Archivio del Tag ‘autoreferenzialità’
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Pura magia: la scienza diventa religione, negando la verità
Il metodo socratico rappresenta un elemento portante nello sviluppo epistemologico, cui si ispireranno sia l’età dell’Umanesimo che quella dell’Illuminismo, dove l’interesse per la scienza troverà massima espressione, elevandosi a ideale contro l’oscurantismo, l’intolleranza e ogni forma di assolutismo. L’approccio odierno alla scienza la allontana notevolmente dal suo fine massimo di raggiungimento del sapere quale emancipazione dell’essere umano, attraverso il percorso arduo e incessante della ricerca della conoscenza. Al contrario, lo scientismo attuale costringe l’individuo dentro una gabbia ristretta di norme e dogmi che appaiono imperscrutabili al comune intelletto, divenendo roccaforte di un gruppo di eletti, forti del prestigio conferito loro dall’appartenenza a enti rappresentativi del sapere in quello specifico settore. Rinnegando la strada percorsa dai grandi scienziati del passato che pagarono con la propria vita l’aver messo in dubbio le credenze contemporanee, gli attuali preferiscono muoversi nel solco del conformismo e dell’omologazione. Non c’è spazio per il dubbio, elemento fondamentale della ricerca della sapienza, ma solo per l’assertività, la dogmaticità inconfutabile e autoreferenziale delle proprie affermazioni. Uno scientismo imperante e anti-dialogico sta contaminando tutti gli ambiti della conoscenza, con una smania positivista che ha pervaso persino le scienze umane.
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I nostri leader nani: durano poco perché sono senza storia
Da una parte Andreotti e Fanfani, Moro e Craxi, La Malfa e Berlinguer, Almirante e Malagodi, Pannella e Spadolini. Dall’altra Berlusconi e Renzi, Grillo e Di Maio, Conte e Monti, Zingaretti e Gentiloni, Salvini e Meloni. Provate a paragonare alla fine di un ventennio cominciato nel duemila, dieci protagonisti della prima repubblica con dieci protagonisti dei nostri ultimi anni. E ditemi, senza nessuna preferenza di natura ideologica o politica, se non provate difficoltà anche solo a stabilire paragoni. Voi direte, ma quelli erano giganti, almeno rispetto a questi, qualunque giudizio abbiamo di ciascuno di loro; ma forse non è neanche così, molti di loro furono duramente criticati nel loro tempo e qualcuno di loro non fu o non parve all’altezza del proprio compito, e furono comunque considerati minori rispetto ai padri. Da De Gasperi a Saragat, da Nenni a Togliatti e indietro nel tempo, incluso L’Escluso per antonomasia, Mussolini. No, non credo alla teoria involuzionista, per cui i figli sono sempre minori e peggiori rispetto ai padri. Non è questo. La vera differenza è un’altra. Di tutti quei dieci protagonisti citati a proposito della prima repubblica ti accorgi di una cosa: non erano solo eminenti protagonisti in sé ma erano portatori, rappresentanti, eredi di una tradizione, di una storia, di un movimento.Venivano da qualcosa, in loro vedevi riflessa una storia, anche una storia collettiva, che magari era controversa, non ti piaceva, ti urtava o ti spaventava, ma c’era: la storia dei partiti e dei movimenti popolari di massa, la storia dei cristiano-democratici e dei socialisti e dei comunisti, dei missini o neofascisti e dei liberali e dei repubblicani; poi c’era la storia dei socialdemocratici, dei monarchici e di altre famiglie politiche e culturali, altre comunità con altri eroi, autori e simboli. Ciascuno non era giudicato a sé, in sé, ma come proveniente da una storia, ed erede di una cultura politica. Dietro di loro vedevi un simbolo, un tragitto, il riassunto di un albero genealogico. Invece, i dieci protagonisti odierni che abbiamo citato vengono praticamente da se stessi, non hanno storia e movimento politico; fanno parziale eccezione Zingaretti e la Meloni, che derivano quantomeno da tradizioni politiche seppur rifratte, di cui erano rappresentanti giovanili; ma gli altri no, sono parvenu o apolitici, apolidi, apatridi, self made man, mutanti, o come altro volete definirli. Pensate che sia una differenza da poco? Pensate che non conti nulla essere e sentirsi eredi e continuatori di una storia, di un modo di pensare, di un’ideologia, perfino, o comunque di una tradizione sociale, oltre che politica, di una comunità vivente oltre che di una collettività di interessi e valori? O solitari interpreti di una fase, attori che recitano a soggetto, personaggi in cerca d’autore e di target?Questa è la vera differenza e il vero salto nel buio che abbiamo fatto. La cosiddetta seconda repubblica fu ancora una via di mezzo, c’erano tradizioni politiche, storie di partiti che si spegnevano, si piegavano, mutavano nome e fattezze; ma qualche eredità ancora s’intravedeva di una storia comune venuta dal Pci, dalla Dc, dal Msi, e via dicendo. E restava in piedi sotto l’egida del bipolarismo, qualche richiamo alla destra o centro-destra e alla sinistra o centro-sinistra. Il primo parvenu della politica fu Berlusconi, che aveva, si, bazzicato molti leader ma da imprenditore, in cerca di protezioni, sponde, benefici reciproci per le sue aziende private. Con lui c’era Umberto Bossi, contro di lui ci fu Tonino Di Pietro. Ma la collocazione in un quadro bipolare rendeva riconoscibile la loro posizione e per certi versi risaltava un’appartenenza e una derivazione. Poi tutti gli altri avevano qualche precedente storico: D’Alema e Veltroni, Fini e Casini, in parte lo stesso Prodi, solo per citare i più eminenti; provenivano dal Novecento, perlomeno.Ora, invece, i leader sono autoreferenziali, traggono legittimazione da se stessi e dalle condizioni del momento, dai loro movimenti nuovi o sempre differenziati da ogni passato. I partiti aggiornano continuamente la loro app politica, cambiano ciclicamente nome, mission, struttura. Ma anche i leader devono rigenerarsi, hanno la durata di uno smartphone. Anzi è un male avere un curriculum, provenire da una storia, rivelare un’antichità. Preferibile essere marziani, extraterrestri, vergini, parvenu. Io sono il Nuovo. Ma è un’affermazione suicida nel medio periodo, perché il Nuovo invecchia in fretta e viene presto scavalcato dal più Nuovo. Per durare, il Nuovo deve scommettere sull’oblio, ovvero sulla perdita di memoria collettiva.Il populismo a questo punto diventa un’ancora per approdare nel presente e restare a tiro, in pole-position: non rappresento una storia ma un’opinione corrente, non rappresento radici ma umori diffusi. Il popolo tramite il sondaggio diventa il sostituto della tradizione e ben si sposa con la logica mercantile del nostro tempo riassunta nella formula “il cliente ha sempre ragione”. Ancor peggio del populismo è il suo nemico, il settarismo correttivo, ovvero l’assunzione di un canone ideologico obbligato rispetto a cui attenersi, che non deriva né dall’esperienza, cioè dalla realtà, dalla storia e dalla tradizione, né dal consenso popolare. Ma è mero bigottismo radical-progressista. Al di là delle specifiche stature dei dieci piccoli indiani citati come protagonisti della stagione politica in corso, a loro volta assai differenti, il paragone è disastroso perché non rappresentano altro che se stessi, in un determinato momento. Ed è questa la ragione per cui la loro parabola è breve, non lascia tracce, non si inscrive in nessuna storia ma solo in un presente che passa in fretta. Il precariato della politica, con i suoi fuochi fatui.(Marcello Veneziani, “Nani sulle spalle dei giganti”, da “Il Borghese” del febbraio 2020; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Da una parte Andreotti e Fanfani, Moro e Craxi, La Malfa e Berlinguer, Almirante e Malagodi, Pannella e Spadolini. Dall’altra Berlusconi e Renzi, Grillo e Di Maio, Conte e Monti, Zingaretti e Gentiloni, Salvini e Meloni. Provate a paragonare alla fine di un ventennio cominciato nel duemila, dieci protagonisti della prima repubblica con dieci protagonisti dei nostri ultimi anni. E ditemi, senza nessuna preferenza di natura ideologica o politica, se non provate difficoltà anche solo a stabilire paragoni. Voi direte, ma quelli erano giganti, almeno rispetto a questi, qualunque giudizio abbiamo di ciascuno di loro; ma forse non è neanche così, molti di loro furono duramente criticati nel loro tempo e qualcuno di loro non fu o non parve all’altezza del proprio compito, e furono comunque considerati minori rispetto ai padri. Da De Gasperi a Saragat, da Nenni a Togliatti e indietro nel tempo, incluso L’Escluso per antonomasia, Mussolini. No, non credo alla teoria involuzionista, per cui i figli sono sempre minori e peggiori rispetto ai padri. Non è questo. La vera differenza è un’altra. Di tutti quei dieci protagonisti citati a proposito della prima repubblica ti accorgi di una cosa: non erano solo eminenti protagonisti in sé ma erano portatori, rappresentanti, eredi di una tradizione, di una storia, di un movimento.
