Archivio del Tag ‘Atene’
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Una famiglia greca su 2 campa della pensione di un parente
Tagli a sangue la spesa pubblica, imponi tasse folli, elimini la moneta sovrana. E ottieni, esattamente, la Grecia: dove, si apprende, un cittadino su due sopravvive, lottando contro la fame, solo grazie alla piccola pensione percepita da un membro della famiglia. E’ la fotografia perfetta del rigore “germanico” imposto all’Europa con la moneta unica, che impedisce allo Stato di proteggere la comunità nazionale e promuovere investimenti vitali per il lavoro. Gli ultimi dati su Atene sono spaventatosi. Li pubblica “Keep Talking Greece”, in un aggiornamento sulla situazione finanziaria dei nuclei familiari in Grecia. «Quasi la metà delle famiglie vive della sola pensione di un familiare, i tre quarti hanno subìto un peggioramento delle proprie condizioni economiche, e quasi altrettanti si aspettano ulteriori peggioramenti nell’anno in corso, a testimonianza di un paese che ha perso ogni speranza nel futuro», scrive “Voci dall’Estero”, che ha tradotto il report statistico, secondo cui, appunto, «la metà dei nuclei familiari in Grecia dichiara che l’unica fonte di reddito di cui dispone è la pensione di un membro della famiglia».Secondo il sondaggio, condotto a novembre 2016 dall’associazione piccole imprese (Ime Gsevee) su un campione di mille nuclei familiari distribuiti in tutto il paese, il 49,2% delle famiglie non ha alcuna altra fonte di reddito, a parte la (piccola) pensione di un familiare. I greci sono letteralmente allo stremo: tre su quattro hanno «subìto un declino significativo del proprio reddito nel corso dell’anno 2016». Dati impietosi: il 37,1 % dei nuclei familiari dice di vivere con meno 10.000 euro all’anno; il 37,9 % campa del proprio magro salario, e il 9 % dipende principalmente dai redditi provenienti da attività commerciali. Attenzione: un nucleo familiare su tre ha almeno un componente della famiglia disoccupato, ciò significa una stima di 1,1 milioni di famiglie. E i disoccupati di lungo periodo contano per il il 73,3 % di tutti i senza lavoro. Se il lavoro c’è, è poca cosa: il 22,4 % dei nuclei familiari ha un componente occupato della famiglia che guadagna meno del salario mensile minimo, pari a 586 euro lordi. Intanto, in una famiglia ogni dieci, un parente ha già lasciato il paese. E il futuro è nero: il 73,5 % degli intervistati si aspetta un peggioramento ulteriore della propria situazione finanziaria, fra tasse arretrate che non potrà pagare e mutui bancari troppo salati.Il report suggerisce che «La crisi finanziaria di lungo periodo, la cui vittima principale è la classe media, non sta portando solo a un ulteriore declino dei redditi e a un ampliamento delle disuguaglianze, ma minaccia apertamente la coesione sociale». In compenso i conti pubblici sarebbero in via di risanamento? Certo, come nel vecchio adagio “l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto”. «La cosiddetta terapia, che consiste nel continuo aumento delle tasse, dirette e indirette, può anche portare a un avanzo fiscale primario, ma questo – sintetizzano gli autori del report – non si riflette in alcun beneficio per i contribuenti in termini di qualche forma di servizio pubblico, e anzi al tempo stesso viene ridotta la spesa per la sanità e l’istruzione». Questo è l’orrore su cui si specchia, in Grecia, l’Europa delle élite oggi affidata all’ordoliberismo della Merkel: strangolato lo Stato, a sua volta costretto a strangolare i cittadini (più tasse, meno servizi vitali), l’imposizione dell’euro si manifesta per quello che è: un’operazione senza anestesia, inflitta a un’Europa senza futuro. Pagano tutti, a cominciare dai più deboli.Tagli a sangue la spesa pubblica, imponi tasse folli, elimini la moneta sovrana. E ottieni, esattamente, la Grecia: dove, si apprende, un cittadino su due sopravvive, lottando contro la fame, solo grazie alla piccola pensione percepita da un membro della famiglia. E’ la fotografia perfetta del rigore “germanico” imposto all’Europa con la moneta unica, che impedisce allo Stato di proteggere la comunità nazionale e promuovere investimenti vitali per il lavoro. Gli ultimi dati su Atene sono spaventatosi. Li pubblica “Keep Talking Greece”, in un aggiornamento sulla situazione finanziaria dei nuclei familiari in Grecia. «Quasi la metà delle famiglie vive della sola pensione di un familiare, i tre quarti hanno subìto un peggioramento delle proprie condizioni economiche, e quasi altrettanti si aspettano ulteriori peggioramenti nell’anno in corso, a testimonianza di un paese che ha perso ogni speranza nel futuro», scrive “Voci dall’Estero”, che ha tradotto il report statistico, secondo cui, appunto, «la metà dei nuclei familiari in Grecia dichiara che l’unica fonte di reddito di cui dispone è la pensione di un membro della famiglia».
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Draghi: ora vi taglio i viveri, così imparate a votare No
«Una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite». Mario Draghi esce allo scoperto: dopo la Brexit e il referendum italiano, avverte che “la ricreazione è finita”. La Bce chiuderà i rubinetti del quantitative easing, esponendo gli Stati al ricatto dello spread, senza più protezioni. Fallita la “carota” (Renzi), si torna al “bastone”: meno soldi per tutti, tranne che per la Germania. Una sfida, frontale, a chi ha votato No – a Renzi, all’Ue. Dal presidente della Bce, scrive “Micromega”, arriva la prima, vera risposta dell’élite sconfitta nelle urne italiane e inglesi. In arrivo lacrime e sangue, se gli Stati non vorranno piegarsi alle “riforme strutturali” volute dal super-potere. Tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della Banca d’Italia, prounciate mentre infuriavano gli anni di piombo: «La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga». E Draghi «non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi», scrive “Micromega”. Al contrario: «Le affila, per fronteggiare la minaccia del populismo».Si tratta di «un vero proprio disegno politico», contenuto nei dettagli operativi illustrati da Draghi nell’ultima riunione del consiglio direttivo della Bce. Un evento solo in apparenza tecnico, avverte “Micromega”, in un’analisi firmata “Raro”. Draghi ha annunciato che l’autorità monetaria proseguirà il programma di acquisto di titoli pubblici, come tutti si aspettavano, oltre la scadenza inizialmente prevista per il marzo prossimo, «ma ha aggiunto un elemento di novità in cui pochi credevano: il flusso di liquidità con cui la banca centrale sta tenendo a bada gli spread inizierà a ridimensionarsi, già a partire da aprile». Ciò significa che «la Bce prefigura, per la prima volta, un progressivo alleggerimento dello stimolo monetario garantito da ormai due anni all’Eurozona». Ed è così che, «mentre politici e governanti europei vengono impietosamente travolti dall’onda anomala del populismo antisistema, l’autorità monetaria si profila come l’unica soggettività politica capace di elaborare una qualche forma di reazione della classe dirigente d’Europa».Dopo due anni relativamente tranquilli, scrive “Micromega”, la progressiva riduzione del sostegno ai titoli di Stato «determinerà, nei prossimi mesi, una minore liquidità del debito pubblico europeo e non potrà che portare con sé un rialzo nei tassi di interesse pagati dai governi della periferia, a discapito della stabilità finanziaria». La Bce ha poi esteso il programma sia sul fronte delle scadenze, includendo titoli a più breve termine (fino ad un anno), che sul fronte dei tassi, rendendosi disponibile all’acquisto di titoli caratterizzati da un rendimento inferiore al già negativo tasso sui depositi presso la banca centrale. «Il significato di queste rifiniture del quantitative easing appare chiaro», osserva “Micromega”: «Dal momento che la stragrande maggioranza dei titoli pubblici con rendimenti negativi è ascrivibile alla Germania, e in particolare alle sue scadenze a breve termine, le modifiche apportate al programma di acquisti perseguono l’obiettivo di assicurare a Berlino una quota consistente della liquidità residua che arriverà nei prossimi mesi. Dunque, proprio mentre procede a ridurre la portata del suo supporto alla generalità dei debiti pubblici europei, l’autorità monetaria mette in chiaro che non sarà la Germania a soffrire di questa minore copertura».Al contrario, come i movimenti di Borsa stanno segnalando in queste ore, si assiste già ad una contrazione del rendimento dei titoli tedeschi a fronte di un leggero rialzo di quelli italiani: «Si riaffaccia, in Europa, il fantasma dello spread, ovverosia l’ampliamento del divario tra il costo del debito pubblico dei paesi centrali e quello dei paesi periferici». Per “Micromega”, dunque, «inizia così ad emergere, dal complesso intreccio delle specifiche tecniche della manovra di politica monetaria appena varata, un dato politico». Corsi e ricorsi: fu proprio sulla scia di un repentino ampliamento degli spread che, ad Atene nel lontano 2009, «si è aperta per l’Europa la stagione dell’austerità». Una fase storica «caratterizzata dall’applicazione simultanea, nei principali paesi europei, del medesimo indirizzo politico: abbattimento dello stato sociale, contrazione dei diritti dei lavoratori e redistribuzione del reddito dai salari ai profitti». Un indirizzo politico che, «a dispetto del suo marcato carattere antipopolare», di fatto «non ha incontrato alcuna resistenza significativa per quasi cinque anni, grazie soprattutto al clima emergenziale imposto dai mercati attraverso la frusta dello spread».Tuttavia, «gli esiti socialmente disastrosi di questa violenta accelerazione della globalizzazione hanno fatto maturare un rifiuto dell’austerità e delle sue istituzioni», che ha trovato espressione prima in Grecia, nell’estate 2015, dove l’ennesimo programma “lacrime e sangue” è stato rispedito (invano) al mittente con un referendum, poi in Gran Bretagna un anno dopo con la Brexit, e infine in Italia, con la recente bocciatura della riforma costituzionale promossa dal governo. «Dopo cinque lunghi anni di austerità – continua l’analista di “Micromega” – una borghesia impoverita e un esercito di venti milioni di disoccupati hanno iniziato ad alzare la voce: approfittando dei tre grandi referendum popolari, queste vittime del neoliberismo europeo hanno inferto tre durissimi colpi al progetto di integrazione europea». E attenzione: «È esattamente a questo punto della storia che interviene la mossa decisa da Draghi giovedì scorso: la stretta monetaria programmata per i prossimi mesi si configura come la prima, violenta risposta delle élite europee alla marea antisistema che le sta minacciando».Si tratta di una reazione che «rischia di compromettere la stabilità finanziaria dell’Europa», e proprio su questo punto «si misurerà l’intraprendenza della Bce». La stretta monetaria, infatti, «è pensata per aumentare il grado di esposizione dei governi alla disciplina dei mercati: tolta la protezione del quantitative easing, il debito pubblico dei paesi periferici tornerà ad essere pienamente vulnerabile ai venti della speculazione». Nei progetti dell’autorità monetaria, «la pressione esercitata dai mercati attraverso gli spread può riuscire laddove le regole, da Maastricht al Fiscal Compact, hanno fallito: costringere la periferia d’Europa sulla strada delle riforme e dell’austerità senza ulteriori esitazioni, e dunque senza quella prudenza che l’avanzata dei populismi sembra suggerire alla classe politica europeista». Nel promuovere l’austerità attraverso la disciplina degli spread, Draghi «si pone alla testa di quella classe politica e la trascina sul rischioso crinale dello scontro frontale con gli sconfitti della globalizzazione e le loro rivendicazioni». L’impatto, per “Micromega”, «potrebbe trascinare ancora più a fondo l’Europa».«Una stretta monetaria concepita per soffocare, in un inasprimento della crisi, quel moto di rifiuto della globalizzazione espresso dalle classi popolari impoverite». Mario Draghi esce allo scoperto: dopo la Brexit e il referendum italiano, avverte che “la ricreazione è finita”. La Bce chiuderà i rubinetti del quantitative easing, esponendo gli Stati al ricatto dello spread, senza più protezioni. Fallita la “carota” (Renzi), si torna al “bastone”: meno soldi per tutti, tranne che per la Germania. Una sfida, frontale, a chi ha votato No – a Renzi, all’Ue. Dal presidente della Bce, scrive “Micromega”, arriva la prima, vera risposta dell’élite sconfitta nelle urne italiane e inglesi. In arrivo lacrime e sangue, se gli Stati non vorranno piegarsi alle “riforme strutturali” volute dal super-potere. Tornano alla mente le parole di Guido Carli, storico governatore della Banca d’Italia, pronunciate mentre infuriavano gli anni di piombo: «La politica monetaria è uno strumento rozzo e chi lo brandisce non deve farsi prendere dal batticuore per lo sbraitare di chi ne subisce le ferite. Se non ha questa forza, è meglio che lo deponga». E Draghi «non sembra affatto intenzionato a deporre le sue armi», scrive “Micromega”. Al contrario: «Le affila, per fronteggiare la minaccia del populismo».
