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Archivio del Tag ‘attentati’

  • Vattimo: i grillini han ragione, per questo fanno paura

    Scritto il 04/2/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Lasciatelo dire a me, che non meno di un mese fa, all’annuncio che, in nome del mio comunismo ermeneutico, avrei voluto candidarmi alle elezioni europee con i Cinque Stelle, sono stato oggetto di una durissima campagna telematica da parte di militanti del Movimento che non mi hanno risparmiato nessuna delle ingiurie che ora scandalizzano tanto la stampa di regime. Le ingiurie e gli insulti, sessisti e no (ma non mi hanno nemmeno rinfacciato di essere gay, peraltro), non mi fanno piacere, e credo che in generale siano controproducenti, come insegna il caso Berlusconi, che dalle sue malefatte sessual-politico-barzellettesche ha sempre tratto enormi vantaggi in termini di popolarità anche elettorale.
    Ma il diluvio di accuse, insulti, deprecazioni, allarmi in difesa della democrazia, che tutti i media dell’arco “costituzionale” rovesciano ogni mattina su Grillo il suo movimento non dovrebbero più lasciare indifferenti i benpensanti. I quali non possono non vedervi la prova che i grillini hanno ragione da vendere, e per questo il mondo dell’informazione mainstream ne ha tanta paura. Come si fa a qualificare a gran voce come “sgangherata” la costituzionalissima richiesta di messa in stato d’accusa del Capo dello Stato, che a partire dalla nomina di Monti a senatore a vita e poi a primo ministro non avrà attentato alla Costituzione, ma l’ha almeno applicata con molta elasticità e arbitrarietà, sempre nello spirito di un atlantismo addirittura servile (pensiamo alla grazia per il colonnello Romano).
    Fino all’ultimo decreto che, dopo tanti altri, ha lasciato passare senza battere un colpo, alla faccia della manifesta disomogeneità tra l’Imu e il regalo alle banche, non mitigato nemmeno da un richiamo al dovere di  sostenere l’economia con una politica creditizia meno rapinatoria. Quanto all’ostruzionismo, che qualche zelante democratico ha addirittura pensato di perseguire penalmente, sarebbe il caso di capire che mentre si chiude sempre più un blocco renziano-berlusconiano teso a perpetuare il regime delle larghe intese che strangolano la nostra economia, è fin troppo poco ciò che si è visto in Parlamento. La legge elettorale che si progetta è l’anticamera del regime, una sorta di legge truffa costituzionalizzata, come il Fiscal Compact che minaccia di ridurci alla miseria e forse alla guerriglia urbana. Salviamoci almeno dall’ipocrisia dei tanti democratici di complemento che si stracciano le vesti in nome della dignità di un Parlamento che sembra sempre più avviato a una indecorosa eutanasia.
    (Gianni Vattimo, “M5S, i grillini hanno ragione da vendere. Per questo fanno paura”, da “Il Fatto Quotidiano” del 4 febbraio 2014).

    Lasciatelo dire a me, che non meno di un mese fa, all’annuncio che, in nome del mio comunismo ermeneutico, avrei voluto candidarmi alle elezioni europee con i Cinque Stelle, sono stato oggetto di una durissima campagna telematica da parte di militanti del Movimento che non mi hanno risparmiato nessuna delle ingiurie che ora scandalizzano tanto la stampa di regime. Le ingiurie e gli insulti, sessisti e no (ma non mi hanno nemmeno rinfacciato di essere gay, peraltro), non mi fanno piacere, e credo che in generale siano controproducenti, come insegna il caso Berlusconi, che dalle sue malefatte sessual-politico-barzellettesche ha sempre tratto enormi vantaggi in termini di popolarità anche elettorale.

  • Obama finanzia i terroristi, a insaputa degli americani

    Scritto il 03/2/14 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.
    Lo ricorda il francese Thierry Meyssan, giornalista indipendente, in un’analisi pubblicata da diverse testate e ripresa da “Megachip”. Il paradosso della guerra in Siria? «Le immagini sono esattamente il contrario della realtà». Secondo i media mainstream, il conflitto oppone da un lato gli Stati raccoltisi intorno a Washington e Riyadh, intenti a difendere la democrazia e condurre la lotta mondiale contro il terrorismo, e dall’altra la Siria e i suoi alleati russi, «diffamati come dittature che manipolano il terrorismo». Se tutti sono ben consapevoli del fatto che l’Arabia Saudita non è una democrazia, bensì una monarchia assoluta, «laddove la tirannia di una famiglia e di una setta controlla un intero popolo», gli Stati Uniti godono invece dell’immagine di un democrazia, paladina della “libertà”. Eppure, una notizia-bomba come quella del finanziamento ufficiale della guerriglia jihadista è stata censurata, dal momento che il Congresso «si è riunito segretamente per votare il finanziamento e l’armamento dei “ribelli” in Siria». Può sembrare incredibile, ma «il Congresso tiene incontri segreti che la stampa non può menzionare».
    Ecco perché la notizia,originariamente pubblicata dall’agenzia di stampa britannica Reuters, è stata «scrupolosamente ignorata dalla stampa e dai media negli Stati Uniti e dalla maggior parte dei media in Europa occidentale e nel Golfo: solo gli abitanti del “resto del mondo” avevano il diritto di conoscere la verità». Poiché nessuno ha letto la legge appena approvata, aggiunge Meyssan, non si sa che cosa stabilisca esattamente. «Tuttavia, è chiaro che i “ribelli” in questione non mirano a rovesciare il governo siriano – ci hanno rinunciato – ma piuttosto a “insanguinarlo”. Ecco perché non si comportano come soldati, ma come terroristi». Sicché l’America, presunta vittima di Al-Qaeda l’11 Settembre e poi leader mondiale della “guerra al terrorismo”, di fatto finanzia «il principale focolaio terroristico internazionale», in cui agiscono due organizzazioni ufficialmente subordinate ad Al-Qaeda. «Non si tratta più di una manovra oscura dei servizi segreti, ma piuttosto di una legge, pienamente assunta, ancorché approvata a porte chiuse per non contraddire la propaganda».
    D’altra parte, continua Meyssan, ci si chiede in che modo la stampa occidentale – che da 13 anni imputa ad Al-Qaeda di essere l’autrice degli attentati dell’11 Settembre – potrebbe mai spiegare all’opinione pubblica la sua decisione. Infatti, la speciale procedura seguita in questo caso (Cog, “continuità di governo”) è protetta anch’essa dalla censura. «È anche per questo che gli occidentali non hanno mai saputo che, nel corso di quell’11 settembre, il potere era stato trasferito dai civili ai militari, dalle 10 del mattino fino a sera, e durante tutto quel giorno gli Stati Uniti erano governati da un’autorità segreta, in violazione delle loro leggi e della loro Costituzione». Lo stesso discorso annuale di Barack Obama sullo stato dell’Unione «si è trasformato in un eccezionale esercizio di menzogne». Davanti ai 538 membri del Congresso che sin dall’inizio lo applaudivano, il presidente ha dichiarato: «Una cosa non cambierà: la nostra determinazione a non permettere ai terroristi di lanciare altri attacchi contro il nostro paese». E ancora: «In Siria, sosterremo l’opposizione che respinge il programma delle reti terroristiche».
    Eppure, quando la delegazione siriana ai negoziati di “Ginevra 2” ha sottoposto – a quella che s’intendeva rappresentare come la sua “opposizione” – una mozione, esclusivamente basata sulle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, a condanna del terrorismo, questa è stata respinta senza causare alcuna protesta da parte di Washington. E per una buona ragione: il terrorismo sono gli Stati Uniti, e la delegazione “dell’opposizione” riceve i suoi ordini direttamente dall’ambasciatore Robert S. Ford, presente in loco». Ford è stato assistente di John Negroponte in Iraq. Nei primi anni ‘80, ricorda Meyssan, Negroponte aveva contrastato la rivoluzione nicaraguense arruolando migliaia di mercenari e alcuni collaboratori locali, costituendo i cosiddetti “Contras”. La Corte internazionale di giustizia, cioè il tribunale interno delle Nazioni Unite, ha condannato Washington per questa ingerenza che non osava pronunciare il proprio nome. Poi, negli anni Duemila, Negroponte e Ford riproposero lo stesso scenario in Iraq. Questa volta però l’intento era di annientare la resistenza nazionalista facendola combattere da Al-Qaeda.
    Oggi, mentre i siriani e la delegazione dell’“opposizione” discutevano a Ginevra, a Washington il presidente Obama, applaudito meccanicamente dal Congresso, ha continuato il suo esercizio di ipocrisia: «Noi lottiamo contro il terrorismo non grazie all’intelligence e alle operazioni militari, ma anche rimanendo fedeli agli ideali della nostra Costituzione e restando un esempio per il mondo intero. E continueremo a lavorare con la comunità internazionale per dare al popolo siriano il futuro che merita: un futuro senza dittatura, senza terrore e senza paura». La guerra orchestrata dalla Nato in Siria ha già causato più di 130.000 morti, secondo i dati del Mi6, l’intelligence inglese. La beffa: «I carnefici attribuiscono la responsabilità al popolo che osa contrastarli e al suo presidente, Bashar el-Assad». Durante la guerra fredda, conclude Meyssan, la Cia «finanziava lo scrittore George Orwell affinché immaginasse la dittatura del futuro: Washington ha creduto così di svegliare le coscienze di fronte alla minaccia sovietica». In realtà, l’Urss «non ha mai assomigliato all’incubo di “1984”, intanto che gli Stati Uniti ne sono diventati l’incarnazione».

    Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.

