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Archivio del Tag ‘austerity’

  • Renzi consegna la Cdp ai registi della svendita dell’Italia

    Scritto il 27/6/15 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Il lato oscuro del “rottamatore”: Cassa Depositi e Prestiti in mano a Goldman Sachs. Con un atto d’imperio il premier ha imposto le dimissioni a Franco Bassanini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), sostituendolo con Claudio Costamagna. L’ex-rottamatore ha deciso di entrare nel valzer delle nomine pubbliche minacciando di commissariare il Consiglio d’Amministrazione di Cdp e ottenendo, dopo lunghe trattative, la nomina del suo candidato. Claudio Costamagna ha un lungo passato in Goldman Sachs, una delle banche d’investimento e di consulenza finanziaria più grandi del mondo, che ha visto fra i suoi consulenti Mario Draghi, Romano Prodi e Mario Monti. Si aggiunga che Costamagna siede tuttora in diversi consigli di amministrazione di società quali Luxottica ed è presidente di Salini-Impregilo. Non manca un legame molto solido con l’Università Bocconi, che Costamagna ha il compito di “indirizzare verso l’internazionalizzazione” e dalla quale è stato eletto nel 2004 “uomo bocconiano dell’anno”.
    Perché nominare presidente di una società a controllo pubblico un uomo cresciuto negli ambienti della finanza e della grande industria privata? La risposta può trovarsi nel curriculum di Costamagna, che nel giugno 1992 ha partecipato alle famose riunioni segrete sul panfilo Britannia al largo di Civitavecchia, nelle quali banchieri anglo-americani e uomini pubblici e privati italiani decisero la linea di privatizzazioni delle aziende strategiche nazionali portata poi avanti col contributo decisivo di Romano Prodi. Claudio Costamagna è l’ultimo cavallo di Troia dell’economia italiana. Il boccone prelibato consiste nelle residue aziende strategiche a controllo pubblico, come Eni e le sue controllate, Enel e Finmeccanica, per ricordare solo le principali. Al di là delle dichiarazioni di circostanza, a confessare i reali propositi di questo commissariamento è lo stesso presidente del Consiglio, quando afferma che «l’Italia si trova oggi a un passaggio decisivo per la ripresa. Le riforme strutturali, l’attrazione degli investimenti, e una politica di bilancio basata sul taglio delle tasse sul lavoro stanno riportando il Paese alla crescita. In questo contesto il rafforzamento del ruolo di Cdp risulta ancora più cruciale».
    È la solita retorica governativa: l’Italia non crescerà sostenendo i redditi e creando lavoro, ma aprendosi allegramente agli investimenti esteri che, tradotto, significa cedere le eccellenze italiane e i settori strategici al profitto estero. D’altra parte basta guardare la parabola discendente della stessa Cassa Depositi e Prestiti. Nel 2003 è stata trasformata da ente di diritto pubblico in società per azioni, negli anni successivi il 18,4% delle sue azioni è passato nelle mani di diverse fondazioni bancarie che già oggi ne condizionano la politica, e negli ultimi anni, attraverso il Fondo Strategico Italiano (Fsi), ha stretto rapporti con fondi sovrani esteri che hanno cominciato a scalare le nostre società controllate dallo Stato. Al culmine della lunghissima crisi provocata dal casinò finanziario, il nostro premier rincara la dose e affida 250 miliardi di risparmi postali dei cittadini italiani all’ennesimo uomo del destino che svenderà i nostri gioielli nazionali per un piatto di lenticchie. “Ahi serva Italia, di traditori ostello”.
    (M5S Parlamento, “Cdp in mano a Goldman Sachs”, dal blog di Beppe Grillo del 22 giugno 2015).

    Il lato oscuro del “rottamatore”: Cassa Depositi e Prestiti in mano a Goldman Sachs. Con un atto d’imperio il premier ha imposto le dimissioni a Franco Bassanini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), sostituendolo con Claudio Costamagna. L’ex-rottamatore ha deciso di entrare nel valzer delle nomine pubbliche minacciando di commissariare il Consiglio d’Amministrazione di Cdp e ottenendo, dopo lunghe trattative, la nomina del suo candidato. Claudio Costamagna ha un lungo passato in Goldman Sachs, una delle banche d’investimento e di consulenza finanziaria più grandi del mondo, che ha visto fra i suoi consulenti Mario Draghi, Romano Prodi e Mario Monti. Si aggiunga che Costamagna siede tuttora in diversi consigli di amministrazione di società quali Luxottica ed è presidente di Salini-Impregilo. Non manca un legame molto solido con l’Università Bocconi, che Costamagna ha il compito di “indirizzare verso l’internazionalizzazione” e dalla quale è stato eletto nel 2004 “uomo bocconiano dell’anno”.

  • Galloni demolisce Renzi: ripresa inesistente (e impossibile)

    Scritto il 26/6/15 • nella Categoria: segnalazioni • (21)

    Secondo Renzi, l’andamento del Pil dimostra che l’economia italiana è fuori dalla crisi? Numeri “confortanti e superiori alle più rosee aspettative degli economisti”, che prevedavano una ripresa dello 0,2% del Pil, mentre si sarebbe attestata allo 0,3? Inversione di tendenza, che segnala che il paese è fuori dal pericolo della deflazione? Mi dispiace, non è assolutamente così. Chiunque può capire che 0,3 o 0,4 non significa nulla. In tempi in cui la domanda di lavoro era rappresentata soprattutto da contratti a tempo indeterminato, avevamo calcolato che se non si superava il 2- 2,5% – quindi tutt’altro, cioè dieci volte di più di quello di cui stiamo parlando adesso – un aumento significativo dell’occupazione non si poteva registrare. Noi recentemente abbiamo avuto un aumento dei contratti, perché sono state sostituzioni – si è passati da una tipologia a un’altra – ma il livello occupazionale ha continuato a ridursi in modo significativo. Riguarda molto la manifattura, ovviamente. Avremmo un grande potenziale nei servizi di cura e nelle attività ambientali, ma non ci sono le risorse per far crescere l’occupazione, dato che il bilancio dello Stato non ha disponibilità.
    Si è scelto di non averne, disponibilità – perché potremmo averla, come altri paesi: un minimo di sovranità monetaria, accordi, deroghe, eccetera – ma non abbiamo voluto niente, perché la classe politica ha deciso una rigidità assoluta. La Germania? No, lo abbiamo deciso noi, e ci siamo appiattiti su posizioni che facevano comodo alla Germania, ma è sempre una scusa quando si dice “lo vuole l’Europa, la Germania, i trattati”. Chi li ha firmati, i trattati? Perché li abbiamo firmati? Chi è andato a firmare i trattati non sapeva a che cosa esponeva il paese? Oggi ci sono 56 miliardi di insoluto che si riferiscono alle bollette e alle rate non pagate, dal 2014: un +13% rispetto all’anno precedente. Il 12% di questo è l’insoluto relativo alle imprese. Il credito non viene ancora concesso, per andare incontro alle piccole e medie imprese. Il credito, quello che servirebbe alla ripresa, quello di cui parlava Draghi per gli investimenti, non viene concesso perché la ripresa non c’è. Finché non c’è la ripresa non ci sarà la domanda per investimenti, che attraverso un’azione di credito da parte delle banche metterà in moto il meccanismo.
    Invece le famiglie e le imprese piccole, che hanno bisogno di prestiti, si trovano sempre nella lista nera delle banche perché sono considerati soggetti a rischio, soggetti deboli, e quindi non vengono aiutati. E’ giusto sottolineare che, a fronte di una riduzione del reddito pro capite, che è molto più forte di quella del Pil – perché non ci dimentichiamo che la popolazione residente, per l’aumento degli stranieri, comunitari ed extracomunitari (nel passato soprattutto comunitari, adesso stanno arrivando anche gli extracomunitari) – è aumentata nella media dello 0,5% all’anno, cioè 250-300.000 persone. Questo fa calare il Pil pro capite, che è il principale indicatore che ci può far capire se i consumi si riprendono o meno. Ma, d’altra parte, ci sono le bollette, le spese, gli insoluti condominiali: è un disastro, la gente è sempre più indebitata, deve pagare sempre di più, ma gli stipendi e l’occupazione vanno male. E quindi, ovviamente, non c’è nessuna prospettiva di ripresa, perché non ci dobbiamo mai dimenticare che il principale aggregato macroeconomico che serve per la ripresa sono i consumi. Ma se non aumentano gli stipendi, o non aumenta la spesa pubblica, non c’è nessuna speranza che ci sia la ripresa, finché non cambiamo politica economica.
    (Nino Galloni, dichiarazioni rilasciate a “Uno Mattina”, Rai Uno, il 15 maggio 2015, intervista ripresa su YouTube. Insigne economista italiano, Galloni è stato collaboratore del keynesiano Federico Caffè. Ha insegnato economia a Roma e Milano).