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Foa: battuta l’élite, ora sappiamo che dall’Ue si può evadere
E ora cambia, davvero, tutto. La decisione degli elettori britannici di lasciare l’Unione Europea è storica innanzitutto per il contesto elettorale in cui è maturata. Tutto, ma proprio tutto, lasciava presagire una vittoria del fronte europeista, soprattutto dopo l’uccisione della deputata Jo Cox, che aveva cambiato la dinamica e il clima della campagna elettorale a sette giorni dal voto. L’ondata del cordoglio è stata enorme. E infatti i sondaggi, i mercati, gli scommettitori davano il sì praticamente scontato. Ci voleva un miracolo per ricambiare il corso della campagna elettorale. E miracolo c’è stato. Forse quel miracolo ha un nome e un volto. Quello della Regina Elisabetta. O meglio del quotidiano popolare più influente del mondo, il “Sun”, che mercoledì ha fatto lo scoop, lasciando intendere che Sua Maestà era favorevole all’uscita dalla Ue, rivitalizzando così le corde di un patriottismo che si pensava fosse diventato marginale e che invece vibra ancora nel cuore del popolo.La tempra di un paese ha prevalso sull’emozione e sul cordoglio. La Gran Bretagna fiera della propria autonomia, convinta della propria unicità, capace di scegliere da sola nei momenti topici della propria storia è risorta, dando ragione a Nigel Farage – un ex uomo d’affari che dal nulla ha creato un partito e trascinato un paese a una svolta storica – e a Boris Johnson, il sindaco di Londra uscente, che non ha esitato a schierarsi contro l’establishment del proprio Paese, dando forza e autorevolezza al movimento anti-Ue. Molti diranno che nei britannici ha prevalso la paura di un’immigrazione ed è innegabile che questo sia stato uno dei temi forti della campagna, ma non è stato un voto razzista; semmai la prova che l’immigrazione è salutare e bene accetta se regolata, ma provoca comprensibili reazioni di rigetto quando diventa impetuosa e di massa.C’era di più, però, in questo referendum: c’era la volontà di difendere l’autenticità delle proprie istituzioni, della sovranità del voto popolare e dunque della propria democrazia. Di dire basta a un’Unione Europea i cui meccanismi decisionali sono opachi, in cui il processo di integrazione viene portato avanti da un’élite transnazionale, vero potere dominante dell’Europa e non solo, tramite un processo caratterizzato da un persistente “deficit democratico”, che li ha portati ad ignorare o ad aggirare la volontà dei popoli, ogni volta che si è opposta ai loro disegni. Talvolta persino a calpestare, come accadde un anno fa, quando la Troika costrinse Atene a rinnegare l’esito schiacciante di un referendum. Lo stesso potrebbe avvenire oggi a Londra, considerato che il referendum era consultivo, ma sarebbe una scelta gravissima, al momento improbabile.Ora si apre una fase di incertezza: i mercati la faranno pagare alla Gran Bretagna, e quell’establishment non si arrenderà facilmente. Vedremo. Quella di ieri è stata, però, una giornata davvero storica. E’ la rivincita della sovranità nazionale. Per la prima volta un paese ha dimostrato che il processo di unificazione europea non è ineluttabile, che dalla Ue si può uscire, rendendo concreta la possibilità che altri paesi seguano l’esempio britannico. Un voto che costringerà l’Unione Europea a gettare la maschera di fronte a un’Europa diversa, autentica, che molti pensavano defunta e che invece è forte e vitale, quella dei popoli. Alla faccia delle élite.(Marcello Foa, “Incredibili britannici, rinasce l’Europa dei popoli”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 24 giugno 2016).E ora cambia, davvero, tutto. La decisione degli elettori britannici di lasciare l’Unione Europea è storica innanzitutto per il contesto elettorale in cui è maturata. Tutto, ma proprio tutto, lasciava presagire una vittoria del fronte europeista, soprattutto dopo l’uccisione della deputata Jo Cox, che aveva cambiato la dinamica e il clima della campagna elettorale a sette giorni dal voto. L’ondata del cordoglio è stata enorme. E infatti i sondaggi, i mercati, gli scommettitori davano il sì praticamente scontato. Ci voleva un miracolo per ricambiare il corso della campagna elettorale. E miracolo c’è stato. Forse quel miracolo ha un nome e un volto. Quello della Regina Elisabetta. O meglio del quotidiano popolare più influente del mondo, il “Sun”, che mercoledì ha fatto lo scoop, lasciando intendere che Sua Maestà era favorevole all’uscita dalla Ue, rivitalizzando così le corde di un patriottismo che si pensava fosse diventato marginale e che invece vibra ancora nel cuore del popolo.
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Barnard: ciao Sanders, finto ribelle guidato da Wall Street
Obama non era ancora presidente, nel 2008, ma c’era «l’intero mondo delle belle anime con il cranio che gli scoppiava perché vinceva il negro di sinistra dopo il cattivo Bush». Chi l’aveva finanziato, Obama? Le mega-banche, scriveva Paolo Barnard, con largo anticipo, dopo aver studiato gli atti di Obama al Congresso negli anni precedenti, su armi, Israele e diritti civili. «Oggi sappiamo che ha travasato più soldi lui dal 99% all’1% di tutta la Storia d’America, e ha ucciso più veri negri innocenti lui di Reagan, Bush I&II, Clinton messi assieme». In altre parole: «Oggi anche le ponghe del Tevere sanno che Obama è stato il peggior presidente di destra finanziaria, baciapile dei miliardari e assassino internazionale della Storia d’America». E dopo Obama? Bernie Sanders. Stessa storia: ci caschiamo, puntualmente. Il primo a insospettirsi anche su Sanders fu proprio Barnard, nel 2015: non è tollerabile – scriveva – che un candidato alle presidenziali Usa risponda con slogan buonisti da “anima bella” a domande su equità fiscale, divario tra élite e classe media, tra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Superficiale ed evasivo anche sui bankster, i gangster delle banche, e sulle 14.000 basi americane nel mondo, con relative guerre in corso. Volta la carta, e scopri chi c’era dietro a Sanders.Sempre nell’autunno 2015, Barnard rivela che Sanders, nell’ottobre del 2011, mise insieme una squadra di economisti per portare avanti quello che certamente era il programma sociale «più socialista dai tempi di Rosa Luxemburg». Ma chi chiamò al suo fianco «per portare la salma di Marx alla Banca Centrale Usa»? E qui casca l’asino. Perché il primo nome è quello di Joseph Stiglitz: un neo-keynesiano “dimezzato”, «che crede che l’intervento del Deficit Positivo di Stato ci deve essere solo se il meraviglioso Mercato ha fatto errori». E poi Robert Reich: «Uomo di Bill Clinton, il presidente che ha creato le basi per la più devastante crisi economica dal 1929. Ma anche uomo di Obama (si legga sopra)». Quindi James Galbraith: «Un mezzo insulso keynesiano che quando poi ha fatto da consulente al governo di Atene sulla crisi mortale delle Austerità, non ha saputo che balbettare cazzate finite negli scoli dei greci. Ha preso parcelle ed è tornato a casa». E poi Lawren Mishel, uno che «braita che i Deficit di Stato sono insostenibili», e Nomi Prince, «un ex di Goldman Sachs, ex di Lehman, ex di ogni altra mega-banca di Wall Street. Commenti non necessari: come prendere un dirigente della Pfizer a sperare di promuovere l’omeopatia».Nel team del “rivoluzionario “ Sanders, anche William Greider: «Volenteroso critico delle Banche Centrali, ma totalmente ignaro di macro-economia dello Stato». Senza contare «un gruzzolo di camomille economiche come Tim Canova, poi Robert Johnson, poi Gerald Epstein, Roger Hickey, Bob Pollin, e soprattutto il noto Dean Baker: tutti ‘belle anime’ che rigettano categoricamente l’idea che i Deficit Positivi di Stato sono in realtà la salvezza della Piena Occupazione, Sanità, Servizi, Istruzione, per tutti i cittadini», continua Barnard. Ma non è tutto. Sanders ha preso a bordo anche un uomo come Robert Auerbach, «che ha diligentemente servito tutte le moderne disastrose economie Usa sotto Paul Volker, Alan Greenspan e (conato) Ronald Reagan». Sicché: «Come una cariatide incrostata di Imperialismo Usa potesse stare vicino a Sanders, ce lo spiegherà Bernie». E si arriva al “peggio del peggio”, Jeffrey Sachs: «E’ il più schifoso falsario dell’economia Neoliberista e Assassina del mondo accademico, che mentre scrive libri su libri infarciti di ‘lotta alla povertà’, ha lavorato per decenni per devastare la vita di centinaia di milioni di polacchi e russi dopo il 1989».La sua “Shock Terapia”, continua Barnard, «portò la Russia a un’inflazione al 2.500% (no errori di stampa), quindi disintegrò l’ottimo risparmio privato russo che poteva salvare il paese, e portò la mortalità media dei russi a livelli afghani. Bravo Sanders, hai passato la seconda asilo?». Un «infame purè di economisti», da cui si salvano solo Stephanie Kelton, Randall Wray e Bill Black, della Mmt, Modern Money Theory. «Ma che cazzo contano in coda a questo drappello di nemici giurati dei Deficit Positivi e di super-affermati colossi politici? Zero, acquetta. Poi nessuna menzione di Warren Mosler, né allora né oggi». Nel 2011 «la scena fu talmente desolante, che non scrivo altro», chiosava Barnard l’anno scorso. «E non nutro nessuna speranza che tu faccia meglio questa volta, Sanders». Oggi sappiamo che Bernie non ce l’ha fatta, a battere Hillary. Niente paura: non abbiamo perso niente, chiarisce Barnard.Obama non era ancora presidente, nel 2008, ma c’era «l’intero mondo delle belle anime con il cranio che gli scoppiava perché vinceva il negro di sinistra dopo il cattivo Bush». Chi l’aveva finanziato, Obama? Le mega-banche, scriveva Paolo Barnard, con largo anticipo, dopo aver studiato gli atti di Obama al Congresso negli anni precedenti, su armi, Israele e diritti civili. «Oggi sappiamo che ha travasato più soldi lui dal 99% all’1% di tutta la Storia d’America, e ha ucciso più veri negri innocenti lui di Reagan, Bush I&II, Clinton messi assieme». In altre parole: «Oggi anche le ponghe del Tevere sanno che Obama è stato il peggior presidente di destra finanziaria, baciapile dei miliardari e assassino internazionale della Storia d’America». E dopo Obama? Bernie Sanders. Stessa storia: ci caschiamo, puntualmente. Il primo a insospettirsi anche su Sanders fu proprio Barnard, nel 2015: non è tollerabile – scriveva – che un candidato alle presidenziali Usa risponda con slogan buonisti da “anima bella” a domande su equità fiscale, divario tra élite e classe media, tra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Superficiale ed evasivo anche sui bankster, i gangster delle banche, e sulle 14.000 basi americane nel mondo, con relative guerre in corso. Volta la carta, e scopri chi c’era dietro a Sanders.