  • Bertani: attaccando Napolitano, Grillo vincerà le elezioni

    Scritto il 02/2/14 • nella Categoria: idee • (3)

    «Le banche vogliono ancora soldi: tutti hanno capito che col Fiscal Compact l’hanno fatta fuori del vaso, perciò in questo ultimo anno cercheranno di succhiare tutto il sangue che riusciranno, poi abbandoneranno la carogna. Sta a quelli come noi, che hanno compreso la truffa – iniziata con Licio Gelli ed il suo “Piano di Rinascita Democratica” di 30 anni or sono – continuare a strombazzare qual poco di verità della quale siamo certi, perché l’abbiamo vissuta. I ragazzi del M5S – almeno – sappiamo che continueranno». Così la pensa Carlo Bertani, all’indomani del decreto-vergogna Imu-Bankitalia e della richiesta di impeachment per Napolitano: per la messa in stato d’accusa i presupposti giuridici sono fragili, ma quelli politici no. Se oggi non accadrà nulla, i risultati potrebbero arrivare domani: Grillo è l’unico ad aver centrato nel mirino il bersaglio grosso, l’uomo del Colle, massimo garante di un establishment fallimentare, che Pd e Berlusconi saranno costretti a difendere, andando incontro a una disfatta elettorale.
    «Lo share di Napolitano è uno fra i più bassi del mondo occidentale», scrive Bertani nel suo blog, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Soltanto la metà dei cittadini lo approva (parecchi sondaggi recano queste cifre)». E questo, per un capo di Stato che ha basato il suo agire sul motto “state tranquilli, qui ci sto io a controllare”, secondo Bertani «è una débacle», tant’è vero che ormai «metà dei cittadini ha capito il trucco». “Sparando” contro Napolitano, Grillo prepara dunque una campagna elettorale nella quale una sola forza politica, il “Movimento 5 Stelle”, si candida a vincere a mani basse, grazie ai voti di chi è «schifato, annichilito, provato dal disgusto» di fronte allo spettacolo che avanza. «Difatti, Napolitano – che è un gran furbacchione – ha dichiarato di non essere preoccupato per la messa in stato d’accusa in merito alla Costituzione, bensì d’esserlo molto per cosa sta succedendo in Parlamento. Là sì che si stanno giocando i futuri equilibri europei! Devono riuscire a tagliar la pelle all’asino senza farlo ragliare! E bene fanno quelli del M5S ad urlare più forte: non si facciano intimorire dalle tigri di camomilla come Letta!».
    La verità è che il Parlamento «ha raggiunto forse il limite inferiore della sua storia», anche se «in futuro potrà scendere ancora». E tutte le istituzioni, compresa la presidenza della Repubblica, «sono oramai gli zombie di ciò che erano non più di un anno fa». Gli unici ad essere felici «sono gli uomini di Bankitalia, che ringraziano per il generoso regalo di 4 miliardi di euro fatto ai loro azionisti: credevamo che l’Imu servisse per rimettere in sesto il bilancio italiano. No, adesso abbiamo la conferma ufficiale che serviva a rimpinguare i conti degli azionisti privati di Bankitalia». Tutto questo, però, non basta a motivare la messa in stato d’accusa di Napolitano. Primo rilievo: espropriazione della funzione legislativa del Parlamento e abuso della decretazione d’urgenza. «Su questo punto – osserva Bertani – andrebbero processati tutti i presidenti, almeno da Pertini in avanti: le leggi contro il terrorismo sono state la “prova generale” della decretazione d’urgenza. Poi, il diluvio: oggi, si decreta “d’urgenza” anche un finanziamento di 1.000 euro a qualche parente, oppure un ministro entra a gamba tesa nella decisione su quale parente abbia diritto di gestire il bar di un ospedale».
    Seconda accusa: riforma della Costituzione e del sistema elettorale. Qui invece i grillini hanno ragione, sostiene Bertani: «L’eventuale riforma della Costituzione è argomento staccato dalla legge elettorale, e bene ha fatto il M5S a lottare perché (finora) non avvenisse. C’è il rischio che riescano a raggiungere i 2/3 dei voti, e quindi che riescano ad evitare il referendum confermativo». Napolitano? «E’ chiaro che non considera il M5S un soggetto politico “attivo”: al più, dei divertenti clown». Detto questo, purtroppo, «le leggi elettorali – salvo il proporzionale puro e senza sbarramenti (una testa, un voto) – sono tutte delle truffe: dipende da chi vuoi farti truffare». Più difficile, invece, sostenere la terza accusa, quella del mancato esercizio del potere di rinvio presidenziale: «Se ad esempio Ciampi non rinviò il “Porcellum” alle Camere a fine legislatura (che, quindi, sarebbe caduto immediatamente, ben prima d’essere dichiarato incostituzionale sette anni dopo) in molti casi sarebbe stato opportuno farlo. Già, ma è un potere presidenziale: che succede se non lo si applica?».
    Idem per il quarto “capo d’accusa”, cioè l’anomala rielezione al Quirinale: sarà una prassi poco opportuna, ma la Costituzione non la vieta. Quanto alla quinta “imputazione”, quella di improprio esercizio del potere di grazia, c’è poco da aggiungere: «Detto fuori dai denti, Sallusti era l’ultima persona da graziare, con tanta gente malata e condannata a pene lievi che ingombrano le nostre carceri», ma tant’è: il potere di grazia resta prerogativa esclusiva del capo dello Stato, e può esercitarlo senza condizioni. Infine, sulla sesta e ultima contestazione – il rapporto con la magistratura nel processo Stato-mafia – è «molto difficile estrapolare la verità». Ipotesi: «Nulla di più probabile che gli apparati dello Stato si siano “attivati” molto “generosamente” in favore del presidente». Ma, anche qui, come motivare l’accusa di “attentato alla Costituzione”? In altre parole, «Grillo sa benissimo che le possibilità di successo dell’iniziativa sono pari a zero»: troppi giuristi e costituzionalisti «al servizio di Re Giorgio», e troppo pochi parlamentari a favore della decadenza. Eppure, secondo Bertani, la mossa (tutta politica) dell’impeachment alla fine avrà successo: «Ovviamente Napolitano non decadrà dall’incarico, ma sarà travolto dalle susseguenti elezioni».
    Bertani mette a fuoco la nuova legge elettorale confezionata da Renzi e Berlusconi: nessuno dei due schieramenti – centrodestra e centrosinistra – sembra in grado, davvero, di raggiungere il famoso premio di maggioranza, che assomiglia sempre di più «al prosciutto in cima all’Albero della Cuccagna». Il 37% è una soglia alta – Berlusconi si sarebbe accontentato del 35 – perché entrambi i partiti ritengono che saranno loro gli attori al ballottaggio. «Nulla di più falso», sostiene Bertani. In campo ci sono «tre partiti grossomodo equivalenti (ricordiamo le “sorprese” delle scorse elezioni)», ma con una differenza sostanziale: «Grillo agiterà la clava contro il vecchio Re usurpatore», mentre i suoi parlamentari, esasperati «dall’insipienza della Boldrini e della sua “ghigliottina”», ormai «praticano una sorta di guerriglia parlamentare ai limiti del lecito». Sicché, «agli altri, non rimarrà che difendere l’asfittico esistente», cioè le loro tasse, le loro non-riforme e la devastazione socio-economica che dilaga.
    «C’è però un altro punto a favore del M5S: tutti i sondaggi danno un astensionismo pari a circa il 40%, la metà dei quali deciderà nell’ultima settimana cosa fare». Sono circa 8 milioni d’italiani, dice Bertani. Otto milioni di cittadini decisivi, perché «avranno in tasca la chiavi del nostro futuro». Proprio su questa enorme quota di elettorato – quella che Giulietto Chiesa chiama “la voragine dei non-rappresentati” – oggi «si sperticano gli istituti di ricerca». Ma la notizia è che «non trovano nulla», perché ogni istituto ha un “padrone” politico, e quindi «“taroccherà” le risposte in modo di “adattarle” alle richieste: nulla di utile». Dunque, attenti a quegli 8 (milioni): niente di più facile che, al momento decisivo, scelgano il più convincente “voto contro”, il più chiaro, alla larga da Renzi e dall’amico Silvio. Se l’Italia è in sofferenza da anni, torturata dall’establishment europeo incarnato da personaggi come Monti e Draghi, aprire il fuoco da oggi contro il supremo garante italiano dell’euro-regime, l’anziano Napolitano, potrebbe consentire a Grillo di conquistare addirittura la pole position.

    «Le banche vogliono ancora soldi: tutti hanno capito che col Fiscal Compact l’hanno fatta fuori del vaso, perciò in questo ultimo anno cercheranno di succhiare tutto il sangue che riusciranno, poi abbandoneranno la carogna. Sta a quelli come noi, che hanno compreso la truffa – iniziata con Licio Gelli ed il suo “Piano di Rinascita Democratica” di 30 anni or sono – continuare a strombazzare qual poco di verità della quale siamo certi, perché l’abbiamo vissuta. I ragazzi del M5S – almeno – sappiamo che continueranno». Così la pensa Carlo Bertani, all’indomani del decreto-vergogna Imu-Bankitalia e della richiesta di impeachment per Napolitano: per la messa in stato d’accusa i presupposti giuridici sono fragili, ma quelli politici no. Se oggi non accadrà nulla, i risultati potrebbero arrivare domani: Grillo è l’unico ad aver centrato nel mirino il bersaglio grosso, l’uomo del Colle, massimo garante di un establishment fallimentare, che Pd e Berlusconi saranno costretti a difendere, andando incontro a una disfatta elettorale.

