: «PriOS, alla morte di Ray, diventerà l’amministratore delegato o presidente dell’azienda, supervisionerà ogni singola mossa o voce umana, interagirà sui tablet che i dipendenti sono costretti per contratto a tenere accesi per dirigerli o criticarli o sentire le loro voci, o registrare le loro critiche ai colleghi e trasmetterle a quei colleghi, o correggere le loro voci». Ma sempre secondo i “princìpi” di Ray Dalio: “Tu sei nato Macchina e grazie a questo sei destinato alla perfezione”.
    E’ un incubo, dice Barnard, che si avvererà presto: «PriOs sarà l’Ad di Fiat Chrysler, di Benetton, di Rizzoli Rcs, di Tods, di Pirelli, di Eni, di Poste Italiane, della Rai e di Mediaset, di Ipercoop. Sarà il tuo datore di lavoro anche a Perugia o Vicenza, Bergamo, Latina, Pescara». Si comincia prestissimo, a studiare per diventare Machine: «Ray Dalio aveva undici anni, 11, quando iniziò a interessarsi di mercati. Oggi è l’uomo più potente del mondo». Non solo per i 150 miliardi di dollari che gestisce ogni giorno, ma «soprattutto perché ha disegnato gli algoritmi che renderanno tuo figlio, e il figlio di tuo figlio, e il figlio del figlio di tuo figlio, degli psicotizzati servi del profitto, privi di amigdala, senza vita di emozioni: perché non si torna a casa dopo 5 o 6 giorni passati così e poi si è capaci di amare. Saranno le Ray-Machines per generazioni». Barnard rivendica di esser stato il primo, in solitudine, a lanciare l’allarme: «Vi avvisai vent’anni fa del Ttip, allora Wto, della globalizzazione, di chi ha pensato al Jobs Act». E chiosa: «Se per caso riesci a sollevare l’encefalo dalla Raggi o da Travaglio, ricordati di queste righe. Ricorda questo nome: Ray Dalio».

    Che personalità deve avere un direttore dell’Fbi, cioè il reale Principe delle Tenebre della politica interna degli Stati Uniti dall’assassinio di Jfk e anche prima? Come dev’essere, nell’anima, uno che regge il potere assoluto? Risposta più che ovvia: «Non può essere un umano, deve essere una macchina senza scrupoli, un androide di spietata logica, occhi vitrei, implacabile. Oggi questo uomo si chiama James Comey». E allora, scrive Paolo Barnard, che effetto fa scoprire che «un siffatto micidiale androide», anni fa, fu assunto in un’organizzazione che lo ha fatto addirittura collassare? «Che razza di apocalittico luogo deve essere quello dove una macchina spietata come un direttore dell’Fbi non ce la fa, vacilla e fugge?». Si chiama Bridgewater. E’ il mondo di Ray Dalio. Bridgewater è un Hedge Fund, un fondo d’investimento dove i multimiliardari del pianeta mettono fortune con lo scopo di proteggerle da rischi e, al tempo stesso, di azzardare scommesse finanziarie mozzafiato per decuplicare i guadagni. Bridgewater è oggi il più potente Hedge Fund del mondo. «Perché? Il motivo è semplice ma centrale, in questo racconto dell’orrore che sarà la vita da incubo dei vostri figli». Bridgewater “indovina” sempre, non sbaglia mai. E Ray Dalio è il suo guru.

  • Tarchi: un altro mondo è impossibile, dicono. E ci crediamo

    Scritto il 10/2/17 • nella Categoria: idee • (2)

    Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».
    Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, e sgretolate le fondamenta dell’apparente opposizione tra destra e sinistra, si pensò a un progetto che all’individualismo contrapponesse «la solidarietà organica, la promozione dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli». Al posto del «cosmopolitismo omogeneizzante», l’elogio delle «identità plurali» e della diversità culturale. E al dominio dell’economia sulla politica si opponeva il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali, e di “qualità della vita”. Stop al «culto delle forme istituzionali», meglio «la sostanza della democrazia: il controllo popolare sul potere». Scrive Tarchi: «Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni». La realtà è nuda: «Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune».
    Al bipolarismo Usa-Urss, che «aveva fondato un condominio sul pianeta», si è sostituita «una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo», verso «un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto». E i guasti «provocati da un capitalismo sempre meno umano e produttivo» sono stati «moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere della speculazione finanziaria, che tramite la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale». Conseguenza immediata: l’esplosione dei flussi migratori di massa. Un fenomeno che esalta i cantori delle “società multietniche” capaci di dissolvere le “barriere” identitarie, «in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è un individuo visto come il titolare di interessi esclusivi, e pertanto egoistici».
    Ancora: «La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione della dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda». E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo, che Tarchi considera «ipocrita nella sua geometria, variabile secondo le convenienze del momento», di fatto «ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per un voto “sbagliato” del corpo elettorale a favore di qualche outsider, sono additate alla pubblica esecrazione».
    In questo scoraggiante panorama, aggiunge l’analista, gli ex “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé, a cominciare da «alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra largamente predominanti nelle università e nell’editoria», che nel volgere di pochi anni «si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una sequenza disarticolata di versioni progressiste dell’accettato modello occidentale». Un tragitto comodo, «date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato e lodato le esternazioni, le conversioni, i ripensamenti, le prese di posizione». Percorso analogo, anche se «più accidentato», quello delle «molto più esigue truppe» del perimetro “di destra”, ansionse di «cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità», a costo di abbandonare la “diversità” coltivata per decenni.
    Tarchi parla di un inglorioso «ripiegamento convergente, da sinistra e da destra», verso il “centro” liberale che ha «fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico». Per l’intellettuale fiorentino, è stato «l’avvio di un’era della rassegnazione». Ovvero: «Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana». Ma anche «rassegnazione ad accettare in un primo momento la mentalità diffusa del nostro tempo come sgradevole ma immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi».
    Rassegnazione: pensare che, «in fondo, ad Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni, regole e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male». E, soprattutto, «rassegnazione a rinunciare ad ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa che cosa si lascerebbe ma non che cosa potrebbe scaturire dal cambiamento». E’ per questo, scrive Tarchi, che – a sinistra come a destra – anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, «pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose». Ed ecco che «prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitive ed inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente».
    Criticare l’americanismo? «E’ passato di moda». Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di un’ulteriore fase di occidentalizzazione del mondo? «Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo», come «indignarsi di fronte ai crimini che gli Usa ed i loro alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano». Tutto questo, ormai, «sa di litania risaputa». Sconveniente e inutile anche «prendersela con la Nato, con l’Onu, con quel profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che a buon diritto Christopher Lasch ha fustigato». E così, «dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo nel quale l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato». Il panorama è piatto: «Non si profilano modelli alternativi all’esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di “indignazione” inviano, faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate».
    Scommettere sulla legittimità del cosiddetto populismo? Lo scenario è fosco: crisi economica, calo demografico e invecchiamento della popolazione, con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici. E poi l’immigrazione, l’avvento “spaesante” dell’universo telematico. E ancora: la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nei meno istruiti, nei più anziani, nei soggetti deboli (cioè nella maggioranza) un clima di inquietudine, «di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti», per dirla con Ernesto Galli della Loggia). Ma, obietta Tarchi, quelle stesse tendenze che spaventerebbero «una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: insomma, una sorta di relitto», sono invece accolte con favore dai “forti”, «i giovani, gli istruiti». Il vero problema? E’ che «quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli». Peggio ancora: «Nessuno indaga la possibilità di battere altre vie. Ci si rassegna alla propagazione virale della mentalità del materialismo consumistico e individualista veicolata dall’ideologia liberale. E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi, o nati, in uno zoo: preoccuparsi giorno per giorno della mera sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine».

    Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».

  • Siamo tutti interconnessi, neuroni-specchio risuonano in noi

    Scritto il 03/2/17 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    “Nessun uomo è un’isola”, scrisse il poeta John Donne. Aveva ragione: siamo tutti interconnessi, collegati strettamente l’uno all’altro. Lo ha scoperto il team del professor Giacomo Rizzolatti, del dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma. Quello che ci unisce – questa la scoperta – è qualcosa di infinitamente piccolo: neuroni. Li hanno battezzati “neuroni specchio”, perché riflettono, in modo automatico e senza il filtro della mente, i comportamenti altrui. In pratica, questi neuroni fanno sì che “risuoni”, dentro di noi quello in cui ci imbattiamo: persone, azioni, immagini. «I neuroni specchio – scrive “Coscienze in Rete” – sono una delle più importanti scoperte scientifiche dgli ultimi vent’anni», qualcosa che «ha cambiato il nostro modo di comprendere l’interazione tra gli essere umani (e tra gli animali)». L’esistenza dei neuroni-specchio è stata rilevata prima volta verso a metà degli anni ‘90 da Rizzolatti e colleghi, osservando un gruppo di scimmie, macachi: i ricercatori si accorsero che alcuni gruppi di neuroni non si attivavano solo quando gli animali erano intenti a determinate azioni, ma anche quando guardavano qualcun altro compiere le stesse azioni.
    Studi successivi, effettuati con tecniche non invasive, hanno dimostrato l’esistenza di sistemi simili anche negli uomini: sembrerebbe che essi interessino diverse aree cerebrali, comprese quelle del linguaggio. I neuroni-specchio «permettono di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri». Ovvero: «Quando osserviamo un nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro cervello, gli stessi neuroni che entrano in gioco quando siamo noi a compiere quella stessa azione. Per questo possiamo comprendere con facilità le azioni degli altri: nel nostro cervello si accendono circuiti nervosi che richiamano analoghe azioni compiute da noi in passato». Il neurone-specchio, dunque, “ricorda” qualcosa che è già avvenuto, e “risponde” in modo simultaneo a qualcosa che appartiene al proprio vissuto. «Anche il riconoscimento delle emozioni sembra poggiare su un insieme di circuiti neurali che, per quanto differenti, condividono quella proprietà “specchio” già rilevata nel caso della comprensione delle azioni». Rispondenza perfetta, riscontrata nei test: «Quando osserviamo negli altri una manifestazione di dolore o di disgusto si attiva il medesimo substrato neuronale collegato alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione».
    Un’altra conferma, continua “Coscienze in Rete”, viene da studi clinici su pazienti affetti da patologie neurologiche: una volta perduta la capacità di provare un’emozione non si è più in grado di riconoscerla quando viene espressa da altri. Alcune evidenze sperimentali sembrano indicare che anche la comprensione del linguaggio faccia riferimento, almeno per certi aspetti, a meccanismi di “risonanza” che coinvolgono il sistema motorio: «Comprendere una frase che esprime un’azione provoca probabilmente un’attivazione degli stessi circuiti motori chiamati in causa durante l’effettiva esecuzione di quell’azione». La scoperta dei neuroni-specchio potrebbe offrire una spiegazione biologica per almeno alcune forme di autismo, come, ad esempio, la sindrome di Asperger: gli esperimenti finora condotti sembrano indicare un ridotto funzionamento di questo tipo di neuroni nei bambini autistici, che non riescono a entrare in sintonia con il mondo che li circonda, con i gesti e le azioni altrui, nonché le emozioni degli altri. In ogni caso, «l’esistenza dei neuroni-specchio prospetta la necessità di una profonda modifica nelle attuali concezioni riguardanti il modo di operare della nostra mente», ridimensionando il modello prospettato dalla psicologia cognitivista.
    Il cognitivismo è basato sull’analogia funzionale con i calcolatori: definisce regole formali che sarebbero alla base del funzionamento della mente, «ignorando completamente il ruolo dell’esperienza corporea legata al comportamento motorio». I neuroni-specchio, invece, implicano l’esistenza di un meccanismo che consente di comprendere immediatamente il significato delle azioni altrui, e persino delle intenzioni, senza porre in atto alcun tipo di ragionamento. Le ricerche sono ancora agli inizi, ma – secondo il neuroscienziato Vilayanur Ramachandran – è probabile che si tratti di una delle più importanti scoperte, destinata ad avere profonde ripercussioni nel nostro modo di concepire la mente. «Praticamente i neuroni-specchio confermano il fatto che non siamo delle isole separate, ma che siamo in rete. E in questa rete i pensieri, le azioni e i sentimenti circolano dall’uno all’altro. Si potrebbe dire che entrano nella psiche-anima delle persone e somatizzano attraverso i circuiti cerebrali», su cui si sedimentano le nostre individuali esperienze di pensiero, sentimento e azione.
    In questa ottica, osserva “Coscienze in Rete”, i neuroni-specchio «possono probabilmente essere utilizzati per moltiplicare il bene, con l’esempio e con la condivisione». Per contro, «si possono usare anche per moltiplicare elementi negativi, dallo “scandalo” di cui parla il Vangelo, fino ai comportamenti deteriori di ognuno di noi che influenzano gli altri, fino alle grandi operazioni oscure che tendono ad eccitare o deprimere le coscienze di intere popolazioni o del mondo, non solo con le guerre, ma anche tramite l’uso “nero” dell’arte, delle forme pensiero dei comportamenti, della violenza, dell’erotismo fine a se stesso, del vizio». In altre parole, i neuroni-specchio sarebbero un formidabile moltiplicatore, benché invisibile, capace di amplificare le conseguenze di qualsiasi azione, nel bene e nel male: «Se si amano gli altri e la società, ovviamente sarà importantissimo essere esempio vivente delle azioni, dei sentimenti e dei pensieri rivolti al bene, per diventare elementi diffusori di bene», mettendo i propri neuroni-specchio «ancora di più al servizio della evoluzione umana».