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Nazionalizzare il denaro, l’unica rivoluzione per noi schiavi
Noi uomini siamo portati a pensare che sia possibile risolvere un problema, una crisi, un’ingiustizia, attraverso un’azione collettiva delle persone interessate e consapevoli. Se scopriamo quello che ci sembra essere la causa di un grave male che affligge la società (questa causa potrebbe essere il signoraggio o un certo uso delle onde elettromagnetiche o i vaccini o le registrazioni anagrafiche, tanto per fare qualche esempio), siamo portati a pensare che, diffondendo la consapevolezza di questa nostra scoperta fondamentale, susciteremo una reazione collettiva e coordinata dei nostri simili che potrà risolvere il problema dal basso, con un’azione di massa, magari rivoluzionaria. Solo che tale reazione collettiva e coordinata, nel mondo reale, non vuole partire: il grosso della popolazione non si interessa, se si interessa non capisce, se capisce presto dimentica, se non dimentica comunque non si coordina e non agisce. Questa è l’umanità reale, con i suoi reali comportamenti. Mi obietterete che però, di fatto, l’umanità è capace di fare rivoluzioni. Lo ha dimostrato. Avete ragione.L’attuale situazione della società è veramente molto grave e con pessime prospettive, soprattutto perché la cosiddetta crisi economica appare ormai chiaramente come uno strumento volontariamente attivato e mantenuto per concentrare il reddito e la ricchezza, ma anche il potere politico, nelle mani di pochi grandi finanzieri che si deresponsabilizzano celandosi dietro istituzioni politiche ufficiali che essi hanno svuotato di potere effettivo; e al contempo per far accettare alla gente di avere meno diritti, meno libertà, meno dignità, meno benessere, e di essere governata da lontano e da soggetti irresponsabili. Insomma è una crisi indotta a scopi di ingegneria sociale. Appare altrettanto chiaro che, pertanto, non è possibile risolverla per le vie interne dell’ordinamento giuridico nazionale o internazionale, cioè ad esempio attraverso le elezioni e i parlamenti, dato che esse sono interamente controllate dall’oligarchia al potere su scala globale. Quindi solo un’azione rivoluzionaria dal basso, una rivoluzione popolare, parrebbe idonea a risolvere il problema.Lo conferma il fatto che sono rimasti e rimangono completamente inascoltati, anche di fronte all’avverarsi delle loro previsioni, gli autorevoli economisti che, dagli anni ’70 ad oggi, hanno preavvertito le istituzioni dei disastri che sarebbero stati causati dalle riforme monetarie e bancarie in cantiere, perché hanno proposto e stanno proponendo rimedi razionali. Sono rimasti inascoltati perché parlavano dal punto di vista dell’interesse collettivo, non di quello dell’élite decidente. Molto semplice. Ed eccoci ritornati all’opzione rivoluzionaria. Ma questa opzione deve fare i conti con i dati della realtà storica seguenti. Pensiamo alle grandi rivoluzioni popolari: quella francese, quella sovietica, quella cinese, quella nazista, quella khomeinista in Persia. Tutte sono avvenute a furor di popolo, il popolo si aspettava di risolvere i suoi problemi, ma le cose sono andate diversamente, nel senso che il popolo ha subito un forte peggioramento della sua situazione.In Francia, dopo la rivoluzione, vi fu un ventennio di stragi, con il periodo del Terrore, poi delle guerre contro le coalizioni monarchiche, poi delle guerre napoleoniche, e intere generazioni di giovani furono annientate sui campi di battaglia. Alla fine, in Francia ritornò la monarchia – non è buffo? – e per giunta la Francia si ritrovò subalterna al Regno Unito, cioè perse la sua indipendenza politica. Certo, la rivoluzione francese pose fine al feudalesimo e mise al potere il capitalismo. Negli altri esempi citati, sappiamo tutti che cosa avvenne a quelle nazioni dalle loro rivoluzioni popolari in termini di guerre, distruzioni, dittature, arretratezza. Alle volte, in periodi di acuta crisi, nei quali era evidente una qualche particolare causa della crisi, gli interessi collettivi hanno ottenuto riforme a loro tutela contro gli interessi delle classi sfruttatrice dominanti. Cito come esempi le riforme dei Gracchi nella Roma antica e il Glass-Steagall Act a seguito della crisi del ’29, entrambe tese a porre freno al saccheggio della società da parte della classe finanziaria.Ma poi, in tutti i casi di questo tipo, le classi dominanti, attraverso una pianificazione politica di medio e lungo termine, con azione di lobbying e corruzione, approfittando della cronica distrazione del popolo, hanno sempre recuperato le posizioni perdute e hanno portato avanti i loro interessi contro la popolazione subalterna. Ciò avvenne al tempo dei Gracchi, ed è avvenuto anche ultimamente, con l’abolizione del Glass Steagall Act nel 1999 e tutta una serie di riforme del diritto finanziario e bancario, che hanno permesso le megafrodi bancarie con cui i banchieri hanno realizzato e stanno realizzando enormi profitti a danno della collettività anche oggi e praticamente senza mai pagare il fio. Gli interessi concentrati e consapevoli vincono su sempre su quelli diffusi, nel medio e lungo periodo. Di solito però già anche nel breve periodo.La via rivoluzionaria, nel mondo odierno, è peraltro impraticabile, sia perché l’oligarchia al potere a un enorme vantaggio tecnologico e militare su qualsiasi movimento popolare, disponendo non solo di argomenti ma anche di strumenti di monitoraggio e intervento capillari nella vita di ciascuno, il sogno di tutti i dittatori della storia; sia perché è un mondo interdipendente, perciò, quand’anche un paese insorgesse e se liberasse dai suoi oppressori finanziari e politici, verrebbe bloccato e messo in ginocchio nel giro di pochi giorni. Pensiamo inoltre che l’Italia è un paese e militarmente occupato dagli Stati Uniti con oltre 130 basi militari. E che dipende da forniture esterne per sopravvivere, innanzitutto dal petrolio, che si paga in dollari.Siamo insomma condannati a restare stabilmente in questa situazione e in questo trend peggiorativo, che ci porta verso abissi di insicurezza, di privazione di diritti e libertà, di invasione delle nostre vite da parte di un potere tecnologico incontenibile, entro un regime alla Orwell? Con ragionevole sicurezza, in base all’osservazione dei fatti storici, a questa domanda si può rispondere di no, poiché la storia ci mostra che i sistemi di potere, regni, imperi e repubbliche, così come le costituzioni e le condizioni giuridiche ed economiche, non sono mai stati stabili, non sono mai durati a lungo, soprattutto da quando l’umanità si è messa a commerciare e ha sviluppato varie tecnologie. Cioè da più di 25 secoli. Anche gli imperi apparentemente più solidi, più forti, più invincibili, sono crollati, si sono frantumati, perlomeno a causa di processi disorganizzati ivi interni. Senza bisogno di rivoluzioni popolari.Se esaminate per esempio la storia di Roma, dall’epoca monarchica a quella repubblicana a quella del principato e a quella del dominatus, cioè da Diocleziano in poi, vedrete che gli assetti costituzionali, economici, organizzativi, demografici, si trasformano incessantemente, e che le cose più costanti sono proprio i meccanismi che alimentano squilibri: la lenta demolizione dell’agricoltura e della popolazione in Italia, il trasferimento della ricchezza e del potere dall’aristocrazia terriera senatoriale alla classe finanziaria equestre, il travaso di oro da occidente a oriente (causato dal passivo della bilancia commerciale). Insomma, i grandi cambiamenti avvengono, sono sempre avvenuti, nella storia. Sono avvenuti non solo per effetto di azioni volontarie (collettive o individuali), ma pure e soprattutto per il concorso di forze e di processi molteplici, impersonali, perlopiù incompresi o fraintesi, perlopiù irresistibili, e solitamente con esiti diversi da quelli previsti, progettati, desiderati. Fattori di tipo climatico, economico, demografico o tecnico-scientifico. Pensate all’inaridimento delle fertili pianure nordafricane, al declino demografico della Grecia antica, al declino tecnologico dell’Impero romano, alla divaricazione economica operata dall’introduzione dell’euro tra i paesi che lo usano.Altra illusione abituale: l’uomo pensa che le cose continueranno ad andare in futuro nel modo in cui sono andate in passato, e mira sempre a raggiungere qualche assetto definitivo e sicuro, nel privato come nel pubblico: l’amore per sempre, il matrimonio indissolubile, il posto fisso, i diritti umani inalienabili, un’organizzazione statale perenne, definitiva, perfetta, come la repubblica progettata da Platone. O almeno destinata a durare 1000 anni, come il Reich vagheggiato da Hitler. Ma, al contrario, tutti gli assetti prodotti dall’uomo sono impermanenti, caduchi, transeunti, provvisori. Come l’uomo stesso. Tutto scorre, giustamente osserva Eraclito. Non riusciamo a stabilizzare un tubo. Il grande Cesare Ottaviano Augusto aveva capito i difetti strutturali del possente sistema-paese che governava, e cercò di correggerli, ma non vi riuscì, e come lui non vi riuscirono molti, a Roma e altrove.I grandi cambiamenti, le trasformazioni sistemiche, avvengono, ma solitamente sono molto diversi dai progetti di coloro che li causano: il divenire storico sfugge dal controllo e dalla pianificazione. Pensate per esempio alla I Guerra Mondiale: ognuna delle potenze che vi parteciparono aveva i suoi piani, le sue previsioni, le sue intenzioni, e tutte furono smentite dallo svilupparsi dei fatti. La guerra stessa assunse caratteri che nessuno aveva immaginato. Il