  • Al-Qaeda, il killer pagato della Nato: scandalo in Turchia

    Scritto il 18/1/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Il “banchiere” di Al-Qaeda, Yasin al-Qadi, ricercato dagli Stati Uniti dopo gli attentati contro le loro ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998, era un amico personale sia dell’ex vicepresidente Usa Dick Cheney sia dell’attuale primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha visitato almeno quattro volte nel 2012 facendo scalo a Istanbul dove – grazie alle telecamere oscurate – ha aggirato i controlli doganali, sotto la protezione degli agenti sicurezza turchi. Secondo la polizia e i magistrati turchi che hanno rivelato queste informazioni e incarcerato i collaboratori di svariati ministri coinvolti nel caso, il 17 dicembre 2013 – prima di essere spogliati delle indagini o sollevati dal loro incarico dal primo ministro – Yasin al-Qadi e Erdoğan avevano sviluppato un vasto sistema di distrazione di fondi per finanziare Al-Qaeda in Siria, racconta Thierry Meyssan, secondo cui lo scandalo che sta scutendo la Turchia rivela che Al-Qaeda, in realtà, «ha sempre combattuto gli stessi nemici dell’Alleanza Atlantica», fin dalla sua nascita nel 1979 come struttura di guerriglia contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan.
    Nel momento in cui questo incredibile doppio gioco veniva portato alla luce ad Ankara, continua Meyssan in un post tradotto da “Megachip”, la polizia turca ha fermato vicino al confine siriano un camion che trasportava armi per Al-Qaeda. «Delle tre persone arrestate, una dichiarava di trasportare il carico per conto della Ihh, l’associazione “umanitaria” dei Fratelli Musulmani turchi, mentre un’altra affermava di essere un agente segreto turco in missione». In definitiva, il governo ha ostacolato la giustizia, confermando che «il trasporto era un’operazione segreta del Mit (i servizi segreti turchi)», e ha ordinato che il camion e il suo carico potessero riprendere il loro cammino. L’inchiesta mostra anche che il finanziamento turco di Al-Qaeda usava un’industria iraniana, sia per agire sotto copertura in Siria sia per condurre operazioni terroristiche in Iran. «La Nato disponeva già di complicità a Teheran durante l’operazione “Iran-Contras” presso i circoli vicini all’ex presidente Rafsanjani, come lo sceicco Rohani, divenuto poi l’attuale presidente».
    Questi fatti, aggiunge Meyssan, sono intervenuti nel momento in cui l’opposizione politica siriana in esilio lancia una nuova teoria alla vigilia della Conferenza di Ginevra: le milizie qaediste che hanno seminato strage in Siria sarebbero creature dei servizi di Assad, incaricate di terrorizzare la popolazione per indurla ad accettare la protezione del regime. «Saremmo dinque pregati di dimenticare tutto il bene che la stessa opposizione in esilio diceva di Al-Qaeda da tre anni, così come il silenzio degli Stati membri della Nato sulla diffusione del terrorismo in Siria». Pertanto, se si può ammettere che la maggior parte dei leader dell’Alleanza atlantica ignorasse del tutto il sostegno della loro organizzazione al terrorismo internazionale, per Meyssan «si dovrà anche ammettere che la Nato è il principale responsabile mondiale del terrorismo».
    Finora, le autorità Nato hanno sostenuto che il movimento jihadista internazionale, da esse sostenuto in occasione della sua formazione durante la guerra in Afghanistan contro i sovietici, si sarebbe ritorto contro di loro dopo la liberazione del Kuwait nel 1991. Gli Stati Uniti accusano Al-Qaeda di aver attaccato le ambasciate Usa in Kenya e in Somalia nel 1998 e di aver fomentato gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York, ma ammettono che dopo la morte “ufficiale” di Osama Bin Laden, nel 2011, «certi elementi jihadisti hanno nuovamente collaborato con loro in Libia e in Siria». Tuttavia, Washington avrebbe messo fine a questo riavvicinamento tattico nel dicembre 2012. «In realtà, questa versione è contraddetta dai fatti», sottolinea Meyssan, perché Al-Qaeda ha sempre combattuto dalla parte della Nato, come ora viene confermato anche dallo scandalo turco.

    Il “banchiere” di Al-Qaeda, Yasin al-Qadi, ricercato dagli Stati Uniti dopo gli attentati contro le loro ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998, era un amico personale sia dell’ex vicepresidente Usa Dick Cheney sia dell’attuale primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha visitato almeno quattro volte nel 2012 facendo scalo a Istanbul dove – grazie alle telecamere oscurate – ha aggirato i controlli doganali, sotto la protezione degli agenti sicurezza turchi. Secondo la polizia e i magistrati turchi che hanno rivelato queste informazioni e incarcerato i collaboratori di svariati ministri coinvolti nel caso, il 17 dicembre 2013 – prima di essere spogliati delle indagini o sollevati dal loro incarico dal primo ministro – Yasin al-Qadi e Erdoğan avevano sviluppato un vasto sistema di distrazione di fondi per finanziare Al-Qaeda in Siria, racconta Thierry Meyssan, secondo cui lo scandalo che sta scutendo la Turchia rivela che Al-Qaeda, in realtà, «ha sempre combattuto gli stessi nemici dell’Alleanza Atlantica», fin dalla sua nascita nel 1979 come struttura di guerriglia contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan.

  • Il generale Mini: la guerra climatica è già cominciata

    Scritto il 01/1/14 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.
    Ne ha parlato di recente, in un convegno a Firenze largamente disertato dai media, l’ex comandante delle forze Nato in Kosovo. Mini rivendica la responsabilità di aver posto in Italia l’attenzione su questo tema quando nel 2007 scrisse l’articolo “Owning the weather: la guerra ambientale è già cominciata”, ufficializzando uno scenario nuovo e inquietante: le forze della natura sono adoperate e piegate come strumento ed arma. Può accadere, sottolinea Mini, perché – come di fronte a qualsiasi altra aberrazione di carattere mostruoso – l’opinione pubblica è innanzitutto incredula: «La maggior parte delle persone ritiene inconcepibili certi scenari, in quanto non è al corrente delle progettazioni in materia di tecnologie militari e quindi delle conseguenti implicazioni». Da un lato c’è la rassicurante convenzione Onu del 1977, che proibisce espressamente «l’uso militare, o di altra ostile natura, di tecniche di modificazione ambientale con effetti a larga diffusione, di lunga durata o di violenta intensità». In realtà, al 90% le prescrizioni Onu vengono regolarmente disattese, in particolare dai militari. I quali «hanno già la capacità di condizionare l’ambiente: tornado, uragani, terremoti e tsunami alterati o addirittura provocati dall’uomo sono una possibilità concreta».
    I militari, riassume Mini – citato nel report del blog “No Geoingegneria” – prediligono la tecnologia. E le loro richieste alla scienza non sono per programmi attuabili a breve termine, ma sono progetti con sviluppi nel medio e lunghissimo termine. Attenzione: «Non esiste una moralità che possa impedire di oltrepassare un certo punto. Basti pensare allo sviluppo e le applicazioni degli ordigni atomici. Non esiste vincolo morale, ciò che si può fare si fa». Inoltre, la nuova tecnologia viene applicata anche a livello immaturo: «La voglia di conseguire un vantaggio spinge ad usare le tecnologie senza fare test a sufficienza. Una possibilità viene messa in atto per verificarne il funzionamento, sperimentandone direttamente sul campo gli effetti». Già nel 1995, uno studio dell’aeronautica militare statunitense (“Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”) delineava i piani da sviluppare per conseguire nell’arco di 30 anni il controllo del meteo a livello globale. Secondo Mini, non si parlava ancora di “possedere il clima”, ma di controllare il meteo e lo spazio atmosferico per condurre operazioni belliche, «per esempio irrorando le nubi con ioduro d’argento, altre sostanze chimiche o polimeri, per dissolverle oppure spostarle».
    Si tratta della possibilità di destabilizzare una regione o paese, in qualsiasi parte del mondo. Oggi, a 17 anni dalla pubblicazione di quello studio, secondo il generale Mini «siamo piuttosto vicini al traguardo del 2025». Secondo il meteorologo statunitense Edward Norton Lorenz, padre della “teoria del caos”, mai e poi mai avremo conoscenze sufficienti a verificare le effettive conseguenze di una modificazione climatica. Se qualcuno trae un vantaggio da una modificazione climatica, dall’altra ci sarà qualcun altro che ne subisce un danno, e non è detto che lo paghi in termini lineari, con conseguenze anche catastrofiche, che Lorenz chiama “effetto farfalla”. Proprio in quegli anni si comincia a pensare non solo di cambiare il meteo, ma di creare una situazione permanente e quindi di trasformare il clima. «Così qualcuno inizia a pensare: cosa rende l’Europa prospera e le garantisce un clima favorevole? La corrente del Golfo del Messico. Bene, allora qualcuno si è messo a studiare come modificare questa corrente. Non solo, ma qualcuno ha iniziato a chiedersi: possiamo provocare un terremoto? Qualcuno ha risposto ‘si può fare’». Qualcuno chi?
    La domanda, infatti, è particolarmente inquietante: da chi scaturisce quella volontà politica che sta alla base della catena di comando? Brutte notizie, dice Mini: gli Stati stanno perdendo il controllo della situazione, che è monopolizzata da ristrettissimi gruppi di potere. Il generale le chiama “bande”. Sono costituite da «persone, associazioni e corporazioni, coaguli di potere che non hanno nessun interesse istituzionale, ma conseguono solamente il proprio interesse, e nel nome di esso sono disposte a mandare in crisi un sistema per modificarlo a proprio vantaggio, utilizzando mezzi illegali e legali». L’enorme potere di questo super-clan è confermato dalla situazione mondiale di massima emergenza, come confermato dalle analisi di carattere strategico a livello militare. In sintesi: la demografia del pianeta è in aumento esponenziale, le risorse della Terra sono in netta diminuzione, l’economia globale è in recessione. Insomma, la coperta è sempre più corta. E il ruolo degli Stati nella definizione della minaccia è ormai ridotto a zero.
    Non sono più gli Stati a decidere, a individuare o prevedere le minacce, sottolinea Mini. Sono “altri” che fanno le analisi. E fare le valutazioni della minaccia «vuol dire fornire le indicazioni per la politica». Bene, «questa prerogativa non è più nelle mani degli Stati, neanche di quelli forti». George W. Bush, quando ha avviato la “guerra infinita” innescata dagli attentati dell’11 Settembre, non è stato indirizzato da fonti istituzionali, ma da «qualcuno che lavora fuori dalle istituzioni, contro le istituzioni». La situazione è veramente critica: molti Stati hanno l’acqua alla gola, colpiti dalla crisi e ricattati dalla cupola finanziaria mondiale. La criminalità è in netto aumento, il contrasto verso le mafie si è indebolito e la percezione dell’insicurezza è cresciuta. Ogni problema viene estremizzato: la favola dello “scontro di civiltà” tra cultura giudaico-cristiana e cultura musulmana resta «il faro politico di tutte le relazioni internazionali». Così, non fa che cresce la militarizzazione del pianeta: «Le cose che venivano fatte con strumenti civili oggi vengono fatte quasi esclusivamente con strumenti militari, inducendo gli ambienti militari ad essere sempre più proiettati verso il controllo e il possesso di strumenti tecnologici per attuarlo».
    La dualità, lo scontro, si manifesta in maniera preponderante nello spazio, con il controllo delle telecomunicazioni e dei sistemi di difesa, e ora anche nell’ambiente, «che non è più il luogo ove la guerra si manifesta, ma è l’arma», e negli agglomerati urbani, «che sono i luoghi dove si prevede il maggior intervento in termini di militarizzazione». Lo spazio è definito un “bene comune” e come tale dovrebbe essere salvaguardato. «Ma non succede, e la percezione di scarsa sicurezza alimenta un incremento della militarizzazione». Come si sfrutta l’ambiente come arma? «Non solo con le modifiche meteorologiche, ma anche  tramite la negazione delle informazioni. Non c’è solo la disinformazione sull’ambiente, ma c’è una pratica militare che si chiama “denial of service”». Ovvero: «Si stabilisce che è necessario non solo negare la realtà o l’evidenza, ma negare l’informazione». E questo, ribadisce Mini, è già un vero e proprio atto di guerra. «Determinate persone o paesi non devono venire a conoscenza delle informazioni», anche se questo può causare catastrofi di proporzioni bibliche, come il devastante tsunami abbattutosi sulle coste dell’Indonesia. «Lo tsunami indonesiano è ancora uno scandalo: l’informazione sul suo arrivo era disponibile, ma interruzioni nella trasmissione dati a causa di anelli malfunzionanti, o volutamente non funzionanti, ne hanno impedito la comunicazione».
    Un altro aspetto è emblematicamente rappresentato dal sistema Haarp. Invece di influire sull’ambiente a carattere solo locale, dice Mini, ormai si può incidere globalmente. Come? «Andando a creare, artificialmente, dei punti più caldi o più freddi, e quindi modificando il clima interferendo anche sulle correnti». Lo stesso dicasi per le alterazioni che provocano i terremoti, anche se il generale nega che il recente terremoto in Emilia sia stato “indotto”. Ma attenzione: «Nessuno può negare che ci siano state più di 2.000 esplosioni nucleari nel sottosuolo terrestre, nella profondità degli oceani e persino nello spazio». Già negli anni ’90, per colpire obiettivi di interesse militare in Cina, «fu pianificato di indurre un terremoto con delle esplosioni dalla zona di Okinawa». La dismissione di migliaia di ordigni nucleari, dopo la fine della guerra fredda, ha creato un mercato dei materiali fissili da innesco. «Le grandi compagnie petrolifere si offrirono di reimpiegarli e sappiamo che è possibile agire sulle faglie inducendo terremoti tramite ordigni nucleari o micro-nucleari».