    “Nessun uomo è un’isola”, scrisse il poeta John Donne. Aveva ragione: siamo tutti interconnessi, collegati strettamente l’uno all’altro. Lo ha scoperto il team del professor Giacomo Rizzolatti, del dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma. Quello che ci unisce – questa la scoperta – è qualcosa di infinitamente piccolo: neuroni. Li hanno battezzati “neuroni specchio”, perché riflettono, in modo automatico e senza il filtro della mente, i comportamenti altrui. In pratica, questi neuroni fanno sì che “risuoni”, dentro di noi quello in cui ci imbattiamo: persone, azioni, immagini. «I neuroni specchio – scrive “Coscienze in Rete” – sono una delle più importanti scoperte scientifiche dgli ultimi vent’anni», qualcosa che «ha cambiato il nostro modo di comprendere l’interazione tra gli essere umani (e tra gli animali)». L’esistenza dei neuroni-specchio è stata rilevata prima volta verso a metà degli anni ‘90 da Rizzolatti e colleghi, osservando un gruppo di scimmie, macachi: i ricercatori si accorsero che alcuni gruppi di neuroni non si attivavano solo quando gli animali erano intenti a determinate azioni, ma anche quando guardavano qualcun altro compiere le stesse azioni.

  • Leonardo, Jung, Cartesio: la verità ci raggiunge in sogno

    Scritto il 22/1/17 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Leonardo suggeriva ai suoi allievi di guardare le macchie sui muri, le venature dei marmi, le nuvole, la cenere, per scorgervi paesaggi ed animali, cose inusitate e mostruose, com’era solito fare lui stesso, abbandonandosi alla potenza evocatrice delle «cose confuse», perché «nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni». Nel tedesco corrente, gelassenheit significa “calma”, “tranquillità”. La pregnanza storica del termine ha le sue origini nella tradizione mistica (da Meister Eckhart, il mistico domenicano vissuto tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo), in cui indicava il sich lassen, la dedizione e il completo abbandono a Dio. L’esistenzialismo ricondusse il verbo alla radice di lassen, “lasciare”, “lasciar essere”, alludendo ad un rapporto con le cose che le rispetta nel loro disvelarsi. Jung arrivò ad intendere tale abbandono come l’attingere del singolo alla forza o volontà “superiore” che è possibile scoprire attraverso la funzione trascendente.
    Nella weltanshaung junghiana infatti, l’abbandono insito nel geshehenlassen (“lasciar accadere”) assume una valenza-chiave: lasciare che tutto avvenga e tuttavia conservare intatta una vigilanza etica ed intellettuale sono le condizioni dell’individuazione, di una prova totale di sé stessi… Da note biografiche apprendiamo che Jung maturò personalmente tale concetto in seguito ad un momento che molti conoscono: l’assenza di riferimenti. Al termine di un periodo di enorme sofferenza (1912-1919) ci rende partecipi della sua estenuante esperienza personale: «Mi sentivo letteralmente sospeso. Temevo di perdere il controllo di me stesso e di divenire preda dell’inconscio, e quale psichiatra sapevo fin troppo bene che cosa ciò volesse dire. Le tempeste si susseguivano, e, che potessi sopportarle, era solo questione di forza bruta».
    Invece di riagganciarsi a idee o ad una situazione sociale, Jung decise di “lasciar accadere”, di abbandonarsi (dal francese à ban donner: mettere a disposizione di chiunque) (mettre à bandon – “laisser au pouvoir de”, NdC), di mettersi a disposizione delle immagini interiori che l’inconscio gli forniva. Possiamo supporre che in un simile contesto non basti scartare le resistenze e lasciar accadere, e che sia necessario un doppio ancoraggio. Da una parte la cura del corpo, la regolarità dell’attività professionale, dall’altra lo sforzo costante per obbligare le emozioni a prendere forma. «Perché altrimenti – scrive – correvo il rischio che fossero esse ad impadronirsi di me. Vivevo in uno stato di continua tensione, e spesso mi sentivo come se mi cadessero addosso enormi macigni. Dopo sei anni al limite della dissociazione, cominciarono a presentarsi forme nuove». Jung le dipinse senza sapere che cosa fossero.
    Notò che l’oscurità interiore si dissipava e che si stabiliva da sé una solidità: «Quando cominciai a disegnare i mandala vidi che tutto, tutte le strade che avevo seguito, tutti i passi intrapresi, riportavano ad un solo punto, cioè nel mezzo. Mi fu sempre più chiaro che il mandala è il centro (…). Cominciai a capire che lo scopo dello sviluppo psichico è il Sé». E nel passaggio dalla pittura all’idea si creò lo spazio che gli consentì l’elaborazione. Jung considerò il simbolismo del mandala come una fenomenologia del Sè e definirà l’archetipo del Sè come la totalità della psiche, l’integrazione compiuta tra conscio e inconscio, quello stato psichico che scaturisce dal superamento della dissociazione, dei poli conflittuali, il centro. Quindi, alcuni anni dopo chiamò funzione trascendente la cooperazione tra dati consci e dati inconsci, di immagini ed idee, al fine dell’integrazione di contenuti precedentemente non noti.
    Probabilmente anche basandosi sulle esperienze personali descritte postulò che le strade per conoscere l’inconscio fossero sostanzialmente due: una procede nella direzione della raffigurazione (la cui manifestazione più immediata è l’attività onirica e quelle più “mediate”, se così si può dire, sono, nella psicologia analitica, l’immaginazione attiva e la sandplay), l’altra della comprensione. Ed affermò: «Le due strade sembrano essere l’una il principio regolatore dell’altra, entrambe sono legate da un rapporto di compensazione. La raffigurazione estetica ha bisogno della comprensione del significato, e la comprensione ha bisogno della figurazione estetica». Le due tendenze s’integrano in quella che appunto denominò funzione trascendente. Piace a questo punto ricordare l’esortazione di Hillman sul “fare anima”, cioè: “fare anima attraverso l’immaginazione delle parole”. Bisogna notare che la capacità di abbandonarsi consapevolmente alle proprie immagini interiori, in una condizione di sospensione della quotidianità, non è solo foriera di insight rispetto agli strati profondi della psiche. Tale stato di liminalità è, infatti, anche fonte di intuizioni ed ispirazioni che consentono di allentare la struttura normativa personale e sociale, di affrontare gli ostacoli incontrati dalla mente conscia, e talora di superarli col sorgere di modelli e simboli nuovi.
    Riflettendoci, è strano che le origini oniriche del pensiero moderno non siano altro che una nota in calce alla storia: mentre le idee più utili di Cartesio furono accolte a braccia aperte, la reazione alla loro origine fu violentemente negativa. Cartesio stesso fece notare la profonda importanza sia delle sue immagini oniriche, sia dei suoi calcoli e operazioni logiche per costruire il suo metodo. Ma pochi dei suoi contemporanei vollero accettare l’anomalia della conoscenza fondata sul sogno e, di conseguenza, sulle immagini. La conoscenza degli archetipi della mente (i mandala dipinti da Jung e quelli della tradizione alchemica ed orientale raffigurano l’archetipo del Sé) è in effetti difficile a chi crede nella sola forza denotativa delle parole: una definizione solitamente indica il punto di intersezione di una tassonomia, mentre un archetipo è ciò che proietta la tassonomia stessa. Il logos dell’anima predilige il linguaggio immaginale dell’intuizione e dell’evocazione, così come si manifesta nella durata di una psicoterapia analitica. L’individuazione degli archetipi è più agevole quando una parte della psiche si traspone in simboli e, in definitiva, in immagini, come avviene normalmente in sogno. Di tale trasposizione è inoltre capace il poeta, il pittore, lo scultore, un mimo sacro, o il danzatore che traccia spirali attorno al cuore, mostrando la vita che ne procede come un filo dal gomitolo…
    (Max Lanzaro, “Jung, Leonardo e le immagini dell’inconscio”, dal blog di Gabriele La Porta del 4 marzo 2013. Il professor Lanzaro è uno psichiatra attualmente attivo a Londra, Verona e Napoli).