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Veneziani: all’Italia manca un’aristocrazia (dei meritevoli)
Prima gli ultimi. No, prima i nostri. No, prima loro, i migranti. No, prima i giovani, le donne, le quote rosa o delle altre categorie discriminate. La battaglia delle priority prosegue senza sosta e senza punto d’incontro. E se, più semplicemente, dicessimo “Prima i primi” ovvero chi ne ha diritto, perché è arrivato primo o per primo, cioè i capaci e i meritevoli, i migliori, chi ha i titoli, l’anzianità e le competenze? E se il problema italiano non fossero le élite ma la loro assenza e il loro mancato ricambio? Andiamo con ordine. Prima gli ultimi, dice Papa Francesco, e sul piano pastorale nulla da dire. Giusto soccorrere chi sta male, aiutare prima chi sta peggio; un cristiano non può eludere la carità. Ma adottare la priorità degli ultimi come criterio sociale di vita pubblica è una catastrofe. In verità il Vangelo di Matteo dice: «Beati i poveri in spirito perché di loro sarà il regno dei cieli»; non promette ai poveri il regno della terra e l’accoglienza ovunque. Tuttavia sul piano religioso la carità come dedizione personale e comunitaria è un grande valore. Ma se diventa criterio distributivo nella vita pubblica e metodo di selezione pubblica, allora le società si deteriorano, degradano verso il peggio. La stessa cosa vale se gli ultimi che diventano i primi sono i migranti e i profughi.Si può apprezzare l’intenzione morale, la tensione etica di questa apertura, ma in questo modo una società deperisce, subordina le esigenze reali e prioritarie di tutti cittadini a soddisfare i bisogni di chi viene da lontano. Nefasta è pure la logica delle quote riservate, pur se animata dalle migliori intenzioni: prima le donne, prima i giovani, prima le categorie deboli e protette. Ma la priorità di genere, d’anagrafe o di categoria contrasta con la meritocrazia, mortifica i titoli, le qualità, l’esperienza, il talento; considera solo i disagi, i fattori momentanei o le fragilità vere o presunte; non si pone dal punto di vista della comunità, delle ricadute sociali, ma solo dal punto di vista dei soggetti deboli da aiutare. Risarcisce le disparità passate, creando disparità presenti e future. Così pure fu la rottamazione dei seniores da parte di Renzi. Non basta essere giovani o non avere precedenti (penali e non solo), per essere preferibili; si può essere giovani e inetti, incensurati e incapaci, innocui e imbecilli. Gli esempi sono innumerevoli…Prima i nostri, o prima gli italiani, come dice Salvini (o America First di Trump), garantisce coesione sociale e solidarietà comunitaria, riconosce le identità e le appartenenze, dà valore alla cittadinanza. Ma può valere in alcuni ambiti primari, nelle modalità d’accesso all’assistenza, all’assegnazione delle case popolari, alle graduatorie per lavori generici o per necessità elementari. Ma è un metodo inadeguato di scelta nelle attività ad alta specializzazione o ad alta responsabilità o per selezionare competenze professionali, ruoli direttivi, ceti dirigenti. Non si può preferire “uno dei nostri” a “uno bravo”. Del resto, il degrado della nostra società, la discesa progressiva, inarrestabile, dei suoi livelli di qualità, la fuga all’estero delle energie più dinamiche e delle intelligenze più brillanti, confermano la decadenza delle classi dirigenti come una vera e propria catastrofe nazionale. E allora sorge l’indecente, scorrettissima, proposta: e se la priorità del nostro paese fosse individuare, formare, selezionare, una vera aristocrazia in tutti i campi del sapere e del lavoro?Da anni siamo infognati nella diatriba tra la Casta e la Massa. E se il problema non fosse contrapporre il popolo alle élite, o peggio le plebi alle oligarchie, ma riconoscere ciascuno secondo il suo rango, cioè le sue capacità, i suoi meriti e i gradi di responsabilità? Il problema non è abbattere le classi dirigenti, identificandole gramscianamente con le classi dominanti, o peggio con le classi sovrastanti, che vivono sopra le masse senza neanche guidarle; ma riattivare l’ascensore sociale, rigenerare la circolazione delle élite, come diceva Pareto; riaprire i ponti in entrata e in uscita, in modo che si proceda per selezione sul campo e non per cooptazione. Circolazione delle classi dirigenti, non circuiti chiusi. Nessuna società sopravvive alla morte o alla stagnazione delle élite. Nessuna società si autogoverna, il popolo ha bisogno di classi dirigenti, non caste chiuse e autoreferenziali ma aperte al ricambio e organiche al popolo.Riammettiamo la parola proibita: aristocrazie, non di sangue o di censo, né per trasmissione ereditaria di poteri e di possedimenti, ma premiando i migliori, riconoscendo le eccellenze in ogni settore.A formare le élite oggi non ci pensa lo Stato né la Scuola, l’Università, la Chiesa, i Partiti. A proposito, vi dice nulla che i quattro principali leader politici – Salvini, Di Maio, Zingaretti e Meloni – non siano nemmeno laureati? Certo, la laurea non è una garanzia di nulla, ma è una spia indicativa che i quattro principali leader non abbiano una laurea e una professione alle spalle. E infatti nessuno si batte per la meritocrazia né la pratica. All’Italia oggi mancano molte cose: la vitalità, la natalità, il coraggio di rischiare. Però manca una cosa che le precede: un’avanguardia di esempi, mille persone ai vertici degli ambiti decisivi, che siano da guida e da modello per tutti gli altri. I Mille. Non ci sono laboratori di formazione delle élite né in politica né in società, nella pubblica amministrazione o nelle imprese. E invece è necessario ripartire da lì, dalla rivoluzione delle élite. Dalle aristocrazie e dai luoghi di formazione. Prima i più bravi, vincano i migliori.(Marcello Veneziani, “All’Italia manca un’aristocrazia” dal numero 25/2019 di “Panorama”; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Prima gli ultimi. No, prima i nostri. No, prima loro, i migranti. No, prima i giovani, le donne, le quote rosa o delle altre categorie discriminate. La battaglia delle priority prosegue senza sosta e senza punto d’incontro. E se, più semplicemente, dicessimo “Prima i primi” ovvero chi ne ha diritto, perché è arrivato primo o per primo, cioè i capaci e i meritevoli, i migliori, chi ha i titoli, l’anzianità e le competenze? E se il problema italiano non fossero le élite ma la loro assenza e il loro mancato ricambio? Andiamo con ordine. Prima gli ultimi, dice Papa Francesco, e sul piano pastorale nulla da dire. Giusto soccorrere chi sta male, aiutare prima chi sta peggio; un cristiano non può eludere la carità. Ma adottare la priorità degli ultimi come criterio sociale di vita pubblica è una catastrofe. In verità il Vangelo di Matteo dice: «Beati i poveri in spirito perché di loro sarà il regno dei cieli»; non promette ai poveri il regno della terra e l’accoglienza ovunque. Tuttavia sul piano religioso la carità come dedizione personale e comunitaria è un grande valore. Ma se diventa criterio distributivo nella vita pubblica e metodo di selezione pubblica, allora le società si deteriorano, degradano verso il peggio. La stessa cosa vale se gli ultimi che diventano i primi sono i migranti e i profughi.
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Basta influencer, servono veri maestri: ma dove sono finiti?