    La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.

  • Ustica, strage impunita e cimitero di testimoni scomodi

    Scritto il 29/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Un caccia francese che “si nasconde” dietro un aereo di linea italiano e lo colpisce per errore con un missile, in realtà indirizzato contro un altro velivolo: il Mig libico a bordo del quale poteva esserci Gheddafi. Lo disse Francesco Cossiga nel 2007, accreditando una possibile ricostruzione definitiva della strage di Ustica, 27 giugno 1980, quando il Dc-9 dell’Itavia decollato da Bologna e diretto a Palermo esplose in volo e finì in fondo al Tirreno, 81 vittime tra equipaggio e passeggeri. Ma la strage infinita ha continuato a uccidere. Misteri e depistaggi: più di 20 testimoni scomodi, per lo più militari, tutti scomparsi. Strani malori, suicidi apparenti, omicidi, incidenti stradali e aeronautici. Fascicolo riaperto il 23 febbraio 2013 – dopo milioni di pagine giudiziarie – su esposto dell’associazione antimafia “Rita Atria”. Il sospetto: forse non fu un incidente aereo, ma un attentato, quello che nel ’92 costò la vita all’ex pilota militare Alessandro Marcucci, caduto vicino a Cecina a bordo del velivolo anticendio pilotato da un collega, Silvio Lorenzini, anch’esso rimasto ucciso.
    Rosario Priore, il pm che più di ogni altro ha indagato sul disastro di Ustica, parla di testimoni «venuti a conoscenza di fatti diversi dalle ricostruzioni ufficiali». Piloti e controllori radar che «rivelano la loro conoscenza in ambiti strettissimi», ma non così riservati. Al punto che la loro verità viene «percepita da ambienti che li stringono od osteggiano anche in maniera pesante, e così ne restano soffocati». Impossibile non convincersene: molti dei morti all’indomani della strage «erano a conoscenza di qualcosa che non è stato mai ufficialmente rivelato, e da questo peso sono rimasti schiacciati». Lo scenario mette paura, perché quella notte sul mare e nel cielo tra Ponza e Ustica c’erano navi militari italiane e americane, caccia libici, aerei da guerra francesi, italiani e statunitensi. Un’esercitazione aeronavale della Nato, in grande stile, sconvolta dall’abbattimento incidentale del Dc-9. Dopodiché: tracce radar cancellate, silenzi e depistaggi. E naturalmente, omicidi.
    Il primo a morire, già il 3 agosto 1980, è il colonnello pilota Pierangelo Tedoldi: incidente stradale. Tedoldi era a capo dell’aeroporto di Grosseto, competente su uno dei radar coinvolti, quello di Poggio Ballone. Un anno dopo, il 9 maggio 1981, lo segue un collega, il capitano Mario Gari: “infarto”. Quattro mesi più tardi, il 2 settembre, ci rimette la pelle in un’esercitazione il colonnello dell’aeronautica Antonio Gallus. Era amico dei due piloti delle Frecce Tricolori, Mario Naldini e Ivo Nutarelli, che cadranno nella strage di Ramstein nel 1988. Li seguirà un altro amico, il tenente medico Giampaolo Totaro, trovato impiccato nella base friulana di Rivolto, nel ‘94. Era convinto che gli aerei dei piloti della squadra acrobatica fossero stati sabotati. Ma già all’inizio degli anni ’80, cioè poco dopo Ustica e i primi tre decessi anomali – Tedoldi, Gari e Gallus – fa scalpore un’uccisione eccellente: quella di Aldo Semerari, criminologo e collaboratore del Sismi, legato all’ultra-destra, trovato decapitato nella sua auto a Ottaviano il 25 marzo 1982 (lo seguirà a pochi giorni di distanza la segretaria, Maria Fiorella Carrara).
    Secondo il giornalista Gianni Lannes, autore del blog “Su la testa”, il professor Semerari – coinvolto nella strage di Bologna e nei casi Cirillo e Pecorelli, oltre che nelle trame “depistate” dalla Banda della Magliana – “non poteva non sapere” di Ustica. E’ invece un secondo incidente stradale, il 23 gennaio 1983, a uccidere il sindaco di Grosseto, il socialista Giovanni Battista Finetti. Aveva raccolto confidenze da ufficiali dell’aviazione: la sera della strage di Ustica, due caccia italiani F-104 si erano levati in volo dalla base toscana per intercettare un Mig-23 libico. Quello in effetti ritrovato sulla Sila il 18 luglio, due settimane dopo la strage di Ustica, con accanto il cadavere del pilota? Quattro anni dopo la morte del sindaco di Grosseto, il 20 marzo 1987 cade a Roma – crivellato di proiettili – il generale di squadra Licio Giorgeri, assassinato da un commando «per le responsabilità da lui esercitate in seguito all’adesione italiana al progetto delle guerre stellari». Firma il comunicato una sigla fantomatica: “Unione combattenti comunisti”.
    Per Giovanni Spadolini, «Giorgieri non aveva nessun rapporto diretto con l’iniziativa di difesa strategica». Attentato anomalo. All’epoca di Ustica, ricorda Lannes, il generale triestino faceva parte dei vertici del Rai, il Registro aeronautico italiano, responsabile del quale era il generale Saverio Rana, morto “per infarto”. Proprio Rana fu il primo a parlare di missili, scartando le altre ipotesi su Ustica (bomba terrorista a bordo, collisione o cedimento strutturale del velivolo). Dettaglio: dall’amico Giorgieri, racconta Lannes, il generale Rana – convinto socialista e, ai tempi, pilota personale di Pietro Nenni – aveva ricevuto tre fotocopie di tracciati radar e, subito dopo la strage, riferì al ministro Formica la presenza di un caccia vicino al Dc-9 dell’Itavia.
    Dieci giorni dopo Giorgieri, cominciano a morire i marescialli dell’arma azzurra: il 30 marzo viene trovato impiccato sul greto del fiume Ombrone il sottufficiale Mario Alberto Dettori, nell’80 controllore della difesa aerea al centro radar di Poggio Ballone. Era di turno proprio la sera della strage. Tornò a casa sconvolto: «E’ successo un casino», disse alla moglie, «qui vanno tutti in galera». E l’indomani, alla cognata: «Siamo stati a un passo dalla guerra, c’era di mezzo Gheddafi». Un altro maresciallo, Ugo Zammarelli, muore investito da una moto il 12 agosto 1988, a Gizzeria Marina. Niente autopsia, mentre i bagagli spariscono dall’albergo. In forza alla base Nato di Decimomannu, in Sardegna, Zammarelli non era in Calabria in vacanza: stava conducendo un’inchiesta personale sul Mig libico, afferma Lannes. Tempo due settimane, e nel cielo di Ramstein di schiantano le Frecce Tricolori di Naldini e Nutarelli. La sera maledetta, quella di Ustica, i due si erano alzati in volo a bordo dei loro F-104 con il compito di intercettare il Mig libico. Al giudice Priore, l’imprenditore Andrea Toscani ha rivelato le confidenze di Naldini: «Quella notte c’erano tre aerei. Uno autorizzato, due no. Li avevamo intercettati, quando ci dissero di rientrare».
    Si entra negli anni ’90, ma la strage dei testimoni continua. Il 1° febbraio 1991 cade un altro maresciallo dell’aeronautica, Antonio Muzio, freddato con tre colpi di pistola a Pizzo Calabro. Nel 1980 era in servizio alla torre di controllo dell’aeroporto di Lamezia Terme. Un anno dopo, precipita – esploso in volo? – il ricognitore antincendio di Silvio Lorenzini con accanto Alessandro Marcucci, tenente colonnello dell’aviazione e nell’80 pilota militare a Pisa. Marcucci aveva indagato su Ustica, attingendo a fonti indirette. Aveva scoperto qualcosa? L’indagine riaperta – salme riesumate per l’autopsia – proverà a stabilire se sia stato effettivamente ucciso. L’aereo è caduto il 2 febbraio ’92. Stesso giorno della morte dell’ennesimo maresciallo dell’aeronautica, Antonio Pagliara: incidente stradale, ancora. Nell’80, Pagliara era controllore della difesa aerea a Otranto. Un anno dopo, a Bruxelles, qualcuno uccide invece a coltellate un vero e proprio teste-chiave, l’ex generale Roberto Boemio, consulente dell’Alenia presso la Nato. Il Belgio, che non ha ancora risolto il caso, vede coinvolti «servizi segreti internazionali».
    Su Ustica, il generale Boemio aveva cominciato a collaborare con la magistratura: il suo nome, ricorda Lannes, compare tra i riscontri di innumerevoli contestazioni processuali fatte ai generali allora responsabili dell’aeronautica. Nell’80, proprio da Boemio dipendevano la base strategica di Martinafranca in Puglia e i centri radar di Jacotenente, Marsala e Licola, coinvolti nell’allarme per la presenza di caccia non identificati nel cielo di Ustica e di una portaerei in navigazione nel Tirreno al momento dell’esplosione del Dc-9. «Boemio – aggiunge Lannes nella sua ricostruzione – s’era anche occupato di uno dei due Mig-23 fatti ritrovare da Cia e Sismi sulla Sila proprio il 18 luglio ’80». Sempre Lannes include nella lista dei possibili testimoni “suicidati” anche il colonnello del Sismi Mario Ferraro, trovato morto in circostanze inverosimili il 16 luglio 1995 nella sua casa di Roma, impiccato con la cintura dell’accappatoio a un appendi-asciugamano che non avrebbe potuto reggere al suo peso.
    Esperto di terrorismo e traffico d’armi, Ferraro era l’uomo che a Beirut ricevette l’ordine di attivare contatti con le Br tramite l’Olp “per la liberazione di Moro”, ben 14 giorni prima che Moro venisse sequestrato. Sempre nel ’95, a fine anno (21 dicembre) ancora un maresciallo dell’aeronautica viene trovato morto, anche lui impiccato: è Franco Parisi, rinvenuto appeso a un albero alla periferia di Lecce. Nel maledetto 1980 era controllore della difesa aerea al centro radar di Otranto, di turno il 18 luglio – giorno in cui sarebbe avvenuto il fantomatico incidente del Mig. Il giudice Priore l’aveva interrogato, riscontrando «palesi contraddizioni» nella sua deposizione, probabilmente frutto di «minacce nei suoi confronti». Non c’è stato il tempo di riascoltarlo: gli hanno trovato strane lesioni alla nuca, mentre il cadavere (nonostante la corda al collo) aveva i piedi che poggiavano sul terreno. Strano suicidio anche quello di Michele Landi, consulente informatico della Guardia di Finanza oltre che del Sisde, trovato impiccato «con le ginocchia sul divano» il 4 aprile 2002 nella sua casa vicino a Guidonia.
    Per Umberto Rapetto, il generale delle Fiamme Gialle che ha denunciato la maxi-evasione miliardaria delle slot machines, è un gesto inspiegabile: «Landi era gioioso, non soffriva assolutamente di depressione». Però aveva confidato agli amici di conoscere novità compromettenti su Ustica. «L’hanno suicidato i servizi segreti, come storicamente in Italia sanno fare», ha detto agli inquirenti il magistrato Lorenzo Matassa, a cui Landi avrebbe «riferito di sapere molte cose su Ustica». In passato, rileva Lannes, il tecnico aveva lavorato sui sistemi di puntamento missilistici ed era stato in contatto con la società Catrin, «la stessa con cui collaborava Davide Cervia, il tecnico di guerra elettronica, misteriosamente scomparso il 12 settembre ’90». Ad abbattere il Dc-9 dell’Itavia fu un missile: lo prova la grandine di sferule d’acciaio conficcate nell’aereo, esplose da un razzo a frammentazione. Ma, dopo 33 anni, ancora non si sa chi l’abbia sparato. Per non parlare di tutte le altre strane morti, successive alla strage. Un vero e proprio cimitero di testimoni.