    Leonardo suggeriva ai suoi allievi di guardare le macchie sui muri, le venature dei marmi, le nuvole, la cenere, per scorgervi paesaggi ed animali, cose inusitate e mostruose, com’era solito fare lui stesso, abbandonandosi alla potenza evocatrice delle «cose confuse», perché «nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni». Nel tedesco corrente, gelassenheit significa “calma”, “tranquillità”. La pregnanza storica del termine ha le sue origini nella tradizione mistica (da Meister Eckhart, il mistico domenicano vissuto tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo), in cui indicava il sich lassen, la dedizione e il completo abbandono a Dio. L’esistenzialismo ricondusse il verbo alla radice di lassen, “lasciare”, “lasciar essere”, alludendo ad un rapporto con le cose che le rispetta nel loro disvelarsi. Jung arrivò ad intendere tale abbandono come l’attingere del singolo alla forza o volontà “superiore” che è possibile scoprire attraverso la funzione trascendente.

  • La strage dei bambini, orrendo tabù avvolto dal silenzio

    Scritto il 21/1/17 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Bambini da uccidere, sacrificare, persino mangiare. Mentre spariscono ogni anno centinaia di minori, in parte forse destinati anche alla potentissima rete internazionale dei pedofili, una ricercatrice come Lara Pavanetto, a margine del suo libro “Streghe o vittime?” (Filippi editore), in una riflessione sul suo blog si sofferma sul sinistro mistero che nasconde il vero destino di tanti, troppi bambini, nella storia della nostra civiltà. «Di tutti i gruppi sociali che formavano le società del passato, i bambini sono quello più misterioso», scrive. «Raramente si vedono nei documenti, mai si sentono. Un misterioso silenzio circonda la moltitudine dei neonati, bambini e adolescenti che pure hanno vissuto. I resti fossili dei popoli antichi e medievali appartengono quasi totalmente ad adulti, i bambini sembrano non aver lasciato traccia alcuna. E’ difficile sapere qualcosa sulla vita dei bambini, ancora più difficile è conoscerne qualcosa riguardo la morte. Ma spesso morte e vita erano due facce della stessa medaglia, intimamente legate; soprattutto la morte dei bambini, fino ad oggi, è e rimane un tabù che nasconde molto».
    Anticamente, scrive Pavanetto, la pratica dell’abbandono era assai frequente, e spesso finiva per significare la morte del bambino: «Tuttavia questa naturale prospettiva non è mai citata né dalle fonti letterarie né da quelle storiche». E soltanto una volta, nel corpus di testi giuridici che si occupano dell’abbandono, si allude alla morte degli “esposti”. «Nelle fonti letterarie questi bambini non muoiono mai, nessuno storico cita la morte di esposti e mostra preoccupazione per la loro salvezza. Nessuna fonte menziona cadaverini da seppellire. Soltanto i moralisti e gli oratori sollevano qualche dubbio sulla loro fine». Nella Bibbia, il sacrificio dei bambini agli dèi è «proibito, condannato o menzionato con disprezzo in molti passi», eppure nel Libro dei Re si menziona Moloch (un dio pagano?) che richiede l’uccisione di bambini. Idem in Geremia e forse nel Levitico. Sempre nei Re «si parla anche di sacrifici di bambini con il fuoco». I bambini «erano un dono prezioso per gli déi», ma evidentemente «non abbastanza per i genitori». Il re Moab sacrifica il primogenito sulle mura della città come segno di lutto (Re). E in un altro testo biblico, (Giudici) Iefte «uccide la sua unica figlia per adempiere un voto fatto al Signore». Sarà poi “Dio” stesso a richiedere ad Abramo (Genesi), il sacrificio estremo del figlio: Abramo è pronto a farlo, sarà solo “Dio” a fermarlo.
    «Ma, nelle sacre scritture, si parla anche di genitori che mangiano i loro figli», aggiunge Lara Pavanetto, che spiega: si tratta di «un topos non isolato, che ricorre anche nella letteratura antica». C’è il Faraone, che tenta di uccidere tutti i figli maschi degli ebrei (Esodo). «Poi si aggiungono alcuni passi davvero eloquenti che parlano di forme di infanticidio più generali». Si legge nel Libro dei Re: «Sfracellerai i loro lattanti e squarcerai le loro donne incinte». E nei Salmi: «Beato chi prenderà i tuoi pargoli e li sbatterà contro la pietra». Un intellettuale come Filone, filosofo ebreo di lingua greca vissuto ad Alessandria nel primo secolo, «poneva sullo stesso piano l’infanticidio e l’abbandono, descrivendo anche i metodi abitualmente usati per sopprimere un bambino: soffocamento o annegamento». In epoca medievale, «sia gli eretici che gli stranieri sono accusati nelle fonti contemporanee di rapire, uccidere, violentare e addirittura mangiare i bambini: Anna Comnena affermava che i Normanni erano soliti arrostire i bambini sugli spiedi».
