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Archivio del Tag ‘Argentina’

  • Io rossobruno come il Che, contro la sinistra delle banche

    Scritto il 05/10/18 • nella Categoria: idee • (5)

    La premessa scontata è che il rossobrunismo è una bufala inventata dalla sinistra globalista e genuflessa al capitale finanziario, quella millantata sinistra che ha svenduto le ragioni dei lavoratori e dei ceti produttivi agli interessi dell’estremismo capitalista e della finanza speculativa, quella sinistra che ha colpevolmente confuso e incentivato a confondere l’inter-nazionalismo dei lavoratori con il cosmopolitismo del capitale, quella stessa sinistra incidentata e sinistrata che ha barattato i diritti reali delle persone con i diritti civili degli individui, la sinistra che oggi, con un pizzico di spudoratezza, manifesta contro un un governo certamente discutibile e contraddittorio anche se oggettivamente in discontinuità con i governi che lo hanno preceduto del corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma codesta “sinistra” è dimentica di aver bollato come plebee e cialtrone le istanze legittime di ceti popolari che invocavano semplicemente lavoro e giustizia sociale, mentre i carrieristi a tinte rosse, pasdaran del pareggio di bilancio, accumulavano patrimoni e posizioni di privilegio, e, in ossequio agli ordini del capitale, condannavano alla miseria e alla nullità esistenziale intere generazioni.
    Ma andiamo al dunque, e al mio polemico riconoscermi nella definizione di revisionista rossobruno. Sono rossobruno perché lo fu Che Guevara, quando nel discorso all’Assemblea Generale dell’Onu dell’11 dicembre 1964 pronunciò il famoso motto “Patria o muerte!”. Pochi sinistroidi sono a conoscenza del fatto che la Rivoluzione Cubana (oggetto della mia tesi di laurea) fu innanzitutto una rivoluzione nazionale, patriottica e anti-imperialista, pur riconoscendo il contributo de Partito Comunista Cubano, e che Fidel Castro diventò comunista successivamente alla presa del potere. Sono rossobruno perché l’autodeterminazione dei popoli, ovvero il diritto di un popolo a decidere del proprio destino nella propria terra, è la premessa della sovranità popolare, a sua volta premessa per lo sviluppo di una prospettiva di una società socialista, di libertà ed uguaglianza sociale. Sono rossobruno perché sono un populista, e affermo il populismo come una opzione, alternativa ad altre populiste, unica per la costruzione del politico verso il socialismo. Populista fu Che Guevara quando scrisse: «La caduta di Peron mi tocca molto. Con lui l’Argentina svolgeva, per noi che localizziamo il nemico a nord, il ruolo di paladino del nostro pensiero». Populisti sono stati Chàvez, Evo Morales, Lula da Silva, e io mi dichiaro populista insieme a loro.
    Sono talmente rossobruno da considerare la Costituzione italiana del 1948 come il documento politico più evolutivo e ideologicamente pregnante di tutto il Novecento italiano, faro luminoso a indicare la rotta verso la democrazia e il socialismo, mentre i sinistri italiani agli ordini della finanza di Jp Morgan hanno provato a rottamarla. Sono rossobruno come lo fu Pier Paolo Pasolini, quando la sua geniale e profetica diffidenza gli fecero prendere le distanze dai sessantottini figli di papà schierandosi con i poliziotti proletari; anni dopo i ribelli dell’illimitatezza del desiderio diventarono classe dirigente nella sinistra e nel paese, contro il paese e gli interessi nazionali e popolari e a difesa del capitale globalizzato. Sono e resterò rossobruno fin quando gli imbecilli in pantofole, al riparo dei loro privilegi, non comprenderanno le ragioni di una richiesta di giustizia sociale e di riscossa nazionale che passa attraverso la definitiva sepoltura, nel nome del socialismo e della democrazia, della sinistra che ha tradito e della oligarchia finanziaria a cui essa è asservita.
    (Franz Altomare, “Sono un rossobruno”, dalla pagina Facebook di Altomare del 30 settembre 2018).

    La premessa scontata è che il rossobrunismo è una bufala inventata dalla sinistra globalista e genuflessa al capitale finanziario, quella millantata sinistra che ha svenduto le ragioni dei lavoratori e dei ceti produttivi agli interessi dell’estremismo capitalista e della finanza speculativa, quella sinistra che ha colpevolmente confuso e incentivato a confondere l’inter-nazionalismo dei lavoratori con il cosmopolitismo del capitale, quella stessa sinistra incidentata e sinistrata che ha barattato i diritti reali delle persone con i diritti civili degli individui, la sinistra che oggi, con un pizzico di spudoratezza, manifesta contro un governo certamente discutibile e contraddittorio anche se oggettivamente in discontinuità con i governi che lo hanno preceduto del corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma codesta “sinistra” è dimentica di aver bollato come plebee e cialtrone le istanze legittime di ceti popolari che invocavano semplicemente lavoro e giustizia sociale, mentre i carrieristi a tinte rosse, pasdaran del pareggio di bilancio, accumulavano patrimoni e posizioni di privilegio, e, in ossequio agli ordini del capitale, condannavano alla miseria e alla nullità esistenziale intere generazioni.

  • Zuesse: Bannon sfida Soros ma non fidatevi, vuole l’Europa

    Scritto il 24/8/18 • nella Categoria: segnalazioni • (48)

    Scrive Eric Zuesse, su “Strategic-culture.org”, che due schieramenti politici – uno guidato da George Soros e l’altro creato dal nuovo arrivato, Steve Bannon – sono entrati in competizione per il controllo politico dell’Europa. Soros ha guidato a lungo i grandi capitalisti liberal americani verso l’egemonia europea, mentre Bannon sta ora organizzando una squadra di miliardari (altrettanto conservatori) per strappare la vittoria ai liberal attraverso la leva del populismo sovranista. Lo scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, sintetizzando la panoramica geopolitica fornita da Zuesse, scrittore e analista statunitense. Bannon contro Soros? Attenzione: «Nessuno di loro è progressista o populista di sinistra», avverte Zuesse. «L’unico populismo che attualmente ogni capitalista promuove è quello della squadra di Bannon. Comunque – aggiunge Zuesse – entrambe le squadre si demonizzano a vicenda, sia per il controllo del governo degli Stati Uniti che, a livello internazionale, per il controllo del mondo intero, opponendo due diverse visioni del mondo: liberale e conservatrice, o meglio globalista e nazionalista». Entrambi dicono di sostenere la democrazia? Sì, ma magari con le rivoluzioni colorate di Soros (Ucraina, Medio Oriente) o le guerre “democratiche” (Iraq) e i “regime change” (Egitto, Tunisia, Libia, Siria).

  • Benetton, pedaggio italiano al feroce buonismo globalista

    Scritto il 18/8/18 • nella Categoria: idee • (4)

    I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.
    Dietro la facciata “progressista” di Benetton c’è però la realtà di Maletton, il lato B. È il caso, ad esempio del milione d’ettari della Benetton in Patagonia, sottratto alle popolazioni locali come le comunità Mapuche, vanamente insorte e sanguinosamente represse. O lo sfruttamento senza scrupoli dell’Amazzonia, ammantato dietro campagne in difesa dell’ambiente. O la storia dei maglioni prodotti a costi stracciati presso aziende che sfruttavano lavoratori, donne e minori a salari da fame e condizioni penose, come accadde in Bangladesh a Dacca, dove morirono un migliaio di sfruttati che lavoravano in un’azienda che produceva anche per Benetton. Le loro facce non le abbiamo mai viste negli spot umanitari di Benetton, così come non vedremo nessuna maglietta rossa, nessun cappellino rosso sponsorizzato da Benetton o promosso da Toscani per le vittime di Genova. A questo si aggiunge per la Benetton l’affarone di gestire prima gli autogrill e poi interamente le Autostrade, dopo che lo Stato italiano ha investito per decenni miliardi per far nascere la rete autostradale. Un “regalo” del pubblico al privato, come succede solo in Italia.
    Il capitalismo italiano ha sempre avuto questo lato parassitario e rapace: non investe, non rischia di suo ma campa a ridosso del settore pubblico o delle sue commesse. A volte socializza le perdite e privatizza i profitti, come spesso faceva per esempio la Fiat, o piazza i suoi prodotti scartati dal mercato allo Stato, come faceva ad esempio De Benedetti accollando materiali un po’ vecchiotti dell’Olivetti alla pubblica ammministrazione. Aziende che si scoprivano nazionaliste quando si trattava di mungere dallo Stato italiano e poi si facevano globalità quando si trattava di andarsene all’estero per ragioni di produzione, fisco o costi minori. O si rileva la gestione delle Autostrade come i Benetton e i loro soci, con sontuosi profitti ma poi è tutto da verificare se si siano curati di investire adeguatamente per ammodernare la rete e fare manutenzione efficace. La tragedia di Genova pende come un gigantesco punto interrogativo tra i cavi sospesi sulla città.
    Di tutto questo, naturalmente, si parla poco nei media italiani, soprattutto nei grandi; non dimentichiamo che Benetton, oltre che importante cliente pubblicitario nei media, è azionista nel gruppo de “La Repubblica-L’Espesso-La Stampa”, dove si sono incrociati – ma guarda un po’ – i sullodati Agnelli e De Benedetti. In miniatura, segue lo stesso modello ideologico e d’affari alla Benetton, anche Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Il capitalismo nostrano da un verso sostiene battaglie “progressiste” appoggiando forze politiche pendenti a sinistra e finanziando campagne global e antirazziste; poi dall’altro si trova invischiato in storie coloniali di espropriazione delle terre alle popolazioni indigene, di sfruttamento delle risorse e di uomini per produrre a costi minimi e senza sicurezza, ottenendo il massimo profitto. Poi vi chiedete perché in Italia certe opinioni politically correct sono dominanti: si è cementato un blocco tra un ceto ideologico-politico progressista, radical, di sinistra che fornisce il certificato di buona coscienza a un ceto affaristico di capitalisti marpioni. Un ceto che è viceversa adottato, tenuto a libro paga, dal medesimo. In questa saldatura d’interessi si formano i potentati e contro quest’intreccio ha preso piede il populismo.
    Però alle volte insorge la realtà. Drammaticamente, come è stato il caso di Genova. Dove ci sono da appurare le responsabilità, i gradi e i livelli. Inutile aggiungere che con ogni probabilità non ci sarà un solo colpevole, ci saranno differenti piani di responsabilità, anche a livello di amministratori locali, di governi centrali e ministeri dei trasporti che avrebbero dovuto vigilare e imporre alla società autostrade di spendere di più in sicurezza, pena la decadenza della concessione. Col senno di poi è facile dire che se gli azionisti della società autostrade avessero speso la metà dei loro utili (oltre un miliardo di euro l’anno) per ulteriore manutenzione, sicurezza e rifacimento di strutture a rischio, come era notoriamente il ponte Morandi a Genova, oggi probabilmente non staremmo a piangere i morti e una città stravolta, sventrata. Ma richiamare altre responsabilità non vuol dire buttarla sulla solita prassi del tutti colpevoli nessun condannato; no, ci sono gradi e livelli di responsabilità diversi, e qualcuno dovrà pagare per quel che è successo, ciascuno secondo il suo grado di colpa effettivamente accertata.
    A questo punto rivedere le concessioni è necessario. Ma non può essere la sola risposta. C’è da ripensare al modello italiano che non funziona più da anni, vive di rendita sul passato e manda in malora il suo patrimonio. Bisogna ripensare alla nostra scassata modernità, al nostro obsoleto repertorio strutturale, vecchio come i capannoni di archeologia industriale e le cattedrali nel deserto che spesso deturpano il nostro paesaggio e ricordano il nostro passato, quando l’industria era il radioso futuro. Un paese che non sa più pensare in grande, investire, intraprendere, far nascere, pensare al futuro. Resistono i ponti dei romani, resistono i ponti di epoca fascista, opere “aere perennius”, ma scricchiolano o crollano le opere recenti, perché non c’è stata vera manutenzione, perché c’è stato sovraccarico, o perché furono fatte in origine con materiali inadeguati, con permessi ottenuti in modo obliquo, perché qualcuno vi speculò, e non solo le imprese di costruzione.
    In tutto questo, purtroppo, la linea grillina del non fare, del tagliare, del risparmiare sulle grandi opere o sui grandi rifacimenti non è una risposta adeguata ai problemi e alle urgenze. Non dimentichiamo che per i grillini fino a ieri era una “favoletta” il rischio di crollo del ponte Morandi di Genova, era solo un modo per mungere soldi; e dunque pur di frenare eventuali corrotti e corruttori, per loro è meglio tenersi strade scassate e ponti insicuri. Intanto è necessario rimettere in discussione il modello imperante, con un residuo di statalismo incapace e impotente, che si accompagna a un capitalismo vorace e parassitario sotto le vesti progressiste e umanitarie, con tutte le sue connivenze politiche denunciate da Di Maio. Quelle aziende che mettevano in cerchio i bambini del mondo, salvo vederli sfruttare nelle aziende del Terzo mondo o espropriare delle loro terre. Quelle aziende che volevano abbattere muri e frontiere nel mondo e nel frattempo crollavano i ponti di casa…
    (Marcello Veneziani, “Benetton Maletton”, dal “Tempo” del 17 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.