    Secondo Renzi, l’andamento del Pil dimostra che l’economia italiana è fuori dalla crisi? Numeri “confortanti e superiori alle più rosee aspettative degli economisti”, che prevedavano una ripresa dello 0,2% del Pil, mentre si sarebbe attestata allo 0,3? Inversione di tendenza, che segnala che il paese è fuori dal pericolo della deflazione? Mi dispiace, non è assolutamente così. Chiunque può capire che 0,3 o 0,4 non significa nulla. In tempi in cui la domanda di lavoro era rappresentata soprattutto da contratti a tempo indeterminato, avevamo calcolato che se non si superava il 2- 2,5% – quindi tutt’altro, cioè dieci volte di più di quello di cui stiamo parlando adesso – un aumento significativo dell’occupazione non si poteva registrare. Noi recentemente abbiamo avuto un aumento dei contratti, perché sono state sostituzioni – si è passati da una tipologia a un’altra – ma il livello occupazionale ha continuato a ridursi in modo significativo. Riguarda molto la manifattura, ovviamente. Avremmo un grande potenziale nei servizi di cura e nelle attività ambientali, ma non ci sono le risorse per far crescere l’occupazione, dato che il bilancio dello Stato non ha disponibilità.

  • Rassegnarci a perdere tutto: è lo scopo della crisi infinita

    Scritto il 25/6/15 • nella Categoria: idee • (9)

    La lunga crisi economica, e non solo economica ma anche sociale, costituzionale, morale, culturale, sta letteralmente rieducando i popoli: questa è la riforma delle riforme. Insegna loro una lezione importante e penetrante. L’uomo impara ad interiorizzare una diversa e molto più modesta e docile concezione di se stesso, dei suoi diritti fondamentali, delle sue prospettive esistenziali. Taglia pretese e aspettative. Accetta ciò che viene. Si rassegna. La crisi prevedibilmente verrà portata avanti, con gli strumenti di destabilizzazione descritti nei miei precedenti articoli (“Comunitarismo e Realismo”, “Questa non è una Crisi Economica”), finché questa lezione non sarà stata assimilata e finché la precedente maniera di considerare il mondo, la società, i diritti dell’uomo, non sarà stata dimenticata o perlomeno “sovrascritta” da una nuova coscienza, imperniata sugli elementi seguenti. Il rating delle agenzie finanziarie e le variabili “necessità” del mercato sono la fonte normativa suprema, superiore ai principi costituzionali e prevalgono su di essi; lo Stato di diritto e garanzia è finito. Conseguentemente, i diritti di partecipazione democratica e di rappresentanza del cittadino sono condizionati e comprimibili.
    Le scelte di politica economica, del lavoro, dei rapporti internazionali discendono da fattori di mercato superiori alla volontà popolare e sono dettate ai popoli dall’alto, da organismi tecnocratici sovranazionali, che non sono responsabili degli effetti di tali scelte e possono mantenerle in vigore quali che siano i loro effetti, mentre esse non sono rifiutabili dai popoli e dai loro rappresentanti. Se così non fosse, si metterebbe in pericolo il Pil, il rating, lo spread. In effetti, gli Stati sono politicamente impotenti e subalterni, essendo indebitati in una moneta che non controllano più essi, ma un cartello bancario, da cui essi dipendono per rifinanziarsi. Il cittadino è essenzialmente passivo: subisce senza poter reagire, interloquire, negoziare, le tasse, le tariffe, i prezzi imposti dallo Stato, dei monopolisti dei servizi, dell’energia, di molti beni essenziali. Subisce senza poter reagire il tracciamento di tutte le sue azioni, spostamenti, incassi, spese, consumi.
    Lo Stato, la pubblica amministrazione, le imprese private monopolistiche che operano in concessione, lo governano e agiscono su di lui da lontano, con mezzi telematici, senza che egli possa interagire con tali soggetti. Come lavoratore, deve accettare una strutturale mancanza di garanzie e pianificabilità, di stabilità dei rapporti e dei redditi, di continuità occupazionale, di prospettiva di carriera e persino di una pensione sufficiente a vivere.
    Come consumatore, deve accettare i prezzi e le tariffe fissate da monopoli multinazionali o da monopoli locali ammanicati con la casta politica. Deve accettare senza discutere che lo Stato, pur potendo investire e rilanciare l’economia e l’occupazione, scelga piuttosto di lasciare milioni e milioni di persone senza lavoro e nella miseria, nonché senza servizi pubblici decenti, per rispettare i parametri astratti e senza alcuna utilità verificabile, o addirittura dannosi. Deve accettare che i suoi risparmi, sia in valori finanziari che in beni immobili, siano posti in line e gli vengano gradualmente sottratti con le tasse, le bolle, i bail-in, e che non gli rendano più niente, e che i rendimenti siano solo per i grandissimi capitali, quelli di coloro che comandano la società, e che si muovono in circuiti finanziari off shore dove non si pagano le tasse.
    In fatto di ordine pubblico, deve accettare che la sicurezza sia garantita in misura limitata e in modo pressoché occasionale, che molti delitti e traffici criminali si svolgano in modo tollerato, che molti malfattori non vengono perseguiti o vengano subito rilasciati. Deve rinunciare ad essere tranquillo e padrone sul suo territorio. Deve rinunciare ad avere un territorio suo proprio. Deve inoltre abituarsi a non considerarsi portatore di diritti inalienabili e propri di cittadino, in quanto vede gli immigrati anche clandestini preferiti a lui nei servizi sanitari, nell’edilizia popolare, nell’assistenza pubblica in generale, e protetti quando commettono abitualmente reati. Deve capire che è lo Stato, dall’alto e insindacabilmente, a dare e togliere diritti, a stabilire chi ha diritti, chi non ne ha, chi ne ha di più, chi ne ha di meno. Deve accettare come giusti, normali, inevitabili nonché benefici, i flussi di immigrazione massicci che stravolgono la composizione etnica e culturale del suo ambiente sociale.
    Deve accettare la fine delle comunità e delle formazioni intermedie, perché tutti gli umani, indistintamente, sono resi per legge e per prassi amministrativa omogenei, equivalenti, monadi solitarie e senza volto davanti allo schermo, al fisco, agli strumenti di monitoraggio e, se necessario, ai droni. Deve accettare la fine delle identità e dei ruoli naturali: fine della famiglia naturale in favore di quella Fai Da Te, fine della differenziazione tra i sessi in favore della scambiabilità del gender, fine della nazione come comunità storica etico culturale in favore del villaggio globale omogeneizzato, fine delle democrazie parlamentari nazionali sovrane in favore di un senato mondialista, bancario e massonico. Deve imparare che il suo ruolo è la passività obbediente, che non ci sono alternative; e a rifiutare come populista, infantile, fascista, comunista, retrivo qualsiasi pensiero strutturalmente critico verso questo nuovo ordine di cose.
    (Marco Della Luna, “Pedagogia della crisi continua”, dal blog di Della Luna del 26 maggio 2015).