    In diverse parti della Grecia, in epoca micenea o minoica, e in epoche ancora posteriori, in Egina, Attica, Argolide, Melos e Creta, si usava seppellire i morti in casa, in vasi di terracotta interrati nel pavimento, specie nel caso dei fanciulli, «forse per tenere gli amati resti più vicini a sé, o forse sperando che l’anima si reincarnasse ancora». In alcune zone dell’India, continua Pavanetto, questa pratica funebre riguardava soprattutto i bambini nati morti, seppelliti sotto la soglia di casa «sperando appunto che il fanciullo rinascesse in famiglia, nuovamente». Tutte queste usanze «nascono proprio dalla credenza che i morti rinascano nei fanciulli: i Taolnla, indiani, quando nasce un bambino cercano di accertare quale dei loro antenati ha fatto ritorno; così, appena nasce un bambino, subito ci si affanna nel cercare qualche somiglianza: la mamma, il papà, lo zio, i nonni, i bisnonni». In pratica, presso quella popolazione, l’idea è che il bambino venga da un “al di là” sconosciuto e misterioso, e sia dunque portatore di qualcosa di antico e misterioso, che in lui si rivela.
    «Quando il bambino nasce morto – racconta Lara Pavanetto – la sua non presenza è ancora più misteriosa: gli Inuit credono che le anime dei bambini, specie di quelli nati morti, possano rendere grandi servigi ai cacciatori, sempre in pericolo di morte loro stessi». Così, proprio «per assicurarsi il loro aiuto spirituale», gli Inuit «non esitavano ad uccidere un bambino». Ma il delitto doveva rimanere segreto, facendo in modo di nascondere la vittima perché nessuno sapesse dell’infanticidio. «Così, dopo aver messo al sicuro il cadaverino, lo si faceva seccare per poi metterlo in un sacchetto che il cacciatore portava con sé quando andava in mare con la sua canoa». Lo spirito del fanciullo, avendo la vista molto acuta, la “vista dei morti”, lo avrebbe aiutato a trovare la preda e dirigere la sua lancia per non fallire un colpo. «I morti bambini aiutano: nella caccia, nella guerra». Lo confermano i Batak dell’isola di Sumatra, che avevano «bisogno proprio degli spiriti dei fanciulli, perché li precedano nei combattimenti, spianando loro la strada dagli spiriti del nemico».
    Il minore, aggiunge Pavanetto, in quel caso veniva appositamente “comprato” o rapito, trascinato nella foresta lontano dal villaggio e seppellito vivo, in piedi, lasciandogli fuori solo la testa. «Per quattro giorni lo nutrivano solo con riso condito con pepe e sale, per aumentarne la sete, mentre gli chiedevano continuamente se voleva benedirli e aiutarli in guerra. Il quarto giorno gli uomini più importanti del villaggio si radunavano attorno a lui e cercavano di estorcergli la promessa di benedizione e aiuto». Appena la vittima cedeva, promettendo che il suo spirito li avrebbe protetti, «l’uomo che gli stava alle spalle gli rovesciava la testa all’indietro e gli versava piombo fuso in bocca: così il fanciullo non poteva più rimangiarsi la promessa fatta». Grazie a una morte così tremenda, lo spirito del fanciullo «diventava un demone maligno». Essendo legato alla promessa di non nuocere ai suoi assassini, avrebbe riversato la sua vendetta soltanto sul nemico. «E perché la vedetta fosse ancora più efficace, estraevano dal corpo del fanciullo delle parti del cervello, di cuore e di fegato, e con questi macabri ingredienti preparavano un unguento che poi introducevano in una bacchetta magica che era portata in battaglia alla testa delle truppe: così l’anima del fanciullo morto marciava alla loro testa contro il nemico».

    Bambini da uccidere, sacrificare, persino mangiare. Mentre spariscono ogni anno centinaia di minori, in parte forse destinati anche alla potentissima rete internazionale dei pedofili, una ricercatrice come Lara Pavanetto, a margine del suo libro “Streghe o vittime?” (Filippi editore), in una riflessione sul suo blog si sofferma sul sinistro mistero che nasconde il vero destino di tanti, troppi bambini, nella storia della nostra civiltà. «Di tutti i gruppi sociali che formavano le società del passato, i bambini sono quello più misterioso», scrive. «Raramente si vedono nei documenti, mai si sentono. Un misterioso silenzio circonda la moltitudine dei neonati, bambini e adolescenti che pure hanno vissuto. I resti fossili dei popoli antichi e medievali appartengono quasi totalmente ad adulti, i bambini sembrano non aver lasciato traccia alcuna. E’ difficile sapere qualcosa sulla vita dei bambini, ancora più difficile è conoscerne qualcosa riguardo la morte. Ma spesso morte e vita erano due facce della stessa medaglia, intimamente legate; soprattutto la morte dei bambini, fino ad oggi, è e rimane un tabù che nasconde molto».