  • Barnard: la Chiesa è marcia, con che faccia accusa Salvini?

    Scritto il 23/7/18 • nella Categoria: idee • (6)

    La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.
    Nel 2014 il ministro delle finanze vaticane, cardinale George Pell, disse che «abbiamo scoperto centinaia di milioni di euro nascosti in conti dimenticati di cui non avevamo rendicontazione». E questi sono solo gli spiccioli di Papa Bergoglio. Secondo l’“International Business Times”, il Vaticano gestisce strumenti d’investimento per 6 miliardi di euro; ha 700 milioni investiti sulle Borse; tiene 20 milioni di dollari in oro alla Federal Reserve in Usa. Il gioielliere Bulgari a Londra paga l’affitto alla Chiesa di Roma in uno dei palazzi meglio prezzati del mondo a New Bond Street. L’investment bank Altium Capital idem, nella prestigiosa St James’s Square. Secondo il Consiglio d’Europa il merchant banker dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Aps), Paolo Mennini, nel 2012 da solo gestiva 680 milioni di euro per i cardinali, i quali solamente dallo Ior ricevono dividendi per 60 milioni annui. I valori delle proprietà immobiliari usate per profitto commerciale e speculativo dalla Santa Sede sono impossibili da calcolare, ma ecco un’idea: il “Sole 24 Ore” ha stimato che la sola ‘agenzia immobiliare’ vaticana chiamata Apsa, diretta fino al 2016 dal cardinale Domenico Calcagno, gestisce 10 miliardi di euro in immobili commerciali (esclusi quindi chiese, canoniche, seminari, ecc.) che, si ribadisce, è solo una vaga idea del totale in mano alla Santa Sede nel mondo.
    Allora, è accettabile che le “belle anime” cattoliche italiane, di cui l’innominabile catto-sinistra è pregna, si permettano di tuonare dalle pagine ad esempio di “Famiglia Cristiana” contro Salvini perché «ha mosso critiche al mondo cattolico che accoglie i migranti»? Accoglie i migranti? Ah, davvero? E come li accoglie? Con quanti denari concretamente sborsati fra i sopraccitati miliardi che tengono in speculazioni finanziarie e di Borsa? Può la Santa Sede mostrarci le cifre? In quanti immobili milionari che posseggono li hanno accolti, quanti sono stati allestiti per loro? Può la Santa Sede, che millanta di “accogliere”, fornirci le mappe? Ma con che inguardabile faccia questi ipocriti intimidiscono con l’abietta superstizione del senso di colpa il Salvini e i suoi elettori? Allora, Papa Bergoglio, prima di condannare i peccatori, veda di mettere le gabbane dei suoi preti, i miliardi delle vostre speculazioni e le migliaia di proprietà dove stanno le vostre parole. E se proprio dovete sdoganare la politica leghista sulla tragedia dei migranti come politica criminale contro gli innocenti – c he non è, perché al peggio è gretta insensibilità dettata da meschina ignoranza personale o da vere difficoltà economiche – ecco chi davvero ha fatto in epoca contemporanea una politica criminale di massa contro gli innocenti, col crocifisso al collo.
    Da un mio articolo di 2 anni fa: “Nel 2012 persino Jp Morgan ha dovuto prendere le distanze dallo Ior per sospetti di riciclaggio in armi. “Vatileaks”, scatenato da Gianluigi Nuzzi, già 3 anni fa rivelava il marciume criminale delle finanza vaticana. Mentre l’adorato Papa Francesco scalava in diligente silenzio i ranghi della Chiesa in Argentina, la P2 con lo Ior e Calvi erano i maggiori canali di forniture di missili Exocet proprio alla Giunta di Buenos Aires (30.000 morti), oltre ad armare criminali di massa e torturatori in Guatemala, Perù, Ecuador e Nicaragua. E scrive Vittorio Cotesta nel libro “Global Society, Cosmopolitanism and Human Rights”: «Uno dei maggiori obiettivi di questo network (Ior ecc.)… è di sostenere i golpisti che gli Stati Uniti e il Vaticano usano per schiacciare la Teologia della Liberazione». Papa Francesco ne fu complice ideologico e, in due casi, anche fisico fino al 2013”. Sono l’ultimo a sostenere Matteo Salvini in Italia, ma odio gli ipocriti. Creano molta più sofferenza dei razzisti, perché sono loro che al temine di epoche di disgustoso finto buonismo (vero, Pd?) tradiscono i popoli sui diritti fondamentali e li spingono all’aspetto più deteriore del populismo, quello di rabbia cieca e poi infine anche disumana.
    (Paolo Barnard, “La Chiesa condanna Salvini, ma con che faccia?”, dal blog di Barnard del 20 luglio 2018).

    La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.

  • Stiglitz: ma all’Italia conviene lasciare l’euro, ecco come

    Scritto il 05/7/18 • nella Categoria: idee • (19)

    Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.
    Le divisioni risultanti hanno inoltre reso più difficile la risoluzione di altri problemi, in particolare la crisi migratoria, per la quale le norme europee impongono un onere ingiusto ai paesi in prima linea, come Grecia e Italia. Questi sono anche i paesi debitori, già afflitti da difficoltà economiche. Non c’è da stupirsi si ribellino. Cosa bisogna fare è ben noto. Il problema è che la Germania non vuole farlo. L’Eurozona ha da tempo riconosciuto la necessità di un’unione bancaria. Berlino insiste però nel rinviare la riforma chiave – una comune assicurazione sui depositi – che ridurrebbe la fuga di capitali dai paesi deboli: quest’ultima è uno dei fattori chiave che spiega la profondità del declino dei paesi in crisi. Le politiche economiche interne della Germania aggravano i problemi della zona euro. La principale sfida economica affrontata dai paesi in un’unione monetaria è l’incapacità di adeguare i tassi di cambio disallineati. Nell’Eurozona, l’onere dell’adeguamento è attualmente imposto ai paesi debitori, che già soffrono di bassi crescita e redditi. Se la Germania avesse una politica fiscale e salariale più espansiva, parte della pressione verrebbe tolta da questi paesi.
    Se la Germania non è disposta ad intraprendere i passi necessari per migliorare l’unione monetaria, dovrebbe fare la cosa migliore: lasciare l’Eurozona. Come detto da Soros, dovrebbe o guidare l’area o andarsene. Con la Germania (e forse altri paesi dell’Europa settentrionale) fuori dall’unione monetaria, il valore dell’euro si ridurrebbe e le esportazioni dell’Italia e di altri paesi dell’Europa meridionale aumenterebbero. La principale fonte di disallineamento sparirebbe. Allo stesso tempo, l’aumento del tasso di cambio tedesco farebbe molto per curare uno degli aspetti più destabilizzanti dell’economia globale: lo squilibrio commerciale a favore di Berlino. Il guaio, naturalmente, è che la Germania non vuole intraprendere nessuna delle due strade. Ciò lascia i cittadini di paesi come Grecia ed Italia con una scelta che non dovrebbero esser costretti a fare: tra l’appartenenza all’Eurozona e la prosperità economica. Un timido e inesperto governo greco ha scelto di rimanere nell’unione monetaria. Il risultato è stato stagnazione. Nel 2015 il Pil del paese era crollato del 25% rispetto al livello pre-crisi. Da allora, si è appena mosso.
    L’Italia ha l’opportunità di fare una scelta diversa. In assenza di riforme significative, i benefici di lasciare l’euro sono chiari e considerevoli. Un cambio più basso le consentirebbe maggiori esportazioni. I turisti troverebbero il paese una destinazione ancor più attraente. Tutto ciò stimolerebbe la domanda e aumenterebbe le entrate del governo. La crescita aumenterebbe e l’alto tasso di disoccupazione (11,2%, con il 33,1% di disoccupazione giovanile) diminuirebbe. Ci sono, naturalmente, molte altre ragioni per il malessere italico, e queste saranno tutt’al più parzialmente risolte lasciando l’euro. Governi come quelli di Trump o di Berlusconi – dominato da corrotti cercatori di rendite, senza comprensione delle vere basi della crescita sostenibile a lungo termine – non forniscono la leadership politica necessaria per una crescita forte e sostenibile. Allo stesso tempo, tuttavia, la crescita lenta ed iniqua che l’Italia ha vissuto come risultato dell’euro fornisce terreno fertile a partiti populisti. Ci sarebbero anche ulteriori vantaggi politici. Un’Italia più prospera avrebbe maggiori probabilità di cooperare in altri settori chiave in cui l’Europa ha bisogno di lavorare insieme: migrazione, una forza di difesa europea, sanzioni contro la Russia, politica commerciale.
    Le politiche commerciali o migratorie producono benefici per l’intero paese, ma ci sarebbero anche dei perdenti – e i vincoli fiscali imposti dalla zona euro hanno reso quasi impossibile fornire una tutela adeguata a chi perde. Un’Italia al di fuori dell’Eurozona sarebbe in una posizione migliore per condividere i benefici delle proprie politiche internazionali, mitigando al contempo il dolore ad esse associato. La sfida, ovviamente, sarà trovare un modo per lasciare la zona euro in modo da minimizzare i costi economici e politici. Una massiccia ristrutturazione del debito, fatta con particolare attenzione alle conseguenze per le istituzioni finanziarie nazionali, è essenziale. Senza di essa, l’onere del debito denominato in euro salirebbe, controbilanciando forse gran parte dei potenziali guadagni. Tali ristrutturazioni sono una parte fisiologica di grandi svalutazioni. A volte viene fatto di nascosto – come quando gli Usa abbandonarono il gold standard. A volte apertamente, come in Islanda ed Argentina. Tali ristrutturazioni del debito dovrebbero però essere viste come un rischio intrinseco dell’investimento transnazionale, una delle ragioni per le quali le obbligazioni “straniere” spesso danno un premio per il rischio.
    Da un punto di vista economico, la cosa più semplice da fare sarebbe che le entità italiane (governi, aziende e privati) semplicemente ridenominino i debiti dall’euro alla nuova lira. A causa però di complessità giuridiche all’interno dell’Ue, e degli obblighi internazionali del paese, potrebbe essere preferibile adottare una super-legge sul fallimento, sul modello del Chapter 11 americano. Questa permette un rapido ricorso alla ristrutturazione del debito a qualsiasi entità per la quale la nuova valuta presenta gravi problemi economici. Le leggi sulla bancarotta restano un’area di competenza di ciascuno degli Stati nazionali dell’Ue. L’Italia potrebbe persino scegliere di non annunciare che sta per lasciare l’euro. Potrebbe semplicemente emettere, ad esempio, titoli di Stato, che dovrebbero essere accettati come pagamento per qualsiasi obbligo di debito in euro. Una diminuzione del valore di queste obbligazioni equivarrebbe a una svalutazione. Ciò allo stesso tempo ripristinerebbe l’efficacia della politica monetaria italiana: cambiamenti nella politica della banca centrale inciderebbero sul valore delle obbligazioni.
    Si leverebbe naturalmente un polverone da parte degli altri membri. Introdurre una moneta parallela, ancorché in modo informale, violerebbe quasi certamente le regole della zona euro e sarebbe certamente contro il suo spirito. In questo modo però l’Italia lascerebbe decidere gli altri membri se espellerla. Roma potrebbe scommettere sul fatto che i membri più irritabili dell’Unione non compieranno mai un’azione così forte, che confermerebbe la sfilacciamento della zona euro. L’Italia avrebbe allora ottenuto due risultati con una sola mossa: rimarrebbe parte dell’Eurozona ma avrebbe compiuto una svalutazione. E se dovesse perdere la scommessa, l’onere politico dell’aver lasciato la zona euro cadrebbe ancor più chiaramente sui suoi “partner”. Sarebbero loro ad aver fatto la scelta finale. La Grecia si è arresa ad esser strangolata dalla Bce. Ma non doveva. Atene era infatti già ben avviata nella creazione di un sistema (un meccanismo di pagamento elettronico sotto la nuova dracma) che avrebbe facilitato una transizione dall’Eurozona. I progressi tecnologici degli ultimi tre anni rendono la creazione di sistemi di moneta elettronica sempre più semplice ed efficace. Se l’Italia decidesse di usarne uno, non dovrebbe nemmeno affrontare le difficoltà di stampare nuova valuta. Potrebbe anche alleviare il dolore della propria dipartita coordinando l’uscita con altri paesi in posizione simile.
    Il variegato gruppo di paesi che ora forma l’Eurozona è ben lungi da quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale. Ci sono troppe diversità, per farlo funzionare occorrono migliori assetti istituzionali, di quelli del tipo su cui la Germania ha posto il veto. Una zona meridionale sarebbe molto più vicina ad un’area valutaria ottimale. Ed anche se è difficile organizzare un’uscita coordinata in un breve periodo di tempo, se l’Italia dovesse avere successo, altri paesi quasi sicuramente seguiranno. Non bisogna ovviamente sottovalutare  i costi di una grande svalutazione. Qualsiasi grande cambiamento in un prezzo-chiave in un’economia è una perturbazione significativa. Il prezzo del cambio estero è, ovviamente, fondamentale in qualsiasi economia aperta. Ha un effetto-domino sui prezzi di tutti i beni e servizi. Alcune – forse molte – aziende falliranno. Alcuni – forse molti – privati vedranno i propri redditi reali abbassarsi. È però altrettanto importante non sottovalutare i costi dell’attuale malessere italiano. Se la sua economia, nei 20 anni dalla creazione dell’euro, fosse cresciuta al tasso della zona euro nel suo insieme, il suo Pil sarebbe stato più alto del 18%.
    Il costo della disoccupazione persistente, specialmente tra i giovani, è enorme. I giovani tra i 20 e i 30 anni dovrebbero affinare le proprie abilità nella formazione sul posto di lavoro. Invece sono a casa oziosi, molti di loro a sviluppare un risentimento verso le élite e le istituzioni che incolpano per la propria situazione. La conseguente mancanza di formazione del capitale umano ridurrà la produttività anche per gli anni a venire. In un mondo ideale, l’Italia non dovrebbe essere costretta a lasciare l’Eurozona. L’Europa potrebbe riformare l’unione valutaria e fornire una migliore protezione a chi è danneggiato dal commercio e dalla migrazione. In assenza però di un cambio di direzione da parte dell’Ue nel suo insieme, l’Italia deve ricordare che ha un’alternativa alla stagnazione economica e che ci sono modi per lasciare la zona euro in cui i benefici probabilmente supererebbero i costi. Se il nuovo governo dovesse pilotare con successo tale uscita, l’Italia starebbe meglio. E così il resto d’Europa.
    (Joseph Stiglitz, “L’Italia ha ragione a voler lasciare l’euro”, da “Politico.Eu” del 25 giugno 2018, post tradotto fa Hmg per “Come Don Chisciotte”).

    Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.

  • Chiamano “fake news” la perdita del monopolio della verità

    Scritto il 11/5/18 • nella Categoria: idee • (23)

    Davvero poche persone riescono a trovare un senso nell’attuale isteria sulle “fake news” e quasi nessuno è disposto a inquadrarla nel contesto storico e a comprendere perché il problema sia sorto adesso. La ragione per cui si è diffusa l’isteria, e specialmente negli Stati Uniti, è perché si tratta di  una reazione (più o meno comprensibile) alla perdita del potere monopolistico globale esercitato dai media anglo-americani, in particolar modo dal 1989, ma praticamente dal 1945 in poi. Le ragioni del quasi-monopolio occidentale tra il 1949 e il 1989 (chiamiamola Fase 1) sono  molteplici: il grande flusso di notizie provenienti da canali di informazione come la “Bbc”, e più tardi la “Cnn”, molto maggiore rispetto a quelle fornite dalle agenzie nazionali in molti paesi; la portata molto più ampia dei grandi servizi informativi in lingua inglese: questi offrivano una copertura giornalistica di tutti i paesi, mentre i media nazionali potevano a malapena permettersi corrispondenti in due o tre delle maggiori capitali mondiali; la diffusione dell’inglese come seconda lingua; e ultimo, ma non meno importante, la migliore qualità delle notizie (ovvero la maggiore veridicità) rispetto a quelle reperibili nelle fonti nazionali.
    Questi vantaggi dei media occidentali erano particolarmente evidenti ai cittadini del Secondo Mondo, dove i governi mantenevano una stretta censura, cosicché l’Urss doveva perfino arrivare all’estremo di bloccare le stazioni radio occidentali. Ma anche nel resto del mondo i media occidentali erano spesso migliori di quelli locali per le ragioni che ho menzionato. Un lettore attento avrà notato che finora ho contrapposto i media globali anglo-americani a quelli nazionali o solamente locali. Ciò perché solo i primi avevano una portata globale e il resto dei media (a causa della mancanza di finanziamenti o di ambizione, del controllo governativo o della limitata diffusione della lingua) operava a livello puramente nazionale. Così i media inglesi e statunitensi hanno combattuto una battaglia impari con i piccoli giornali o Tv nazionali. Non è sorprendente che i media globali anglo-americani siano stati capaci di controllare, in molti casi completamente, la narrazione politica. Non solo i media occidentali erano pienamente in grado di influenzare quello che (ad esempio) le persone in Zambia pensavano dell’Argentina o viceversa (perché probabilmente chi viveva in Zambia aveva a disposizione una copertura locale degli avvenimenti in Argentina prossima alla zero); soprattutto, a causa della maggiore apertura e migliore qualità dei media occidentali, questi erano in grado perfino di influenzare la narrazione pubblica all’interno dello Zambia o all’interno dell’Argentina.
    I rivali globali che l’Occidente affrontava all’epoca erano risibili. Le radio ad onde corte cinesi, sovietiche e albanesi avevano programmi in molteplici lingue, ma le loro storie erano così insipide, noiose e irrealistiche che la gente che, di volta in volta, le ascoltava, lo faceva per lo più a scopo di divertimento. Il monopolio dei media occidentali si è quindi ulteriormente espanso con la caduta del comunismo (chiamiamola Fase 2). Tutti i paesi ex-comunisti dove i cittadini erano abituati ad ascoltare clandestinamente “Radio Europa Libera” erano adesso più che disponibili a credere nella verità di tutto quello che veniva diffuso da Londra e Washington. Molti di questi organi di informazione si installarono nell’ex Blocco Orientale (“Rfe” oggi ha il quartier generale a Praga). Ma la luna di miele del monopolio globale occidentale iniziò a cambiare quando gli “altri” realizzarono che anche loro potevano provare a diventare globali, nell’unico spazio mediatico globale creato grazie alla globalizzazione e a Internet. La diffusione di Internet garantiva che si potessero produrre programmi e notizie in lingua spagnola – o araba – e che fossero guardati in ogni parte del mondo. “Al Jazeera” è stata la prima a intaccare pesantemente, e poi distruggere, il monopolio occidentale sulla narrazione del Medio Oriente in Medio Oriente. E adesso entriamo nella Fase 3.
    I canali turchi, russi e cinesi hanno quindi fatto lo stesso. Quanto successo nel mondo delle notizie ha avuto un parallelo in un’altra area in cui il monopolio anglo-americano era totale, ma poi ha iniziato a indebolirsi. Le serie Tv globali che venivano esportate, di solito erano prodotte solamente negli Usa – o in Uk; ma presto hanno trovato rivali di grande successo nelle telenovelas latino-americane, nelle serie indiane e turche, e più recentemente russe. In realtà, questi nuovi arrivati hanno praticamente spinto le serie Usa e Uk quasi completamente fuori dai propri mercati “nazionali” (che, per esempio, per la Turchia include gran parte del Medio Oriente e dei Balcani). Quindi è arrivata la Fase 4, quando altri media non-occidentali hanno capito che potevano provare a sfidare il monopolio informativo occidentale non solo all’estero, ma anche nel giardino di casa dei media occidentali. Questo è successo quando “Al Jazeera-Us”, “Russia Today”, “Cctv” e altri sono entrate in scena con i loro programmi e le loro notizie in lingua inglese (e anche francese, spagnola, etc) orientate all’audience globale, inclusa quella americana. Questo è stato in effetti un cambiamento enorme. Ed è il motivo per cui stiamo attraversando una fase di reazione isterica alle “fake news”: perché è la prima volta che media non-occidentali stanno non solo creando la propria narrazione globale, ma stanno anche cercando di creare una narrazione dell’America.
    Per la gente che viene da paesi piccoli (come me) questa è una  cosa del tutto normale: siamo abituati a stranieri che non solo nominano i nostri ministri ma che sono presenti in tutto lo spazio mediatico, e persino influenzano la narrazione della storia e della politica del paese, spesso perché la qualità delle loro notizie e delle loro borse di studio è migliore. Ma per molte persone negli Usa e in Uk questo è uno shock totale: come osano degli stranieri dir loro qual è la narrazione del proprio paese? Ci sono due possibili esiti di questa situazione. Uno è che il pubblico statunitense dovrà rendersi conto che, con la globalizzazione, persino il paese più importante, come sono gli Usa, non è immune dall’influenza degli altri; anche gli Stati Uniti, in confronto al resto del mondo nel suo complesso, diventano “piccoli”. Un’altra possibilità è che l’isteria porterà alla frammentazione dello spazio di internet, come stanno già facendo Cina, Arabia Saudita e altri. Allora invece di una bella piattaforma globale per tutte le opinioni, torneremo indietro alla situazione pre-1945, con “stazioni radio” nazionali, reti internet locali, bando delle lingue straniere (e forse persino degli stranieri) sulle NatNets nazionali [gioco di parole basato sull’etimologia della parola internet,  sincrasi di International Network, i.e. rete internazionale, a cui vengono contrapposte le reti nazionali, i.e. National Networks, NatNets, ndt] – in sostanza avremo messo fine alla globalizzazione del libero pensiero e saremo tornati ad un genuino nazionalismo.
    (Branko Milanovic, “Le ‘fake news’ sono la reazione alla fine del monopolio della narrazione”, dal blog dell’economista serbo-americano, tradotto da “Voci dall’Estero” il 30 aprile 2018).