    La lunga crisi economica, e non solo economica ma anche sociale, costituzionale, morale, culturale, sta letteralmente rieducando i popoli: questa è la riforma delle riforme. Insegna loro una lezione importante e penetrante. L’uomo impara ad interiorizzare una diversa e molto più modesta e docile concezione di se stesso, dei suoi diritti fondamentali, delle sue prospettive esistenziali. Taglia pretese e aspettative. Accetta ciò che viene. Si rassegna. La crisi prevedibilmente verrà portata avanti, con gli strumenti di destabilizzazione descritti nei miei precedenti articoli (“Comunitarismo e Realismo”, “Questa non è una Crisi Economica”), finché questa lezione non sarà stata assimilata e finché la precedente maniera di considerare il mondo, la società, i diritti dell’uomo, non sarà stata dimenticata o perlomeno “sovrascritta” da una nuova coscienza, imperniata sugli elementi seguenti. Il rating delle agenzie finanziarie e le variabili “necessità” del mercato sono la fonte normativa suprema, superiore ai principi costituzionali e prevalgono su di essi; lo Stato di diritto e garanzia è finito. Conseguentemente, i diritti di partecipazione democratica e di rappresentanza del cittadino sono condizionati e comprimibili.

  • Salvini è perfetto per far sembrare Renzi il meno peggio

    Scritto il 17/6/15 • nella Categoria: idee • (2)

    Tra i migliori trucchi per vincere, in qualsiasi campo, c’è quello di scegliersi il nemico. Non è un trucco difficile: basta che siano tutti distratti o ipnotizzati ed è un giochetto da ragazzi. Come se il Barcellona potesse decidere da solo che una finalissima la giocherà, che so, contro la Battipagliese. E’ un’operazione semplice: basta dire chi è l’avversario e assicurarsi una platea plaudente che si dica d’accordo, che magari si finga preoccupata dicendo cose come: “Ah, però, non sottovalutiamo la Battipagliese”. Così Matteo Renzi and his friends indicano in Matteo Salvini il nemico, l’unica opposizione esistente, l’unico avversario. Gli altri, o nominati con sufficienza o nemmeno citati: concentrarsi su Salvini sembra essere l’ordine di scuderia, forse nella speranza che al momento della scelta suprema e definitiva l’italiano di imprinting anche vagamente democratico preferisca il neocraxismo del Pd renzista alle ruspe dell’altro ragazzotto, quello con la felpa.
    E’ una buona mossa, soltanto un po’ rischiosa. Intanto perché vista la rapidità con cui Renzi perde pezzi di elettorato le cose possono cambiare velocemente (si veda l’ingresso al Nazzareno dalla porta posteriore, essendo quella principale presidiata da ex elettori infuriati, insegnanti nella fattispecie). E poi perché per indicare un avversario bisogna in qualche modo mettersi sul suo piano, accettarne almeno il gioco, sfidarlo sullo stesso campo. Si ricorda per esempio en passant che mentre il Salvini gigioneggia in giro parlando di ruspe e pogrom, le ruspe sono state usate a Roma, alla favela di Ponte Mammolo, per cacciare senza preavviso gente che ci abitava da anni, senza soluzioni alternative accettabili. Risultato: in una città dove si discute fittamente se gli affari sulla pelle dei migranti si possano o no chiamare “mafia” (una mafia decisamente bipartisan, tra fascisti conclamati, coop rosse e esponenti Pd), c’è ancora gente che dorme per strada davanti alla sua baracca spianata dalle ruspe.
    Eroiche associazioni di volontari e persone civili chiedono aiuto sui social: servono medicine, cibo, acqua, carta igienica. Qualche tenda l’ha fornita una nota (e a questo punto: meritoria) catena di articoli sportivi, mentre le istituzioni si accapigliano sui giornali a proposito di inchieste e mandati di cattura. Il salvinismo teorico di Salvini, insomma, si contrappone a un salvinismo reale, che le ruspe le usa davvero, ma si circonda di una narrazione umanitaria, confortevole pietosa. C’è chi dice che l’onnipresenza di Salvini in tivù (è quello, non il brillante eloquio da seconda media, che gli procura consensi) sia incoraggiata e agevolata proprio a questo scopo: trasformare una dialettica politica complessa in un derby tra buoni e cattivi, o almeno tra peggio e meno peggio.
    E’ una dietrologia complottista e quindi non le daremo peso. Ma è certo che anche i media tifano per quella soluzione da pensiero binario: o il Matteo buono (?) o il Matteo cattivo (!), e non ci sarà altra scelta. Sanno tutti che non è così, ma per il momento la cosa sembra funzionare: è una semplificazione, una caricatura, uno schema facile, e dunque – in tempi di distrazione di massa – conveniente. Il giochetto non durerà a lungo: tra uno che straparla di ruspe e uno che dice “Ok, discutiamo” puntando la pistola, sarà inevitabile una qualche terza via. Perché il trucchetto di scegliersi il nemico ha questa controindicazione: qualcuno potrebbe pensare che sono nemici entrambi, e finiscono per somigliarsi.
    (Alessandro Robecchi, “Ti piace vincere facile? Basta scegliere l’avversario”, da “Micromega” del 13 giugno 2015).

    Tra i migliori trucchi per vincere, in qualsiasi campo, c’è quello di scegliersi il nemico. Non è un trucco difficile: basta che siano tutti distratti o ipnotizzati ed è un giochetto da ragazzi. Come se il Barcellona potesse decidere da solo che una finalissima la giocherà, che so, contro la Battipagliese. E’ un’operazione semplice: basta dire chi è l’avversario e assicurarsi una platea plaudente che si dica d’accordo, che magari si finga preoccupata dicendo cose come: “Ah, però, non sottovalutiamo la Battipagliese”. Così Matteo Renzi and his friends indicano in Matteo Salvini il nemico, l’unica opposizione esistente, l’unico avversario. Gli altri, o nominati con sufficienza o nemmeno citati: concentrarsi su Salvini sembra essere l’ordine di scuderia, forse nella speranza che al momento della scelta suprema e definitiva l’italiano di imprinting anche vagamente democratico preferisca il neocraxismo del Pd renzista alle ruspe dell’altro ragazzotto, quello con la felpa.

  • Grecia: 10.000 suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio

    Scritto il 14/6/15 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì, ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della nazione».
    Giannaros ha un passato nelle truppe speciali: mostra le foto delle sue ultime missioni, in mimetica, immerso in un fiume fino alle ginocchia. È come se avesse bisogno di una pausa, vuole raccontare ancora qualcosa della sua famiglia, degli altri due figli, 24 e 28 anni. «Anche il più piccolo è un soldato». Lo dice con un sottinteso chiaro: lui si è salvato. Ma quanti sono i giovani senza speranza? Le statistiche si afflosciano come svuotate di senso al cospetto della forza, della dignità di quest’uomo. «Appena arrivato qui incontravo pazienti che mi chiedevano: ma quanto devo pagare per operarmi qui? Quanto per una lastra? Nulla, rispondevo, questo è un ospedale pubblico. Poi mi sono fatto portare il registro delle prenotazioni e ho capito. La lista d’attesa risultava sempre infinita, ma con una buona “fakelaki” si poteva comodamente saltare la fila». “Fakelaki”, la bustarella. «In cortile ho fatto mettere dei cartelli con una busta sbarrata con una grande x rossa. Significa che qui non si accettano tangenti».
    Le parole del più atipico dei manager conducono nell’antro della crisi. I ragionamenti sulla sostenibilità del debito lasciano il posto alla scarsità di siringhe, bisturi, persino guanti per la sala operatoria. «Abbiamo sviluppato un network di scambi tra le diverse cliniche. Andiamo avanti anche grazie a donazioni in arrivo dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania». Theodoros accende un’altra sigaretta. Aspira profondamente, poi scarica fumo e una lunga invettiva. Contro le vecchie classi politiche, le dieci famiglie che hanno monopolizzato l’economia del paese, le «idiote» prescrizioni della “Troika”, il Fondo Monetario, la Bce, la Commissione Europea, Angela Merkel. Spera che Alexis Tsipras possa raggiungere qualche risultato, «ma deve avere dietro tutti i partiti, tutta la Grecia. Questo è l’unico modo che abbiamo per sopravvivere». Già, «sopravvivere».
    «Penso continuamente a quei 10 mila morti che abbiamo seppellito nel silenzio. Penso a mio figlio. E penso che se in Germania un cane muore in malo modo, ecco che il caso finisce sui giornali, se ne dibatte in tv. Ma avete mai sentito parlare dei nostri giovani, dei nostri anziani che si sono suicidati? La guerra civile della Jugoslavia ha fatto 20 mila morti. Quella, però, era una guerra. Che cos’è, invece, questa nostra strage? È una domanda a cui non so rispondere, posso solo dire che in questo momento mi vergogno di essere un europeo». Forse è arrivato il momento di andare. Ma Theodoros ha ancora qualcosa da dire: «In questi anni sono stato corteggiato da tutti i partiti, avrei potuto fare il ministro cento volte. Invece ho sempre voluto restare un uomo libero e mi sono fatto un mare di nemici. Continuo a stare qui, a lavorare per 1.400 euro al mese, cinque volte meno di qualche anno fa. Non posso permettermi la macchina, viaggio in scooter e giro con una pistola. Prima che mio figlio se ne andasse così, mi sentivo anche un privilegiato».
    (Giuseppe Sarcina, “Grecia: il conto della disperazione? Diecimila suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio”, dal sito del “Corriere della Sera” del 10 giugno 2015).

    Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì, ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della nazione».

  • Euro Macht Frei, l’Europa è solo un’espressione germanica

    Scritto il 13/6/15 • nella Categoria: idee • (1)

    L’Italia è solo un’espressione geografica e l’Europa è solo un’espressione germanica: euro macht frei. L’Unione Europea e l’euro vennero spacciati come strumento per unificare i paesi europei. L’effetto è opposto. I paesi mediterranei, pieni di debiti e di disoccupati, dopo aver ceduto gli asset migliori, vengono spinti verso il Terzo Mondo, mentre il Terzo Mondo, sui barconi, viene spinto dentro di essi. La separazione tra nord e sud d’Europa viene resa sempre più dura e insuperabile. Zero solidarietà e zero veduta d’insieme. Menefreghismo totale e compiaciuto: i paesi nordeuropei si stanno costruendo il loro subcontinente coloniale per trarne mano d’opera e lavorazioni a buon mercato. L’idea di unificazione europea era assurda sin dall’inizio: bastava guardare alle costanti storiche delle principali nazioni europee che dovevano unificarsi, per predire che questo progetto era irrealizzabile. E che, se realizzato, avrebbe portato a un incrocio tra una polveriera come la Jugoslavia unita e una palude malata come l’Italia unita.
    Superiore efficienza, solidarietà interna, conformismo, sopraffazione degli altri popoli, soprattutto se mediterranei, assenza di scrupoli: queste sono le caratteristiche politiche e culturali del popolo tedesco oggi, esattamente come ai tempi del Terzo Reich, ai tempi del Secondo Reich e anche prima. Le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, le invasioni di paese neutrale, le stragi di civili, anche di bambini, le compivano anche nella prima, non avevano bisogno di aspettare Hitler e il nazismo. Hitler e il nazismo sono un’espressione dell’animo tedesco profondo (accanto ad altri, ben diversi), una sua costante, non un fattore esogeno e transitorio di disturbo, separabile dalla nazione. Nella consapevolezza di ciò, dopo la Prima Guerra Mondiale, i vincitori le imposero dure condizioni economiche, studiate per impedire che risorgesse come potenza militare. Visto che ciò non era bastato, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la si si ridusse molto di dimensioni e la si divise in quattro zone di controllo; ma esistevano piani più radicali per renderla inoffensiva, facendone un paese puramente agricolo.
    Quasi dimenticavo: durante e dopo la guerra, sovietici e statunitensi sterminarono deliberatamente diversi milioni di civili e di prigionieri tedeschi, trucidandoli o facendoli morire di fame e di stenti. Effetto di queste misure e di queste stragi, è stato di consolidare l’atteggiamento morale condiviso da quel popolo, ossia considerare gli altri popoli come avversari da sottomettere non appena possibile. Con mezzi economici, se non con mezzi militari. Passiamo al Regno Unito. Anche i britannici di oggi continuano i caratteri storici del loro atteggiamento verso l’Europa continentale: Né dentro né fuori, ma meglio fuori che dentro, possibilmente alla distanza giusta per controllare. Nel 2017, faranno un referendum per l’uscita dall’Unione Europea. È però ben possibile che minaccino di farlo allo scopo di ottenere, come già hanno fatto in passato, più vantaggi economici e privilegi dall’Unione Europea, disposta a pagare pur di evitare l’uscita di un membro così insigne, la quale sarebbe una dimostrazione di fallimento dell’Unione Europea stessa, forse l’inizio della sua scomposizione.
    Ossia, è probabile che da Londra stiano dicendo: Voi, eurocrati predoni e parassiti di Bruxelles e Strasburgo, se volete continuare a fare i vostri comodi, se volete che non rompiamo il vostro giocattolo, la vostra macchina da soldi, pagateci. La Francia mantiene costante la sua identità e fierezza nazionale, la sua forza militare e nucleare indipendente, la sua politica razionalmente egoista anche se spesso ingenua, come dimostrato dagli esiti del suo asse con la Germania, con cui i suoi nani politici si illudevano, e illudevano la gente, che la Francia potesse condividere con questa il dominio sull’Europa, anziché restare al guinzaglio finanziario delle sue banche. Dell’Italia, paese senza peso internazionale, anzi ormai sostanzialmente governato dall’esterno, con oltre vent’anni di ininterrotta decadenza funzionale alle spalle e la mafia come mentalità e metodo della sua politica e della sua burocrazia, non serve dire molto: per un paese appena efficiente, l’unirsi ad essa sarebbe autolesionismo. Quanto puerile idealismo necessita, quanto bisogna… spinellarsi, per credere oggi che da questi presupposti di fatto possa nascere un’Europa unita, se non attraverso la violenza, la coercizione e la sopraffazione? Ma se questo è il progetto degli illuminati architetti che hanno congegnato e calato dall’alto questo ordinamento europeo e questa moneta unica con le sue regole di bilancio, allora proprio la Germania, la patria dei Lager e dei campi di lavoro forzato, è il suo vero e immancabile strumento di realizzazione. Euro macht frei.
    (Marco Della Luna, “L’Europa è solo un’espressione germanica”, dal blog di Della Luna del 30 maggio 2015).

    L’Italia è solo un’espressione geografica e l’Europa è solo un’espressione germanica: euro macht frei. L’Unione Europea e l’euro vennero spacciati come strumento per unificare i paesi europei. L’effetto è opposto. I paesi mediterranei, pieni di debiti e di disoccupati, dopo aver ceduto gli asset migliori, vengono spinti verso il Terzo Mondo, mentre il Terzo Mondo, sui barconi, viene spinto dentro di essi. La separazione tra nord e sud d’Europa viene resa sempre più dura e insuperabile. Zero solidarietà e zero veduta d’insieme. Menefreghismo totale e compiaciuto: i paesi nordeuropei si stanno costruendo il loro subcontinente coloniale per trarne mano d’opera e lavorazioni a buon mercato. L’idea di unificazione europea era assurda sin dall’inizio: bastava guardare alle costanti storiche delle principali nazioni europee che dovevano unificarsi, per predire che questo progetto era irrealizzabile. E che, se realizzato, avrebbe portato a un incrocio tra una polveriera come la Jugoslavia unita e una palude malata come l’Italia unita.