  • Osho: siamo unici e liberi, diversi da come ci vorrebbero

    Scritto il 01/1/17 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    La più grande avventura che possa accadere all’essere umano è il passaggio tra lo stato di mente a quello di non-mente, dalla personalità all’individualità. Lo stato di non-mente ha un’individualità, la mente invece è uno stato sociale. Tutte le personalità sono assolute maschere che nascondono la tua individualità. Io sono qui per distruggere la vostra personalità, e per darvi la nascita dell’individualità. Andare dal maestro significa andare alla ricerca della tua innocenza, in cerca della tua infanzia perduta, in cerca della tua originalità… in cerca della tua individualità, in cerca della libertà. Ricordate: nessun attaccamento potrà farvi crescere, nessun attaccamento cresce. Essi sono tutti contro la vostra indipendenza, la vostra libertà e la vostra individualità. Amare l’uomo e rispettarlo, rispettarne l’individualità e le sue differenze, è possibile, ma solo se prima hai rispetto per la tua individualità. Tutto ciò è possibile solo se tu hai consolidato le radici del tuo essere individuale senza temerlo.
    L’amore con i suoi occhi sa quando dire di sì e quando dire di no. L’amore non è soggetto a interferenze dalle vite degli altri, e non permette che nessuno interferisca con la sua esistenza. L’amore dona l’individualità agli altri, senza però togliere l’individualità a sé stesso. Prova a cercare la tua individualità, la tua integrità, e prova a farlo senza compromessi. Perché più cercherai di ottenere l’individualità con i compromessi e meno sarai individuale. In quel caso diverrai solo una parte della ruota, un ingranaggio di un vasto meccanismo, e quindi non un essere individuale nella tua bellezza, nella tua verità… Io sono assolutamente contro il compromesso. La morte è lungi meglio di una vita di compromessi. Una cosa è certa: non potrai divenire nulla, nella vita, se non te stesso. E meno sarai te stesso e più sarai infelice. La felicità accade solo quando da un roseto cresceranno delle rose; quando fioriscono? Quando hanno la loro individualità.
    Il fatto che da un roseto ne cresca un fior di loto è creare qualcosa di insano. Vuota la mente, cancellala. La Via della non-mente non è la Via del conflitto: la Via della non-mente è la Via della Consapevolezza. La sparizione della tua personalità non è la sparizione di te stesso, ricordalo; invero, è la tua manifestazione. Come la tua persona svanisce, così svanisce la tua personalità; la tua individualità, è lei che ascende. Avere una personalità è ipocrita, avere la propria individualità è la tua essenza primordiale. Ogni uomo nasce con un’unica individualità, ed ogni uomo ha un suo destino. L’imitazione è un crimine, è criminale. Se tenterai di diventare un Buddha, diverrai un’imitazione di Buddha. Sarai simile a Buddha, camminerai come lui, parlerai come lui, ma ti perderai. Perderai tutto ciò che la vita ha da offrirti. Perché Buddha è vissuto una volta sola. Non è nella natura delle cose ripetersi. Dio è così creativo che non ripete mai nulla.
    Non troverai mai un essere umano nel presente, nel passato o nel futuro che apparirà esattamente come te. Non è mai successo. L’uomo non è un meccanismo. Non è come le auto della Ford in una via d’assemblaggio sistematica; potrai produrre milioni di copie, esattamente uguali. L’uomo è la sua anima, egli è individuale per natura, l’imitazione è velenosa. Non imitare mai nessuno. Essere un individuo è la cosa più difficile del mondo, perché nessuno desidera tu diventi individuale. Tutti desiderano uccidere la tua individualità e farti diventare una pecora. Nessuno desidera tu sia te stesso. Ogni singolo individuo è unico nel suo genere. L’unicità diventa qualcosa di più intelligente e chiaro, cristallino, quando la persona diventa un’illuminato, perché solo col suo puro genio, la sua pura individualità, incontaminata, immacolata, sarà rivelato. Il primo passo è accettare noi stessi, ognuno di noi. Non adempiere a nessun dovere fuorché a quello del cuore! Non devi diventare qualcun altro.
    Non è previsto dalla natura delle cose che tu faccia qualcosa che non segua la Via di te stesso, tu sei solo per te stesso. Rilassati! E sii solamente te stesso. Abbi rispetto della tua individualità e sii coraggioso di firmarti con la tua firma, non copiare quella degli altri. E’ importante. Di vitale importanza. Non avere interesse nel fatto di diventare un artista celebre a livello mondiale, non è quella la cosa importante. Piuttosto pensa a creare qualcosa, come una bella canzone, un piccolo motivo musicale, una danza, un quadro, un giardino… e fa crescere le rose… non puoi affermare che la vita sia una striscia dove molte rose crescono. Non puoi affermare che la vita sia una striscia di rose, perché il quadro sarà creato per la prima volta nel mondo e per l’ultima volta. Nessuno l’ha mai fatto prima, e nessuno lo farà nuovamente; solo tu sarai in grado di farlo. Esprimi la tua unicità in tutto ciò che fai. Esprimi la tua individualità. Lascia che la vita sia fiera di te. La vita non sarà mai una striscia di rose, ma diverrà unicamente una fragranza.
    Fintanto che una persona deciderà che: “A qualsiasi costo, desidero essere me stesso! Condannatemi, non accettatemi, fatemi perdere la rispettabilità… ma non posso più fingere di essere qualcun altro”. Questa decisione è una dichiarazione di libertà che trascende l’essere parte di una massa. Questo dà nascita alla tua naturalità, alla tua individualità. Dopo non avrai bisogno di alcuna maschera. Dopo tu sarai semplicemente te stesso, semplicemente come sei. E nel momento in cui sarai come sei, proverai una tale pace che sorpassa la comprensione della mente. L’ordinario, l’inconsapevole essere umano non ha un’individualità. Ha solo una personalità. La personalità è ciò che gli altri ti danno: i parenti, gli insegnanti, i preti, la società, tutto ciò che hanno detto di te. E tu desideri essere rispettabile, essere rispettato, per fare cose che vengano apprezzate, in modo che la società ti sia riconoscente, e che ti rispetti ancora e ancora. Questo è il loro modo di creare una personalità. Ma la personalità è una cosa molto sottile, superficiale. Non è la tua natura.
    Il bambino nasce senz’alcuna personalità, ma nasce con una potenziale individualità. La sua potenziale individualità semplicemente sta ad indicare la sua unicità fuori da ogni altro, lo rende differente dagli altri, lo rende unico. La gente è parecchio confusa a proposito della personalità e dell’individualità. Credono che la personalità sia l’individualità. Non è così, difatti c’è una barriera. Non raggiungerai mai l’individualità se non sarai pronto a frantumare la tua personalità. Ci sono molte terapie, meditazioni, lavori interiori… tutto è stato ideato come Vie per la distruzione della tua personalità, l’artificiale Sé, e cercano di riportarti indietro alla tua individualità primordiale. L’individualità è nata con te, è il tuo Essere. La personalità è un fenomeno sociale, ti è stata data. Quando sei seduto in una caverna sull’Himalaya non hai alcuna personalità, ma hai la tua individualità. La personalità esiste solo in relazione agli altri. Più gente ti conosce e più personalità hai, quindi desideri avere un nome e fama. Più gente ti rispetterà, più accrescerai la tua personalità, a tal punto da rafforzarla continuamente. Ma ciò non corrisponderà con la tua individualità.
    (Osho Rajneesh, “La ricerca dell’individualità”, riflessione ripresa dal blog “La Crepa nel Muro” il 29 dicembre 2016).