    Davvero poche persone riescono a trovare un senso nell’attuale isteria sulle “fake news” e quasi nessuno è disposto a inquadrarla nel contesto storico e a comprendere perché il problema sia sorto adesso. La ragione per cui si è diffusa l’isteria, e specialmente negli Stati Uniti, è perché si tratta di  una reazione (più o meno comprensibile) alla perdita del potere monopolistico globale esercitato dai media anglo-americani, in particolar modo dal 1989, ma praticamente dal 1945 in poi. Le ragioni del quasi-monopolio occidentale tra il 1949 e il 1989 (chiamiamola Fase 1) sono  molteplici: il grande flusso di notizie provenienti da canali di informazione come la “Bbc”, e più tardi la “Cnn”, molto maggiore rispetto a quelle fornite dalle agenzie nazionali in molti paesi; la portata molto più ampia dei grandi servizi informativi in lingua inglese: questi offrivano una copertura giornalistica di tutti i paesi, mentre i media nazionali potevano a malapena permettersi corrispondenti in due o tre delle maggiori capitali mondiali; la diffusione dell’inglese come seconda lingua; e ultimo, ma non meno importante, la migliore qualità delle notizie (ovvero la maggiore veridicità) rispetto a quelle reperibili nelle fonti nazionali.

  • Tuis: il potere dei gesuiti, gli 007 del nuovo ordine mondiale

    Scritto il 24/4/18 • nella Categoria: segnalazioni • (12)

    «Attenzione: stai per ricreare una pagina già cancellata in passato». E’ quanto si legge consultando su Wikipedia la voce Siv, Servizio Informazioni Vaticano. Sorveglianza occhiuta: l’enciclopedia “libera” del web si ferma, di fronte all’intelligence del Papa. Anche perché, sostiene Riccardo Tristano Tuis, l’intera faccenda è nelle mani dell’ordine religioso più potente e misterioso della galassia cattolica: la Compagnia di Gesù, fondata nel 1537 dal militare spagnolo Ignazio de Loyola, con una vocazione – emersa fin dall’inizio – all’infiltrazione nelle altrui strutture, onde controllarle dall’interno. Geniale, l’uso della confessione da parte dei gesuiti: una volta introdotti a corte come educatori dei nobili rampolli, diventavano i custodi dei segreti dei futuri regnanti. Per Fausto Carotenuto, già analista dell’intelligente e autore del saggio “Il mistero della situazione internazionale”, i gesuiti rappresentano il vertice di una delle due piramidi “nere” che controllano il mondo – l’altra sarebbe costituita dalla massoneria internazionale. Comune l’obiettivo: il dominio di un pianeta completamente globalizzato mediante la finanza e l’economia, la politica addomesticata, la disinformazione martellante assicurata dai grandi media, reticenti o bugiardi sul terrorismo e sulla guerra.
    «Anche tra i gesuiti si contano ovviamente molte ottime persone», ammette Tuis, intervistato a “Border Nights”, «ma la struttura ha avuto un ruolo essenzialmente negativo, nella storia: la congregazione resta un soggetto decisamente pericoloso, non a caso espulso per 70 volte da vari Stati». Rapporti difficili anche con il Vaticano: Papa Clemente XIV soppresse l’ordine religioso nel 1773. «I gesuiti erano nati come braccio speciale della Chiesa per sostituire i domenicani, politicamente poco duttili», spiega Gianfranco Carpeoro, autore di saggi che illuminano oscuri retroscena in cui convivono Chiesa e massoneria, come nel caso dell’origine del fascismo. «Poi però sempre i geusiti divennero anche scomodi, quando – dopo la conquista del Sudamerica – si accorsero che gli indigeni erano migliori, come uomini, dei “conquistadores” cristiani». Lo ricorda lo stesso Tuis, autore del libro “Gesuiti” appena pubblicato da Uno Editori: «In Paraguay i gesuiti si schierarono con il popolo anche pagando con la vita la loro scelta». E’ di ispirazione gesuitica la “teologia della liberazione”, per l’emancipazione popolare dell’America Latina. Era gesuita lo stesso cardinale Martini, in prima linea contro le guerre. Ma la Compagnia di Gesù resta ambivalente: Jorge Mario Bergoglio, primo pontefice gesuita della storia, ha firmato il saggio “Questa economia uccide” ma in Argentina è stato accusato di complicità con i carnefici della dittatura militare, quella dei “desaparecidos”.
    Riccardo Tristano Tuis non crede a Papa Francesco: «Nonostante la parte che recita, fa il gioco del potere: il suo impegno a favore dei migranti fa parte del progetto globalista che prevede anche l’islamizzazione dell’Europa a spese della fede cristiana, verso un’ipotetica religione unica mondiale». Il suo libro è chiaro, negli intenti, fin dal sottotitolo: «L’Ordine militare dietro alla Chiesa, alle banche, ai servizi segreti e alla governance mondiale». Già autore de “L’aristocrazia nera”, ovvero «la storia occulta dell’élite che da secoli controlla la guerra, il culto, la cultura e l’economia», Tuis racconta l’intreccio che – fin dall’origine – lega Ignazio di Loyola a potenti famiglie romane come quella dei Borgia. La missione dell’ordine: forgiare dei veri e propri 007, in grado di infiltrare qualsiasi ambiente politico e religioso, puntando al controllo del potere. Un progetto con un retroterra segreto, risalente ai Templari e da «ordini e consorzi di famiglie ancora più antiche». Nacquero così «agenti segreti con licenza di uccidere», pronti a operare clandestinamente sia nei paesi cristiani che in quelli protestanti o anglicani, «al punto che ai nostri giorni i servizi segreti deviati europei, nordamericani, del Commonwealth e d’Israele sono delle espressioni di un’unica regia: il Siv, cioè i servizi segreti del Vaticano», quelli irrintracciabili su Wikipedia.
    «L’alta finanza, le più grandi banche del mondo e il cartello bancario che ha dato vita al moderno signoraggio bancario – sostiene Tuis – sono il prodotto della millenaria opulenza e forza della Chiesa di Roma, che proprio grazie ai gesuiti dall’Ottocento in poi ha in mano l’economia globale attraverso le famiglie dei banchieri internazionali ai cui vertici ci sono i guardiani del tesoro papale: i Rothschild». Il libro di Tuis indaga «sull’oscuro mondo delle società segrete e dei circoli magici di matrice satanico-luciferina e cristiana», scoprendo «le loro reciproche e insospettate connessioni attraverso i gesuiti di alto livello, gli “incogniti superiori del 4° voto” che muovono anche le fila dei potenti e stratificati ordini cavallereschi», vale a dire i Cavalieri di Malta in Europa e i loro corrispettivi americani, i Cavalieri di Colombo. Insieme alla massoneria internazionale, questa galassia di poteri “invisibili” dà vita «all’esercito di grigi burocrati dell’Unione Europea e del Congresso americano, che promuovono la criminale operazione su vasta scala denominata Agenda 21».
    Il libro si addentra in specifici eventi storici: «Due più famosi dittatori europei, Napoleone Bonaparte e Adolf Hitler, sono saliti al potere grazie ad operazioni clandestine dei gesuiti e degli Illuminati, che da secoli lavorano a fianco a fianco nell’instaurazione della secolare agenda mondialista “La Nuova Atlantide”, meglio conosciuta come Nuovo Ordine Mondiale». A un ex gesuita, racconta Tuis a “Border Nights” si deve l’invenzione della ghigliottina: atroce simbolo del Terrore francese, d’accordo, ma pur sempre «un modo per ridurre la sofferenza del condannato». Dai gesuiti sono nate eccellenze assolute in ogni campo, compreso quello scientifico: è la Compagnia di Gesù a gestire il potente osservatorio astronomico di Mount Graham, in Arizona. Alieni in arrivo? Meglio chiamarli “fratelli dello spazio”; nel caso un giorno atterrassero, disse il direttore del centro, perché non battezzarli? Conoscenza, segreti, informazioni riservate. «L’archivio dei gesuiti a La Spezia – dichiara Tuis – è vasto almeno quanto quello della Cia».
    Sanno tutto di tutti? Dossier, schedature minuziose? «Per quello nacquero: furono loro a fondare la prima intelligence della storia». Il libro di Tuis è un’indagine sul lato meno trasparente del potere, il più insospettabile: sul web circola liberamente il testo di un famigerato giuramento, in cui il novizio – nel ‘500 – si impegna anche ad uccidere, nel caso, e comunque a eseguire qualsiasi ordine senza discutere, “perinde ac cadaver”. Leggende? Purtroppo no, sostiene Tuis: «Oggi la vera battaglia è condotta nel campo dell’informazione: il mainstream deforma sistematicamente la verità. La controinformazione è fondamentale, e il potere la teme». Dietro allo speaker del telegiornale c’è spesso un politico, collegato a influenti soggetti economici. Quello che sfugge è che “tutte le strade”, o almeno molte, portino a Roma, dove il potere di quel network sarebbe esteso oltre l’immaginabile. «Non è un caso se l’aggettivo “gesuitico” ha assunto una connotazione negativa: indica qualcosa di falso e insincero, ipocrita, ma al tempo stesso raffinato e coltissimo. I gesuiti hanno una visione precisa del mondo, la loro. Arrivano dovunque, sono lì da mezzo millennio: non sarà facile fermarli».
    (Il libro: Riccardo Tristano Tuis, “I Gesuiti. L’Ordine militare dietro alla Chiesa, alle Banche, ai servizi segreti e alla governance mondiale”, Uno Editori, 264 pagine, euro 14.90).