  • Stiamo già uscendo dall’euro, creato per distruggerci

    Scritto il 11/6/15 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    L’euro è una moneta unica che impedisce ai singoli paesi di avere sovranità monetaria e quindi di utilizzare la leva del cambio, ovvero di gestire i propri debiti pubblici in funzione di una spesa che deve servire per assorbire la disoccupazione e rilanciare lo sviluppo. Una moneta di egemonia, assolutamente. Le radici dell’euro sono il G7 di Tokyo del 1979, dove si è deciso che ciascun paese deve essere responsabile della propria bilancia dei pagamenti senza aiuti per i paesi deboli. Quindi si è rotto il principio di solidarietà. Poi c’è stata la netta separazione tra le banche centrali e i governi, per cui si privavano questi ultimi della possibilità di avere una spesa pubblica per investimenti, adeguata alle esigenze. Terzo: il momento in cui alla fine degli anni Ottanta i paesi europei accettano la riunificazione della Germania. In cambio della sostituzione della moneta si dovrà creare una moneta comune, al livello del marco. Dietro tutto questo c’era la necessità di deindustrializzare l’Italia, perché né Francia né Germania erano in grado di sostenere una competitività derivante dalle nostre capacità.
    Una sovranità monetaria e una leva del cambio insieme avrebbero creato difficoltà a tutti questi paesi. Come uscirne? Secondo me stiamo già uscendo dall’euro. Questo capitalismo che io chiamo ultra-finanziario, che massimizza le emissioni dei titoli – oggi nel mondo i titoli tossici sono 54 volte il Pil – e che concentra la liquidità dove non deve stare, cioè nelle attività finanziarie, e la rende scarsa dove deve stare, cioè per consumi e investimenti; questo tipo di economia finisce per essere talmente lontana dalla realtà, che la “realtà” stessa reagisce e reagirà ancora di più, emettendo una propria moneta. Moneta fiduciaria, dunque, sistemi di compensazione, di soluzione alternativa delle dispute economiche, eccetera. Tutto questo ci porterà fuori dall’euro. Chi potrebbe prendere l’iniziativa? Può essere che ci si metta d’accordo in qualche modo, e questa sarebbe la cosa ottimale. O potrebbe anche essere un processo conflittuale, con qualcuno che salta. Adesso c’è la situazione della Grecia che fa da pilota.
    La Grecia si sta già rivolgendo alla Russia per essere aiutata, ma le oligarchie europee non vogliono far vedere che sia possibile uscire dall’euro ed essere aiutati. Con molta miopia, secondo me. Comunque, niente di male che la Russia abbia un ruolo nel Mediterraneo, se poi l’Iran avrà un ruolo diverso nel Medio Oriente, con l’accordo della parte migliore degli americani che, diciamo così, si disimpegnano dall’area dopo aver fatto danni. Ripeto: il problema non è tanto come si esce dall’euro, ma il fatto che stiamo già uscendo con monete alternative, con iniziative che hanno a che vedere con lo sviluppo dell’economia reale a partire dalle realtà locali e che poi daranno dei risultati nel giro dei prossimi anni.
    (Nino Galloni, dichiarazioni rilasciate a “Stampa Libera” per l’intervista “La finanza vuole la Terza Guerra Mondiale”, pubblicata il 1° giugno 2015 e ripresa dal blog “Vox Populi”).

    L’euro è una moneta unica che impedisce ai singoli paesi di avere sovranità monetaria e quindi di utilizzare la leva del cambio, ovvero di gestire i propri debiti pubblici in funzione di una spesa che deve servire per assorbire la disoccupazione e rilanciare lo sviluppo. Una moneta di egemonia, assolutamente. Le radici dell’euro sono il G7 di Tokyo del 1979, dove si è deciso che ciascun paese deve essere responsabile della propria bilancia dei pagamenti senza aiuti per i paesi deboli. Quindi si è rotto il principio di solidarietà. Poi c’è stata la netta separazione tra le banche centrali e i governi, per cui si privavano questi ultimi della possibilità di avere una spesa pubblica per investimenti, adeguata alle esigenze. Terzo: il momento in cui alla fine degli anni Ottanta i paesi europei accettano la riunificazione della Germania. In cambio della sostituzione della moneta si dovrà creare una moneta comune, al livello del marco. Dietro tutto questo c’era la necessità di deindustrializzare l’Italia, perché né Francia né Germania erano in grado di sostenere una competitività derivante dalle nostre capacità.

  • Mosler: salvi col deficit all’8%, ma Berlino vi vuole morti

    Scritto il 10/6/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Le nostre idee sono arrivate a Obama, quando sono stato candidato al Senato in Connecticut, nel 2010, proponendo una riduzione o un’eliminazione del cuneo fiscale. Del resto, la tassazione sulla busta paga è l’imposta più regressiva che abbiamo negli Usa e l’argomento è quindi efficace. Scrissi alcuni articoli e feci alcune apparizioni televisive, e Jamie Galbraith, consigliere di Obama, cominciò a riprendere i nostri contenuti pubblicamente. L’idea suscitò anche l’interesse dell’amministratore delegato della General Electric, Jeffrey Immelt, e poi quello di Troy Nash, un altro degli assistenti di Obama. E così il taglio del cuneo fiscale è diventato legge. Si tratta di un taglio minimo, del 2%,  ma importante, anche perché è uno dei pochi provvedimenti bipartisan. Questa misura ha contribuito ad alimentare la crescita negli Stati Uniti, che ha subìto poi un sostanziale rallentamento nel momento in cui il governo ha voluto iniziare a ridurre il deficit pubblico.
    Nell’area Euro i trattati rendono difficili, se non impossibili gli investimenti e l’ampliamento del welfare. Manca la volontà politica. Ed è un peccato, perché basterebbe decidere di aumentare il vincolo di rapporto col Pil dal 3 per cento all’8. Senza altre variazioni nella struttura delle istituzioni Ue, la disoccupazione diminuirebbe e la crescita potrebbe arrivare anche al 4%. Non è una strada che piace alla Germania, però. La Germania ha un problema del tutto ideologico, persino filosofico. Gli intellettuali progressisti hanno a lungo visto nell’Unione Europea una via maestra per il rifiuto delle politiche regressive di stampo nazionalista. Sfortunatamente chi governa oggi questa istituzione ha sviluppato un’agenda economica fortemente regressiva, di destra. Uscirne tuttavia significa esporsi, appunto, ad un alto rischio di crescita del nazionalismo. La sfida è capire quale fra tutte le possibili strade sia meno “di destra” rispetto alle altre.
    Restando nell’Eurozona, se vi fosse la volontà politica di fare qualunque cosa di diverso rispetto alle politiche attuali, allora bisognerebbe puntare ad incrementare il deficit. Le istituzioni europee credono che agire sui tassi di interesse migliori l’economia e che le riforme strutturali consentano di aumentare l’occupazione. Non è così. L’euro a due velocità? Ancora una volta, credo manchi la volontà. I politici sono stati trasformati in esattori delle tasse: non hanno nessuna prospettiva economica. E in Italia non hanno nessun interesse, al governo sono totalmente passivi. Qualcuno mi ha chiesto quale politica economica abbia in mente Renzi: ho risposto che non ne ha una! E come lui, però, nessuno, in Europa. Manca la logica. Ad esempio: mettiamo che voi crediate realmente che in Grecia siano tutti pigri e nessuno abbia voglia di lavorare. Anche se voleste punirli, che senso ha creare politiche in cui gli stessi greci sono messi nelle condizioni di non poter più lavorare?
    Credo che il tasso di cambio dell’euro si rafforzerà molto e la Germania vedrà le esportazioni nette deteriorarsi. Non c’è nulla che siano in grado di fare. Sono impotenti. Sarà una distruzione della società fondata sulla deflazione e l’apprezzamento della valuta. Nei sei mesi scorsi l’euro è sceso temporaneamente, perché le banche centrali mondiali hanno reagito al Quantitative Easing e hanno iniziato a vendere grandi quantità di euro; questo processo però terminerà. Ora che l’euro tornerà a crescere, cosa faranno? Non gli resta nulla.
    (Warren Mosler, dichiarazioni rilasciate a “Left” per l’intervista “In Germania un problema ideologico, persino filosofico”, pubblicata il 23 maggio 2015 e ripresa dal blog “Vox Populi”)

    Le nostre idee sono arrivate a Obama, quando sono stato candidato al Senato in Connecticut, nel 2010, proponendo una riduzione o un’eliminazione del cuneo fiscale. Del resto, la tassazione sulla busta paga è l’imposta più regressiva che abbiamo negli Usa e l’argomento è quindi efficace. Scrissi alcuni articoli e feci alcune apparizioni televisive, e Jamie Galbraith, consigliere di Obama, cominciò a riprendere i nostri contenuti pubblicamente. L’idea suscitò anche l’interesse dell’amministratore delegato della General Electric, Jeffrey Immelt, e poi quello di Troy Nash, un altro degli assistenti di Obama. E così il taglio del cuneo fiscale è diventato legge. Si tratta di un taglio minimo, del 2%,  ma importante, anche perché è uno dei pochi provvedimenti bipartisan. Questa misura ha contribuito ad alimentare la crescita negli Stati Uniti, che ha subìto poi un sostanziale rallentamento nel momento in cui il governo ha voluto iniziare a ridurre il deficit pubblico.