    La più grande avventura che possa accadere all’essere umano è il passaggio tra lo stato di mente a quello di non-mente, dalla personalità all’individualità. Lo stato di non-mente ha un’individualità, la mente invece è uno stato sociale. Tutte le personalità sono assolute maschere che nascondono la tua individualità. Io sono qui per distruggere la vostra personalità, e per darvi la nascita dell’individualità. Andare dal maestro significa andare alla ricerca della tua innocenza, in cerca della tua infanzia perduta, in cerca della tua originalità… in cerca della tua individualità, in cerca della libertà. Ricordate: nessun attaccamento potrà farvi crescere, nessun attaccamento cresce. Essi sono tutti contro la vostra indipendenza, la vostra libertà e la vostra individualità. Amare l’uomo e rispettarlo, rispettarne l’individualità e le sue differenze, è possibile, ma solo se prima hai rispetto per la tua individualità. Tutto ciò è possibile solo se tu hai consolidato le radici del tuo essere individuale senza temerlo.

  • Cugia: ragazzi, abbattete il Faraone e il suo regno dell’odio

    Scritto il 29/12/16 • nella Categoria: idee • (12)

    Che l’abominevole Trump guidi gli Stati Uniti può urtare l’anima di tanta gente, compresa la mia, ma in quel ruolo lui è paradossalmente una novità mentre la Clinton incarnava l’ambiguo passato della democrazia. In Italia è lo stesso, sa tutto di muffa, con la differenza che noi il Trump di Arcore ce l’abbiamo già avuto (per una volta abbiamo anticipato una tendenza rispetto agli Usa) però non abbiamo novità illuminanti né a destra né a sinistra, non tali da farci leggere il mondo con un bel paio di occhiali nuovi. Tra l’altro un buco nero ha risucchiato sia destra che sinistra, mischiandole in una centrifuga da caserma. Intanto il mondo cambia come un cavallo pazzo spronato dalla tecnologia, dalla finanza e dall’odio globale, e noi non riusciamo a stargli dietro neanche con lo sguardo. Dove sono finiti gli occhiali nuovi? Ci mancano le lenti dei nuovi saggi, dei giusti e dei grandi narratori della Storia, né salgono sul palco (in assenza di copioni all’altezza) i grandi interpreti, mentre la grande orchestra tace nella buca. L’aria è da requiem, ma non si vede un Mozart.
    Ho sempre trovato detestabile chi, dai 50 in su, scrive film per giovani, musica per giovani, s’inventa una politica per giovani o fa abbigliamento per giovani. Anche se disegna un nuovo slip gli scappa sempre un vecchio merletto. Lo stesso se scrive una canzone o fa un partito. Prima o poi ricasca nella muffa, perché si rivolge al giovane rimasto intrappolato dentro se stesso, non ai giovani d’oggi, e questa svista fatale avviene inesorabilmente, eccetto ai geni che non hanno età. La mia generazione ha fabbricato una trappola letale per le generazioni successive. Li ha lasciati senza lavoro e senz’anima. Gli ha rifilato una collana infinita di specchietti per le allodole, un futuro che ricorda i faraoni con gli schiavi. Ragazzi non aspettatevi che i faraoni si ribellino per voi. È impensabile che gente dell’età (e della mentalità) di Donald Trump possa rappresentare un radicale cambiamento della vostra vita. Dovrete aprirvi un varco, una breccia in questo orrendo muro, e in condizioni impossibili.
    Per ribaltare le cose a questo punto ci vorrebbero dieci nuovi Martin Luther King venticinquenni e una mezza dozzina di Mahatma Gandhi, più almeno un’Anna Kuliscioff, un Che Guevara, un Voltaire, una Evita Peron e un Napoleone per paese. E non li troverete nelle nostre drogherie. Sto dicendo che ci vorrebbero almeno 21 grandi giovani di cui nessuno conosce ancora il volto o il nome. Ma o con la pace o con le più brusche maniere la nuova generazione deve dispiegare le sue grandi anime. Perché fra voi le grandi anime ci sono e su questo solo un cretino ha dubbi. Non vedo l’ora di poter lanciare una pantofola dalla finestra in segno di giubilo quando sfileranno il giorno della rivolta.
    (Diego Cugia, “Ragazzi, rompete il muro”, dalla pagina Facebook di Cugia).