    «Attenzione: stai per ricreare una pagina già cancellata in passato». E’ quanto si legge consultando su Wikipedia la voce Siv, Servizio Informazioni del Vaticano. Sorveglianza occhiuta: l’enciclopedia “libera” del web si ferma, di fronte all’intelligence del Papa. Anche perché, sostiene Riccardo Tristano Tuis, l’intera faccenda è nelle mani dell’ordine religioso più potente e misterioso della galassia cattolica: la Compagnia di Gesù, fondata nel 1537 dal militare spagnolo Ignazio de Loyola, con una vocazione – emersa fin dall’inizio – all’infiltrazione nelle altrui strutture, onde controllarle dall’interno. Geniale, l’uso della confessione da parte dei gesuiti: una volta introdotti a corte come educatori dei nobili rampolli, diventavano i custodi dei segreti dei futuri regnanti. Per Fausto Carotenuto, già analista dell’intelligente e autore del saggio “Il mistero della situazione internazionale”, i gesuiti rappresentano il vertice di una delle due piramidi “nere” che controllano il mondo – l’altra sarebbe costituita dalla massoneria internazionale. Comune l’obiettivo: il dominio di un pianeta completamente globalizzato mediante la finanza e l’economia, la politica addomesticata, la disinformazione martellante assicurata dai grandi media, reticenti o bugiardi sul terrorismo e sulla guerra.

  • Odifreddi: Scalfari e il Papa, Repubblica stampa fake news

    Scritto il 03/4/18 • nella Categoria: idee • (3)

    Oggi è la Giornata Mondiale del Fact Checking, e vale la pena soffermarsi su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di papa Francesco, l’ultima delle quali risale a pochi giorni fa. Com’è ormai noto urbi et orbi, Scalfari ha ricevuto nel settembre 2013 una lettera dal nuovo papa. Fino a quel momento, per chi avesse seguito anche solo di lontano la cronaca argentina, Bergoglio era un conservatore medievale, che nel 2010 aveva scandalizzato il proprio paese con le proprie anacronistiche prese di posizione contro la proposta di legge sui matrimoni omosessuali, riuscendo nell’ardua (e meritoria) impresa di coalizzare contro di sé un fronte moderato che fece approvare in Argentina quella legge, ben più avanzata delle timidi disposizioni sulle unioni civili approvate nel 2016 in Italia. Dopo la sua lettera a Scalfari, papa Francesco si è trasformato per lui, e di riflesso anche per “Repubblica”, in un progressista rivoluzionario, che costituirebbe l’unico punto di riferimento non solo religioso, ma anche politico, degli uomini di buona volontà del mondo intero, oltre che il papa più avanzato che si sia mai seduto sul trono di Pietro dopo il fondatore stesso.
    Fin qui tutto bene, o quasi: in fondo, chiunque ha diritto di abiurare il proprio passato di “uomo che non credeva in Dio” e diventare “l’uomo che adorava il papa”, andando a ingrossare le nutrite fila degli atei devoti, o in ginocchio, del nostro paese. Il fatto è che Scalfari non si è limitato alle proprie abiure personali, ma ha incominciato a inventare notizie su papa Francesco, facendole passare per fatti: a produrre, cioè, appunto delle fake news. In particolare, l’ha fatto in tre “interviste” pubblicate su “Repubblica” il 1° ottobre 2013, il 13 luglio 2014 e il 27 marzo 2018, costringendo altrettante volte il portavoce del papa a smentire ufficialmente che i virgolettati del giornalista corrispondessero a cose dette da Bergoglio. Addirittura, la prima intervista è stata rimossa dal sito del Vaticano, dove inizialmente era stata apposta quando si pensava fosse autentica. Le interviste iniziano pretendendo che gli incontri con Scalfari siano sempre scaturiti da improbabili inviti di Bergoglio. E continuano attribuendo al papa impossibili affermazioni, dalla descrizione della meditazione del neo-eletto Francesco nell’inesistente «stanza accanto a quella con il balcone che dà su Piazza San Pietro» (una scena probabilmente mutuata da “Habemus Papam” di Moretti), all’ultima novità che secondo il papa l’Inferno non esiste.
    Quando, travolto dallo scandalo internazionale seguìto alla prima intervista, Scalfari ha dovuto fare ammenda il 21 novembre 2013 in un incontro con la stampa estera, ha soltanto peggiorato le cose. Ha infatti sostenuto che in tutte le sue interviste lui si presenta senza taccuini o registratori, e in seguito riporta la conversazione non letteralmente, ma con parole sue. In particolare, ha confessato, «alcune delle cose che il papa ha detto non le ho riferite, e alcune di quelle che ho riferite non le ha dette». Ma se le fake news sono appunto opinioni riportate come fatti, o falsità riportate come verità, Scalfari le diffonde dunque sistematicamente. Il che solleva due problemi al riguardo, riguardanti il primo Bergoglio, e il secondo “Repubblica”. Il primo problema è perché mai il papa continui a incontrare Scalfari, che non solo diffonde pubblicamente i loro colloqui privati, ma li travisa sistematicamente attribuendogli affermazioni che, facendo scandalo, devono poi essere ufficialmente ritrattate. Sicuramente Bergoglio non è un intellettuale raffinato: l’operazione (fallita) di pochi giorni fa, di cercare di farlo passare ufficialmente per un gran pensatore, suona appunto come un’excusatio non petita al proposito, e non avrebbe avuto senso per il ben più attrezzato Ratzinger (il quale tra l’altro se n’è dissociato, con le note conseguenze).
    L’avventatezza di papa Francesco l’ha portato a circondarsi autolesionisticamente di una variopinta corte dei miracoli, dal cardinal Pell alla signora Chaouqui, e Scalfari è forse soltanto l’ennesimo errore di valutazione caratteriale da parte di un papa che non si è rivelato più adeguato del suo predecessore ai compiti amministrativi. Non bisogna però dimenticare che Bergoglio è comunque un gesuita, che potrebbe nascondere parecchia furbizia dietro la propria apparente banalità. In fondo, un minimo di blandizia esercitato nei confronti di un ego ipertrofico gli ha procurato e gli mantiene l’aperto supporto di uno dei due maggiori quotidiani italiani, che è passato da una posizione sostanzialmente laica a una palesemente filovaticana. Se da un lato Bergoglio può ridersela sotto i baffi dell’ingenuità di uno Scalfari, che gli propone di beatificare uno sbeffeggiatore dei gesuiti come Pascal, dall’altro lato può incassare le omelie di un Alberto Melloni, che dal 2016 ha trovato in “Repubblica” un pulpito dal quale appoggiare le politiche papali con ben maggior raffinatezza, anche se non con minore eccesso di entusiasmo. A little goes a long way, si direbbe nel latino moderno.
    Rimane il secondo problema, che è perché mai “Repubblica” non metta un freno alle fake news di Scalfari, e finga anzi addirittura di non accorgersene, quando tutto il resto del mondo ne parla e se ne scandalizza. In fondo, si tratta di un giornale che recentemente, e inusitatamente, ha preso per ben due volte in prima pagina le distanze dalle opinioni soggettive del proprio ex editore-proprietario ma che non dice una parola sulle ben più gravi e ripetute scivolate oggettive del proprio fondatore. Io capisco di giornalismo meno ancora che di religione, ma la mia impressione è che in fondo ai giornali della verità non importi nulla. La maggior parte delle notizie che si stampano, o che si leggono sui siti, sono ovviamente delle fake news: non solo quelle sulla religione e sulla politica, che sono ambiti nei quali impera il detto di Nietzsche «non ci sono fatti, solo interpretazioni», ma anche quelle sulla scienza, dove ad attrarre l’attenzione sono quasi sempre e quasi solo le bufale.
    Alla maggior parte dei giornalisti e dei giornali non interessano le verità, ma gli scoop: cioè, le notizie che facciano parlare la maggior parte degli altri giornalisti e degli altri giornali. E se una notizia falsa fa parlare più di una vera, allora serve più quella di questa. Dire che il papa crede all’esistenza dell’Inferno è ovviamente una notizia vera, ma sbattuta in prima pagina lascerebbe indifferenti la maggior parte dei giornalisti e dei giornali. Per questo Scalfari scrive, e Repubblica pubblica, che il papa non crede all’Inferno: perché altri giornalisti e altri giornali lo rimbalzino per l’intero mondo. Il vero problema è perché mai certe cose dovrebbero leggerle i lettori. Che infatti spesso non leggono le fake news, e a volte alla fine smettono di leggere anche il giornale intero. Forse la meditazione sul perché i giornali perdono copie potrebbe anche partite da qui, nella Giornata Mondiale del Fact Checking.
    (Piergiorgio Odifreddi, “Le fake news di Scalfari su papa Francesco”, dal blog di Odifreddi su “Repubblica” del 2 aprile 2018).