Dove sono finiti i Maestri? Ci sono ancora, cosa dicono, dove si annidano? E come chiamarli, oggi, Influencer, come Chiara Ferragni o la Madonna secondo il Papa? Facile dire che mancando un pensiero, dispersi gli intellettuali, sparito ogni orizzonte di attesa, i Maestri sono finiti insieme ai loro insegnamenti. Sono finiti pure i Cattivi Maestri che come angeli ribelli all’ordine divino si fecero demoni, insegnando la via dell’inferno come riscatto degli oppressi. Spariti pure loro. Non a caso, l’unico italiano riconosciuto tra i cento pensatori globali che hanno lasciato un segno, secondo la rivista “Foreign Policy”, non è un filosofo, ma un fisico, Carlo Rovelli. Allora, è proprio finita, dobbiamo rassegnarci a scegliere tra Fabrizio e Mauro Corona? No, ragioniamoci su. Innanzitutto, definiamo una buona volta il Maestro, anche nella variante di Guru, Ideologo, Vate. Chi è maestro? Non solo chi trasmette un sapere ma chi diventa un punto di riferimento, un modello a cui ispirarsi, un faro che non esprime solo una teoria o invita a compiere una ricerca ma rischiara una via. Maestro è uno che ti cambia la vita o almeno lo sguardo con cui vedi la vita. Uno che leggendolo, ascoltandolo, trasforma il tuo modo di pensare e di vedere le cose.Era facile al tempo delle ideologie e dell’Intellettuale Organico, trovare Maestri e maestrini. Oggi di quel ramo ne sono rimasti forse un paio, ma sono ai margini. Uno è il Cattivo Maestro per eccellenza, Toni Negri, pensatore e latitante, teorico di Autonomia Operaia e del comunismo, autore di un’opera che ha sfondato nel mondo, “Impero”, seguita poi da “Moltitudine”, due opere no global di un internazionalista che sogna ancora la rivoluzione del proletariato. L’altro, più defilato e meno distruttivo, è Mario Tronti, di cui è uscito ora “Il popolo perduto” (ed. Nutrimenti), che piange il divorzio tra la sinistra e il popolo e la perdita di quel mondo comunista legato alle sezioni e alle assemblee. È ormai su un pianeta diverso un loro antico sodale, Massimo Cacciari, che in tv si è sgarbizzato e in filosofia si è ritirato in una sfera mistica & catastrofica. Parallelo il cammino di un altro non-Maestro, Giorgio Agamben. Restano sullo sfondo i Vecchi Maestri Globali, ovvero quei pensatori che fanno filosofia per le masse partendo dall’antropologia e dalla sociologia, come Edgar Morin e Marc Augé, Hans Magnus Enzensberger e Serge Latouche, fino a ieri, Zigmunt Bauman e Umberto Eco.Non-luogo, Terra-Patria, Modernità liquida, Decrescita felice, Perdente radicale, Ur-fascismo, sono paroline-mantra entrate nel gergo corrente e nel minimo alfabeto degli Acculturati Aggiornati. Per il resto, l’era dei social offre a ciascuno la possibilità di un selfie e di eleggersi a maestri di se stessi per auto-acclamazione, facendo zapping nella rete, cogliendo qua e là spunti e citazioni. Maestri riconosciuti in senso religioso ormai sono solo in ambito esotico, extra-occidentale: sono guru o para-guru che vengono dall’Oriente o che parlano nel nome di tradizioni religiose e più spesso di sincretismi. Sulla scia di Osho, Sai Baba e altri santoni. I maestri più veri preferiscono restare nascosti, poco accessibili se non per iniziati; vanno cercati, e non pescati nei media o nei social. Un segno evidente di scristianizzazione è che non ci sono Maestri d’ispirazione cristiana, e che a dettare le regole, anche nelle classifiche dei libri, siano gli stessi papi, come Bergoglio e Ratzinger. Più defilati sono gli scrittori della Chiesa come don Vincenzo Paglia, Gianfranco Ravasi e altri prelati che sfidano i tempi e le librerie. Dopo i santi, finirono anche i maestri?E nel mondo conservatore, nel versante “destro” o alternativo alla globalizzazione? Resiste da decenni il maestro della Nouvelle Droite Alain de Benoist con una produzione incessante di saggi. Su altri versanti regge il filosofo inglese Roger Scruton, da lontano il pensatore russo Aleksandr Dugin. Non mancano le zampate del vecchio Regis Débray, già marxista e ora antiglobal col suo “Elogio delle frontiere”. A loro si aggiungono il matematico e filosofo Olivier Rey che racconta la marcia infernale del progresso in “Dismisura”; Fabrice Hadjadj, ebreo tunisino convertito al cattolicesimo, autore di “Mistica della carne” e “Risurrezione”. Ma sfonda il muro dell’attenzione globale Michel Houellebecq, che ora spopola con “Serotonina”, ma che fu maestro di denuncia della civiltà in pericolo con “Sottomissione”. Poi ci sono i numerosi maestri di passaggio, i guru provvisori, legati a un’opera, esplosi nei social, meteore luminose e poi presto opache. Se l’America resta il centro del mondo, i maestri hanno una prevalenza europea, anzi francese.E da noi cosa resta? Finito il tempo dei Pasolini e dei Bobbio, dei Del Noce e Zolla, la filosofia sembra ormai isterilita e intenta a proclamare il suo suicidio. Nella filosofia svetta il pensiero degli eterni di Emanuele Severino. O tra i maestri che aprono le porte del sacro al tempo profano, torreggia Roberto Calasso. Sono maestri riluttanti, che non cercano discepoli, che si annodano al filo impersonale della Tradizione o del suo surrogato, l’Editoria raffinata, o che vivono la siderale solitudine dell’Essere che pensa il Destino. In un’epoca egocentrica e autoreferenziale, i maestri sembrano ormai vintage, antiquariato, se non archeologia. Mancano i maestri perché mancano i discepoli. Eppure, proprio il caos globale, l’assenza di dei, la solitudine e lo spaesamento, la vita insensata, richiedono oggi più di ieri pensatori-guida, modelli di riferimento, figure autorevoli, supplenti del sacro e del pensiero che aiutino a trovare una via, una casa, una visione del mondo e della vita. Maestri che non detengono la verità ma che suscitano almeno il desiderio di cercarla…(Marcello Veneziani, “Vogliamo maestri, non influencer”, articolo pubblicato su “Panorama” e ripreso dal blog di Veneziani il 19 febbraio 2019).Dove sono finiti i Maestri? Ci sono ancora, cosa dicono, dove si annidano? E come chiamarli, oggi, Influencer, come Chiara Ferragni o la Madonna secondo il Papa? Facile dire che mancando un pensiero, dispersi gli intellettuali, sparito ogni orizzonte di attesa, i Maestri sono finiti insieme ai loro insegnamenti. Sono finiti pure i Cattivi Maestri che come angeli ribelli all’ordine divino si fecero demoni, insegnando la via dell’inferno come riscatto degli oppressi. Spariti pure loro. Non a caso, l’unico italiano riconosciuto tra i cento pensatori globali che hanno lasciato un segno, secondo la rivista “Foreign Policy”, non è un filosofo, ma un fisico, Carlo Rovelli. Allora, è proprio finita, dobbiamo rassegnarci a scegliere tra Fabrizio e Mauro Corona? No, ragioniamoci su. Innanzitutto, definiamo una buona volta il Maestro, anche nella variante di Guru, Ideologo, Vate. Chi è maestro? Non solo chi trasmette un sapere ma chi diventa un punto di riferimento, un modello a cui ispirarsi, un faro che non esprime solo una teoria o invita a compiere una ricerca ma rischiara una via. Maestro è uno che ti cambia la vita o almeno lo sguardo con cui vedi la vita. Uno che leggendolo, ascoltandolo, trasforma il tuo modo di pensare e di vedere le cose.