  • Renzi ha dimezzato i suoi voti: va rottamato, in tre mosse

    Scritto il 08/6/15 • nella Categoria: idee • (2)

    Se nel Pd c’è ancora qualche testa pensante anche vagamente sensibile ai valori di “libertà e giustizia” che definiscono la sinistra (due condizioni che escludono d’emblée Bersani, D’Alema e compagnia cantando) già avrà individuato il “che fare”. In tre mosse. Primo: far cadere Renzi in una delle numerose fiducie che sarà costretto a porre per far passare in Parlamento le sue pimpanti controriforme. Secondo: chiedere allora un immediato congresso del Pd, con le stesse modalità e procedure che portarono Renzi a impadronirsi del partito, partecipazione/iscrizione dei cittadini anche al momento del gazebo, ecc. Terzo, in contrapposizione a Renzi candidare per la segreteria del Pd Maurizio Landini, e parallelamente chiedere al presidente Mattarella che al posto del governo sfiduciato, anziché sciogliere le camere, venga insediato un governo di “tregua repubblicana”, affidato tutto a personalità della società civile e capace di ottenere le convergenze autonome di parlamentari Pd, M5S e altri “volenterosi” sul programma e la credibilità dei ministri preposti a realizzarlo.
    La razionalità di questo “che fare” non è difficile da riscontrare. Renzi si accinge a completare la distruzione del Pd mutandolo in comitato elettorale personale, intenzione che del resto non aveva mai occultato. La sua politica, per profonda convinzione, è quella di realizzare la contro-rivoluzione di liberismo autocratico vagheggiata da Berlusconi ma restata in panne per i conflitti d’interesse e i crimini nell’armadio (sfociati finalmente in una condanna definitiva, dopo le tante sventate da leggi ad hoc e inciuci) e soprattutto per l’ondata di lotte civili, sociali, d’opinione, con cui la parte migliore della società civile ha saputo fare argine. In realtà il progetto politico di Renzi è la marchionizzazione del paese e delle istituzioni, e la contro-riforma della scuola ne costituisce la più luttuosa evidenza.
    Renzi è in questo momento debolissimo, malgrado il fumo negli occhi della quasi totalità dei mass media (mai come oggi a “bacio della pantofola” verso l’establishment: ma il “marchionnismo” non è anche questo?). In un anno ha perso la metà dei consensi. La metà, il 50%, un voto su due rispetto al bottino elettorale delle europee, ci rendiamo conto?! Si è letto che sono due milioni di voti, ma nelle sette regioni in cui si è votato. In proiezione nazionale sono cinque milioni e mezzo. Non un’emorragia, un dissanguamento da mattatoio. In un solo anno: quello che passa tra la fiducia dei cittadini al renziano dire, mirabolante, e il giudizio sul renziano fare, miserabile. Perdere in un anno un voto su due non è una “non sconfitta” o una “non vittoria”, è un tracollo, una disfatta, una gogna e rottamazione civica impietosa.
    Che quanto resti di “opposizione” nel Pd non colga l’attimo dimostrerebbe definitivamente che è ormai ridotta al livello del saracino Alibante di Toledo che “del colpo non accorto / Andava combattendo ed era morto” (Francesco Berni, “L’Orlando innamorato”, LII, 60). Se a questa “opposizione” resta invece ancora un barlume di “spiriti animali”, lucidità vuole che senza coltivare patetici propositi di riprendersi la ditta, decida di uscire di scena con un ultimo gesto di vitalità anziché nel vociare strozzato di un melmoso affondare. Alla vecchia nomenklatura non è data la rivincita, la vendetta sì. A Landini, l’unica vendetta a disposizione di questi burocrati che nessuno rimpiange, può riuscire, da posizioni opposte, di società civile “giustizia e libertà”, l’Opa sul Pd che è riuscita a Renzi or non è guari. La nemesi è nelle possibilità della situazione attuale, ma implica lucidità in tutti i soggetti qui evocati, e razionalità e coraggio sono i pregi che da più tempo latitano presso quanti si dichiarano di sinistra.
    (Paolo Flores d’Arcais, “Come rottamare Renzi, in tre mosse”, da “Micromega” del 2 giugno 2015).

    Se nel Pd c’è ancora qualche testa pensante anche vagamente sensibile ai valori di “libertà e giustizia” che definiscono la sinistra (due condizioni che escludono d’emblée Bersani, D’Alema e compagnia cantando) già avrà individuato il “che fare”. In tre mosse. Primo: far cadere Renzi in una delle numerose fiducie che sarà costretto a porre per far passare in Parlamento le sue pimpanti controriforme. Secondo: chiedere allora un immediato congresso del Pd, con le stesse modalità e procedure che portarono Renzi a impadronirsi del partito, partecipazione/iscrizione dei cittadini anche al momento del gazebo, ecc. Terzo, in contrapposizione a Renzi candidare per la segreteria del Pd Maurizio Landini, e parallelamente chiedere al presidente Mattarella che al posto del governo sfiduciato, anziché sciogliere le camere, venga insediato un governo di “tregua repubblicana”, affidato tutto a personalità della società civile e capace di ottenere le convergenze autonome di parlamentari Pd, M5S e altri “volenterosi” sul programma e la credibilità dei ministri preposti a realizzarlo.

  • Internazionale democratica, contro il tecno-nazismo dell’Ue

    Scritto il 06/6/15 • nella Categoria: idee • (2)

    «I nazisti tecnocratici Mario Draghi e Wolfang Schaeuble, con relativo codazzo di servi, politicanti e giornalisti, hanno i giorni contati: l’Europa intera è scossa da un fremito di ribellione che, dalla Spagna alla Polonia, dalla Finlandia alla Grecia, appare oramai inarrestabile». A poco servono le menzogne reiterate, veicolate da un circuito informativo grottesco e screditato, scrive Francesco Maria Toscano: i cittadini hanno deciso di dire basta. «Ricordate i tanti articoli dei soliti giornalai italiani che spiegavano al popolino come l’Italia dovesse imitare il modello spagnolo, terra felice che aveva trovato la via della salvezza a furia di privazioni e sacrifici? Tutte balle. Il sistema politico spagnolo, come ampiamente dimostrato dai risultati elettorali, è letteralmente deflagrato». Il vecchio bipartitismo “popolari contro socialisti” non esiste più, consentendo ad un movimento autenticamente progressista come “Podemos” di divenire in pochissimo tempo il vero dominus della politica iberica. «Alla faccia dei tanti venduti con la penna che continuano a raccontare a pagamento una realtà fantasiosa».
    La democrazia, aggiunge Toscano sul blog “Il Moralista”, «rigetta l’impianto oligarchico che caratterizza questo mostro di Ue, divenuto oramai dovunque utile bersaglio per coagulare consenso». La slavina non si ferma più, «con buona pace del gotha massonico/nazista assiepato sulle posizioni del Maestro Venerabile della Ur-Lodge “Der Ring”, Wolfang Schaeuble». Non è bastato affidare il comando di un partito di sedicente sinistra come il Psoe spagnolo ad un giovanotto caruccio come Pedro Sanchez per evitare una sonora sconfitta. «Lo stesso destino toccherà a breve anche ai socialisti francesi, pronti ad estinguersi a causa dell’insipienza dei vari Hollande e Valls». Per non parlare del Pd renziano, tramortito dalle regionali dopo un anno di marcia trionfale sull’onda delle europee. «Provare ad occultare i disastri macroeconomici provocati dalle politiche del rigore ricorrendo al giovanilismo di maniera o alla demagogia antisprechi e anticasta è oramai inutile», insiste Toscano, collaboratore di Gioele Magaldi, con cui ha fondato il “Movimento Roosevelt” per contrastare il piano austeritario dell’oligarchia neo-feudale europea.
    «I cittadini non ci cascano più», aggiunge Toscano. «Tutti hanno capito che, per ripartire, l’Europa deve cambiare radicalmente: la dittatura finanziaria instaurata dalla Bce di Mario Draghi non è più sopportabile e va abbattuta». Certo, «il nazismo tecnocratico non si ritirerà però senza combattere». Così, per realizzare «un nuovo e più compiuto equilibrio in Europa e nel mondo», in grado di garantire una pace sociale duratura, «è indispensabile costruire fin da subito un movimento di Resistenza internazionale cementato dagli ideali illuministici di libertà, uguaglianza e fratellanza». Nel 1792, ricorda Toscano, il Parlamento francese approvò una legge che imponeva il riconoscimento di un sostegno a tutti i popoli della Terra che avessero desiderato liberarsi dall’oppressione esercitata dalle vecchie aristocrazie parassitarie per raggiungere la sospirata libertà. «Mentre i nazisti tecnocratici, coordinati dal Sacro Romano Imperatore Mario Draghi, possono effettivamente contare sul sostegno di una filiera di potere diffusa e cosmopolita, lo stesso non può dirsi per le diverse forze impegnate nell’attuale Resistenza».
    Per il segretario del “Movimento Roosevelt”, è dunque arrivato il tempo di riannodare i fili di una solidarietà internazionale «che impedisca ai padroni del vapore di derubricare a “vicenda domestica” casi importanti e paradigmatici come quello greco». Il movimento fondato con Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che svela il peso dei circoli massonici occulti internazionali, intende ora porsi sullo scenario globale «come una autentica avanguardia, mastice per la definitiva realizzazione di una struttura di contrasto, pacifica e democratica, pronta ad intervenire come un sol uomo a sostegno delle diverse popolazioni di volta in volta umiliate e colpite dai referenti del nazismo tecnocratico che porta oggi il volto della Troika». Una “Internazionale” nuova di zecca, «depurata da tentazioni totalitarie di marca comunista», coerente nel prospettare un nuovo modello di società «in grado di far coesistere democrazia e benessere diffuso, giustizia sociale e libertà d’impresa, mobilità e piena occupazione». Senza questa nuova “Internazionale” democratica, a parte “Syriza” e “Podemos”, «trionferanno in prospettiva i movimenti di stampo nazionalista, ringalluzziti dalla vittoria di Duda in Polonia». Nuova alleanza, dunque, perché «la dittatura finanziaria di Draghi e Schaeuble è già morta», ma resta ancora da capire «quanto lunga sarà la già iniziata agonia».