    Oggi è la Giornata Mondiale del Fact Checking, e vale la pena soffermarsi su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di papa Francesco, l’ultima delle quali risale a pochi giorni fa. Com’è ormai noto urbi et orbi, Scalfari ha ricevuto nel settembre 2013 una lettera dal nuovo papa. Fino a quel momento, per chi avesse seguito anche solo di lontano la cronaca argentina, Bergoglio era un conservatore medievale, che nel 2010 aveva scandalizzato il proprio paese con le proprie anacronistiche prese di posizione contro la proposta di legge sui matrimoni omosessuali, riuscendo nell’ardua (e meritoria) impresa di coalizzare contro di sé un fronte moderato che fece approvare in Argentina quella legge, ben più avanzata delle timidi disposizioni sulle unioni civili approvate nel 2016 in Italia. Dopo la sua lettera a Scalfari, papa Francesco si è trasformato per lui, e di riflesso anche per “Repubblica”, in un progressista rivoluzionario, che costituirebbe l’unico punto di riferimento non solo religioso, ma anche politico, degli uomini di buona volontà del mondo intero, oltre che il papa più avanzato che si sia mai seduto sul trono di Pietro dopo il fondatore stesso.

  • Dezzani: il piano è spolpare l’Italia grazie al governo Di Maio

    Scritto il 04/3/18 • nella Categoria: idee • (4)

    «Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.
    Il processo di annichilimento della Penisola, avviato nei primi anni ‘90 con Tangentopoli e la destabilizzazione della Somalia, secondo Dezzani ha accelerato a partire dal 2011: austerità, cessione delle imprese strategiche (Telecom, Edison, Unicredit, alimentare e lusso), guerra in Libia e conseguenti flussi migratori incontrollati. Arrivati nel 2018, sta per iniziare l’ultima fase del processo di “demolizione controllata” dell’Italia. «E le imminenti elezioni del 4 marzo, decretando chi dovrà gestire il pericolosissimo aumento generalizzato dei tassi ed il conseguente crollo delle piazze finanziarie, giocano un ruolo cruciale». La legge elettorale difettosa, che impedisce la governabilità? Non è un caso, sostiene Dezzani nel suo blog: «L’ingovernabilità è un valore – scrive – perché obbliga le istituzioni ad adottare, una volta chiuse le urne, soluzioni “impensabili”». Ovvero: «Costringe a sdoganare definitivamente il Movimento 5 Stelle, usandolo come perno attorno cui costruire un governo». Secondo Dezzani, l’opinione che i “poteri forti” premano per una grande coalizione “di centro”, basata su un patto tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, è errata: «Entrambi sono indigesti a chi conta davvero», come «i circoli finanziari rappresentati dal settimanale “The Economist” che, per inciso, sono gli stessi che hanno partorito la Casaleggio srl e il Movimento 5 Stelle».
    Per Dezzani, la strategia dell’alta finanza non contempla una grande coalizione tra partiti “moderati”, ma «una grande coalizione incentrata sui grillini, la cui forza, si noti, nasce da quelle stesse politiche di austerità imposte dall’alta finanza». Dopo Monti e Letta, Renzi e Gentiloni, ecco il “virus” 5 Stelle, «gonfiato a dismisura dalle politiche dei precedenti esecutivi “europeisti”». Sempre secondo Dezzani, sarebbe illuminante l’atteggiamento del “Corriere della Sera”, che l’analista definisce «storico giornale della borghesia anglofila e “badogliana”». Si parte nel 2011 con l’incondizionato sostegno a Mario Monti, poi si sostiene la linea di austerità, privatizzazioni e ultra-europeismo di Letta, Renzi e Gentiloni, e adesso, quando il Pd è ormai logoro, si vira verso il Movimento 5 Stelle, «preparando così il terreno ad un governo grillino con la benedizione del primo quotidiano d’Italia», svolta incarnata dalla direzione di Luciano Fontana, con accanto un editorialista come Ernesto Galli della Loggia, «principale artefice dello “sdoganamento” del M5S: il movimento non è eversivo, è democratico e incarna la volontà di “palingenesi” del paese». Analogo percorso da La7 di Urbano Cairo, mai anti-grillina fin dall’inizio «essendo nata come tv della Telecom che ha giocato un ruolo chiave nella nascita del M5S».
    Domanda: «Perché il giornale della borghesia “anglofila” si prodiga per sdoganare i 5 Stelle, nonostante il clamoroso fallimento della giunta Raggi a Roma e di quella Appendino a Torino (che deve le sua nascita al decisivo avvallo degli Agnelli-Elkann)?». Ovvero: «Perché l’establishment liberal lavora per portare i grillini al potere, nonostante la loro manifesta incapacità di governare?». Perché sono deboli e fragili, quindi facilmente manovrabili da chi mira a spolpare definitivamente il paese. E’ la tesi che Dezzani formula, prendendo spunto dal caso-Roma: «Supponiamo che l’esperimento “Raggi” sia ripetuto a scala nazionale, per di più in un contesto macroeconomico sempre più ostile (aumento tassi e recessione economica); quale sarebbe il destino dell’Italia? Come una nave senza comandante in mezzo alla tempesta (dopo anni, peraltro, di incuria e malgoverno), l’Italia sarebbe travolta dai marosi della crisi: caos, saccheggio e default. La lunga stagione di “destrutturazione” del paese, iniziata nel 1992-1993, culminerebbe così in un epico schianto, grazie al M5S (dopotutto, non fu grazie ad Antonio Di Pietro, l’uomo simbolo di Mani Pulite, se Gianroberto Casaleggio si affacciò alla politica?)».
    E come si arriverebbe, concretamente, a un governo 5 Stelle? «Attraverso il “contratto” proposto da Luigi Di Maio», scrive Dezzani, ricordando che il leader grillino «ha smentito un’alleanza con la sinistra ma, per scongiurare scenari di “caos”, ha parallelamente aperto ad un programma di legislatura con chi è disponibile, da mettere nero su bianco in un contratto. E chi potrebbe essere disponibile a quest’avventura, se non proprio la sinistra?». Conti alla mano: “Liberi e Uguali” (5%) e un Pd al 20-25% «depurato dall’ormai esausto Matteo Renzi», tutto sommato «fornirebbero un numero di parlamentari sufficienti a formare una maggioranza», sommandoli all’ipotetico 25-30% del Movimento 5 Stelle. «Così, le disastrose amministrazioni Raggi e Appendino verrebbero replicate nei dicasteri romani, con il preciso intento di portare l’Italia alla bancarotta e spalancare le porte alla speculazione più selvaggia».
    Qualcuno potrebbe obiettare: ma non è interesse dell’establishment atlantico preservare la calma sui mercati, spingendo verso un governo “moderato”? Non è l’Italia “too big to fail”? Dezzani ritiene di no: «Dieci anni di liquidità a costo zero hanno creato un’enorme bolla azionaria e obbligazionaria che, alzati i tassi di interesse, cerca soltanto un pretesto per scoppiare: l’Italia del 2018 potrebbe essere la Lehman Brothers del 2008». Inoltre, aggiunge l’analista, «l’oligarchia finanziaria atlantica ha spinto al default negli ultimi 20 anni la Russia, i paesi del sud-est asiatico (1997-1998) e l’Argentina (2001). Non si capisce per quale motivo dovrebbe risparmiare l’Italia che, come ricordano sinistramente molti commentatori, vale ormai soltanto il 2-3% del Pil mondiale. E se il Movimento 5 Stelle sarebbe «il cavallo di Troia per portare il paese alla bancarotta», conclude Dezzani, «le nostre istituzioni massoniche e la borghesia “badogliana”, da sempre alleate col nemico, sono suoi complici».

    «Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.

  • Di Maio, Ciocca e la decrescita infelice dell’Italia in svendita

    Scritto il 26/2/18 • nella Categoria: idee • (1)