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Il debito frena la crescita? Fake news, ma targata Harvard
E’ il nuovo tormentone, l’ultima trovata – in realtà per niente originale – per far fronte all’irrompere dei populismi e sovranismi, tanto temuti dall’attuale e tenace compagine di potere: l’apologia della “competenza”. Per salvare il sistema da temibili e minacciosi sovvertimenti occorre che il potere consultivo e decisionale su ogni ambito della vita individuale e collettiva venga demandato a una cerchia ben selezionata di “competenti”. Ma chi sono questi individui eletti? In teoria, persone la cui elevata conoscenza tecnica in materie specifiche li eleva a massimi esperti, e dunque portatori indiscussi di verità assolute e inconfutabili, sottratte a ogni critica. In pratica, gli stessi che hanno già ricoperto ruoli di prestigio in istituzioni che ci hanno governato finora, con i risultati – più o meno disastrosi – che sono sotto gli occhi di tutti. Il concetto di competenza, tanto in voga tra gli economisti, perde così ogni riferimento alla misurazione dei risultati raggiunti dalle azioni e dagli strumenti messi in atto: l’efficacia delle politiche adottate non ha alcuna rilevanza. Ciò che conta è la legittimità delle azioni e degli attori, l’autorevolezza che gli viene tributata da enti e istituzioni universalmente riconosciuti.Secondo un meccanismo autoreferenziale e capace di autoriprodurre il proprio pensiero senza interruzione critica, nell’ambito della ricerca scientifica vengono premiati e incentivati coloro che sono in grado di portare prove a sostegno di un modello universalmente riconosciuto. Una sorta di esaltazione della “mediocrità”, dove per mediocre intendiamo quell’individuo che annulla il proprio spirito critico, in virtù di un’adesione e un sostegno preconcetti a un modello già esistente. In un simile contesto, il lavoro di analisi e confutazione di teorie già esistenti e acclamate viene scoraggiato e marginalizzato. Pensiamo al clamoroso errore nel 2010 di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, due docenti della prestigiosa Università di Harvard e con ruoli nel Fmi, che con la loro pubblicazione “Growth in a Time of Debt”, forniscono la prova “scientifica” che qualora il debito pubblico di una nazione raggiunga la soglia del 90% del Pil diventerebbe un ostacolo insuperabile alla crescita.Il paper diventa la Bibbia dei paladini dell’austerity: quel 90% fornisce una cifra precisa, capace di esercitare quella fascinazione sull’opinione pubblica che la “scienza esatta” è in grado di suscitare. Tre anni dopo accade che dei professori dell’università di Amherst affidano a uno studente il compito di scegliere una ricerca e replicarne il risultato. La scelta del giovane Herndon ricade proprio sull’osannato paper di Reinhart e Rogoff e l’esito della sua analisi è sconvolgente: lo studio è compromesso da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio Excel, alcuni calcoli sono sbagliati e viene omesso di includere tra le nazioni esaminate tre casi rilevanti. Gli stessi economisti di Harvard sono costretti a riconoscere l’errore, sebbene cercando di sminuirne la portata. Ma la credenza che l’aumento del debito pubblico sia dannoso alla crescita non solo non viene scalfita, ma anzi si rafforza e le politiche dell’austerity continuano a seminare sempre più vittime, in Europa come nel resto del mondo.Intanto Reinhart e Rogoff hanno continuato a essere protetti dalla loro aura sacrale conferitagli dalla “competenza”, sono stati insigniti di importanti premi e riconoscimenti, e a collaborare con organizzazioni che esercitano la governance mondiale. Gli errori sono umani e non si possono certo stigmatizzare due economisti che sicuramente hanno dedicato la loro vita agli studi, ma di ridimensionare il potere assoluto e dispotico della scienza, di riportarla al suo ruolo di strumento funzionale al benessere e allo sviluppo umano.(Ilaria Bifarini, “La chiamano competenza, invece è mediocrità”, dal blog della Bifarini del 4 febbraio 2019).E’ il nuovo tormentone, l’ultima trovata – in realtà per niente originale – per far fronte all’irrompere dei populismi e sovranismi, tanto temuti dall’attuale e tenace compagine di potere: l’apologia della “competenza”. Per salvare il sistema da temibili e minacciosi sovvertimenti occorre che il potere consultivo e decisionale su ogni ambito della vita individuale e collettiva venga demandato a una cerchia ben selezionata di “competenti”. Ma chi sono questi individui eletti? In teoria, persone la cui elevata conoscenza tecnica in materie specifiche li eleva a massimi esperti, e dunque portatori indiscussi di verità assolute e inconfutabili, sottratte a ogni critica. In pratica, gli stessi che hanno già ricoperto ruoli di prestigio in istituzioni che ci hanno governato finora, con i risultati – più o meno disastrosi – che sono sotto gli occhi di tutti. Il concetto di competenza, tanto in voga tra gli economisti, perde così ogni riferimento alla misurazione dei risultati raggiunti dalle azioni e dagli strumenti messi in atto: l’efficacia delle politiche adottate non ha alcuna rilevanza. Ciò che conta è la legittimità delle azioni e degli attori, l’autorevolezza che gli viene tributata da enti e istituzioni universalmente riconosciuti.
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Frater Kronos: voi popolo siete bestie, tocca a noi guidarvi
Io credo nel diritto-dovere, da parte di chi sia un iniziato sostanziale e non soltanto virtuale alla libera muratoria, di autocostituirsi in élite di governo, per il bene stesso del cosiddetto “popolo”. Ma credo anche che tutto ciò, nel mondo contemporaneo, debba avvenire salvaguardando le forme esteriori della democrazia e della sovranità popolare. Potreste definirmi un neoaristocratico, come fa Frater Jahoel, oppure un demo-aristocratico, come preferisco io stesso. Ovvio che siano sempre state le oligarchie a dominare il resto della popolazione. Però, è bene che queste oligarchie siano composte non da ceti nobiliari inetti, ignoranti, bigotti e pelandroni, bensì da iniziati alle “philosophiae occultae”, da superuomini temprati in modo non superficiale sul piano spirituale, da saggi che si sappiano elevare, nietzschianamente, «al di là del bene e del male», curando e alimentando quanto va curato e alimentato del corpo sociale e amputando senza remore quello che va amputato. La maggior parte dei troppi miliardi di individui che abitano il pianeta, anche in Occidente, vive un’esistenza bestiale, anonima e senza senso. È importante che questi esseri semibestiali siano guidati da menti salde e mani energiche, anche se spesso devono rimanere invisibili, lasciando il “front office” a politicanti spaventapasseri e parafulmini.Tutto ciò deve avvenire secondo regole ben precise. Pena il caos e l’anarchia distruttiva a danno di coloro che meritano davvero l’appellativo di donne e uomini, che hanno un’anima e uno spirito, che non riducono il proprio orizzonte esistenziale al solo aspetto materiale. È giusto considerarmi un aristocratico, ma appunto “neo”. Nel senso che, al di là del mio retaggio familiare, considero positiva la distruzione dell’Ancien Régime da parte dei liberi muratori del Sette-Ottocento. E reputo apprezzabile e necessaria anche la distruzione del potere temporale diretto delle Chiese, di quella cattolica in primo luogo. Sarebbe stato assurdo, in un mondo progredito sul piano scientifico e tecnologico come quello occidentale, perpetuare un controllo teocratico invasivo sulla società e la convivenza civile. Lo sbaglio, semmai, è consistito nella pretesa di edificare delle società troppo democratiche, anarcoidi e massificanti, puntando in modo eccessivo sui diritti e poco sui doveri dell’uomo e del cittadino. Sarebbe stato più giusto sostituire le aristocrazie del lignaggio con demoaristocrazie dello spirito, calibrate sul grado di elevatezza iniziatica degli aspiranti governanti. L’errore storico gravissimo dei massoni progressisti è stato quello di pensare che fosse giusto e opportuno estendere la libertà, la fratellanza e l’uguaglianza a tutti gli esseri umani, anche a quelli indegni sul piano morale, intellettuale e spirituale.