    Che l’abominevole Trump guidi gli Stati Uniti può urtare l’anima di tanta gente, compresa la mia, ma in quel ruolo lui è paradossalmente una novità mentre la Clinton incarnava l’ambiguo passato della democrazia. In Italia è lo stesso, sa tutto di muffa, con la differenza che noi il Trump di Arcore ce l’abbiamo già avuto (per una volta abbiamo anticipato una tendenza rispetto agli Usa) però non abbiamo novità illuminanti né a destra né a sinistra, non tali da farci leggere il mondo con un bel paio di occhiali nuovi. Tra l’altro un buco nero ha risucchiato sia destra che sinistra, mischiandole in una centrifuga da caserma. Intanto il mondo cambia come un cavallo pazzo spronato dalla tecnologia, dalla finanza e dall’odio globale, e noi non riusciamo a stargli dietro neanche con lo sguardo. Dove sono finiti gli occhiali nuovi? Ci mancano le lenti dei nuovi saggi, dei giusti e dei grandi narratori della Storia, né salgono sul palco (in assenza di copioni all’altezza) i grandi interpreti, mentre la grande orchestra tace nella buca. L’aria è da requiem, ma non si vede un Mozart.

  • Cuperlo: il Pd è morto, non ha ricette contro la catastrofe

    Scritto il 27/12/16 • nella Categoria: idee • (9)

    Dopo le dimissioni del premier e le parole di dignità di quella notte ho visto un gruppo dirigente narcotizzato. La destra gioisce. È caduto il governo. Di bicameralismo si riparlerà tra qualche anno ed è iniziato il count down della legislatura senza che ci sia una legge elettorale. Intanto aumenta la sofferenza di chi vive sulla pelle la violenza di diseguaglianze sempre più grandi. Il referendum è stato soprattutto un voto politico che ha bocciato governo, classe dirigente e alcune riforme simboliche. Insegnanti, precari, giovani, Mezzogiorno, la fotografia reclama una svolta. Il Pd è senz’anima e se non lo capiamo è destinato a morire. La crisi peggiore del secolo dovrebbe spingere la sinistra a fare ciò che ha rinviato per anni, un ripensamento di sé, delle sue ricette. Flessibilità, liberalizzazioni, pareggio di bilancio sono stati un cedimento culturale che ha rimosso la lotta a disparità e discriminazioni sempre più odiose. Anche in Europa il risultato è una sinistra costretta a tifare Fillon o Merkel, senza una leadership e una strategia in grado di riscattare gli ultimi della fila. Se davanti a questa scena il primo partito della sinistra facesse come i proci a Itaca ci sarebbe da indignarsi.
    So riflettere sui miei limiti e anche sulle subalternità che vengono da prima. La norma sul pareggio di bilancio l’abbiamo votata noi quando Renzi era sindaco. Oggi il tema è come si ricuce con parti di società che hanno testa e cuore altrove. Sono stanco di sentire dal pulpito la scomunica dei caminetti e poi capire che si riuniscono in sacrestia. Ma quando deve discutere un partito segnato dalla sconfitta? Ho sentito capi corrente farsi di colpo paladini di una fase di decantazione per evitare altri traumi. Ma che opinione hanno dei circoli, dei nostri iscritti, di chi ci vota? Un congresso non si fa quando 10 persone decidono che sono pronti loro, lo si fa quando la realtà te lo chiede o te lo impone. Per me lo si deve fare prima delle elezioni e fissando regole nuove. Se la sinistra perde la fiducia verso le persone è difficile chiedere alle persone di avere fiducia in noi.
    Penso che Renzi abbia dato una scossa su temi importanti, dai migranti ai diritti civili, e che abbia commesso errori gravi, primo tra tutti aver coltivato l’isolamento sociale del Pd con riforme, dal lavoro alla scuola, vissute come schiaffo al nostro mondo. Per me, cambio di passo e del timoniere coincidono. Credo di avere coltivato la lealtà ed è quella stessa lealtà che mi porta oggi a denunciare cosa siamo diventati. Una confederazione di sotto-partiti. Il Pd rischia di esaurire la sua storia se non alza lo sguardo sulla realtà. Su cosa sia la grande crisi di questi anni, su come l’Occidente sta reagendo al venir meno del suo impianto spirituale, sulla fine delle politiche pubbliche che hanno dominato il ‘900, sul divario col Mezzogiorno che produce due nazioni in un corpo solo, sul bisogno di un modello alternativo di socialità e capitalismo. Se non abbiamo parole da dire su questo, il resto è ceto politico. Le norme sui voucher vanno cambiate. L’abuso è iniziato coi governi di prima e adesso la situazione è insostenibile. Penso che per primo Gentiloni ne sia consapevole. Poletti ha detto frasi scorrette e ora si è scusato. A me interessa l’inversione radicale di una politica sbagliata.
    (Gianni Cuperlo, dichiarazioni rilasciate ad Alessandra Longo nell’intervista “Non c’è anima né programma, senza congresso il Pd è morto”, pubblicata su “Repubblica” il 23 dicembre 2016).

    Dopo le dimissioni del premier e le parole di dignità di quella notte ho visto un gruppo dirigente narcotizzato. La destra gioisce. È caduto il governo. Di bicameralismo si riparlerà tra qualche anno ed è iniziato il count down della legislatura senza che ci sia una legge elettorale. Intanto aumenta la sofferenza di chi vive sulla pelle la violenza di diseguaglianze sempre più grandi. Il referendum è stato soprattutto un voto politico che ha bocciato governo, classe dirigente e alcune riforme simboliche. Insegnanti, precari, giovani, Mezzogiorno, la fotografia reclama una svolta. Il Pd è senz’anima e se non lo capiamo è destinato a morire. La crisi peggiore del secolo dovrebbe spingere la sinistra a fare ciò che ha rinviato per anni, un ripensamento di sé, delle sue ricette. Flessibilità, liberalizzazioni, pareggio di bilancio sono stati un cedimento culturale che ha rimosso la lotta a disparità e discriminazioni sempre più odiose. Anche in Europa il risultato è una sinistra costretta a tifare Fillon o Merkel, senza una leadership e una strategia in grado di riscattare gli ultimi della fila. Se davanti a questa scena il primo partito della sinistra facesse come i proci a Itaca ci sarebbe da indignarsi.

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