    Nonostante ben 5 anni di esperienza nelle istituzioni e di evidenze empiriche il M5S come proposta “di punta” ha ancora oggi quella sui vitalizi immediatamente “fagocitata” dalla protesta come “Dio Marketing” vuole. Facendo credere al cittadino medio “conti qualcosa”, lo si è portato a inveire contro questioni secondarie ma comprese da tutti e volutamente distratto. E’ stato portato a credere che 70 milioni di euro di vitalizi (quanto potrebbe costare il cartellino di Alex Sandro della Juventus) siano più odiosi delle decine e decine di miliardi che lo Stato annualmente paga a pochi soggetti della finanza internazionale. Una speculazione parassitaria (cioè ottenuta senza dietro un “lavoro”), imposta ai nostri contribuenti mediante leggine da abolire presenti tanto nell’Italia pre moneta unica, quanto in quella post moneta unica; nel secondo contesto la situazione è divenuta critica perché causante perdita di competitività e debito estero. Trasformando quindi la materia “economia” in un reality, il M5S ha potuto compiere un’opera di trasformismo senza precedenti, proponendo per il relativo ministero Pier Luigi Ciocca senza essere praticamente notato. Chi è Ciocca?
    Per capirlo partiamo dalla Germania: dal dopoguerra in poi i tedeschi hanno percorso una strada di costante “austerity sostenibile”, mantenendo i salari bassi rispetto ai profitti delle imprese (“quota salari”). Invece di alimentare politiche di domanda interna spesso poco etiche (e di aumento dei prezzi), i teutonici hanno conquistato fette di mercato estero incamerando ricchezza: in tal modo si sono ritrovati un salario reale molto più alto senza deprezzare o svalutare la propria moneta. L’Italia, tuttavia, riusciva ad essere altamente competitiva grazie ai cambi flessibili e ad una struttura produttiva in parte differente. Quando l’Italia sull’onda emotiva di Mani Pulite (…) chiese di far parte della moneta unica,
    la Germania, che per 50 anni era stata “austera”, chiese al nostro paese di pagare un dazio di altrettanta “sobrietà” immediatamente: competizione al ribasso dei diritti e dei salari mediante alta disoccupazione (ed ingresso di manodopera a basso costo dall’Africa), taglio dei servizi anche essenziali, totale separazione della moneta rispetto all’economia, distruzione delle economie locali. Per ottenere tale risultato serviva come “precursone” un valore di ingresso (nell’euro) marco/lira che non rispecchiasse il reale rapporto di forza tra le due economie (1 marco = 1.200 lire circa) ma ipervalutasse la nostra valuta (mettendo così in difficolta la nostra bilancia commerciale, prodromo di tutte le crisi economiche, con tutti i sacrifici annessi).
    Ad accordarsi per un valore di 1 marco = 990 lire furono proprio Prodi, Ciampi, Draghi e… Ciocca! Per legittimare questo rapporto “drogato”, nei mesi precedenti la decisione, ci avevano pensato i mercati finanziari “drogando” il rapporto cioè vendendo appositamente marchi e comprando lire. Una volta compreso il contributo storico di Ciocca per il proprio paese, quello che va rimarcato è che il M5S è riuscito a proporre un simile prospetto senza essere notato dall’opinione pubblica. Per fare un esempio eloquente, se i pentastellati avessero cercato un ex di Forza Italia per quel ministero (senza responsabilità sulla crisi rispetto ai summenzionati) ci sarebbero state le barricate. Secondo la stessa logica tocca sentire un Prodi (cui affidammo il futuro dei nostri figli e nipoti) dichiarare «abbiamo svalutato la lira sul marco del 600% rispetto a quando ero uno studente universitario», confondendo moneta ed economia sempre profittando della totale ignoranza (in materia) del cittadino medio. In questo contesto quindi ha buon gioco chi riesce a far passare inosservate, insieme a figure come Ciocca, le pericolose carenze di un programma economico confusionario ed impraticabile.
    Alcuni media hanno espresso preoccupazione per l’estrema fragilità interna del M5S, una fragilità che, secondo loro, si andrebbe a ripercuotere sul paese una volta al governo; altri hanno ravvisato nella ricetta M5S numerosi copia incolla eseguiti da programmi di altre forze politiche e da Wikipedia (inquietanti indizi di incompetenza) ma nessuno si è cimentato nell’analisi della proposta economica. A prima vista parrebbe che a dettare la linea economica sia sempre Beppe Grillo visto il suo “innamoramento” per il default, eppure non credo che stiano così le cose: inizialmente fu la “decrescita felice”, una teoria rudimentale, di pochi capitoletti, che durante la stagnazione ci costerebbe il default; successivamente fu il turno del default stesso, auspicato da Grillo; poi fu la volta del referendum sull’euro che avrebbe portato sempre al fallimento; adesso è il turno di questa proposta che favorirebbe una speculazione internazionale senza precedenti con “scenari greci” (cioè il dimezzamento dei livelli pensionistici) o addirittura “argentini”, cioè il… default! Come noto, se si escludono le persone che hanno conti all’estero, il default comporta l’immediata evaporazione di tutti i risparmi degli italiani: una crisi debitoria in Italia a qualche soggetto estero conviene sempre…
    Per uscire dalle recessioni, secondo l’approccio keynesiano, è opportuno “fare deficit” per incrementare la domanda aggregata (acquisto di beni e servizi da parte dei cittadini) dando lavoro, infrastrutture, detassando, ecc. In questo modo tornano a circolare danari, l’economia riparte, i contribuenti aumentano di numero e con essi le entrate dello Stato che vanno a ripianare non solo il nuovo deficit ma anche a ridurre lo stock debitorio. In altre parole si va ad incidere sul denominatore del rapporto debito/Pil incrementandolo, e non sul numeratore (cercare di ridurlo significa fare austerità). Purtroppo l’economia non è una materia da affrontare in modo virtuale bensì chirurgico, considerando in primo luogo in che contesto ci si muove: al minimo errore si rischia una macelleria sociale senza precedenti. Su un piano strettamente economico, nell’ambito dell’Eurozona, se espandiamo la domanda aggregata ed i partner europei non fanno altrettanto, la conseguenza è il peggioramento dei conti verso l’estero e della bilancia commerciale, a causa dell’impennata dell’import rispetto all’export con probabile crisi debitoria (di tipo economico).
    Il candidato premier pentastellato pare quindi mettere il carro davanti ai buoi visto che i principali partner europei optano senza titubanze verso dinamiche ultra-competitivie e marcatamente mercantiliste. Di Maio, insistendo sullo sforamento del parametro del 3%, denota che a sfuggirgli è pure un importante dettaglio: “fare deficit” non significa erogare beni e servizi aggiuntivi rimanendo scoperti, ma vuol dire ottenere un prestito da un investitore (sotto forma di Bot, Btp, ecc) per poterli pagare. Successivamente lo Stato, per evitare il fallimento, è obbligato a saldare il debito col creditore quando egli chieda indietro i soldi o alla scadenza prestabilita del prestito con interessi annessi. Se uno Stato paventa la violazione di regole comunitarie, perde credibilità e diviene costosissimo per esso ottenere finanziamenti, visto che una simile prospettiva può comportare dinamiche punitive da parte di numerosi soggetti finanziari (compresi gli Stati creditori). Di Maio è corso ai ripari evidenziando come anche Francia e Spagna in passato abbiano disatteso il 3% ma non ha tenuto conto del fatto che questi Stati possiedono un debito pubblico minore del nostro. Poco importa ai partner dell’Eurozona che il concetto di debito pubblico sia emotivamente enfatizzato e confuso con il debito estero.
    Un altro punto estremamente critico del candidato premier è dare per scontato che i propri interventi siano “ad altissimo moltiplicatore” e che in brevissimo tempo comportino una crescita del Pil tale da ottenere maggiori entrate fiscali (utili ad onorare le scadenze con vecchi e nuovi creditori e quindi ad evitare il default). Al netto del fatto che le dinamiche di questo tipo sono estremamente imprevedibili, il moltiplicatore si esprime in tutta la sua forza quando il danaro “gira”, cioè quando proviene da capitali fino ad allora giacenti e finisce nelle tasche di chi consuma fino all’ultimo euro di stipendio per poter vivere. Se va ad accumularsi nei forzieri delle multinazionali che stanno dietro larga parte della Green Economy, della Virtual Economy e delle infrastrutture, l’effetto è contrario (al netto del fatto che se sono capitali esteri la moneta “emigra” peggiorando ancor più lo stato delle cose). In altre parole, è lecito attendersi che i licenziamenti presenti nel piano Cottarelli e gli investimenti nei settori auspicati da Di Maio e dal suo staff economico, comportino una riduzione degli effetti del moltilicatore nel breve/medio periodo (e con essa una riduzione dei livelli occupazionali, proprio secondo Keynes!), una contrazione del Pil, minori entrate e tagli ai servizi e alle infrastrutture che nelle intenzioni si vorrebbero potenziare.
    Per quanto eticamente auspicabile, la “moralizzazione” della spesa pubblica nel breve può comportare al massimo un incremento della soddisfazione dei cittadini che, se si rivolgono a un fannullone, non ottengono un servizio pronto e decente. Solo nel medio-lungo periodo una burocrazia efficiente, un paese sicuro e ricco di infrastrutture possono attrarre investimenti sensibili ma finché ciò non avviene, di effetti moltiplicatori “nemmeno l’ombra”, quindi non si hanno maggiori entrate mentre i creditori, aumentati di numero, pretendono subito il pagamento delle scadenze pena il fallimento dello Stato e questo contesto innesca fenomeni speculativi. Non saper “moltiplicare” l’economia e prospettare la violazione di norme comunitarie (perdita di credibilità) è il viatico certo per ritrovarci con il cappio al collo delle scadenze verso i creditori. Quando uno Stato è nell’urgenza di ottenere finanziamenti, i potenziali “prestatori” (detti “investitori” ma anche detti “speculatori”) chiedono interessi sempre più alti (speculazione/spread), il paese sotto attacco finisce per avvitarsi nei debiti e per onorare scadenze sempre più pressanti ed evitare il default è costretto a svendere assets strategici a prezzi di saldo (con ulteriore desertificazione dell’economia), di norma proprio ai soggetti che hanno compiuto questa aggressione. E’ l’azione della tipica “finanza volatile” con sede a Londra che non comporta un incremento dell’economia reale (industrie, lavoro) bensì emorragia di benessere verso l’estero e deflazione salariale. In questo caso la crisi debitoria ha tratti più finanziari che economici e di nuovo il M5S pare incamminato in quella direzione.
    Di Maio è reduce da incontri con non ben definiti “investitori” a porte chiuse quando in gioco c’è l’interesse nazionale: perché questo gap in termini di trasparenza proprio quando la posta in gioco è così alta? Ricordo che nel 1992 il governo italiano optò per l’uscita dallo Sme e consapevole che la grande svalutazione che ne sarebbe seguita avrebbe comportato un pari sconto sui “gioielli di Stato”, sul panfilo Britannia, si accordò con soggetti esteri per la svendita degli stessi. A completare un quadro di estrema incertezza la salita agli onori della cronaca di Fioramonti come responsabile della politica economica pentastellata, per i legami (da lui smentiti) con lo speculatore internazionale Soros, con i Rockefeller, i Rothschild ed Anspen Institute. Egli insegna economia in Sud Africa ma è laureato in scienze politiche (quindi non è un economista) ed è un teorico della della “decrescita felice”. Superfluo rimarcare come tale teoria non scopra niente (è lapalissiano che gli sprechi vadano ridotti e che il Pil non sia un indice della felicità ma economico) ma viene percepita da creditori e partner europei (che spesso coincidono) come indizio di approssimazione e come indice di un potenziale disimpegno sul lato dei conti pubblici da parte degli “italiani”. Insomma, più che del “Moltiplicatore di Di Maio” e di un clima alla Mani Pulite 2.0 (utile a difendere la Religione della Moneta Unica) questo paese necessita di maggiore lealtà nei confronti di chi non “mastica” economia: volendo esprimere un giudizio nazional-popolare, si dichiari chiaramente che dal punto di vista della “crisi” il problema del nostro paese non sono tanto i “corrotti”, che evidenze scientifiche mostrano pesare tra un 5% e un 10% alla voce “debito”, ma i “venduti” (a soggetti esteri) che hanno approvato una Maastricht irriformabile.
    (Marco Giannini, “Di Maio e la decrescita (infelice) dell’Italia in svendita”, riflessione pubblicata su “Libreidee” il 27 febbraio 2018).

    Nonostante ben 5 anni di esperienza nelle istituzioni e di evidenze empiriche il M5S come proposta “di punta” ha ancora oggi quella sui vitalizi immediatamente “fagocitata” dalla protesta come “Dio Marketing” vuole. Facendo credere al cittadino medio “conti qualcosa”, lo si è portato a inveire contro questioni secondarie ma comprese da tutti e volutamente distratto. E’ stato portato a credere che 70 milioni di euro di vitalizi (quanto potrebbe costare il cartellino di Alex Sandro della Juventus) siano più odiosi delle decine e decine di miliardi che lo Stato annualmente paga a pochi soggetti della finanza internazionale. Una speculazione parassitaria (cioè ottenuta senza dietro un “lavoro”), imposta ai nostri contribuenti mediante leggine da abolire presenti tanto nell’Italia pre moneta unica, quanto in quella post moneta unica; nel secondo contesto la situazione è divenuta critica perché causante perdita di competitività e debito estero. Trasformando quindi la materia “economia” in un reality, il M5S ha potuto compiere un’opera di trasformismo senza precedenti, proponendo per il relativo ministero Pier Luigi Ciocca senza essere praticamente notato. Chi è Ciocca?