(Estratto di un intervento del misterioso “Frater Kronos”, presente con altre tre eminenze grigie della supermassoneria internazionale nell’appendice conclusiva dell’esplosivo volume “Massoni, società a responsabilità illimitata – La scoperta delle Ur-Lodges”, firmato da Gioele Magaldi e pubblicato nel 2014 da Chiarelettere, con prefazione di Laura Maragnani, redattrice di “Panorama”. Nel sito “Isola di Avalon”, Seyan Nagur ipotizza che “Frater Kronos” sia il miliardario super-speculatore George Soros, promotore di Open Society e finanziatore delle “rivoluzioni colorate” che hanno scosso l’Europa, inclusa la crisi ucraina. Grande sostenitore di Barack Obama, Soros è attualmente presidente del Soros Fund Management, dopo aver rivestito un ruolo di vertice nel Council on Foreign Relations, cuore del vero potere statunitense. Il suo appoggio al movimento sindacale polacco Solidarnosc, nonché il supporto all’organizzazione cecoslovacca per la tutela dei diritti umani “Charta 77”, ricorda il sito, contribuirono al crollo dell’Unione Sovietica. Gli si attribuisce un ruolo decisivo anche nella “Rivoluzione delle Rose”, costata poi alla Georgia la perdita dell’Ossezia del Sud, abitata da russi.Fortemente avversato dall’Ungheria, suo paese d’origine, oggi Soros è considerato tra i massimi finanziatori della “tratta dei migranti”, che nel Mediterraneo utilizza l’opaca rete delle Ong. Nel brano del libro di Magaldi (ove compare l’autore stesso, con lo pseudonimo di “Frater Jahoel”) emerge la visione apertamente sinarchica di “Frater Kronos”: secondo la dottrina ottocentesca del marchese Alexandre St-Yves d’Alveydre, medico francese e massone – la “sinarchia d’impero” – le élite sarebbero chiamate addirittura sul piano morale a governare le masse, ritenendo il popolo incapace di autogovernarsi. Da qui la diffidenza verso il sistema democratico promosso già nel Settecento dalla massoneria progressista attraverso l’Illuminismo. Diffidenza emersa in storici saggi come “La crisi della democrazia” che le superlogge reazionarie – guidate dalla “Three Eyes” di Kissinger, Brzezinski e Rockefeller – nel 1975 affidarono, per tramite della Commissione Trilaterale, a intellettuali come Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki.Una pietra miliare, che spiega l’involuzione oligarchica del potere finanziaerio globalista, neoliberista e privatizzatore, con il quale oggi l’umanità è costretta a fare i conti. Per contro, anche attraverso le rivelazioni contenute nel libro di Magaldi – cui seguirà nel 2019 un secondo volume, “Globalizzazione e massoneria” – si fa sempre più diffusa la percezione della vera natura del tornante storico che stiamo vivendo, con i suoi club esclusivi e i suoi inaccessibili protagonisti. Dunque, il “Frater Kronos” che parla in modo così apertamente franco e sconcertante, nel libro di Magaldi, è davvero George Soros, bestia nera di tutti i movimenti sovranisti che, per reazione, stanno sorgendo in Europa? Proprio Soros, scrive “Isola di Avalon”, è il tipico rappresentante di quella sedicente “sinistra” mondiale «che ha come unico scopo la destrutturazione degli Stati sociali e democratici per imporre il suo Totaler Staat Mondiale, quello degli autoreferenziali àristoi. Tra questi “neomalthusiani” ricordiamo Tony Blair, Bill Clinton, François Mitterrand, Jacques Attali, Gerhard Schröder, Christine Lagarde, François Hollande, non dimenticando il Pd italiano»).Io credo nel diritto-dovere, da parte di chi sia un iniziato sostanziale e non soltanto virtuale alla libera muratoria, di autocostituirsi in élite di governo, per il bene stesso del cosiddetto “popolo”. Ma credo anche che tutto ciò, nel mondo contemporaneo, debba avvenire salvaguardando le forme esteriori della democrazia e della sovranità popolare. Potreste definirmi un neoaristocratico, come fa Frater Jahoel, oppure un demo-aristocratico, come preferisco io stesso. Ovvio che siano sempre state le oligarchie a dominare il resto della popolazione. Però, è bene che queste oligarchie siano composte non da ceti nobiliari inetti, ignoranti, bigotti e pelandroni, bensì da iniziati alle “philosophiae occultae”, da superuomini temprati in modo non superficiale sul piano spirituale, da saggi che si sappiano elevare, nietzschianamente, «al di là del bene e del male», curando e alimentando quanto va curato e alimentato del corpo sociale e amputando senza remore quello che va amputato. La maggior parte dei troppi miliardi di individui che abitano il pianeta, anche in Occidente, vive un’esistenza bestiale, anonima e senza senso. È importante che questi esseri semibestiali siano guidati da menti salde e mani energiche, anche se spesso devono rimanere invisibili, lasciando il “front office” a politicanti spaventapasseri e parafulmini.
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Belano contro Salvini e tacciono sul martirio degli italiani
La parola “intellettuale” deriva dal latino intus-legere, e in quanto tale dovrebbe essere riferita ad un individuo in grado di “leggere dentro” e di non accontentarsi della sola parte emersa di una informazione. L’intellettuale, stando al senso etimologico, dovrebbe essere dunque l’opposto del superficiale – colui che approfondisce, appunto. Invece, gli intellettuali con cui abbiamo a che fare sui media tradizionali e sui social, in linea di massima tendono ad aggregarsi come una classe sociale qualunque. Esistono dunque gli operai, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i colletti bianchi e… gli intellettuali. Sono divenuti una professione, e come tale autoreferenziali e inclini a salvaguardare i propri interessi di casta. Manca solo che ne venga istituito l’ordine professionale e il quadro si completa. Ecco allora che gli intellettuali di oggi si smarcano completamente dalla funzione tradizionalmente loro attribuita di dotti perennemente curiosi che esercitano il dubbio, per abbracciare l’appartenenza ad una élite culturale. Caso emblematico, quello della rivista “Rolling Stone” che ha appena lanciato un manifesto contro il ministro dell’interno Salvini, in cui compaiono le adesioni di oltre 50 artisti e personaggi del mondo dello spettacolo.Il messaggio, prontamente copiaincollato sui social da tutti i “Napalm51” del web, ha come sfondo una copertina arcobaleno con scritto: “Noi non stiamo con Salvini. Da adesso chi tace è complice”. E’ del tutto evidente che il politico di punta oggi in Italia, il leader della Lega, possa portarci alla rovina e che le sue politiche possano legittimamente essere considerate sbagliate. Quello che però dovrebbe destare non poca preoccupazione è il format che sta dietro (e davanti) alla protesta: un format visto mille volte e che, francamente, ha stufato anche i santi. La bandiera arcobaleno ancora una volta diventa un brand per tutte le stagioni e rinuncia a selezionare davvero opinioni e analisi: ci mettiamo dentro i pacifisti (bandiere esposte sui balconi ai tempi della guerra in Iraq), ci mettiamo dentro partiti politici (la sinistra radicale o pseudotale), ci mettiamo dentro anche i gay. Ora, a questo varipinto calderone si aggiunge anche l’individuazione dell’uomo nero, un nemico, che, come tutta la storia della propaganda insegna, è il modo migliore per raggiungere obiettivi identitari. Per dirla senza tanti giri i parole: con questa operazione, rivolta contro un singolo uomo, si prova a riunificare la sinistra, ma identificandola con la categoria degli intellettuali. Non con i lavoratori, non con gli operai, non con la classe media, non con gli impiegati, ma con i maître à penser.Quante volte abbiamo visto in moto questo meccanismo? Come fenomeno sarebbe anche divertente da analizzare, visto che le prime aggregazioni degli intellettuali italiani sotto l’ombrellone multicolore arcobaleno proponevano temi alquanto “salviniani”. Li ricordate i no-global di inizio millenio? Per non parlare delle battaglie degli artisti come Jovanotti contro il debito pubblico dei paesi in via di sviluppo. “Cancella il debito”, urlava il Jova a squarciagola dal palco, per poi scordarsi sbadatamente di tutto quanto predicato fino ad ora contro il debito, quando a soffrire dell’inganno finanziario sul debito sono i suoi connazionali. La serie degli appelli ai “valori” è così diventata sempre più lunga. Si tratta però di riferimenti – come i diritti umani o i diritti civili – che non potrebbero nemmeno essere concettualmente compresi se per paradosso non esistesse, a renderli credibili, ciò che essi stessi aspramente criticano, e cioè gli Stati ed i confini. Il vero guaio non sta nel legittimo e sacrosanto dissenso, ma nel fatto che, così formulati, portano l’intellettuale alla definitiva abdicazione al suo ruolo.In un’indimenticabile