    «I nazisti tecnocratici Mario Draghi e Wolfang Schaeuble, con relativo codazzo di servi, politicanti e giornalisti, hanno i giorni contati: l’Europa intera è scossa da un fremito di ribellione che, dalla Spagna alla Polonia, dalla Finlandia alla Grecia, appare oramai inarrestabile». A poco servono le menzogne reiterate, veicolate da un circuito informativo grottesco e screditato, scrive Francesco Maria Toscano: i cittadini hanno deciso di dire basta. «Ricordate i tanti articoli dei soliti giornalai italiani che spiegavano al popolino come l’Italia dovesse imitare il modello spagnolo, terra felice che aveva trovato la via della salvezza a furia di privazioni e sacrifici? Tutte balle. Il sistema politico spagnolo, come ampiamente dimostrato dai risultati elettorali, è letteralmente deflagrato». Il vecchio bipartitismo “popolari contro socialisti” non esiste più, consentendo ad un movimento autenticamente progressista come “Podemos” di divenire in pochissimo tempo il vero dominus della politica iberica. «Alla faccia dei tanti venduti con la penna che continuano a raccontare a pagamento una realtà fantasiosa».

  • Podemos e la resa di Draghi, sta iniziando la fine dell’Ue?

    Scritto il 04/6/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Nella settimana scorsa ci sono state quattro notizie che hanno rivelato quanto sia profonda la crisi della Ue: la dichiarazione di Draghi “l’Euro non è più scontato”; la vittoria di “Podemos” in Spagna; la vittoria dei nazionalisti in Polonia; l’altalena del default greco. Iniziamo dalla prima: Draghi dice che se la tendenza a divaricare dei paesi dell’Eurozona dovesse proseguire, l’euro non sarebbe più sostenibile, non solo economicamente, ma anche politicamente e socialmente. Ma no!? Ma non mi dire! Chi lo avrebbe mai detto?! Insomma, l’euro è una architettura che non può resistere ancora a lungo alle tendenze divaricanti dell’Europa, e si approssima il momento dei conti. Ovviamente la ricetta di Draghi è la più scontata: armonizzare con le riforme la struttura sociale dei paesi dell’Unione, dove per riforme si intende essenzialmente il taglio delle pensioni, il peggioramento delle prestazioni sociali (sanità, istruzione) e la fine tendenziale della loro gratuità o del loro prezzo politico. Però… mai che si parli di armonizzare le norme fiscali …chissà perché?!
    Ovviamente la notizia non è quel che dice Draghi, che a questo punto è una banalità, ma che a dirlo sia lui, il gran sacerdote dell’euro. Significa che anche ai piani alti del Palazzo si iniziano a sentire gli scricchiolii della costruzione e si inizia ad ammettere che tutto possa crollare. In effetti le due notizie di Spagna e Polonia dicono proprio questo: che, se il fine dell’euro era la convergenza delle economie europee, l’operazione è fallita ed iniziano ad esserci i contraccolpi politici. Si badi che i due risultati contemporanei di Madrid e di Varsavia non delineano affatto una tendenza omogenea: hanno in comune il malessere nei confronti di questa costruzione tecnocratica e antipopolare che è la Ue, ma poi prendono strade a loro volta divaricanti, in base alla diversa posizione economico finanziaria del paese. L’ordine neoliberista, di cui la velleitaria costruzione europea è espressione nel nostro continente, si è imposto come unico assetto legittimo dei poteri, si è espresso nella dittatura del pensiero unico, ma questo ha finito per precludere la strada ad ogni ricambio interno: è la dittatura dell’esistente, che non immagina altro ordine possibile diverso da sé.
    Ma questo provoca a sua volta una regressione del pensiero politico che impedisce ogni ricambio di élite. Resta la protesta, ma questo non vuol dire che sia pronta una ipotesi di ricambio. Vedremo se “Podemos” saprà esprimere una progettualità più matura e capace di porsi come alternativa di sistema (ce lo auguriamo, ma abbiamo diversi dubbi). Sin qui, M5S e movimenti similari minori non sono andati molto al di là della protesta e non hanno fatto molti passi avanti sul piano del progetto. Anche Syriza, alla prova del governo, non sta fornendo una prestazione smagliante e sta, man mano, mostrando tutti i limiti della sua impostazione moderata. Questo ci porta al nodo del debito greco. Dopo molti giorni di annuncio della impossibilità di pagare la rata del debito con il Fmi, che aveva iniziato a far ballare le borse europee, di colpo sembra che, anche questa volta, Atene abbia trovato i soldi per magia e pagherà. Il che, di nuovo, fa sorgere molti dubbi sull’origine di questo denaro: hanno rotto un nuovo salvadanaio? O c’è la mano discreta di qualcuno che opera con criteri politici ed è in attesa di qualcosa? (mi piacerebbe sapere che ne pensa Lamberto Aliberti…).
    Quello che è difficile da credere è che ce la possano fare tassando i prelievi bancomat, a meno di non trattenere percentuali altissime di essi: se fosse stato così semplice, perché mai non farlo subito? Ma, lasciando da parte l’origine di questi capitali freschi, notiamo che questo è il modo scientifico di diventare “a Dio spiacenti ed ai nemici sui”. La finanza internazionale avrebbe ragione di non prendere più sul serio i “penultimatum” ateniesi che dicono sempre che è l’ultima volta che si paga e poi pagano regolarmente. Però facendo ogni volta una manfrina che manda in tensione le borse. Insomma: “Se i soldi per pagare li hai, paga e non fare storie”. Dal loro punto di vista, i signori della finanza non hanno tutti i torti.  E, quindi, la prossima volta nessuno prenderà sul serio l’annuncio di mancato pagamento. Tsipras somiglia molto a Renzi: soffre di annuncite. Però il governo di Syriza diventa spiacente anche al suo popolo, perché a parole promette di metter fine all’austerità, poi fa un po’ di storie, ma alla fine paga, varando nuove misure di auterity. Cosa è il prelievo sui bancomat se non una nuova tassa indiretta? Magari non basterà neppure a pagare la rata in scadenza e dietro c’è altro, ma i cittadini percepiscono un nuovo taglio del loro reddito, per cui iniziano a pensare che, un po’ alla volta, Tsipras farà come chi lo ha proceduto ed accentuerà la linea dei “sacrifici”. Ma soprattutto: per quanto si può andare avanti con questi espedienti?
    Di rate in scadenza, pesanti quanto o più di questa, ce ne sono ancora e non poche. E la soluzione non può che essere o accettare in toto la linea di Berlino o dichiarare default una volta per tutte, apprestandosi ad uscire dall’euro. E la linea berlinese non prevede alcuna “happy end”: spremerà la Grecia sino all’ultima goccia di sangue, comprerà a prezzi di svendita ogni asset pubblico e poi butterà via la Grecia come un limone spremuto. Notiamo che della timida apertura tedesca di pagare, pur se sotto altro nome, i danni di guerra, già non si parla più. Per cui, rimandare il momento finale produce solo una emorragia di ricchezze della Grecia per poi ritrovarsi in condizioni ancora peggiori alla fine del gioco. L’altra strada è quella di dichiarare default (certamente non una misura indolore, ma meno dolorosa dell’altra e con qualche prospettiva di ripresa) e porre il problema di una uscita concordata dall’euro. E su questa strada arriveranno anche altri. La Ue e l’euro non hanno un futuro. Forse lo ha Berlino (e non è neppure sicuro che riesca) ma da sola o con pochi e scelti amici.
    (Aldo Giannuli, “Sta iniziando la fine della Ue?”, dal blog di Giannuli del 25 maggio 2015).