  • Giannini: lo spettro del Britannia e il reddito di cittadinanza

    Scritto il 14/2/18 • nella Categoria: idee • (6)

    Una importante novità nell’anno 2018 compare di fronte agli elettori: l’analisi dei principali aspetti riguardanti i programmi dei partiti, soprattutto sul piano dei costi. Tra le ricette che sono state presentate, quella del Movimento 5 Stelle ha destato subito interesse quando ci si è resi conto che conteneva passi copiati da Wikipedia o addirittura dal programma Pd. Per quanto la vicenda possa apparire come un indice di scarsa competenza e conoscenza e quindi suscitare inquietudine, l’attenzione andrebbe focalizzata piuttosto sui concetti di fondo della proposta pentastellata. Secondo gli economisti di stampo keynesiano, per uscire dalle situazioni di crisi economica si deve “fare deficit” per attuare politiche di espansione (di crescita) dando lavoro, investendo in infrastrutture, detassando, conferendo nuovi diritti sociali, ecc. In questo modo la disoccupazione si dovrebbe ridurre, i contribuenti dovrebbero aumentare e con essi le entrate andrebbero a ripianare non solo il nuovo deficit ma anche a ridurre lo stock del debito pregresso. Di Maio, apparentemente in linea con questo approccio, ha insistito sullo sforamento del parametro di bilancio del 3%, un parametro di scarsissima scientificità ma concordato con gli altri soggetti europei: «Prenderemo un po’ di debito e lo investiremo per lo sviluppo», è stato lo slogan in diverse conferenze elettorali.

  • Israele in Patagonia, coi soldi inglesi. E quel sommergibile

    Scritto il 21/12/17 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Perché un miliardario britannico Joe Lewis sta acquistando terre in Patagonia, dove Israle sta mandando “in vacanza” migliaia di soldati, proprio di fronte al mare – affacciato sull’Antartide – dove è scomparso il sommergibile argentino San Juan, alle prese con una imprecisata “missione segreta” di cui però gli inglesi erano al corrente? Se lo domanda un giornista internazionale come Thierry Meyssan, di stanza in Libano: «Probabilmente il San Juan è esploso: la stampa argentina è convinta che abbia urtato una mina o sia stato distrutto da missile nemico». E gli immensi territori in via di acquisizione sud dell’Argentina e anche nel vicino Cile? Per il momento, ragiona Meyssan, «è impossibile stabilire se Israele abbia avviato un programma di sfruttamento dell’Antartide o se stia costruendo una base in cui ripiegare in caso di disfatta in Palestina». Ma il reporter si interroga sulle possibili connessioni “invisibili” che sembrano legare Patagonia e Antartide, Tel Aviv e Londra, la guerra in Siria e la strana sparizione del sottomarino, scomparso (in fondo al mare?) dopo l’ultima comunicazione con la terraferma, il 15 novembre, con a bordo 44 marinai.
    Nel XIX secolo, ricorda Meyssan su “Rete Voltaire” in un post ripreso da “Megachip”, il governo britannico era indeciso se istallare lo Stato di Israele nell’attuale Uganda, in Argentina o in Palestina. «All’epoca l’Argentina era controllata dal Regno Unito e, per iniziativa del barone francese Maurice de Hirsch, era diventata terra di accoglienza per gli ebrei che fuggivano dai pogrom dell’Europa centrale». Nel XX secolo, dopo il colpo di Stato militare contro il generale Juan Domingo Peron, presidente democraticamente eletto, nelle forze armate si affermò una corrente antisemita: «Questa fazione dell’esercito diffuse una brochure in cui accusava il nuovo Stato d’Israele di preparare un’invasione della Patagonia, il Piano Andinia». Oggi emerge che, «nonostante l’esagerazione dei fatti dell’estrema destra degli anni ’70», esisteva davvero un progetto di insediamento (e non di invasione) in Patagonia, sottolinea Meyssan. «Tutto cambiò con la guerra delle Malvine del 1982, quando la giunta militare argentina tentò di rientrare in possesso delle isole Malvine, della Georgia del Sud e del Sandwich del Sud, territori dal suo punto di vista occupati da un secolo e mezzo dai britannici».
    L’Onu riconobbe la legittimità della rivendicazione dell’Argentina, ma il Consiglio di Sicurezza ne condannò il ricorso alla forza al fine di recuperare i territori contesi. «La posta in gioco era considerevole», spiega il giornalista francese, «perché le acque territoriali di questi arcipelaghi danno accesso alle ricchezze del continente antartico». Alla fine della guerra delle Malvine, che fece oltre un migliaio di morti (i numeri ufficiali britannici sono di molto inferiori), Londra impose a Buenos Aires un trattato di pace particolarmente duro, che riduceva al minimo le forze armate argentine. «In particolare, all’Argentina venne sottratto il controllo dello spazio aereo del sud del paese e dell’Antartico, che passò alla Royal Air Force». Inoltre, continua Meyssan, ancora oggi «Buenos Aires deve informare il Regno Unito di ogni sua operazione militare». E non tutto è andato liscio, da quelle parti, dopo la guerra della Falkland: «Nel 1992 e nel 1994 due misteriosi attentati, particolarmente sanguinosi e devastanti, distrussero l’ambasciata d’Israele e la sede dell’associazione israelita Amia». Il primo attentato, rivela Meyssan, avvenne subito dopo che i capi della sezione dell’intelligence israeliana per l’America Latina avevano lasciato l’edificio.
    Il secondo attentato ebbe luogo durante le ricerche congiunte egiziano-argentine per i missili balistici Condor. «Nello stesso periodo la fabbrica principale dei Condor esplose, e i figli dei presidenti Carlos Menem e Hafez al-Assad morirono entrambi in incidenti. Le numerose inchieste che seguirono furono inquinate da una serie di manipolazioni». Dopo aver designato la Siria come responsabile dei due attentati, aggiunge Meyssan, il procuratore Alberto Nisman passò all’Iran, accusandolo di esserne il committente, e a Hezbollah, accusandolo di esserne l’esecutore. «L’ex presidente peronista Cristina Kirchner fu accusata di aver negoziato la chiusura del procedimento contro l’Iran in cambio di un prezzo vantaggioso per il petrolio». Poco dopo, però, «il procuratore Nisman è stato trovato morto in casa e la presidente Kirchner è stata incolpata di alto tradimento». La settimana scorsa, infine, «un nuovo colpo di scena ha mandato all’aria quello che si dava per certo: l’Fbi ha tirato fuori analisi del Dna che dimostrano che il presunto terrorista non era tra le vittime e che tra queste vi era invece un corpo mai identificato». Morale: «Venticinque anni dopo, non si sa ancora nulla degli attentati di Buenos Aires».
    E intanto, l’interesse anglo-israeliano per il Sud dell’Argentina non ha fatto che aumentare: «Nel XXI secolo, approfittando dei vantaggi ottenuti con il Trattato della guerra delle Malvine, Regno Unito e Israele intraprendono un nuovo progetto in Patagonia. Le sue proprietà si estendono ormai su una superficie più volte multipla dello Stato d’Israele», avverte Meyssan. «Si trovano nella Terra del Fuoco, all’estremo Sud del continente. In particolare, circondano il Lago Escondido, cui impediscono l’accesso nonostante un’ingiunzione della magistratura argentina». Il miliardario inglese Joe Lewis «ha costruito un aeroporto privato con una pista di due chilometri, su cui possono atterrare aerei di trasporto civile e militare». Dalla fine della guerra delle Malvine, l’esercito israeliano organizza in Patagonia “campi di vacanza” (sic) per i suoi soldati. «Ogni anno, da 8.000 a 10.000 soldati trascorrono due settimane nelle proprietà di Joe Lewis». Se negli anni ’70 l’esercito argentino lanciò l’allarme per 25.000 nuovi alloggi rimasti inabitati, dando vita al mito del piano Andinia, oggi ne sono stati costruiti centinaia di migliaia. «È impossibile verificare lo stato di avanzamento dei lavori perché, essendo proprietà privata, Google Earth oscura le fotografie satellitari della zona, così come fa per le istallazioni militari dell’Alleanza Atlantica».
    Poi c’è il ruolo del vicino Cile, aggiunge Meyssan, che «ha ceduto una base di sottomarini a Israele, dove sono stati scavati tunnel per sopravvivere al rigore dell’inverno polare». Gli indiani Mapuche, che abitano la Patagonia argentina e cilena, sono rimasti sorpresi nell’apprendere che a Londra è stata riattivata la Resistencia Ancestral Mapuche (Resistenza Ancestrale Mapuche – Ram), misteriosa organizzazione che rivendica l’indipendenza. «Inizialmente accusata di essere una vecchia associazione rispolverata dai servizi segreti argentini, la Ram è ora considerata dalla sinistra un movimento secessionista legittimo e dai leader Mapuche un’iniziativa finanziata da George Soros». Infine, in questo scenario opaco, si è inserita la sparizione del sommergibile San Juan, con il quale la marina argentina ha perso i contatti il 15 novembre 2017, dichiarandolo poi “inabissato in mare”. Era uno dei due sottomarini diesel-elettrici Tr 1700, fiore all’occhiello della difesa argentina. «Alla fine il governo ha dovuto ammettere che il sottomarino era in “missione segreta”, non meglio specificata, di cui Londra era a conoscenza». L’esercito statunitense ha partecipato alle ricerche e la marina russa ha inviato un drone in grado di scandagliare i fondali marini a 6.000 metri di profondità, che però non ha trovato nulla. Che sta succedendo, dunque, all’estremo confine meridionale del pianeta?

    Perché il miliardario britannico Joe Lewis sta acquistando terre in Patagonia, dove Israele sta mandando “in vacanza” migliaia di soldati, proprio di fronte al mare – affacciato sull’Antartide – dove è scomparso il sommergibile argentino San Juan, alle prese con una imprecisata “missione segreta” di cui però gli inglesi erano al corrente? Se lo domanda un giornalista internazionale come Thierry Meyssan, di stanza in Libano: «Probabilmente il San Juan è esploso: la stampa argentina è convinta che abbia urtato una mina o sia stato distrutto da missile nemico». E gli immensi territori in via di acquisizione nel sud dell’Argentina e anche nel vicino Cile? Per il momento, ragiona Meyssan, «è impossibile stabilire se Israele abbia avviato un programma di sfruttamento dell’Antartide o se stia costruendo una base in cui ripiegare in caso di disfatta in Palestina». Ma il reporter si interroga sulle possibili connessioni “invisibili” che sembrano legare Patagonia e Antartide, Tel Aviv e Londra, la guerra in Siria e la strana sparizione del sottomarino, scomparso (in fondo al mare?) dopo l’ultima comunicazione con la terraferma, il 15 novembre, con a bordo 44 marinai.

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UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

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