intervista, il filosofo torinese Costanzo Preve riassumeva il problema degli intellettuali superficiali con questo duro giudizio: «Mentre ai tempi di Hegel e Schopenhauer, ma anche ai tempi di Adorno, gli intellettuali erano generalmente più intelligenti delle persone comuni, oggi ci troviamo in una situazione nuova: gli intellettuali sono nella stragrande maggioranza più stupidi delle persone comuni. E’ una novità degli ultimi 50 anni e lo vediamo quando vengono interpellati nei talk show televisivi, perchè dicono una quantità di stupidaggini molto maggiore di quelle che si sentono pronunciare dai tassisti, dai baristi o dalle casalinghe al mercato. Adorno, Marcuse e Sartre, ad esempio, si possono contestare, io ad esempio non sono d’accordo con loro – concludeva Preve – ma senza dubbio dicevano cose intelligenti, che fanno riflettere. Oggi questo non accade più e dobbiamo aspettarci solo scemenze». La constatazione di Preve, che risale al 2011, è oggi più attuale che mai. Resta da chiedersi: perchè accade ciò? Secondo Preve questa situazione è da ascrivere alla sudditanza di filosofia, letteratura, arte, ecc. all’economia, la scienza triste che si è presa tutti gli spazi del sapere. A questo dato di fatto, aggiungerei però anche la modalità di selezione della classe dirigente, in Italia determinata da circoli ristretti e salotti, impenetrabili a tutti coloro i quali non si lasciano omologare. Nell’ultimo demenziale appello ad una civiltà nemmeno pensabile senza lo Stato di diritto e la sovranità questi circoli chiusi sono tornati a belare.(Massimo Bordin, “Gli intellettuali di oggi sono stupidi”, dal blog “Micidial” del 6 luglio 2018).La parola “intellettuale” deriva dal latino intus-legere, e in quanto tale dovrebbe essere riferita ad un individuo in grado di “leggere dentro” e di non accontentarsi della sola parte emersa di una informazione. L’intellettuale, stando al senso etimologico, dovrebbe essere dunque l’opposto del superficiale – colui che approfondisce, appunto. Invece, gli intellettuali con cui abbiamo a che fare sui media tradizionali e sui social, in linea di massima tendono ad aggregarsi come una classe sociale qualunque. Esistono dunque gli operai, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i colletti bianchi e… gli intellettuali. Sono divenuti una professione, e come tale autoreferenziali e inclini a salvaguardare i propri interessi di casta. Manca solo che ne venga istituito l’ordine professionale e il quadro si completa. Ecco allora che gli intellettuali di oggi si smarcano completamente dalla funzione tradizionalmente loro attribuita di dotti perennemente curiosi che esercitano il dubbio, per abbracciare l’appartenenza ad una élite culturale. Caso emblematico, quello della rivista “Rolling Stone” che ha appena lanciato un manifesto contro il ministro dell’interno Salvini, in cui compaiono le adesioni di oltre 50 artisti e personaggi del mondo dello spettacolo.
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Ragazzi senza futuro, vietato stupirsi se minacciano il prof
Il mestiere di docente non è mai stato così pericoloso. L’escalation di aggressioni e offese agli insegnanti da parte di studenti e genitori sta facendo emergere il disagio profondo in cui versano la scuola e la società intera. In queste settimane, si sprecano riflessioni e commenti da parte di pedagogisti, psicologi, sociologi, giornalisti, filosofi ed esperti di ogni genere. In particolare, l’associazione fra violenza e basso livello di istruzione proposta da Michele Serra su “Repubblica” ha suscitato discussioni a non finire. Come tutti i fenomeni sociali, anche la violenza a scuola è un fenomeno plurideterminato. Lungi dal voler esaurire le cause possibili del degrado del clima educativo in classe, proverei comunque a indagare su alcune condizioni che lo favoriscono, partendo da quelle più immediate. Michele Serra non ha tutti i torti quando collega la violenza alle scuole tecnico-professionali e al basso livello socio-culturale delle famiglie d’origine, perché – anche se può non piacere a molte anime belle – è drammaticamente confermato dalle ricerche sociologiche che l’utenza degli istituti tecnici e professionali è correlata a voti più bassi in uscita dalla scuola media, rispetto a quella dei licei, e questi, a loro volta, sono correlati allo status socio-culturale più basso delle famiglie di origine.Anche se non certo in via esclusiva, molti degli episodi narrati dai media hanno avuto come contesto istituti tecnico-professionali. Può darsi che il rapporto con i docenti sia più difficile nelle famiglie dove l’istruzione gode di minor considerazione o dove il disagio socio-economico si fa sentire di più. Tuttavia, una spiegazione di questo tipo appare assai parziale e soprattutto astratta. Una ragione più immediata del disagio è che, nelle scuole “razionalizzate” (ovvero “amputate”) dalle riforme degli ultimi vent’anni, ci sono troppi alunni per classe, insegnanti molto soli e demotivati, troppo anziani, non abbastanza formati e non abbastanza sostenuti nella fatica di ogni giorno; c’è una pressione costante a nascondere la dispersione scolastica e lo scadimento costante del livello degli apprendimenti dietro al buonismo obbligatorio delle promozioni regalate anche a fronte di gravi lacune; c’è un taglio progressivo e drammatico delle ore di lezione e dei contenuti; c’è la mancanza di un autentico e lungimirante spirito riformatore, che faccia della scuola un luogo di produzione di sapere e di cultura, vero cuore pulsante del paese e oggetto di cura e attenzione da parte delle istituzioni e dei cittadini.Ad un livello più profondo, c’è l’abdicazione dei genitori al loro ruolo educativo e la completa delega alla scuola della responsabilità di dire di no ai pargoli superprotetti e nel contempo la svalutazione e il discredito del ruolo educativo degli insegnanti, ai quali viene riservata la considerazione di cui godono dei proletari sottopagati, invece del prestigio di cui dovrebbero godere dei professionisti ai quali si affida il futuro delle nuove generazioni. Alla scuola si chiede continuamente di sopperire a tutte le lacune e ai mali profondi della società, senza però dotarla di mezzi, di competenze, di prestigio e di considerazione sociale. Se la scuola italiana ha retto tutto sommato miracolosamente fino ad ora, lo si deve allo spirito di abnegazione di quegli insegnanti (non tutti, certamente) che tengono duro nonostante venga scavato loro ogni giorno il terreno sotto i piedi. La fuga dalla responsabilità è il male sociale che ci affligge. A cominciare dal vertice, due decenni di cialtroneria politica, di zuffe mediatiche fondate sulla legge del più forte (quanto a volume di voce, non di argomenti), di demeritocrazia, ovvero di gestione delle cariche pubbliche pressoché totalmente svincolata dal merito, di autoreferenzialità della casta rispetto alle proprie scelte dannose, delle quali di fatto non si assume mai la responsabilità, hanno inciso profondamente sulla coscienza degli italiani.Si è imbarbarito il linguaggio del dibattito pubblico e, per il notissimo principio dell’apprendimento per imitazione, la violenza verbale rappresentata ogni giorno nei media è stata sdoganata. Con quale autorevolezza possono insegnare ai ragazzi il rispetto, l’empatia, il dialogo democratico degli insegnanti continuamente vilipesi e disprezzati sui media come categoria di nullafacenti privilegiati, in una società che offre a tutti i livelli la tracotante indifferenza a questi valori? Come possono far apprezzare lo studio e il sapere, quando ogni giorno i modelli vincenti proposti dagli adulti sembrano prescindere dalla cultura, dalla competenza e dall’impegno? A livello educativo, questa mancanza di responsabilità assume la forma di assenza di autorevolezza. I ragazzi, a tutte le età, hanno un bisogno assoluto di riferimenti autorevoli. Un adulto autorevole sa dare regole e controllare, ma sa anche ascoltare e proteggere quando serve. Sa prendersi la responsabilità di dire di no, senza essere un tiranno. I “no” aiutano a crescere e strutturano una personalità equilibrata, capace di sopportare le inevitabili frustrazioni della vita. Molti genitori (non tutti, per fortuna) non sembrano più in grado di offrire ai propri figli un modello di questo genere. Troppo faticoso, in una società dove il tempo da dedicare ai figli è scarso e dove spesso si è fagocitati dal lavoro e dalle preoccupazioni. È più facile lasciar perdere