suo esito fu… di innescare fascismo, nazismo e una seconda guerra mondiale. Invero, nessuno è mai riuscito a governare la storia, né a prevederla. Tanto meno ci sono riuscite le rivoluzioni popolari, le quali hanno bensì dato colpi e prodotto effetti, ma non gli effetti voluti e progettati, bensì gli altri e impreveduti – almeno per esse. Il comportamento collettivo è sempre miope e ottuso. I popoli non riescono a evitare fallimenti prevedibili.Anche l’attuale tecnocrazia globalizzata, come sistema di potere, è destinata a deteriorarsi, e a cadere, magari proprio perché primo poi le sfuggirà di mano la stessa tecnologia, che si sviluppa e moltiplica le sue capacità in modo praticamente è miracoloso – come Skynet della serie Terminator. Oppure forse cadrà per la sua contrarietà ai bisogni oggettivi, fisiologici, degli esseri umani: essa, guidata com’è dalla logica del bilancio, del rendimento annuale o comunque di brevissimo termine, sta forzando l’uomo e la comunità ad adattarsi a vivere secondo questo brevissimo termine, accettando la precarietà, la discontinuità, l’instabilità come caratteri di fondo dell’esistenza, e rinunciando alla sicurezza, alla progettabilità di lungo termine, alla stabilità, che sono esigenze oggettivamente insite nell’essere umano. E’ una violenza radicale e protratta, implementata attraverso il controllo delle istituzioni. Se scoppiamo, allora potremo dire davvero di essere noi il cambiamento. Oppure ancora è una catastrofe geofisica, climatica, ecologica, il fattore che sta per rimescolare le carte.La popolazione generale, anche buona parte di quelli con istruzione superiore, è consapevole del suo malessere, dell’insicurezza oggettiva in cui sempre più vive, di alcune malefatte compiute da certi potenti; ha una consapevolezza aneddotica, episodica, spesso personificata, dei mali del sistema; ma non è consapevole delle cause strutturali e non manifeste. Non saprebbe dove intervenire, anche potendo. Quindi, mi direte, tu stai dicendo che non c’è niente da fare, per uscire dall’attuale situazione, perché non abbiamo la capacità di correggerla, e del resto essa prima o poi finirà da sé. In effetti, più o meno è così. Più o meno, perché razionalmente e realisticamente ci sono alcune cose da fare, anche per cercare di fare in modo che l’uscita dall’attuale condizione sia verso una condizione non peggiore, magari migliore. Innanzitutto, bisogna fare cose per mettersi al riparo, per difendersi, a livello privato, personale. L’azione politica è pressoché inutile o controproducente, come dimostrano i casi di quei movimenti e di quei partiti che, dopo avere iniziato con grande promesse di rottura, o si sono spenti, oppure si sono omologati al sistema che dovevano abbattere, come in Grecia e in Spagna. Anche tra i grilli nostrani molti danno segni di volersi alleare col Partito Democratico per stabilizzarsi nel potere e nei suoi vantaggi.L’azione collettiva raramente parte e ancora più raramente è efficace, ma l’azione individuale o su scala di piccoli gruppi è fattibile, sul fronte della tutela della salute, del patrimonio, della libertà, considerando sempre anche l’opzione dell’emigrazione verso paesi che consentono una migliore tutela di questi valori. Certamente, di fronte a un drastico e rapido peggioramento della condizione di vita e del livello di dignità, a breve potrebbe anche porsi fortemente l’opzione del suicidio, del suicidio stoico, cioè dell’uomo che rifiuta di vivere privato della libertà e della dignità: pensiamo a Lucio Anneo Seneca che si suicida per non soggiacere agli arbitri e ai capricci di Nerone. Ma non preoccupatevi: pochissimi seguiranno Seneca, in ogni caso, perché gli uomini si adattano facilmente a una vita di pecore schiave, o di topi che sopravvivono arrangiandosi negli angoli bui.Che cosa resta da fare, in positivo, dopo tanti “non podemos”? Proprio grazie a ciò che dicevo all’inizio, ossia alla indeterminatezza e libertà del divenire storico, alla sua apertura, non può mai venir meno la possibilità di entrare in modo rilevante in questo divenire. Poche verità storiche sono certe e comprovate come la potenza esercitata dalle idee nei millenni: Platone, Aristotele, Gesù, Galileo, Marx, Freud, Einstein, e Fra’ Luca Pacioli, l’inventore della partita doppia – solo per fare qualche nome – sono più che mai attuali e attivi, sono potentissimi… La Rivoluzione Francese mancò gli obiettivi pratici di breve e medio termine, ma nel lunghissimo termine essa è – si può ben dire – ancora in svolgimento… nei cambiamenti nel pensiero, nella coscienza collettiva, nelle dinamiche sociali… nell’aver creato una cosa che cosa prima assente, in Europa, dai tempi di Atene, ossia il pubblico dibattito politico.Assieme all’amico psichiatra Paolo Cioni, col saggio “Neuroschiavi”, ho cercato di dare un contributo mirato all’analisi e al contrasto ai mezzi di rimbecillimento e irreggimentazione di massa che tanta parte hanno nella governance sociale, nella compressione della libertà mentale e critica che è l’anima di quel dibattito. E in altri saggi, in solitaria oppure in cooperazione con qualche amico, ho diretto i riflettori su quello strumento di dominazione e sfruttamento sociale che è il potere monetario vestito nelle banche private, e sui suoi meccanismi occultati dalle prassi contabili oggi applicate, e la cui comprensione da qualche anno si viene ora diffondendo. La sua comprensione a livello perlomeno di classi imprenditoriali e intellettuali sarebbe un presupposto per un possibile rivolgimento strutturale della società, per una possibile fine del regime parassitario imposto dal capitalismo finanziario attraverso proprio quelle prassi contabili false, le quali sono alla base del fatto che esso è divenuto un perfetto strumento di dominio sociale: uno strumento che, da un lato, rende la società e l’economia e le istituzioni sempre più dipendenti da sé stesso e sempre più forzatamente obbedienti ai suoi dettami, perché sotto permanente ricatto di fatali conseguenze; e che, dall’altro lato, attraverso l’uso di moneta-debito progressivamente indebitante, sottrae alla società una quota sempre crescente di reddito, pubblico e privato, sotto forma di interessi, di bail out (saccheggio dell’erario) e bail in (saccheggio dei risparmi o investimenti finanziari).E’ una prigionia estorsiva sistemica, in via di perfezionamento, rispetto a cui le truffette del tipo Banca Popolare dell’Etruria sono soltanto incidenti dovuti all’avidità di banchieri locali, incidenti da coprire subito in qualche modo al fine di poter proseguire col perfezionamento del sistema, col piano di lungo periodo. Prima della rivoluzione del 1789, i popolani francesi, sfruttati dai signori feudali, avevano fatto jacqueries, ossia assalti ai depositi di granaglie dei castelli sotto la spinta della fame – cioè avevano attaccato la sola superficie del problema. Questo equivale ai nostri movimentisti, agli indignados, a quelli che oggi manifestano contro i banchieri che li hanno fregati e chiedono rimborsi da parte dello Stato e carcere ai furbetti del credito e le dimissioni della bella ministra Boschi. Niente di risolutivo.Il salto di qualità che dalle jacqueries (le quali lasciano il tempo che trovano) portò alla vera rivoluzione (che cambia invece il tempo), sia pur nel senso che abbiamo visto, avvenne allorquando, nell’agosto del 1789, alla guida del popolino, si misero intellettuali che sapevano dove mettere le mani, e allora gli insorti penetrarono nei castelli non per rubare la farina, ma per aprire i forzieri e distruggere gli atti di proprietà dei fondi terrieri in essi custoditi, facendo così crollare il sistema latifondista. L’equivalente di questa operazione, oggi, potrebbe essere – dico: potrebbe – il pubblico smascheramento dei sistematici falsi in bilancio con cui i banchieri privati creano la quasi totalità dei mezzi monetari circolanti senza pagare su tale creazione alcuna tassa e senza assumersi le responsabilità politiche e sociali dell’esercizio di un tale primario potere pubblico, e la conseguente nazionalizzazione del sistema monetario-creditizio con la liberazione della società dalla moneta indebitante ora in uso. Ma ciò non credo possa partire dall’Italia, la quale non ha alcuna tradizione o predisposizione rivoluzionaria.(Marco Della Luna, estratto da “Crisi, rottura del sistema e trasformazione”, testo preparato per la conferenza organizzata dalla casa editrice Nexus a Cagliari il 17 gennaio 2016 e ripreso dal blog di Della Luna).Noi uomini siamo portati a pensare che sia possibile risolvere un problema, una crisi, un’ingiustizia, attraverso un’azione collettiva delle persone interessate e consapevoli. Se scopriamo quello che ci sembra essere la causa di un grave male che affligge la società (questa causa potrebbe essere il signoraggio o un certo uso delle onde elettromagnetiche o i vaccini o le registrazioni anagrafiche, tanto per fare qualche esempio), siamo portati a pensare che, diffondendo la consapevolezza di questa nostra scoperta fondamentale, susciteremo una reazione collettiva e coordinata dei nostri simili che potrà risolvere il problema dal basso, con un’azione di massa, magari rivoluzionaria. Solo che tale reazione collettiva e coordinata, nel mondo reale, non vuole partire: il grosso della popolazione non si interessa, se si interessa non capisce, se capisce presto dimentica, se non dimentica comunque non si coordina e non agisce. Questa è l’umanità reale, con i suoi reali comportamenti. Mi obietterete che però, di fatto, l’umanità è capace di fare rivoluzioni. Lo ha dimostrato. Avete ragione.