    Un caccia francese che “si nasconde” dietro un aereo di linea italiano e lo colpisce per errore, con un missile in realtà indirizzato contro un altro velivolo: il Mig libico a bordo del quale poteva esserci Gheddafi. Ne parlò Francesco Cossiga nel 2007, accreditando una possibile ricostruzione definitiva della strage di Ustica, 27 giugno 1980, quando il Dc-9 dell’Itavia decollato da Bologna e diretto a Palermo esplose in volo e finì in fondo al Tirreno, 81 vittime tra equipaggio e passeggeri. Ma la strage infinita ha continuato a uccidere. Misteri e depistaggi: più di 20 testimoni scomodi, per lo più militari, tutti scomparsi. Strani malori, suicidi reali o apparenti, omicidi, incidenti stradali e aeronautici. Fascicolo riaperto il 23 febbraio 2013 – dopo milioni di pagine giudiziarie – su esposto dell’associazione antimafia “Rita Atria”. Il sospetto: forse non fu un incidente aereo, ma un attentato, quello che nel ’92 costò la vita all’ex pilota militare Alessandro Marcucci, caduto vicino a Cecina a bordo del velivolo anticendio pilotato da un collega, Silvio Lorenzini, anch’esso rimasto ucciso.

  • Allarme Italia, la soluzione c’è ma Napolitano non la vede

    Scritto il 23/12/13 • nella Categoria: idee • (34)

    Secondo Citigroup, l’Italia resterà bloccata in depressione: crescita dello 0,1% nel 2014, crescita zero nel 2015 e limitata allo 0,2% nel 2016. Se è così, prende nota Ambrose Evans-Pritchard, dopo otto anni di crisi ininterrotta e la produzione crollata del 10%, quella del nostro paese sarà «una performance di gran lunga peggiore di quella avuta durante la Grande Depressione». Se anche l’Eurozona dovesse riprendersi nei prossimi tre anni, «il meglio che l’Italia possa sperare è la stabilizzazione su livelli di disoccupazione di massa – al 20% se si considera l’altissimo livello di lavoratori italiani scoraggiati (numero tre volte superiore alla media Ue) che sono usciti fuori dalle statistiche». La domanda è: quanto tempo la società potrà tollerare tutto questo? «Nessuno di noi sa la risposta», ammette Pritchard, che registra – e critica – l’allarme rosso lanciato da Napolitano: il presidente denuncia il pericolo di rivolte violente, ma evita di indicare le cause del disastro italiano, cioè l’euro e i vincoli imposti da Bruxelles.
    Mentre la recessione si trascina, Napolitano evoca il rischio concreto di «tensioni sociali e disordini diffusi» nel 2014, visto il peso crescente di masse ormai emarginate, disponibili a compiere «atti di protesta indiscriminata e violenta, verso una forma di opposizione totale». Migliaia di aziende sono «sull’orlo del collasso», mentre grandi masse di persone «prendono il sussidio di disoccupazione o rischiano di perdere il posto di lavoro». L’altissimo tasso di disoccupazione giovanile (41%) sta portando verso un pericoloso stato di alienazione. «La recessione sta ancora mordendo duro, e c’è la sensazione diffusa che sarà difficile sfuggirle, e trovare il modo per tornare alla crescita». Soluzioni? Napolitano non ne indica, scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Niente soluzioni, anche perché dal Quirinale non proviene nessuna analisi sulla cause della catastrofe socio-economica. E cioè: l’Italia «ha una moneta sopravvalutata del 20% o più», ed è «intrappolata in un sistema di cambi fissi stile anni ‘30, gestito da una banca centrale anni ‘30, che sta lì a guardare (per motivi politici)», mentre l’aggregato monetario ristagna, il credito si contrae e la deflazione incombe.
    «Napolitano non offre alcuna risposta», sottolinea Pritchard. «Ex stalinista, che ha applaudito all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 (un peccato giovanile), Napolitano da tempo ha manifestato il suo fervore ideologico a favore del progetto Ue. Egli è per natura incapace di mettere in discussione le premesse dell’unione monetaria, quindi non aspettatevi nessuno spunto utile dal Quirinale su come uscire da questa impasse». Vero, l’uomo del Colle «ammette che la crisi della zona euro “ha messo a dura prova la coesione sociale”, ma lascia la questione in sospeso, e la sua argomentazione incompiuta, più sul descrittivo che sull’analitico». Così, «senza arrivare al punto di lanciare l’allarme sul rischio che corre lo Stato italiano stesso, ha detto che la crescente minaccia delle forze insurrezionali deve essere affrontata». Come? «La legge deve essere rigorosamente rispettata, il paese deve andare avanti con disciplina». Napolitano è allarmato dalla rivolta dei “Forconi”, che ha preso una piega «inquietante» per le élite italiane, tra poliziotti che si tolgono i caschi – simpatizzando coi dimostranti – e militanti di CasaPound che strappano la bandiera blu-oro dagli uffici dell’Ue a Roma.
    «Dove porti tutto questo nessuno lo sa», continua Pritchard. «Per ora l’Italia ha evitato un ritorno agli “anni di piombo”, il terrorismo tra gli anni ‘70 e i primi anni ‘80, quando la stazione ferroviaria di Bologna fu fatta saltare dai fascisti e l’ex premier Aldo Moro fu sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse». Per il giornalista inglese, tuttavia, «questo tipo di violenza non è poi così lontano come la gente pensa». Nel 2011 il capo dell’agenzia fiscale Equitalia è stato quasi accecato da una lettera-bomba di matrice anarchica. «Da allora ci sono stati ripetuti casi di attacchi dinamitardi». C’è il rischio di un incidente, secondo Pritchard, che inneschi reazioni esplosive. «A coloro che continuano a insistere che l’Italia deve stringere la cinghia e recuperare competitività tagliando i salari, vorrei obiettare che questo è matematicamente impossibile, in un clima di ampia deflazione o quasi deflazione in tutta l’unione monetaria europea». Secondo il giornalista economico del “Telegraph”, la politica di austerità fiscale condanna l’Italia a veder crescere in modo esponenziale il proprio debito pubblico, che negli ultimi tre anni è passato dal 119% al 133% del Pil. Sotto le attuali politiche della Troika, «questo rapporto presto sfonderà il 140%, nonostante l’avanzo primario del bilancio Italiano – un livello oltre il punto di non ritorno per un paese senza moneta sovrana o senza una propria banca centrale».
    Prima ancora di uscire dall’euro, sostiene Pritchard, l’Italia potrebbe cambiare completamente la sua strategia diplomatica, «spingendo per un cartello degli stati debitori del Club Med a leadership francese che prenda il controllo della Bce e della macchina politica dell’Uem. Hanno i voti, e la piena autorità legale basata sui trattati, per forzare una strategia di reflazione che potrebbe cambiato tutto, se solo osassero». Questo, continua l’analista inglese, è più o meno «il nuovo piano di Romano Prodi, ex premier italiano e “Mr. Euro”, che ora sta sollecitando l’Italia, la Spagna e la Francia a unirsi, piuttosto che illudersi di poter fare da soli, e “sbattere i pugni sul tavolo”». L’economista premio Nobel Joseph Stiglitz riprende il tema su “Project Syndicate”, dicendo: «Se la Germania e gli altri non sono disposti a fare il necessario – se non c’è abbastanza solidarietà per far funzionare la politica – allora l’euro potrebbe dover essere abbandonato per salvare il progetto europeo».
    Di fronte al Parlamento Europeo, Mario Draghi ha appena rinnovato le sue minacce: secondo il presidente della Bce, l’uscita dall’euro comporterebbe una svalutazione catastrofica del 40%, che metterebbe in ginocchio qualsiasi paese. «Questo – lo smentisce Pritchard – è sempre lo stesso argomento che viene portato avanti in difesa dei regimi di cambio fissi, sia del Gold Standard nel 1931, che dello Sme nel 1992, o dell’ancoraggio argentino al dollaro nel 2001. E’ stato dimostrato falso, anche nel caso dell’Italia negli anni ‘90, quando la svalutazione ha funzionato benissimo». Draghi si sofferma sul trauma immediato, «ma ignora gli effetti molto più corrosivi di una crisi permanente». I paesi, infatti, «possono recuperare molto velocemente se il tasso di cambio si sblocca: si potrebbe ugualmente sostenere che ci sarebbe una marea di investimenti, in Italia, nel momento in cui il paese prendesse risolutamente il toro dell’euro per le corna e ristabilisse l’equilibrio valutario».
    Inoltre, la tesi di Draghi non tiene conto che «le potenze del nord hanno un forte interesse ad assicurare un’uscita ordinata dell’Italia», e che la stessa Bce potrebbe tranquillamente «stabilizzare la lira per un paio di mesi, fino a quando la situazione si calmasse: questo eviterebbe gli eccessi, eviterebbe delle perdite rovinose per il blocco dei creditori e degli esportatori tedeschi, ed eviterebbe una crisi da deflazione in Germania, Olanda, Finlandia e Francia». Quello che Draghi sta implicitamente affermando è che la Bce si comporterebbe in maniera spericolata, “punendo” l’Italia per il gusto di farlo, anche mettendo a repentaglio l’intera stabilità europea. «Sarebbe stato bello se un deputato gli avesse chiesto perché mai la Bce dovrebbe fare una cosa del genere», ma evidentemente i parlamentari europei non sono in grado di interagire alla pari col super-banchiere. «Quello che sembra certo – conclude Pritchard – è che nessun paese democratico sopporterà uno stato perdurante di semi-recessione e disoccupazione di massa, quando esistono delle alternative plausibili».