    Nella settimana scorsa ci sono state quattro notizie che hanno rivelato quanto sia profonda la crisi della Ue: la dichiarazione di Draghi “l’Euro non è più scontato”; la vittoria di “Podemos” in Spagna; la vittoria dei nazionalisti in Polonia; l’altalena del default greco. Iniziamo dalla prima: Draghi dice che se la tendenza a divaricare dei paesi dell’Eurozona dovesse proseguire, l’euro non sarebbe più sostenibile, non solo economicamente, ma anche politicamente e socialmente. Ma no!? Ma non mi dire! Chi lo avrebbe mai detto?! Insomma, l’euro è una architettura che non può resistere ancora a lungo alle tendenze divaricanti dell’Europa, e si approssima il momento dei conti. Ovviamente la ricetta di Draghi è la più scontata: armonizzare con le riforme la struttura sociale dei paesi dell’Unione, dove per riforme si intende essenzialmente il taglio delle pensioni, il peggioramento delle prestazioni sociali (sanità, istruzione) e la fine tendenziale della loro gratuità o del loro prezzo politico. Però… mai che si parli di armonizzare le norme fiscali …chissà perché?!

  • Renzi azzoppato, all’élite non serve più. E intorno, il nulla

    Scritto il 03/6/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Anche questo meccanismo si è rotto. E ora chi “ha messo lì” Renzi e il suo staff di grembiulini creativi starà interrogandosi se vale la pena di insistere su un cavallo che ha portato a casa, sì, numerosi risultati reazionari (Jobs Act, Italicum, abolizione del bicameralismo, distruzione scuola pubblica, emarginazione dei sindacati, ecc), ma appare incapace di costruire un vero consenso attorno alle politiche dettate dalla Troika. La macchina da corsa trionfante un anno fa alle europee è diventata un carrozzone ansimante, che perde visibilmente olio e pezzi. La pensata degli 80 euro non ha avuto eredi. Il Tfr in busta paga, che doveva replicare quel successo di pubblico, si è rivelato un flop assoluto. Il trucco “ti dò più soldi subito, me li riprendo con gli interessi un po’ alla volta” è stato capito e bocciato da oltre metà della popolazione. Ovvero da quelli che a votare non ci sono proprio andati (solo il 53% e spiccioli ha infilato la scheda nell’urna) più quelli che hanno espresso un voto “contro” (per Salvini o per Grillo).
    Il Pd resta primo partito, ma senza più la spinta propulsiva che sembrava farne il perno del vagheggiato “partito della nazione”, formula peraltro davvero ridicola nel momento in cui la “nazione” risulta poco più di una macroregione che deve rispettare i “patti di stabilità” elaborati dai funzionari dell’Unione Europea. Renzi doveva sbaragliare i “populismi” facendo il populista. E ha perso questa partita in modo netto. Si salva momentaneamente solo per l’assenza di un vero progetto politico alternativo. Doveva coagulare intorno al proprio modo di apparire e fare una “fiducia” acritica, empatica, insomma una delega in bianco. Nonostante la sterminata legione di mass media schierati in suo favore non c’è riuscito. Doveva spazzare via ciò che restava del vecchio “riformismo” compromissorio. Ed è l’unico successo che può per ora vantare. Il laboratorio ligure gli consegna una “sinistra” troppo fragile e inconsistente per ambire alla vittoria – neanche uno straccio di programma alternativo – ma sufficentemente radicata da farlo perdere.
    Da quella parte non possono arrivare veri pericoli, perché il personale politico che esprime porta il marchio di infamia di centomila scelte di “austerità”, cancellazione dei diritti (pacchetto Treu, tre riforme delle pensioni – da Dini a Fornero, ecc), corruzione. Al contrario, può esser perfino utile per impedire l’emersione di una soggettività politica indipendente e radicale. Ma Renzi non convince più. E ora i suoi autori devono scegliere: insistiamo su un cavallo zoppo, incapace di creare una nuova “classe politica” minimamente credibile, oppure cambiamo cavallo e discorso dominante? Non c’è fretta, dal loro punto di vista. La botta è dura, ma si può tirare avanti qualche mese mettendo il ronzino al passo, usando questo tempo per costruire figure nuove. Ma cambiare discorso pubblico è più complicato. Quel mix tra “nuovismo senza motivazioni”, rapidità decisionista, battute in dialetto, ammiccamenti e tweet, sembrava davvero una mossa vincente e duratura. Bisognerà inventarsene un altro. I “creativi” vengono pagati per questo…
    A livello parlamentare non c’è problema. La massa di nominati è tale da non porre dubbi sulla composizione di una maggioranza purchessia. Anzi, la battuta d’arresto del guitto di Pontassieve può compattare ulteriormente una banda di mercenari che vede a questo punto la scadenza della legislatura come la fine delle vacche grasse e il ritorno al grigio lavoro. Ma la faglia tra “politica istituzionale” e soggetti sociali si va allargando a dismisura. Quell’astensionismo che è stato persino incoraggiato, negli ultimi anni, non contiene più soltanto la neutralità indifferente di chi si estranea dal contendere politico. Nasconde ormai un “mugugno” collettivo, potente, incontrollato, che è in cerca di espressione. Su questo fronte si gioca la partita per il cambiamento radicale. Ma non è una partita adatta per chi soffre di “braccino corto”, autoreferenziale, atrofizzato. Serve il cambio di passo, prima possibile.
    (Alessandro Avvisato, “Nemmeno Renzi convince più”, da “Contropiano” del 1° giugno 2015).

    Anche questo meccanismo si è rotto. E ora chi “ha messo lì” Renzi e il suo staff di grembiulini creativi starà interrogandosi se vale la pena di insistere su un cavallo che ha portato a casa, sì, numerosi risultati reazionari (Jobs Act, Italicum, abolizione del bicameralismo, distruzione scuola pubblica, emarginazione dei sindacati, ecc), ma appare incapace di costruire un vero consenso attorno alle politiche dettate dalla Troika. La macchina da corsa trionfante un anno fa alle europee è diventata un carrozzone ansimante, che perde visibilmente olio e pezzi. La pensata degli 80 euro non ha avuto eredi. Il Tfr in busta paga, che doveva replicare quel successo di pubblico, si è rivelato un flop assoluto. Il trucco “ti dò più soldi subito, me li riprendo con gli interessi un po’ alla volta” è stato capito e bocciato da oltre metà della popolazione. Ovvero da quelli che a votare non ci sono proprio andati (solo il 53% e spiccioli ha infilato la scheda nell’urna) più quelli che hanno espresso un voto “contro” (per Salvini o per Grillo).

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