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Bond a rischio, Berlino bara sui conti e punta a rapinarci
Se demolisci lo Stato, la sua sovranità finanziaria, a capitolare sarà anche l’ultimo bene-rifugio della finanza pubblica: i titoli di Stato, finora considerati garantiti dallo Stato stesso. Non sarà più così, se passa la linea del banchiere centrale tedesco Andreas Dombret, numero due della Bundesbank e membro della vigilanza europea sul credito. La richiesta: creare un diritto fallimentare unico per tutti i paesi dell’Unione, classificando i titoli di Stato come un “fattore di rischio” per le banche. Secondo Aldo Giannuli, si profila un nuovo assalto tedesco alle banche italiane. «Sino alla crisi greca – ricorda Giannuli – si dava per scontato che i titoli di Stato fossero considerati fra gli asset più sicuri, perché a risponderne era, appunto, lo Stato. E si dava altrettanto per scontato che la Bce non avrebbe lasciato fallire nessuno Stato per garantire la stabilità della moneta». La Grecia infatti potè collocare per anni i suoi titoli a interessi bassissimi, «proprio perché si immaginava (a torto) che ci fosse la garanzia europea». Poi, però, «l’interpretazione degli accordi istitutivi, via via sempre più restrittiva, portò a separare la moneta dalla sorte dei debiti di Stato».Nel frattempo, continua Giannuli nel suo blog, l’indebitamento pubblico cresceva lo stesso e, per reggerlo, si imponeva alle banche di assorbirne una bella fetta. «La stessa Germania, nei primi tempi della crisi greca, impose alle sue banche di assorbire una fetta dei titoli di Atene (a interessi da usura), salvo poi sbolognarli quando il gioco s’è fatto troppo pericoloso». Fin lì, comunque, i bond statali erano ancora considerati fra le voci più sicure degli asset bancari. Ora invece Dombret «chiede di aprire un’altra fase, nella quale i titoli di Stato dovrebbero essere valutati sulla base del rischio di insolvenza del debitore». Così, le voci del rischio «saranno principalmente il rapporto debito/Pil e il rapporto debito/gettito fiscale». Con queste conseguenze: «Le banche vedranno calare il loro asset in base alla rivalutazione dei titoli di Stato posseduti». Pertanto, a loro volta, «emetteranno titoli via via più rischiosi e, dunque, dovrebbero offrire interessi maggiori». A quel punto, «per non affondare, preferiranno investire lo stesso denaro in titoli, forse meno redditizi ma più solidi, e resisteranno alle offerte governative».A sua volta, lo Stato dovrà alzare l’offerta di interessi, «e l’insieme della manovra spingerà verso il punto di crisi del sistema, oppure, non potendo emettere moneta, non resterà che svendere il restante patrimonio di Stato e aumentare la pressione fiscale». Aggiunge Giannuli: «Indovinate a chi pensa Dombret quando dice queste cose? Qual è il paese con il terzo debito pubblico del mondo?». Noi, ovviamente. L’Italia «garantiva le sue banche con il salvataggio di Stato, ora proibito». Per questo, il nostro paese «ha un sistema bancario che sta attraversando un momento difficile». Dunque, nessun dubbio: «E’ una nuova spallata tedesca contro l’Italia». Dombret ovviamente «dimentica che sarebbe opportuna una situazione di parità fra tutti i paesi europei: la condizione di rischio, come si sa, è proporzionale ad una serie di fattori fra cui, prima di tutto, il rapporto fra debito e Pil». Dunque occorre che il debito sia valutato allo stesso modo per tutti, ma così non è: «Da 25 anni la Germania gode di un favore non riconosciuto a nessun altro, considerando fuori bilancio il debito proveniente dalla sua Cassa Depositi e Prestiti».Questa particolare soluzione – il finanziamento di Stato sttobanco – fu adottata al momento dell’unificazione delle due Germanie per facilitare la ricostruzione dei land orientali. Allora, la cosa si poteva comprendere. Ma adesso, a oltre un quarto di secolo, perché non pretendere che anche la Germania rispetti le regole europee? «E così, magari, scopriremmo che il debito pubblico tedesco non è vero che oscilla intorno all’80%, ma supera di slancio il 100% e, dunque, lo spread fra i titoli tedeschi e quelli degli altri non è quello che si dice», infatti «la Germania ha condizioni di rischio ben più consistenti di quelle vantate». I tedeschi, «intendendo per essi non certo il popolo tedesco, che non ha altra colpa che avere questi predoni di politici, finanzieri e manager» stanno mettendo l’assedio ai risparmi e al patrimonio immobiliare italiano, «approfittando anche della debolezza politica del suo governo».C’è di che sospettare, continua Giannuli: l’Europa fino a ieri intangibile ora si va tranquillamente frantumando. Nel 2010 l’exit strategy dall’euro fu bocciata come catastrofica, mentre adesso, all’improvviso, «questa ipotesi si sta materializzando rapidamente a proposito della questione frontiere: se viene meno la libertà di spostamento interna alla comunità con il trattato di Schengen, automaticamente viene meno l’euro». Il nesso? Forse la «forte valenza simbolica negativa», che danneggerebbe anche la moneta? Ma no: «Non si capisce perché una cosa farebbe venir meno l’altra», conclude Giannuli, che si dichiara «ostile all’euro e favorevole alla libertà di movimento». Come mai oggi si parla della fine dell’euro con tranquillità, come ipotesi fattibile anche in tempi brevi? I disastri economici fino a ieri paventati non li evoca più nessuno. «Delle due l’una: o si tratta solo di sparate propagandistiche per far recedere quanti pensano a chiudere le frontiere, o davvero qualcuno sta pensando a costruire la sua uscita dall’euro e usa quello che è un risibile pretesto. Ma se è vera la seconda ipotesi, l’indiziato principale non può essere che la Germania che, sentendo aria di crisi globale, non vuole arrivarci zavorrata da troppi paesi con un alto debito pubblico. Ma non disdegna, nel frattempo, di fare man bassa dei beni degli alleati».Se demolisci lo Stato, la sua sovranità finanziaria, a capitolare sarà anche l’ultimo bene-rifugio della finanza pubblica: i titoli di Stato, finora considerati garantiti dallo Stato stesso. Non sarà più così, se passa la linea del banchiere centrale tedesco Andreas Dombret, numero due della Bundesbank e membro della vigilanza europea sul credito. La richiesta: creare un diritto fallimentare unico per tutti i paesi dell’Unione, classificando i titoli di Stato come un “fattore di rischio” per le banche. Secondo Aldo Giannuli, si profila un nuovo assalto tedesco alle banche italiane. «Sino alla crisi greca – ricorda Giannuli – si dava per scontato che i titoli di Stato fossero considerati fra gli asset più sicuri, perché a risponderne era, appunto, lo Stato. E si dava altrettanto per scontato che la Bce non avrebbe lasciato fallire nessuno Stato per garantire la stabilità della moneta». La Grecia infatti potè collocare per anni i suoi titoli a interessi bassissimi, «proprio perché si immaginava (a torto) che ci fosse la garanzia europea». Poi, però, «l’interpretazione degli accordi istitutivi, via via sempre più restrittiva, portò a separare la moneta dalla sorte dei debiti di Stato».
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Berlino: guerra alle nostre banche (le loro, salvate da noi)
La Germania non vuole che l’Italia salvi le sue banche traballanti, anche se il nostro paese ha contribuito al salvataggio di Grecia, Irlanda, Islanda e Portogallo, mettendo al sicuro la finanza tedesca. E’ una dichiarazione di guerra, quella che ha raccolto Federico Fubini sul “Corriere della Sera”, da parte di Lars Feld, uno dei “cinque saggi” che consigliano il governo tedesco e probabilmente il più vicino al ministro delle finanze Wolfgang Schäuble. Feld pretende che l’Italia ricorra al bail-in, senza misericordia. Bail-in, spiega il “Foglio”, significa «azzerare o tagliare il valore delle azioni, di tutte le obbligazioni e dei saldi di conto corrente per la parte sopra i 100.000 euro, fino a ridurre del 12% le passività di qualunque banca che riceva un aiuto di Stato». È la nuova legislazione europea, voluta dalla Germania, che entra in vigore il 1° gennaio. Fubini domanda: «Lei prevede che in Italia ci sarà bail-in dei conti correnti, quindi contagio e poi una richiesta di aiuto al fondo salvataggi, con l’arrivo della Troika?». Feld risponde: «Prevedo un pieno bail-in. I tagli alle obbligazioni e ai conti correnti sopra i 100.000 euro dovranno aiutare a ristrutturare le banche, perché la Commissione Ue impedirà salvataggi da parte del governo o sussidi nascosti agli istituti. Non saranno permessi».