    Secondo Citigroup, l’Italia resterà bloccata in depressione: crescita dello 0,1% nel 2014, crescita zero nel 2015 e limitata allo 0,2% nel 2016. Se è così, prende nota Ambrose Evans-Pritchard, dopo otto anni di crisi ininterrotta e la produzione crollata del 10%, quella del nostro paese sarà «una performance di gran lunga peggiore di quella avuta durante la Grande Depressione». Se anche l’Eurozona dovesse riprendersi nei prossimi tre anni, «il meglio che l’Italia possa sperare è la stabilizzazione su livelli di disoccupazione di massa – al 20% se si considera l’altissimo livello di lavoratori italiani scoraggiati (numero tre volte superiore alla media Ue) che sono usciti fuori dalle statistiche». La domanda è: quanto tempo la società potrà tollerare tutto questo? «Nessuno di noi sa la risposta», ammette Pritchard, che registra – e critica – l’allarme rosso lanciato da Napolitano: il presidente denuncia il pericolo di rivolte violente, ma evita di indicare le cause del disastro italiano, cioè l’euro e i vincoli imposti da Bruxelles.

  • Il chip Nato che spia gli scolari e fa schiantare le auto

    Scritto il 06/11/13 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Michael Hastings, giornalista investigativo pluripremiato, è morto tra le fiamme il 18 giugno 2013 a Los Angeles mentre guidava una Mercedes del 2013. La notte prima aveva chiesto a un’amica, Jordana Thigpen, di prestargli la sua Volvo, poiché credeva che la sua Mercedes C250 fosse stata manomessa. Secondo la vedova, Elise Jordon, Michael aveva cominciato a indagare la “nuova guerra alla stampa” del direttore della Cia, John Brennan. Facendo eco allo scandalo Watergate, Hastings ha sostenuto che la Cia, con o senza autorizzazione, abbia iniziato a usare sofisticate tecniche militari di guerra psicologica contro giornalisti e politici. Anche per l’ex coordinatore dell’antiterrorismo Usa, Richard Clarke, un incidente stradale come quello costato la vita a Michael Hastings sarebbe “coerente con un attacco informatico all’auto”. Come per gli infarti, dice Tony Gosling, si ritiene ormai che questi “incidenti” ai freni delle vetture siano i preferiti dal crimine organizzato e dai servizi di intelligence, dal momento che sono così facili da spacciare per fatali guasti tecnici.
    «Il nostro sistema giudiziario, la polizia e i nostri giornalisti investigativi – sostiene Gosling in un post su “Rt”, ripreso da “Come Don Chisciotte” – non sono capaci di capire la tecnologia complessa», in continua evoluzione, «per non parlare della raccolta di prove sufficienti a decidere se questi eventi disastrosi siano incidenti o omicidi». La strana morte di Hastings? Un monito: le nostre libertà stanno andando in frantumi. Succede, dice Gosling, perché «in Occidente la tecnocrazia sta lentamente rimpiazzando la democrazia». Da quando «i mercati finanziari e gli oscuri gnomi di Zurigo hanno cominciato a scegliere i nostri leader politici», i super-tecnocrati, «strozzini e simpatizzanti della Goldman Sachs, la piovra che sta venendo fuori quale vero potere del mondo occidentale», utilizzano anche compagnie poco note, che però «detengono brevetti di valore» e, come prestigiatori, «producono e immettono sul mercato nuovi sfavillanti dispositivi scientifici».
    Tecnologia che in mano pubblica sarebbe liberatoria, mentre in mano ai “predoni” può fare disastri. E senza che ce ne rendiamo conto: «Quando i nostri deputati, giornalisti e avvocati memorizzano i dati della loro rubrica telefonica usando un servizio di sincronizzazione, o fanno un backup di documenti su “The Cloud”, non hanno nessuna idea di dove vada a finire il loro prezioso lavoro. Condividono i loro dati senza pensarci troppo con aziende che potrebbero tranquillamente copiarli, rivenderli a terzi o perfino corromperli prima di farglieli riavere». I super-tecnocrati della “rivoluzione digitale”, continua Gosling, hanno precisi progetti per i prossimi decenni: «Rubano terreno ai governi eletti usando la “riservatezza commerciale” per tenere all’oscuro la stampa, i politici e il pubblico». E oggi, cioè nell’era della sorveglianza di massa, con l’opinione pubblica narcotizzata dal mainstream, «possono acquistare le informazioni per sapere ciò che i politici eletti stanno per fare, o perfino quello che hanno intenzione di fare, e investire così vaste risorse in contromosse».
    Tecnologia invisibile per controllare tutti. E anche per uccidere, per esempio chi è al volante della propria auto? A confermare indirettamente i pesanti sospetti sulla fine di Michael Hastings è la rivista “Autoweek Magazine”, che si domanda: «Chi è al controllo della tua auto? Governo e privati adesso possono controllarla a distanza». I computer di bordo sono penetrabili da hacker? E se il dispositivo si inchioda, causando un’accelerazione involontaria e un incidente mortale? «Più una tecnologia è poco visibile – aggiunge Gosling – e più è alta la probabilità che rimanga non regolamentata». Non solo: a utilizzarla saranno soprattutto giovani, portati ad accettarla «senza porsi troppe domande, in quanto “cool”». Tra le tecnologie segrete meno comprese e praticamente non regolamentate c’è l’insidioso chip Rfid, “Radio Frequency Identifcation”, che rileva i movimenti tramite le frequenze radio. «Si tratta di piccoli “trasponder” wireless a circuito stampato, usati perlopiù per tracciare i movimenti in magazzino, sebbene siano in aumento per quanto riguarda il pagamento tramite carte di credito “contactless”, senza contatto». Questi chip, continua Gosling, sono elettricamente attivi per anni, alcuni anche per tempi indefiniti.
    Dal settembre 2013, gli scolari inglesi sono schedati in modo digitale: il governo britannico ha eseguito la scansioni dell’iride oculare, del riconoscimento facciale, dell’impronta del dito e del palmo – in una parola, la “biometria” degli alunni. Solo che sta crescendo il numero di minori che rifiutano di sottoporsi alla schedatura, introdotta per automatizzare i sistemi di ingresso alle mense e alle biblioteche. Nel caso la “biometria” venisse abbandonata, assicura Gosling, è già pronta la tecnologia Rfid: «Dal 2010 al febbraio 2013, il West Cheshire College vicino Liverpool ha dato a tutti i suoi studenti dei cartellini da indossare con dei chip compatibili, 433 Mhz». Certo, quei cartellini «permettono agli studenti di usufruire dei servizi». Ma i sensori disseminati in tutta la scuola «consentono di tracciare i movimenti degli studenti nel campus, come dei puntini da seguire sullo schermo». Attenzione: quando un giornale nel febbraio 2013 chiese chiarimenti al preside, il fornitore dei chip li fece sparire dalla scuola, eliminando ogni traccia di sensori e cartellini.
    Quei sensori, forniti da un’azienda che si chiama Zebra, offrivano la possibilità di monitorare i ragazzi non solo da parte delle autorità scolastiche, ma anche dai militari: l’origine Nato della tecnologia, e quindi la necessità di proteggerne la segretezza, secondo “Rt” spiega la rapidità della “sparizione delle prove” dal college inglese usato come area-test. La Nato, racconta Gosling, dispone di un sistema Rfid riservato, chiamato “In Transit Visibility Network”, con sensori 433 Mhz sparsi in tutto il nord America e l’Europa occidentale. Una mappatura che serve a «tenere d’occhio le munizioni, i serbatoi e altri armamenti quando si spostano da un posto all’altro». Fin qui, tutto bene. A patto però che, a finire “microchippate” a nostra insaputa, già al momento della fabbricazione, non siano anche le nostre auto, insieme ai nostri telefoni, le carte di credito e magari anche «i nostri figli, quando durante il giorno vanno in giro innocentemente».
    Anziché proteggerci, conclude Gosling, la Nato e i tecnocrati dell’industria militare «stanno trasformando ogni singolo essere umano in un sospetto criminale». E questo, senza l’autorizzazione di nessun giudice. Più che una “rivoluzione digitale”, «la loro idea è quella di una gabbia digitale: mai gli incubi malati dei peggiori tiranni sono stati così vicini all’essersi realizzati». Il mondo civile ora deve assolutamente «bloccare i veicoli computerizzati e questa tecnologia Rfid, e renderla soggetta al consenso del singolo e dei genitori, così come ha fatto la Gran Bretagna con la “biometria”». Meglio agire in fretta, «prima che le nostre scuole e le nostre strade diventino prigioni digitali e i nostri figli siano seguiti dai militari ovunque vadano».