e salvare la pace familiare.Purtroppo, a volte nemmeno gli insegnanti ci riescono. Insegnare non è un lavoro per tutti e con ragazzi che arrivano da famiglie così permissive o prive di struttura lo è ancora meno. Gli insegnanti tormentati dagli allievi non di rado sono deboli e poco autorevoli. È come se i ragazzi indirettamente chiedessero loro di far sentire da che parte sta il potere nella relazione educativa (che per sua natura deve essere asimmetrica). A casa non lo imparano dagli adulti e di conseguenza non sanno che cosa sia la responsabilità; perciò vanno in escandescenze quando incontrano i primi ostacoli in classe. Per loro l’adulto non ha alcuna autorità; è un fratello maggiore al quale nulla è dovuto. Li conosco, questi genitori: sono quelli che arrivano infastiditi al colloquio con il docente quando il figlio prende un’insufficienza con l’argomento che il pargolo deve avere 6, perché non hanno tempo di occuparsene. Non sempre sono di bassa condizione sociale, anzi… La mancanza di riferimenti autorevoli produce principini narcisisti e onnipotenti, ai quali i genitori, schiacciati dal senso di colpa per la scarsa disponibilità verso i bisogni autentici dei figli, lasciano decidere tutto fin dalla tenera età. Fragili e privi di limiti, questi figli narcisi non vedono più in là dei confini del proprio ego e dei suoi impulsi immediati.E veniamo a loro, ai ragazzi. Questi ragazzi (parlo degli adolescenti, perché ci lavoro insieme da oltre trent’anni) sono in molti casi soli. Passano troppo tempo sui dispositivi digitali (per parecchi lo smartphone è oggetto di un vero attaccamento affettivo) e da un’età troppo precoce, con tutti i danni che ne derivano e che sono stati illustrati molto bene dal neuropsichiatra Manfred Spitzer nel suo libro “Demenza digitale” (Corbaccio): dipendenza, danno da campi elettromagnetici, sottrazione di tempo alla lettura e all’interazione faccia a faccia, danni cognitivi, rischi per la privacy, aumento dell’aggressività (specie per l’utilizzo dei videogiochi) e diminuzione dell’empatia. Spesso le bravate a danno dei docenti raccontate sui giornali sono state pensate nella prospettiva della diffusione sui social network e nelle chat. Sono messe in scena per un pubblico di pari, in cambio di una fragile popolarità che li faccia sentire esistenti. A questi ragazzi la scuola non dice molto e appare per lo più come una spiacevole interruzione delle loro attività digitali. La lettura è attività rara perfino al liceo. Il sapere appreso sui banchi appare vuoto e inutile e si aspettano la promozione per il solo fatto di andare a scuola.Questo non significa che la scuola debba inseguirli sul terreno tecnologico, ma che deve trasmettere e costruire con loro un sapere vitale, in grado di coinvolgerli. Perché possa riuscirci, occorrono insegnanti altamente selezionati e formati, dirigenti all’altezza, un’alleanza educativa con le famiglie, una maggiore considerazione del valore della scuola e del sapere a livello sociale (l’Italia, non dimentichiamolo, ha un numero enorme di analfabeti funzionali, circa il 70% della popolazione adulta), un senso di responsabilità condiviso. E così torniamo all’inizio. Siamo in un circolo vizioso. Questa scuola povera, svuotata, imbelle e irrilevante è il risultato di due decenni di logoramento progressivo e sistematico, ad opera di tutti i governi. Invece di essere riformata, la scuola italiana è stata smantellata. Mentre gli altri comparti della pubblica amministrazione hanno subito tagli lineari del 2%, la scuola si è vista sottrarre il 20% delle risorse. È un miracolo che esista ancora, benché compromessa. Ma non è colpa della scuola se i ragazzi sono violenti e privi di autocontrollo.Semmai, sia l’istruzione pubblica piegata alle esigenze del mercato, per il quale contano più le competenze delle conoscenze e più la ripetizione di nozioni del senso critico, sia l’individualismo sfrenato e l’ignoranza arrogante e soddisfatta di sé diffuse in una società che sta perdendo i valori fondanti della solidarietà, del bene comune, dell’impegno e della cultura sono il frutto malato di quella vera perversione della natura umana che è l’ideologia neoliberista. L’uomo è un essere intimamente sociale e predisposto all’empatia. Quando si insegna per decenni attraverso la parola e l’esempio che l’avversario è un nemico, che per affermare se stessi occorre competere, che i servizi pubblici sono uno spreco, che tutto si misura in termini economici, che con la cultura non si mangia e che i diritti sono sacrificabili sull’altare del profitto; quando si riduce l’istruzione al minimo, si riducono i salari e le tutele e si sdoganano a tutti i livelli la sopraffazione, l’arbitrio, la violazione delle regole, siamo di fronte ad una patologia individuale e sociale.I sociologi la chiamano “anomia”; gli psicologi possono scomodare etichette diagnostiche che vanno dal narcisismo alla psicopatia. Un popolo disgregato, al quale manca il senso di appartenenza ad una comunità, è facilmente manipolabile, oltre che infelice. Divide et impera, dividi e comanda. E così, con gli adulti affannati nella sopravvivenza quotidiana, i figli trattati come polli in batteria a cui dare il meno possibile perché non pensino ad altro che ai propri bisogni immediati e i docenti privati di prestigio e di credibilità, come la cultura di cui sono obsoleti portatori, al posto di una democrazia partecipativa, fondata sulla consapevolezza dei diritti e sulla responsabilità, stiamo imboccando il tunnel di una democratura, fondata sulla rinuncia inconsapevole ai diritti e sull’irresponsabilità. Non credo che se ne possa uscire né cambiando solo la scuola né limitandosi a punire gli studenti violenti. Certo, le azioni penalmente rilevanti vanno sanzionate anche penalmente. La responsabilità si impara pagando il prezzo delle proprie azioni; perciò l’indulgenza zuccherosa dei docenti che lasciano correre è deleteria almeno quanto il lassismo o l’arroganza dei genitori mai cresciuti che ne sono la causa prossima.Per uscire da un degrado così profondo, occorre guarire la malattia che lo ha provocato. Servono un futuro da costruire (questi ragazzi non ce l’hanno), la scoperta di un senso nella vita e un vero salto evolutivo della coscienza. Viviamo in mondo inquinato sul piano fisico da infinite sostanze tossiche, sul piano mentale da pensieri fuorvianti e dalla distrazione di massa, sul piano spirituale dalle catene della dipendenza dall’avere. Ci servono un paradigma diverso da quello neoliberista e un nuovo umanesimo, pragmatico, ma fondato sulla cooperazione e sull’empatia. Non sembra davvero facile, dato il livello del disfacimento sociale, ma nemmeno impossibile. Accanto ad una minoranza di ragazzi violenti e maleducati (ed anche fra loro) ci sono molti coetanei pieni di energie che devono solo trovare uno sbocco costruttivo. A questi uomini di domani servono uno scopo e dei maestri, altrimenti avranno solo dei capi-branco e dei dittatori. Siamo in grado di offrirglieli?(Patrizia Scanu, “Violenza in classe, come ci siamo arrivati?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 28 aprile 2018).Il mestiere di docente non è mai stato così pericoloso. L’escalation di aggressioni e offese agli insegnanti da parte di studenti e genitori sta facendo emergere il disagio profondo in cui versano la scuola e la società intera. In queste settimane, si sprecano riflessioni e commenti da parte di pedagogisti, psicologi, sociologi, giornalisti, filosofi ed esperti di ogni genere. In particolare, l’associazione fra violenza e basso livello di istruzione proposta da Michele Serra su “Repubblica” ha suscitato discussioni a non finire. Come tutti i fenomeni sociali, anche la violenza a scuola è un fenomeno plurideterminato. Lungi dal voler esaurire le cause possibili del degrado del clima educativo in classe, proverei comunque a indagare su alcune condizioni che lo favoriscono, partendo da quelle più immediate. Michele Serra non ha tutti i torti quando collega la violenza alle scuole tecnico-professionali e al basso livello socio-culturale delle famiglie d’origine, perché – anche se può non piacere a molte anime belle – è drammaticamente confermato dalle ricerche sociologiche che l’utenza degli istituti tecnici e professionali è correlata a voti più bassi in uscita dalla scuola media, rispetto a quella dei licei, e questi, a loro volta, sono correlati allo status socio-culturale più basso delle famiglie di origine.