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Panico Germania: Volkswagen? No, peggio: Deutsche Bank
Perché proprio adesso esplode lo scandalo della Volkswagen? La truffa sulle emissioni “pulite” delle auto è destinata a ferire l’orgoglio teutonico, affondando il mito dell’onestà del suo capitalismo. Perché la verità emerge solo ora? Se lo domandano in molti, specie quelli che ricordano anche i record meno presentabili della Germania: come la precarizzazione del lavoro varata già nel 2002 dal socialdemocratico Gerhard Schroeder e ispirata da Peter Hartz, il super-manager Volkswagen poi condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli ad accettare condizioni sfavorevoli per gli operai. Riforma-simbolo, da cui nasce la flessibilizzazione dell’impiego in Europa, simboleggiata in Italia dal Jobs Act di Renzi. Allarme Berlino: un gigante dai piedi d’argilla, avverte il sociologo Luciano Gallino, che segnala l’esistenza in Germania dei salari più bassi d’Europa, i mini-job da 450 euro al mese con cui vive un tedesco su quattro. Colpa di un’economia interamente votata all’insana frenesia dell’export, spiega Paolo Barnard. L’export deprime i consumi interni e prima o poi la situazione precipita: «Si vede dalla Luna il buco della Deutsche Bank, la banca più fallita del mondo: 70.000 miliardi di debiti».Se n’è accorto anche un analista internazionale come Michael Snyder: «In Germania sta forse per accadere qualcosa che scuoterà il mondo intero?». Le avvisaglie dell’estrema fragilità tedesca, a livello politico, si sono appena manifestate con lo spietato trattamento riservato alla Grecia per volere dell’oligarchia finanziaria: attraverso maschere come quella di Wolfgang Schaeuble, ad Atene è stato inflitto il massimo rigore, dopo aver depistato l’opinione pubblica tedesca raccontando la fiaba dei greci “cicale”, da punire per il presunto “eccesso di debito”. Una versione lontana anni luce dalla verità: il “problema” greco ammonta a 30 miliardi di euro, cifra irrisoria per i bilanci Ue. Eppure, sulla condanna del popolo ellenico si è completamente appiattito il corpo sociale tedesco, rivelatosi insensibile alle inaudite sofferenze inferte a vecchi e bambini a causa dei sanguinosi tagli al welfare: salari, pensioni, sanità, protezioni sociali. Uno scandalo mondiale, denunciato anche in sede Onu: in Grecia non ci sono più cure né farmaci, i minori sono denutriti, ad Atene dilaga l’Hiv per mancanza di siringhe. E sono ricomparse malattie che si credevano archiviate dalla storia dell’Occidente. Eppure, la Merkel ha dovuto fronteggiare l’ala destra del Parlamento, che pretendeva per i greci una fine ancora peggiore.Sottoposta alla pressione migratoria dei profughi alle frontiere e strattonata dagli Usa per le sanzioni alla Russia in seguito alla drammatica crisi in Ucraina, scatenata dall’intelligence statunitense con manovalanza locale neonazista, la Germania ora scricchiola. Si sveglierà bruscamente dal sogno della “locomotiva europea” tutta lavoro e rigore? «Secondo alcune informazioni riservate di cui sono venuto a conoscenza – scrive Michael Snyder in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – sarebbe davvero imminente un grande evento finanziario che riguarda la Germania». In altre parole, «uno di quei momenti del tempo che presenta tutte le condizioni perché si ripeta un’altra Lehman Brothers». Certo, «la gran parte degli osservatori tende a considerare la Germania come quel baluardo che tiene economicamente insieme tutta l’Europa, ma la verità è che sotto la sua superficie fermentano grosse difficoltà». L’indice azionario tedesco Dax è crollato quasi del 20% dal massimo storico raggiunto lo scorso aprile, e sono numerosi i segni di agitazione all’interno della maggiore banca tedesca. E, proprio come la Lehman, anche la Deutsche Bank fa parte di quelle banche “troppo grandi per fallire”, che non crollano mai da un giorno all’altro. «Ma la verità è che ci sono sempre dei segni premonitori».Nei primi mesi del 2014, le azioni di Deutsche Bank sono state scambiate a più di 50 dollari. Da quel momento, scrive Snyder, il valore è caduto di oltre il 40% e oggi si scambiano a meno di 29 dollari. Attenzione: «E’ ben nota la natura profondamente corrotta della cultura aziendale della Deutsche Bank, e negli ultimi anni la banca è stata estremamente imprudente». Prima del “crollo improvviso” di Lehman Brothers il 15 settembre 2008, sulla stampa c’erano state notizie di licenziamenti di massa nell’azienda: «Quando le grandi banche iniziano a trovarsi in guai seri, questo è quello che fanno: cominciano a sbarazzarsi del personale. Ecco perché sono così preoccupanti i massicci tagli di posti di lavoro che la Deutsche Bank ha appena annunciato». Nel mirino ci sono 23.000 dipendenti, cioè circa un quarto di tutto il personale, secondo il piano dell’amministratore delegato John Cryan. Inoltre, negli ultimi tre anni la banca ha dovuto sborsare qualcosa come 9 miliardi di dollari per contenziosi legali, ed è così diventata «una sorta di manifesto di cultura aziendale corrotta».Nel mirino, anche «scambi irregolari di titoli ipotecari scadenti – sapientemente confezionati – intervenuti tra varie banche prima della crisi finanziaria». Jp Morgan, Bank of America e Citigroup, scrive Snyder, riuscirono ad effettuare queste operazioni quando la vigilanza era allentata. Oggi però il ministro della giustizia del governo Obama, Loretta Lynch, sarebbe «ben determinata a occuparsi seriamente» delle malefatte dei massimi colossi bancari, come Barclays, Credit Suisse, Hsbc, Royal Bank of Scotland, Ubs e Wells Fargo, inclusa ovviamente anche Deutsche Bank. «Naturalmente – continua Snyder – i problemi legali sono solo la punta dell’iceberg di tutto quello che è successo alla Deutsche Bank nel corso degli ultimi due anni». Già nella primavera 2014, la banca è stata costretta ad incrementare di 1,5 miliardi il Tier (capitale azionario e riserve di bilancio). Perché? Un mese più tardi, maggio 2014, è continuata la corsa alla liquidità, con la banca che annunciava la vendita di 8 miliardi di euro di titoli con uno sconto del 30%. «E ancora una volta: perché? Questa mossa ha messo la pulce nell’orecchio ai mezzi di stampa finanziaria. L’immagine esteriore, calma, della Deutsche Bank non rispecchiava i suoi sforzi concitati nell’aumentare la sua liquidità. Dietro doveva esserci per forza qualcosa di marcio».A marzo di quest’anno, la banca ha fallito gli stress-test della Bce, ricevendo «una severa intimazione a controllare la struttura del suo capitale». Ad aprile, Deutsche Bank ha confermato il suo accordo congiunto con Usa e Regno Unito sulla manipolazione del Libor, il tasso interbancario di riferimento per i mercati finanziari (tasso variabile, calcolato giornalmente, per cedere a prestito depositi in sterline, dollari, franchi svizzeri ed euro da parte delle principali banche operanti sul mercato interbancario londinese). Sul colosso tedesco incombe poi un enorme pagamento, oltre 2 miliardi di dollari, da versare al Dipartimento di Giustizia degli Usa, «comunque una bazzecola rispetto ai suoi guadagni illeciti». Negli ultimi mesi la situazione è precipitata: a maggio, il Cda ha conferito poteri speciali ad uno degli amministratori, Anshu Jain. Il 5 giugno, quando la Grecia non è riuscita a pagare il Fmi, le ripercussioni sono arrivare anche alla Deutsche Bank. E il 6/7 giugno i due Ceo della banca tedesca hanno annunciato entrambi le loro dimissioni, appena un mese dopo dal conferimento dei nuovi poteri (Anshu Jain lascerà per primo, alla fine di giugno; Jürgen Fitschen nel maggio 2016).Non è finita: il 9 giugno “Standard & Poor’s” ha ridotto il rating della Deutsche a BBB+, cioè «solo tre posizioni al di sopra del livello “spazzatura”», addirittura sotto il livello di rating che aveva Lehman Brothers poco prima del suo crollo. «Quello che ha reso le cose ancora peggiori è stato l’incauto comportamento della Deutsche Bank», scrive Snyder. «A un certo punto, si è potuta stimare un’esposizione in derivati da parte della Banca di ben 75 trilioni di dollari. Da tener presente che il Pil tedesco di un anno intero è di solo 4 trilioni di dollari. Così, quando alla fine anche la Deutsche Bank crollerà, né in Europa e né in qualsiasi altro luogo del mondo ci saranno abbastanza soldi per poter ripulire il pasticcio». Snyder le chiama “armi di distruzione finanziaria di massa”. «Se la Deutsche Bank dovesse fallire completamente, sarebbe un disastro finanziario peggiore di quello di Lehman Brothers: sarebbe come abbattere letteralmente l’intero sistema finanziario europeo e provocare a livello globale un panico finanziario mai visto prima d’ora». A quel punto, chiosa l’analista, «sarà meglio avere quel denaro con sé piuttosto che tenerlo in banca». Snyder teme che la calma apparente sia destinata a finire presto: «Credo che il resto del 2015 sarà estremamente caotico e accadranno cose piuttosto gravi, cose che nessuno avrebbe potuto oggi immaginare. Nei giorni che vengono, invito tutti a seguire attentamente sia la Germania che il Giappone. Stanno per accadere cose grosse, e milioni di increduli ne resteranno spiazzati».Perché proprio adesso esplode lo scandalo della Volkswagen? La truffa sulle emissioni “pulite” delle auto è destinata a ferire l’orgoglio teutonico, affondando il mito dell’onestà del suo capitalismo. Perché la verità emerge solo ora? Se lo domandano in molti, specie quelli che ricordano anche i record meno presentabili della Germania: come la precarizzazione del lavoro varata già nel 2002 dal socialdemocratico Gerhard Schroeder e ispirata da Peter Hartz, il super-manager Volkswagen poi condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli ad accettare condizioni sfavorevoli per gli operai. Riforma-simbolo, da cui nasce la flessibilizzazione dell’impiego in Europa, simboleggiata in Italia dal Jobs Act di Renzi. Allarme Berlino: un gigante dai piedi d’argilla, avverte il sociologo Luciano Gallino, che segnala l’esistenza in Germania dei salari più bassi d’Europa, i mini-job da 450 euro al mese con cui vive un tedesco su quattro. Colpa di un’economia interamente votata all’insana frenesia dell’export, spiega Paolo Barnard. L’export deprime i consumi interni e prima o poi la situazione precipita: «Si vede dalla Luna il buco della Deutsche Bank, la banca più fallita del mondo: 70.000 miliardi di debiti».
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In Cina chi sbaglia paga, l’Ue invece premia i suoi mostri