    Michael Hastings, giornalista investigativo pluripremiato, è morto tra le fiamme il 18 giugno 2013 a Los Angeles mentre guidava una Mercedes del 2013. La notte prima aveva chiesto a un’amica, Jordana Thigpen, di prestargli la sua Volvo, poiché credeva che la sua Mercedes C250 fosse stata manomessa. Secondo la vedova, Elise Jordon, Michael aveva cominciato a indagare la “nuova guerra alla stampa” del direttore della Cia, John Brennan. Facendo eco allo scandalo Watergate, Hastings ha sostenuto che la Cia, con o senza autorizzazione, abbia iniziato a usare sofisticate tecniche militari di guerra psicologica contro giornalisti e politici. Anche per l’ex coordinatore dell’antiterrorismo Usa, Richard Clarke, un incidente stradale come quello costato la vita a Michael Hastings sarebbe “coerente con un attacco informatico all’auto”. Come per gli infarti, dice Tony Gosling, si ritiene ormai che questi “incidenti” ai freni delle vetture siano i preferiti dal crimine organizzato e dai servizi di intelligence, dal momento che sono così facili da spacciare per fatali guasti tecnici.

  • Al-Qaeda non serve più, e gli Usa “licenziano” i sauditi

    Scritto il 30/10/13 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Dopo aver  minacciato e “insultato” la Russia e la Cina, l’Onu e persino gli Usa, l’Arabia Saudita – che ha deciso di continuare ad alimentare la guerra civile in Siria nonostante il disgelo tra Washington e Mosca persino sull’Iran – ora rischia grosso: il suo petrolio non è più così indispensabile, e in ogni caso l’America non lo comprerebbe sotto ricatto, cioè in cambio della cessione a Riyadh della sua politica in Medio Oriente. Qualcosa di fondamentale sta accadendo, avverte il giornalista indipendente Thierry Meyssan: per la prima volta, dopo tanti anni, gli Usa stanno abbandonando il loro più decisivo alleato occulto, il network del terrore chiamato “Al-Qaeda”, emanazione diretta dell’intelligence saudita. Agli occhi del nuovo capo della Cia, John Brennan, «lo jihadismo internazionale deve essere ridotto a proporzioni più deboli», tenuto in vita solo come carta di riserva da usare «in alcune occasioni». Lo dimostra la rinuncia della Casa Bianca – di fronte alla fermezza di Putin – a scatenare in Siria l’inizio di una possibile Terza Guerra Mondiale. I terroristi usa e getta? Probabilmente non serviranno più.
    Secondo Meyssan, se Riyadh non si adegua alla nuova linea di Obama, è a rischio la stessa sopravvivenza dell’Arabia Saudita come Stato: l’emirato petrolifero potrebbe facilmente essere smembrato in cinque unità. «È improbabile che Washington si lasci dettare la propria condotta da alcuni facoltosi beduini, mentre è prevedibile che li rimetterà a posto. Nel 1975, non esitarono a far assassinare il re Faysal. Questa volta, dovrebbero essere ancora più radicali». Lo conferma la presenza alla guida della Cia di un uomo come Brennan, «strenuo oppositore del sistema messo in atto dai suoi predecessori assieme a Riyadh: lo jihadismo internazionale». Secondo Meyssan, Brennan ritiene che, «ancorché questi combattenti abbiano svolto bene il loro compito, un tempo in Afghanistan, Jugoslavia e in Cecenia, siano nondimeno diventati troppo numerosi e troppo ingestibili». Quella che all’inizio era costituita da alcuni estremisti arabi partiti per sparare all’Armata Rossa, è poi diventata una costellazione di gruppi, presenti dal Marocco alla Cina, che si battono per far trionfare il modello saudita di società, più che per sconfiggere gli avversari degli Stati Uniti.
    Già nel 2001, continua Meyssan, gli Usa avevano pensato di eliminare Al-Qaeda «attribuendole la responsabilità degli attentati dell’11 Settembre». Tuttavia, «con l’assassinio ufficiale di Osama Bin Laden nel maggio 2011, hanno deciso di riabilitare questo sistema per farne ampio uso in Libia e in Siria: senza Al-Qaeda non si sarebbe mai potuto rovesciare Muhammar Gheddafi, come dimostra oggi la presenza di Abdelkader Belhaj, ex numero due dell’organizzazione, come governatore militare di Tripoli».  Licenziare i terroristi e i loro gestori mediorientali? “Gettare i Saud fuori dall’Arabia” era il titolo di un powerpoint del 2002 presentato dal Pentagono allora diretto da Donald Rumsfeld. Sono i sauditi, oggi, a mettersi nei guai. Il principe Bandar Bin Sultan, capo dei servizi segreti, in pochi mesi si è messo contro il resto del mondo: ha minacciato la Russia (terrorismo sulle Olimpiadi di Soči), bocciato la politica dell’Onu sulla Siria (promossa anche dalla Cina, super-cliente saudita), rifiutato di parlare al Palazzo di Vetro e annunciato che non userà mai il seggio offerto all’Arabia Saudita al Consiglio di Sicurezza. Quindi ha accusato Israele e l’Iran di accumulare “armi di distruzione di massa”, e ha addirittura annunciato il ritiro dagli Usa degli investimenti sauditi. Gioco pericoloso. Riyadh non ha ancora capito che è terminata la fiction della dittatura medievale travestita da “alleato arabo moderato”, perché – oltre al petrolio – è finita in soffitta la sua arma migliore: il terrorismo “islamico” pilotato dall’intelligence occidentale.

    Dopo aver  minacciato e “insultato” la Russia e la Cina, l’Onu e persino gli Usa, l’Arabia Saudita – che ha deciso di continuare ad alimentare la guerra civile in Siria nonostante il disgelo tra Washington e Mosca persino sull’Iran – ora rischia grosso: il suo petrolio non è più così indispensabile, e in ogni caso l’America non lo comprerebbe sotto ricatto, cioè in cambio della cessione a Riyadh della sua politica in Medio Oriente. Qualcosa di fondamentale sta accadendo, avverte su “Megachip” il giornalista indipendente Thierry Meyssan: per la prima volta, dopo tanti anni, gli Usa stanno abbandonando il loro più decisivo alleato occulto, il network del terrore chiamato “Al-Qaeda”, emanazione diretta dell’intelligence saudita. Agli occhi del nuovo capo della Cia, John Brennan, «lo jihadismo internazionale deve essere ridotto a proporzioni più deboli», tenuto in vita solo come carta di riserva da usare «in alcune occasioni». Lo dimostra la rinuncia della Casa Bianca – di fronte alla fermezza di Putin – a scatenare in Siria l’inizio di una possibile Terza Guerra Mondiale. I terroristi usa e getta? Probabilmente non serviranno più.

  • Gli italiani, il cavaliere e la morte: vince la menzogna

    Scritto il 27/10/13 • nella Categoria: Recensioni • (Commenti disabilitati)

    Terroristi? Evidentemente, «se ne sentiva il bisogno». Così, giusto per “nobilitare” – per contrasto – un establishment ben poco virtuoso, con troppi peccati da farsi perdonare. Gli italiani, il Cavaliere e la morte: non l’uomo di Arcore, ovviamente, ma la figura equestre ritratta da Albrecht Dürer, cui si ispira Leonardo Sciascia per un romanzo della fine degli anni ’80 che sembra scritto ieri, anzi oggi. Il protagonista, un dolente poliziotto – schivo e taciturno, condannato (come lo scrittore stesso) da un tumore di quelli che non lasciano scampo – intuisce fin dalle prime battute che la strana rivendicazione seguita all’omicidio di un potente, l’avvocato Sandoz, non proviene affatto da chissà quale organizzazione eversiva. Strana sigla, i “figli dell’ottantanove”. Domanda: «Sono stati creati per uccidere Sandoz o Sandoz è stato ucciso per creare i figli dell’ottantanove?».
    Le pagine de “Il cavaliere e la morte” sembrano parlare direttamente ai giorni nostri, così affollati di pacchi-bomba e buste con proiettili recapitate a uomini di potere. Nel romanzo, la cellula terroristica «non esiste, ma la si vuole far esistere», sicuri che una nuova bandiera rivoluzionaria potrà «sedurre le menti deboli, gli annoiati, i vocati alle cause perse e al sacrificio», nonché ovviamente «i violenti che vogliono dar nobiltà ai loro istinti». Inevitabilmente, l’indagine incrocia il buco nero dei servizi segreti: è da un antico contatto personale che l’investigatore deduce le tessere mancanti per risalire al vero movente dell’omicidio e quindi comprendere meglio il metodo adottato, quello del depistaggio finto-terroristico. Due piccioni con una fava: l’eliminazione di un fastidioso competitore e la “creazione” di una comoda sigla eversiva, utilissima per firmare altri omicidi, diffondere paura, giustificare la repressione e criminalizzare l’opposizione.
    E’ lo schema, ferreo e implacabile, della famigerata strategia della tensione: «Occorre che ci sia il diavolo perché l’acqua santa sia santa». Sciascia disegna la sua storia verso un finale comunque inatteso e spiazzante, con una lingua personalissima e una capacità introspettiva nella quale raramente il noir contemporaneo osa addentrarsi. Il suo poliziotto è un uomo colto, che pensa – con Ungaretti – che “la morte si sconta vivendo”, e si aggira in un paesaggio in cui le citazioni letterarie (da Tolstoj a Pirandello, da Proust a Gadda) abitano con rassegnazione una latitudine dimessa, in cui persino il diavolo è «talmente stanco», ormai, «da lasciar tutto agli uomini», che sanno «fare meglio di lui», rubandogli il mestiere. A vincere è l’arte sopraffina della menzogna, che sforna capri espiatori con la complicità di figure grottesche eppure tragicamente autentiche: come il “grande giornalista” ben deciso a scrivere, come sempre, il contrario della verità.
    (Il libro: Leonardo Sciascia, “Il cavaliere e la morte”, Adelphi, 91 pagine, 8 euro).