Così come Macbeth, i politici tendono a commettere nuovi peccati per coprire i propri vecchi misfatti. E i sistemi politici dimostrano il loro valore a seconda della rapidità con cui pongono fine agli errori politici seriali, che si rafforzano a vicenda, dei loro funzionari. Giudicata secondo questo standard, l’Eurozona, comprendente 19 democrazie consolidate, non riesce a stare al passo con la più grande economia non democratica del mondo. Dopo l’inizio della recessione che seguì la crisi finanziaria globale del 2008, i responsabili politici della Cina hanno speso sette anni per sostenere la domanda calante delle esportazioni nette del proprio paese mediante una bolla di investimenti interni, gonfiata dall’aggressiva vendita di terreni dei governi locali. E, quando quest’estate si è arrivati alla resa dei conti, i leader cinesi hanno speso 200 milioni di dollari di riserve in valuta estera permettere al Vecchio re [in riferimento a Macbeth] di contenere il declino dei titoli di Borsa.Rispetto all’Unione Europea, comunque, gli sforzi fatti dal governo cinese per correggere i suoi errori – permettendo eventualmente ai tassi di interesse e ai valori borsistici di oscillare – sembra un esempio di rapidità ed efficienza. In effetti, il fallimentare “programma di risanamento del bilancio e di riforma” greco, e il modo in cui i leader dell’Unione Europea si sono avvinghiati ad esso, nonostante gli ultimi cinque anni dimostrino che il programma non può avere successo, è sintomatico del fallimento più ampio di una governance europea, con profonde radici storiche. All’inizio degli anni ‘90, la traumatica rottura del meccanismo europeo di cambio ha solo rafforzato la determinazione dei leader dell’Unione Europea di mantenerlo in piedi. Quanto più il regime si è rivelato insostenibile, più i funzionari gli si sono tenacemente aggrappati e più ottimiste si sono fatte le loro narrazioni. Il “programma” greco è solo un’altra incarnazione della rosea inerzia politica dell’Europa.Gli ultimi cinque anni di politica economica nell’Eurozona si sono rivelati in una notevole commedia degli errori. L’elenco degli errori nelle politiche è quasi infinito: l’aumento del tasso di interesse da parte della Banca centrale europea nel luglio del 2008 e di nuovo ad aprile del 2011; l’istituzione della più dura austerità per le economie cadute nella peggiore recessione; trattati perentori che chiedono svalutazioni competitive interne per peggiorare le condizioni degli Stati vicini; e un sistema bancario che manca di un adeguato modello di deposito di assicurazione. Come possono i politici europei farla franca? Dopo tutto, la loro impunità politica risulta in netto contrasto non solo con gli Stati Uniti, dove i funzionari devono almeno rispondere al Congresso, ma anche con la Cina, dove è comprensibile pensare che i ministri sono meno controllabili rispetto alle controparti europee. La risposta giace nella natura frammentata e volutamente informale dell’unione monetaria europea.I funzionari cinesi possono non essere tenuti a rispondere ad un Parlamento democraticamente eletto o ad un Congresso, ma i funzionari del governo hanno un corpo unitario – i sette membri del comitato permanente del Politburo – a cui devono tenere conto dei loro errori. L’Eurozona, invece, è governata dall’ufficialmente non ufficiale Eurogruppo, che comprende i ministri delle finanze degli Stati membri, insieme ai rappresentanti della Bce, e quando discutono “programmi economici nei quali è coinvolto”, anche il Fondo Monetario Internazionale. Solo recententemente, come risultato degli intensi negoziati del governo greco con i creditori, i cittadini europei hanno realizzato che l’economia più ampia del mondo, l’Eurozona, è guidata da una struttura priva di norme procedurale scritte, che tratta questioni cruciali in maniera “confidenziale” (e senza che vengano redatti verbali) e non è obbligata a rispondere a nessun organo eletto, neppure al Parlamento Europeo.Sarebbe un errore considerare la frattura tra il governo greco e l’Eurogruppo come uno scontro tra la sinistra greca e il tradizionale conservatorismo europeo. La nostra “Primavera di Atene” è stata qualcosa di più profondo: il diritto di un piccolo Stato europeo di sfidare una politica fallimentare che stava devastando le prospettive di una generazione (o due), non solo in Grecia, ma in tutta Europa. La Primavera di Atene è stata schiacciata per motivi che non avevano nulla a che fare con le politiche di sinistra del governo greco. L’Unione Europea ha ripetutamente rifiutato e denigrato politiche basate sul buon senso. Un esempio è dato dalle posizioni contrapposte sulla politica fiscale. Come ministro delle finanze greco, proposi una riduzione dell’aliquota di imposta sulle vendite, sulle imposte sul reddito e sulle società, con lo scopo di ampliare la base imponibile e dare una spinta alla danneggiata economia greca. Nessun ammiratore di Ronald Regan si sarebbe opposto al mio piano. L’Unione Europea, al contrario, chiese – ed impose – un incremento su tutte e tre le aliquote fiscali.Così, se la bagarre con i creditori europei non è stata una contrapposizione destra-sinistra, di cosa si trattava? L’economista americana Clarence Ayres una volta scrisse, come a descrivere i funzionari europei: «Si adoperano sulle politiche modo cerimoniale, come se quella fosse la realtà, ma lo fanno solo per convalidare uno status, non per raggiungere un’efficienza tecnologica». E così la fanno franca, perchè chi prende le decisioni nell’eurozona non è obbligato a rispondere ad alcun organo sovrano. Spetta a quelli che tra noi desiderano migliorare l’efficienza dell’Europa, e diminuire le sue evidenti ingiustizie, di lavorare per ri-politicizzare l’eurozona come un primo passo verso la democratizzazione. Dopo tutto, l’Europa non merita un governo responsabile delle proprie azioni più di quanto lo sia quello della Cina comunista?(Yanis Varoufakis, “L’Eurogruppo è l’antitesi della democrazia”, da “Project-Sindycate” il 2 settembre 2015, ripreso dal blog di Stefano Santarelli).Così come Macbeth, i politici tendono a commettere nuovi peccati per coprire i propri vecchi misfatti. E i sistemi politici dimostrano il loro valore a seconda della rapidità con cui pongono fine agli errori politici seriali, che si rafforzano a vicenda, dei loro funzionari. Giudicata secondo questo standard, l’Eurozona, comprendente 19 democrazie consolidate, non riesce a stare al passo con la più grande economia non democratica del mondo. Dopo l’inizio della recessione che seguì la crisi finanziaria globale del 2008, i responsabili politici della Cina hanno speso sette anni per sostenere la domanda calante delle esportazioni nette del proprio paese mediante una bolla di investimenti interni, gonfiata dall’aggressiva vendita di terreni dei governi locali. E, quando quest’estate si è arrivati alla resa dei conti, i leader cinesi hanno speso 200 milioni di dollari di riserve in valuta estera permettere al Vecchio re [in riferimento a Macbeth] di contenere il declino dei titoli di Borsa.
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Foa: il tedesco chiagne e fotte (e intanto si pappa la Grecia)
La notizia della vendita di 14 aeroporti greci a una società tedesca, la Fraport, sta suscitando indignazione; eppure non dovrebbe stupire. Noi siamo abituati a mitizzare i tedeschi, a farci intimidire dal loro rigore morale e – da quando il senso di colpa per l’Olocausto è evaporato – anche dal loro senso di superiorità. In realtà sbagliamo e dovremmo cominciare a giudicare le élites tedesche – perché il popolo, come sempre, c’entra poco – per quello che sono. E soprattutto per i loro difetti. Il primo è la superbia: quando il tedesco di successo (e di potere) troppo spesso diventa sprezzante e non sa darsi il senso della misura. L’empatia, il senso delle proporzioni e dell’equilibrio, quel buon senso che induce gli uomini di successo più avveduti a non esagerare, riflettendo i principi di Sun Tzu, scompare. Il tedesco non si accontenta di vincere, deve stravincere e possibilmente schiacciare l’avversario; non concepisce alcuna attenuante né comprensione umana ma soltanto il raggiungimento dei propri obiettivi, in sintonia con la propria concezione morale, che naturalmente coincide con i propri interessi e non contempla né gli interessi né le spiegazioni degli altri, per quanto possano essere fondati.La relatività morale delle élite tedesche è una costante storica, e tra l’altro spiega molti crimini dei tedeschi ai tempi dei nazisti. Ma non solo. Se analizziamo la storia recente ci accorgiamo che questo atteggiamento è ricorrente. Nel suo splendido saggio “Anschluss – L’annessione”, Vladimiro Giacché dimostra come l’unificazione tedesca non abbia condotto al salvataggio della ex Ddr da parte della Repubblica federale tedesca, bensì a una spoliazione del tessuto industriale ed economico della Germania dell’est da parte delle aziende dell’Ovest in sintonia con il sistema bancario e la classe politica, secondo modalità che definire immorali è persino riduttivo. Allora andò in scena un grande furto collettivo, roba da Casta all’ennesima potenza (altro che Italia!), che di fatto trasformò in un insuccesso economico e sociale quello che avrebbe dovuto essere un processo di integrazione economica. La grande ruberia, naturalmente, non fu denunciata dalla stampa e non fu oggetto di commissioni di inchiesta.Il costo sociale fu scaricato sui länder dell’est, che da allora non si sono più ripresi, e quello economico sui conti dello Stato e, indirettamente su tutta l’Europa, che a causa di quella pessima gestione sprofondò, all’inizio degli anni Novanta, in una lunga recessione. Le élites tedesche non hanno mai pagato alla Grecia i debiti di guerra, sostenendo per oltre 50 anni che “non era il momento”. I tedeschi che con tanta irruenza hanno giudicato la Grecia di oggi, dipingendola come corrotta, inaffidabile, indolente, sono gli stessi che le hanno venduto armamenti per miliardi e che coprono, per legge, la corruzione delle proprie aziende all’estero, inclusa Atene (vedi lo scandalo Siemens); sono coloro che un paio di anni fa hanno permesso alle proprie banche di liberarsi del debito pubblico greco, scaricandolo sui contribuenti europei, con un’operazione che ancora una volta fu presentata come un salvataggio naturalmente del popolo greco.I tedeschi non hanno mai messo la Grecia nelle condizioni di risollevarsi veramente ma, d’accordo con la Troika, l’hanno caricata di tasse, balzelli, “riforme” che hanno avuto come unico effetto quello di far crollare del 25% il Pil greco. Le hanno cavato un paio di litri di sangue e poi le hanno detto: non sei abbastanza in forma, devi correre più veloce. Non ti dai abbastanza da fare, devi dare altro sangue. Naturalmente avanzando pretese morali e continuando a incolpare il popolo greco nel suo insieme. A Napoli direbbero che la Germania “chiagne e fotte”. Il fottuto oggi è la Grecia. Oggi. E domani?(Marcello Foa, “Il tedesco chiagne e fotte, e intanto si compra la Grecia”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 19 agosto 2015).La notizia della vendita di 14 aeroporti greci a una società tedesca, la Fraport, sta suscitando indignazione; eppure non dovrebbe stupire. Noi siamo abituati a mitizzare i tedeschi, a farci intimidire dal loro rigore morale e – da quando il senso di colpa per l’Olocausto è evaporato – anche dal loro senso di superiorità. In realtà sbagliamo e dovremmo cominciare a giudicare le élites tedesche – perché il popolo, come sempre, c’entra poco – per quello che sono. E soprattutto per i loro difetti. Il primo è la superbia: quando il tedesco di successo (e di potere) troppo spesso diventa sprezzante e non sa darsi il senso della misura. L’empatia, il senso delle proporzioni e dell’equilibrio, quel buon senso che induce gli uomini di successo più avveduti a non esagerare, riflettendo i principi di Sun Tzu, scompare. Il tedesco non si accontenta di vincere, deve stravincere e possibilmente schiacciare l’avversario; non concepisce alcuna attenuante né comprensione umana ma soltanto il raggiungimento dei propri obiettivi, in sintonia con la propria concezione morale, che naturalmente coincide con i propri interessi e non contempla né gli interessi né le spiegazioni degli altri, per quanto possano essere fondati.
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Un Cln per la libertà della Grecia, tradita dall’infame Tsipras
Alexis Tsipras è un farabutto ipocrita. Dopo avere vinto le elezioni di gennaio al grido “mai più Troika”, questa specie di Matteo Renzi ellenico si è completamente consegnato nelle mani dei tecno-nazisti Draghi, Merkel e Schaeuble, adducendo scuse false e risibili degne dei suoi nuovi compari Samaras e Venizelos. L’ex leader di Syriza, oramai ridottosi a patetica macchietta, ha tradito la sua gente, sterilizzando di fatto la straordinaria prova di forza e democrazia offerta al mondo dai greci il 5 luglio scorso. Come molti di voi ricorderanno, infatti, in Grecia è stato recentemente indetto, proprio da Tsipras, un paradossale referendum contenente un semplice quanto decisivo quesito: “Siete voi disposti a proseguire sul sentiero dell’austerita’?” Oxi o Nai? Il popolo ha detto “Oxi” e Tsipras ha fatto come se avesse detto “Nai”. Bella coerenza! Con quale faccia questo damerino infingardo possa ora ripresentarsi di fronte al corpo elettorale resta un mistero difficile da comprendere. Cosa dirà ai suoi concittadini Tsipras? Probabilmente le stesse menzogne che, prima di lui, recitavano su dettatura i suoi predecessori, bravissimi nel tentare di carpire consenso veicolando paure buone per intontire e raggirare i deboli e gli ingenui.
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Il piano segreto di Stanlio & Ollio per (non) salvare i greci
«Se penso che questo è il governo della sinistra radicale, che dovrebbe dare lezioni di democrazia, di un nuovo rapporto fra masse e potere, non so se ridere o piangere». Così il politologo Aldo Giannuli liquida il fantomatico “Piano-B” di cui ora chiacchiera l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: Tsipras ne era al corrente, anzi l’ha espressamente autorizzato, poi ha revocato l’ok fino alle dimissioni del ministro. Ma in ogni caso la Grecia non si è mai attrezzata per uscire dall’euro. E i greci, pur chiamati al referendum contro l’ultima stretta mortale di austerity pretesa dalla Germania, non sono mai stati informati dell’ipotetico “Piano-B”, al punto da lasciar configurare, oggi, l’accusa di alto tradimento a carico di Varoufakis – risvolto peraltro grottesco, in una situazione di catastrofe sociale come quella ellenica: «Deferire per questo Varoufakis all’Alta corte? Ma se non sono stati processati nemmeno quelli che hanno falsificato i bilanci dello Stato per un decennio! Siamo seri».In una conversazione privata durante una conferenza presso l’Omfif (Official Monetary and Financial Institutions Forum), Varoufakis ha detto che quel piano segreto sarebbe servito nel caso i negoziati fossero falliti, per realizzare una nuova moneta greca. L’ex ministro ha spiegato di essere stato autorizzato da Tsipras sin da prima delle elezioni e di aver «lavorato sotto traccia» con un piccolo team guidato dall’economista statunitense James Galbraith, figlio del celebre John Kenneth Galbraith. Il piano supervisionato da Jamie Galbraith prevedeva di dare un codice bancario e fiscale ad ogni contribuente e società per gestire il passaggio alla nuova valuta; poi, in caso di chiusura delle banche, sarebbe scattato un meccanismo di pagamento-ombra, basato sul sito dell’agenzia delle entrate greco che avrebbe permesso, attraverso un pin fornito a chi doveva del denaro, tanto lo Stato che i privati, di trasferire le somme in “formato digitale”, nominalmente in euro. Poi il sistema sarebbe stato esteso agli smartphone con un’app e al momento opportuno sarebbe stato convertito nella nuova dracma, accennando poi anche alla possibilità di arrestare il governatore della banca centrale greca se si fosse opposto.Era una conversazione privata, puntualizza Giannuli nel suo blog, ma poi lo stesso Varoufakis avrebbe autorizzato la messa in rete della registrazione. Sempre l’ex ministro ha poi aggiunto che la difficoltà di tradurre in realtà il piano sarebbe scattata nel momento della realizzazione, che richiedeva una seconda autorizzazione da parte di Alexis Tsipras e che invece non è mai arrivata. Galbraith, poi, ha confermato di aver preso parte al gruppo di lavoro segreto da febbraio ai primi di luglio. Nemmeno 24 ore dopo la messa in rete della conversazione, è scattata la richiesta di deferimento di Varoufakis all’Alta Corte di giustizia per alto tradimento. «La questione, intrecciando aspetti economici, politici, finanziari, costituzionali, penali, è complessa», premette Giannmuli. «Per di più, ha molti punti oscuri e suscita non poche perplessità». Che possibilità di successo avrebbe potuto avere il “Piano-B” di Varoufakis e Galbraith? «A quanto pare, per poterlo attuare si sarebbe dovuti passare attraverso una manovra di hackeraggio per accedere alle posizioni dei singoli cittadini. Il punto non è chiaro, ma fa alzare più di un sopracciglio per l’evidente illegalità della cosa».E poi: come se la sarebbero cavata i possessori di smartphone, magari pensionati? Sarebbero incorsi in manipolazioni, magari gestite dalla malavita? Ma il punto più delicato è un altro: «I greci avrebbero accettato questa moneta?». Senza una accurata preparazione verso il ritorno alla dracma, sarebbe alto il rischio di panico, con impennata dei prezzi, fino al posssibile rifiuto – da parte dei fornitori esteri – di accettare la dracma (in rapida svalutazione) come moneta per i pagamenti; una crisi destinata ad aggravarsi con l’esaurimento delle riserve di merci disponibili. Insomma, ragiona Giannuli, lo Stato sarebbe stato costretto a convertire la sua moneta virtuale in vere dracme. Quindi, il tentativo di Varoufakis «si sarebbe rivelato solo una breve perdita di tempo». Poi ci sono i problemi di ordine politico-istituzionale, e il primo interrogativo è: «Si può cambiare il sistema monetario di un paese con un colpo di mano e senza autorizzazione preventiva del Parlamento?». Qui, continua Giannuli, «c’è anche la slealtà di fondo di Syriza verso l’elettorato, cui era stato promesso il mantenimento dell’euro e la fine dell’austerità. Si può anche pensare che quella fosse la speranza (ahimè quanto infondata) di Tsipras, e che l’altro fosse il piano di riserva; ma è lecito nascondere all’elettorato, non dico il piano nei suoi particolari, ma quantomeno la possibilità di un ritorno alla moneta nazionale?».Alcuni “furbi” diranno che così Syriza avrebbe perso le elezioni? «Può darsi, ma mentire coscientemente all’elettorato è un gesto moralmente più basso che prendere tangenti». C’è chi è sensibile a questi argomenti, e chi invece ritiene questi scrupoli superati: «Tutto dipende da quale sia la concezione che si ha della democrazia: non capisco perché poi la stessissima cosa venga rimproverata a Renzi o Berlusconi». Inoltre, «nascondere il “Piano-B” e dichiarare la volontà di restare nell’euro a tutti i costi, non ammettendo neanche per un momento l’ipotesi di poterne uscire, ha indebolito la Grecia al tavolo negoziale». E inoltre, fino a che punto il team di Varoufakis e Galbraith ha davvero lavorato “sotto traccia”? «Non è certissimo che un qualche servizio segreto (europeo o americano conta poco) abbia avuto sentore di quelle manovre e sia riuscito a scoprirle, ma è realistico prendere in considerazione che ciò possa essere accaduto. Per cui, magari, il risultato è stato quello (peraltro per nulla insolito) un arcana imperii efficace solo verso i cittadini ma non verso i nemici». In ogni caso, l’impressione è pessima: «Una modesta furbata, in sostanza molto ingenua».Al contrario, sostiene Giannuli, «ad un paese come la Grecia sarebbe convenuto di gran lunga giocare a carte scoperte, da un lato chiamando la solidarietà dei popoli europei e degli Stati in condizioni analoghe, e dall’altro giocando sui prezzi che la zona euro avrebbe dovuto pagare per una sua uscita». Obiettivo, «cercare di arrivare ad un’uscita concordata, con minor danno di tutti, Grecia ed Eurozona». Ma per una scelta così lineare, probabilmente, occorrevano ben altri leader: a quanto pare, Tispras era al corrente della cosa da almeno 5 mesi e la approvava. La decisione di andare al referendum «si spiega perfettamente in questa logica, anche se, nella breve campagna referendaria, sia lui che il suo ministro hanno continuato a giurare che non esisteva alternativa all’euro». Poi, nonostante la clamorosa vittoria referenderaria, in due giorni è cambiato tutto: «Mentre a Bruxelles, Francoforte e Berlino si iniziava a fare il conto dei danni del terremoto, Atene si è ripresentata al tavolo delle trattative, ma con una faccia nuova, perché Varoufakis era stato dimissionato. Perché?».Cos’è successo in quelle 48 ore da indurre Tsipras a questa clamorosa svolta a 180 gradi? Perché questa improvvisa, teorica rottura fra i due? E, di conseguenza, perché oggi Varoufakis sente il bisogno di dire candidamente di questo piano che lo mette nei guai? Con un certo ritardo, Tispras ha confermato di aver dato ordine di apprestarlo, ma di non aver mai pensato all’uscita dall’euro. Per cui: o il piano era destinato a scattare se la Grecia fosse stata esclusa dall’euro contro la sua volontà, o serviva solo come deterrente nei confronti degli interlocutori. «Ma un piano segreto, se è davvero tale, non serve come deterrente». Quindi resta solo la prima ipotesi (il ripiego d’emergenza, dopo l’esclusione dal circuito Bce). Ipotesi «evidentemente non condivisa da Varoufakis, che invece sarebbe voluto passare all’attuazione del piano subito dopo il referendum e prima dell’espulsione di Atene dall’Eurozona». Di qui la rottura fra i due e le dimissioni. «Questo però fa capire quanto superficiale fosse l’intesa fra i due: a questo punto, più che una coppia di statisti, sembrano Stanlio ed Ollio».Niente, nella Grecia di Syriza, è davvero convincente: «Riesce davvero poco credibile un deferimento all’Alta corte del ministro senza che lo segua a ruota il presidente del Consiglio: se il reato non c’è perché non si è passati dal progetto all’atto, allora anche Varoufakis non è imputabile; ma se il reato sussiste anche solo per aver ipotizzato il “Piano-B”, allora sul banco degli imputati Varoufakis non può restare solo». Acque torbide: «L’impressione è che a nessuno convenga rimestare troppo in questa storia perché di scheletri nell’armadio ce n’è più d’uno. E non solo ad Atene: credete che Berlino non abbia preparato un suo “Piano-B” in caso di collasso dell’euro o anche solo in caso di uscita di altri? E Parigi, Madrid, l’Aia? Roma no, sono convinto che l’Italia sia l’unica a non averlo fatto». Ad Atene, poi, dilettanti allo sbaraglio: Tispras era giù incline a non uscire dall’euro, «ma è credibile che sin dall’inizio pensasse di fare un referendum-sceneggiata per poi calarsi le braghi in quel modo in 48 ore?».Il fatto che il martedì successivo il neo-ministro delle finanze si sia presentato a Bruxelles senza nessuna proposta «fa capire che non c’era nulla di pronto e che, quindi, la cosa è precipitata in poche ore, prendendo una strada diversa da quella pensata quando il referendum è stato convocato: perché?». La verità, conclude Giannuli, è che se si inizia a scavare su questa storia nessuno, né la Grecia né gli altri, ha da guadagnarci. E pertanto, «sono convinto che la cosa verrà sbrigativamente messa a tacere al massimo con un dibattito parlamentare molto formale». La cosa più triste è proprio l’eclissi di Syriza: fine ingloriosa per l’unico governo di sinistra insediato in Europa. Per giunta, guidato da un leader come Tsipras, presentato in Italia in veste di nuovo alfiere dei diritti, capace di guidare una riscossa anti-austerity pur restando nella moneta unica – un ossimoro palese: nell’euro non esiste benessere possibile, la moneta della Bce è un “mostro” finanziario unico al mondo, destinato esclusivamente a produrre crisi per creare enormi vantaggi speculativi all’élite finanziaria a scapito degli Stati e delle comunità nazionali, famiglie e aziende.«Se penso che questo è il governo della sinistra radicale, che dovrebbe dare lezioni di democrazia, di un nuovo rapporto fra masse e potere, non so se ridere o piangere». Così il politologo Aldo Giannuli liquida il fantomatico “Piano-B” di cui ora chiacchiera l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: Tsipras ne era al corrente, anzi l’ha espressamente autorizzato, poi ha revocato l’ok fino alle dimissioni del ministro. Ma in ogni caso la Grecia non si è mai attrezzata per uscire dall’euro. E i greci, pur chiamati al referendum contro l’ultima stretta mortale di austerity pretesa dalla Germania, non sono mai stati informati dell’ipotetico “Piano-B”, al punto da lasciar configurare, oggi, l’accusa di alto tradimento a carico di Varoufakis – risvolto peraltro grottesco, in una situazione di catastrofe sociale come quella ellenica: «Deferire per questo Varoufakis all’Alta corte? Ma se non sono stati processati nemmeno quelli che hanno falsificato i bilanci dello Stato per un decennio! Siamo seri».