    Terroristi? Evidentemente, «se ne sentiva il bisogno». Così, giusto per “nobilitare” – per contrasto – un establishment ben poco virtuoso, con troppi peccati da farsi perdonare. Gli italiani, il Cavaliere e la morte: non l’uomo di Arcore, ovviamente, ma la figura equestre ritratta da Albrecht Dürer, cui si ispira Leonardo Sciascia per un romanzo della fine degli anni ’80 che sembra scritto ieri, anzi oggi. Il protagonista, un dolente poliziotto – schivo e taciturno, condannato (come lo scrittore stesso) da un tumore di quelli che non lasciano scampo – intuisce fin dalle prime battute che la strana rivendicazione seguita all’omicidio di un potente, l’avvocato Sandoz, non proviene affatto da chissà quale organizzazione eversiva. Strana sigla, i “figli dell’ottantanove”. Domanda: «Sono stati creati per uccidere Sandoz o Sandoz è stato ucciso per creare i figli dell’ottantanove?».

  • Non cittadini di Google, ma sudditi dei ricattatori Nsa

    Scritto il 26/10/13 • nella Categoria: idee • (3)

    «Scusate, di quale sovranità parliamo? Oggi sappiamo cha la National Security Agency degli Stati Uniti ci spiava, ci spia e – aggiungo – ci spierà: non penseremo mica che sia finita qui», dice Giulietto Chiesa. E la Nsa «ci spierà dall’alto della sua tecnologia, quella che qualcuno anche sul web esalta come il futuro della democrazia». Solo in Francia, racconta Snowden, 70 milioni di comunicazioni telefoniche raccolte in un mese: non certo per spiare la vita privata dei parigini. I motori di ricerca, macchine spionistiche, controllano il flusso dei meta-dati: chi ha chiamato chi, da dove è partita la telefonata, e quando. Poi interviene la selezione: qualcuno estrae dettagli specifici dalla massa delle comunicazioni. «Esempio: andiamo a vedere con chi ha parlato la signora Angela Merkel l’altro ieri». Idem per tutti gli altri “alleati”: «Con la scusa di combattere il terrorismo, hanno messo sotto controllo tutti i nostri leader politici, che io continuo a chiamare “maggiordomi”, perché – essendo tutti ricattati, e sapendo di esserlo (se non lo sanno è ancora peggio) – sono stati ben zitti».
    L’arma del ricatto: ti controllo, so chi hai parlato, quando, e di cosa. Se l’agenda del grande alleato riparlasse di guerra, sarebbe più difficile opporsi. «Vale per Enrico Letta, vale per la presidente brasiliana Dilma Rousseff, come sappiamo. Vale per Hollande, il burattino di Francia. Vale per l’ex presidente messicano Felipe Calderon e per l’attuale presidente messicano, Enrique Peña Nieto. Vale probabilmente anche per il Papa», aggiunge Chiesa, in un video-editoriale su “Megachip”. «Forse non vale per Xi-Jingping, il presidente cinese, e per il presidente russo Vladimir Putin, i quali – non essendo alleati degli Stati Uniti – hanno probabilmente pensato di tutelarsi, cioè di innalzare le misure difensive». Come scrive persino il “New York Times”, la questione non è certo quella della privacy dell’uomo della strada: «Il programma di sorveglianza ha investito la politica, il business, la diplomazia, le banche». Per prima cosa, spiano con molta attenzione le mosse dei partner. «Begli alleati, che abbiamo». Controllare il cellulare della Merkel: per proteggerla dai terroristi, come dice Obama? No: «Per ricattarla, all’occorrenza, nel caso decidesse di fare qualcosa che “non deve” decidere di fare».
    Non sugge nessuno: «Se Enrico Letta va a prostrarsi a Washington, pensate che lo faccia perché è un fedele seguace del dio dollaro? Forse, anche. Ma soprattutto: teme la punizione, se sgarrasse». Dunque: «Possiamo fidarci di un alleato di questo genere? Cioè di un’America che ci spia facendo i propri interessi, contro di noi?». Per questo, Chiesa insiste nel chiedere l’uscita dalla Nato: «Non è una questione ideologica, ma pratica: voglio salvare la pelle, la mia e quella dei nostri figli. E se questi signori decidono che per i loro interessi occorre fare la guerra, diranno ai loro servi – i nostri governanti – di portarci in guerra. E se non capiamo questo, noi in guerra ci andremo ancora, finché non ci lasceremo la pelle». Date un’occhiata al grande problema americano: la finanza. «Il loro debito in realtà è il nostro: tocca a noi pagarlo, attraverso la subordinazione dell’euro». Eppure, c’è ancora chi pensa che stiamo entrando nell’era della libertà digitale, in cui potremo decidere tutto premendo un pulsante sul computer e votare insieme ai cinesi e agli indiani su come si gestisce il mondo. «Non siate ingenui, il controllo di queste macchine non ce l’avete voi. Non facciamoci illusioni: non diventeremo cittadini di Google, ma della Nsa».

    «Scusate, di quale sovranità parliamo? Oggi sappiamo cha la National Security Agency degli Stati Uniti ci spiava, ci spia e – aggiungo – ci spierà: non penseremo mica che sia finita qui», dice Giulietto Chiesa. E la Nsa «ci spierà dall’alto della sua tecnologia, quella che qualcuno anche sul web esalta come il futuro della democrazia». Solo in Francia, racconta Snowden, 70 milioni di comunicazioni telefoniche raccolte in un mese: non certo per spiare la vita privata dei parigini. I motori di ricerca, macchine spionistiche, controllano il flusso dei meta-dati: chi ha chiamato chi, da dove è partita la telefonata, e quando. Poi interviene la selezione: qualcuno estrae dettagli specifici dalla massa delle comunicazioni. «Esempio: andiamo a vedere con chi ha parlato la signora Angela Merkel l’altro ieri». Idem per tutti gli altri “alleati”: «Con la scusa di combattere il terrorismo, hanno messo sotto controllo tutti i nostri leader politici, che io continuo a chiamare “maggiordomi”, perché – essendo tutti ricattati, e sapendo di esserlo (se non lo sanno è ancora peggio) – sono stati ben zitti».

  • Verità cercasi, prima che la montagna ci frani addosso

    Scritto il 25/10/13 • nella Categoria: idee • (2)

    La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.
    Merci letteralmente scomparse dalla tratta, dove peraltro Italia e Francia sono già perfettamente collegate dalla ferrovia Torino-Modane che attraversa la valle di Susa, appena ammodernata con 400 milioni di euro per consentire ai treni di caricare anche i Tir e i grandi container navali. La montagna è la fatica che occorre, ogni volta, per spiegare che i container navali sbarcati a Genova ormai evitano il Piemonte e la Francia e corrono verso Rotterdam attraverso i valichi del nord. Mentre per i Tir – lungi dal caricarli sui treni – si sta scavando il secondo traforo autostradale del Fréjus, sempre in valle di Susa, cioè nel territorio a cui, per buon peso, si vorrebbe infliggere anche l’Armageddon di vent’anni di cantieri Tav, coi paesi devastati e la popolazione minacciata da pericoli per la salute (cancro, causa polveri con amianto e uranio) ammessi dagli stessi tecnici della grande opera, che riconoscono che i lavori potrebbero anche aprire serie incognite idrogeologiche.
    Un’impresa folle, sempre più improbabile e irreale per tutti – docenti universitari compresi – tranne che per i decisori politici, i parlamentari a corto di informazioni che però vanno in televisione e scrutano i No-Tav come animali strani, un po’ naif, forse affetti dalla sindrome Nimby, evidentemente non credibili, persino quando ricordano palesi verità ormai incresciosamente ufficiali come quelle provenienti dalla Francia: al netto delle rituali cortesie diplomatiche con l’Italia, Parigi ha infatti stabilito definitivamente che il capitolo Torino-Lione verrà riaperto, eventualmente, solo a partire dal remotissimo 2030. La montagna è impervia: ci sono voluti anni prima che Santoro, paladino di tante cause civili, si decidesse a spedire il fido Ruotolo nella valle in rivolta: accadde nel 2012, quando il contadino anarchico Luca Abbà precipitò (folgorato) dal traliccio su cui si era inerpicato per protesta, tallonato da un poliziotto. Rivisto un anno dopo, sempre grazie a Ruotolo, Luca Abbà non denuncia gli oscuri attentati incendiari che hanno colpito le imprese collegate al cantiere, ne prende nota e rivendica in linea di principio il diritto di ricorrere anche al sabotaggio come strumento legittimo di lotta.
    E’ esattamente questo atteggiamento, diffuso in larghi settori del movimento “ribelle”, che spinge il procuratore Caselli a chiarire che – dal punto di vista della legge – non sono ammissibili infrazioni alla legalità, specie se violente come l’intimidazione o il lancio di sassi e petardi contro operai e agenti. Per contro, lo stesso Ruotolo mette a fuoco le aziende colpite dagli incendi: alcune hanno alle spalle vicissitudini giudiziarie, qualcuna è stata addirittura sfiorata da indagini dei Ros sul rapporto opaco tra politica, affari e ‘ndrangheta. Anche questo fa parte della montagna grigia, in una serata in cui Beppe Grillo tuona da Trento contro il presidente Napolitano, che il giorno dopo il blitz al Senato per disinnescare l’antifurto della Costituzione, l’articolo 138, a tarda ora ha convocato al Quirinale i partiti delle larghe intese per “invitarli” a cestinare finalmente l’impresentabile legge elettorale, tanto vituperata quanto cara ai privatizzatori della democrazia.
    La montagna è questa deriva infinita, nella quale gli italiani – valsusini e non – hanno ormai la certezza di non contare più niente, e di non sapere neppure più bene come arrivare alla fine del mese. La soluzione, dice Giorgia Meloni, non può essere che la partecipazione democratica: rifiutare il vittimismo passivo e scendere in campo direttamente per cambiare le cose, nonostante l’insormontabile muraglia del patriziato economico, dell’oligarchia finanziaria, della lebbra partitocratica. E anche della catastrofe nazionale dell’informazione: su questo versante, almeno, Santoro e Travaglio hanno accorciato le distanze, recuperando terreno prezioso. Certo, c’è voluta la manifestazione di Roma. Tutti i civili appelli all’ascolto, rivolti dalla valle di Susa alle maggiori istituzioni, erano sempre caduti nel vuoto – lettera morta anche per giornali e televisioni. La montagna è ancora lì. Si chiama Troika, rigore, Fiscal Compact, pareggio di bilancio, tetto del deficit al 3% del Pil. Politici sintonizzati? Zero: non pervenuti. Aspettano che la montagna ci frani addosso?

    La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.

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