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Pornografia e feticismo, la postmodernità delle anime morte
La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.Schiavitù economica contrabbandata come libertà per i singoli, ma fino a un certo punto, perché si mina alla base il concetto di uguaglianza (perché dovremmo essere uguali? L’individuo non deve essere uguale a nessun altro) per favorire l’individualismo thatcheriano. Negli ultimi 10 anni si sono diffuse in Europa vari tipi di forze politiche, che sono state definite dal potere “populismi”: Indignados, Sovranisti, Podemos, M5S. Ma secondo l’ordine simbolico e linguistico imposto dal potere, con il solo obiettivo di rinsaldare il proprio dominio sui dominati, è necessario controllare la popolazione, e mantenere la massa schiavizzata in una condizione di subalternità, in modo tale che la neolingua possa diventare veicolo di potenziamento dei valori del neoliberismo. Dal 1989 il capitale ha adottato una nuova neolingua, e chiunque metta in discussione il potere oligarchico viene demonizzato come disfattista, complottista, o populista. La categoria di populista serve esattamente a diffamare ogni prospettiva che assuma la parte del Servo e non del Signore (“Fenomenologia dello spirito”, W. Friedrich Hegel).Oggi viene diffamato chiunque prenda la difesa dei lavoratori precarizzati e schiavizzati, perché ciò contraddice il potere, che vuol contrabbandare i propri dogmi ideologici come fossero interessi universali: concorrenza, competitività, globalizzazione, delocalizzazione, cancellazione dell’articolo 18, licenziabilità senza giusta causa, flessibilità. Chiunque abbia il coraggio di svelare il vero significato oscurato della neolingua viene silenziato come populista e complottista, incapace di accettare la mera ricostruzione dei fatti e degli eventi prospettata dalla mediatizzazione della realtà, che il potere ci mostra quotidianamente sugli schermi televisivi. Il termine “populismo” o “antipolitica”, viene quindi usato dal potere con toni spregiativi e diffamatori, è diventato una specie di parolaccia. E i media ci presentano una realtà confusa e distorta, Grillo come Trump, Raggi come Obama, l’imperatore buono, Premio Nobel per la pace, in realtà ha sostenuto 7 guerre in contemporanea (Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria).Modernità e Postmodernità. Termini che indicano lo spirito di una civiltà, nel suo divenire storico, antropologico e culturale. La distinzione va ricercata secondo un’analisi marxista, l’aforisma di Marx, per cui «la cultura dominante coincide perfettamente con la cultura della classe dominante» (Karl Marx, “Ideologia tedesca”). Le realtà virtuali, l’iperrealtà, sono la matrice della Postmodernità, strettamente correlate all’uso di macchine creatrici di virtualità: Pc, Tablet, iPhone… Se la “produzione” è la cifra della Modernità, la “simulazione” è quella della Postmodernità. La Postmodernità ridimensiona la produzione per favorire la simulazione, sposta ingenti masse di salariati dalle fabbriche al terziario o oltre, azzera quella middle class che era il volano dell’economia dei consumi, chiude impianti produttivi. La disoccupazione di massa è la vera piaga della postmodernità: felicità virtuale e disperazione reale.L’Illuminismo aveva concentrato l’attenzione sull’impatto politico della nuova mentalità scientifica, che inneggiava all’“Homo faber fortunae suae”, e aveva indotto i nuovi uomini a sostenere le prime grandi rivoluzioni della storia, Rivoluzione Americana 1776, Rivoluzione Francese 1789. Il background filosofico culturale entro cui nasce il populismo è dunque l’età postmoderna, che propone una narrazione sempre più inquieta e socialmente devastante, dove le solide narrazioni della modernità si sono frantumate contro il nonsense di un sistema sociale globalizzato, sfilatosi verso una remota periferia a-ideologica. Diversi autori hanno percepito in anticipo l’avvento del postmoderno, e lo hanno interpretato attraverso la loro acuta sensibilità, a partire dagli anni ’70: Jean-François Lyotard, Guy Debord, Jean Baudrillard, Marc Augé, Zygmunt Bauman. Al popolo postmoderno non interessa la “verità” dei fatti né il senso degli eventi, perché vuole ascoltare solo le narrazioni, favole illusionistiche, simulacri evanescenti, emersi direttamente dal nuovo oscuro inconscio collettivo, e dalla società dello spettacolo.Le nuove minacce metropolitane sono: migranti e clandestini che invadono il paese, offrendo manodopera a basso costo, ingrossando le file della microcriminalità e minando così la serenità sociale; grottesche crociate contro l’Islam; politiche di austerity che massacrano l’economia dell’Italia, divenuta il Sud Europa. La “notizia” della postmodernità è una fake news, consiste nella negazione stessa dell’informazione, perché non mira a informare sulla “verità” dei fatti, ma li reinterpreta deformandoli, proprio per oscurarli completamente (Marco Travaglio, “La scomparsa dei fatti”). Jean-François Lyotard, nel suo testo “La condizione postmoderna” (1979), conia il nuovo termine di “postmoderno” per definire l’epoca attuale. Il termine designa uno sviluppo tecnologico e scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. Lo sviluppo tecnologico diventa sempre più invasivo per il benessere neurovegetativo umano (“Psyche e Techne”, Umberto Galimberti). La pornografia dei media produce la molteplicità dei linguaggi, la contaminazione degli stili, un citazionismo ossessivo (film di Quentin Tarantino), tipico di un’epoca che non ha più nulla da dire, se non ripetere all’infinito, in modalità sempre diverse, le stesse tematiche.Ne è derivata la perdita di centralizzazione nell’organizzazione dello Stato (federalismo), la perdita di sovranità (euro, Ue), un aumento dei “processi di disgregazione dello Stato Nazione”. L’Occidente sta vivendo una stagione sconcertante, attraversata dalle rapidissime trasformazioni scientifico-tecnologiche. Con grande lucidità, Lyotard propone una partizione storiografica tra l’epoca moderna (secoli XVII e XX) e l’epoca post-moderna, che si è affermata compiutamente nel tardo Novecento. I moderni e i postmoderni professano una visione dell’uomo, della società e in genere della realtà, antitetiche nei loro aspetti più essenziali. L’idea forte dei moderni è il progresso umano, essi concepiscono la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo realizza e arricchisce le proprie facoltà. L’idea forte della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Ciò che definisce l’essenza della condizione post-moderna, invece, è proprio la negazione della capacità umana di produrre il progresso, una sorta di nichilismo dei valori. Ne segue la negazione della scuola e dell’università come agenti di socializzazione e orientamento di valori. La perdita di potere e di funzione sociale dell’intellettuale, che a partire dall’età dei Lumi era stato la coscienza della modernità. Tutto molto strano per quella che viene definita la «società della conoscenza».Guy Debord, di formazione hegeliana e marxista, è stato uno dei critici più importanti delle società occidentali avanzate. L’incipit della “Società dello Spettacolo” (1967) riprende a un secolo di distanza quello del “Capitale” (1867) di Marx: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci». L’incipit dell’opera di Debord è: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (“La Società dello Spettacolo”). Secondo Debord, La caratteristica principale del capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale, nell’espansione delle tecnologie della comunicazione, e nel «feticismo delle merci». Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente «la sua manifestazione sociale più opprimente» («Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini»). Tuttavia lo spettacolo è necessariamente falso ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una parte della società.«Per il fatto stesso che lo spettacolo è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza». Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. E poi, giacché la comunicazione dei media è unilaterale, il Potere giustifica se stesso attraverso un incessante discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte. «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere». Lo spettacolo del capitalismo presuppone quindi l’assenza di dialogo, poiché è solo il potere a parlare. «Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento». Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il quale ha esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. In questo modo lo spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato.È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini l’alienazione del consumatore: «Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio». In una società mercificata, sostiene Debord, è la merce ad avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.Questo modello impregna di sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo il prototipo di ogni competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce, e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”. Alle regionali siciliane Vittorio Sgarbi si presenta con un movimento, “Rinascimento siciliano”, insieme a Morgan e Giulio Tremonti, proponendo un trinomio decisamente bizzarro, composto da vecchi arnesi della politica spettacolo, camuffati da nuova proposta rinascimentale. La società è completamente dominata da immagini falsificate che sostituiscono la realtà, facendo scomparire qualsiasi verità al di là della falsificazione continua. Ciò determina una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo e quindi anche della democrazia. La finzione di democrazia è mantenuta in vita solo attraverso la costruzione di un nemico comune, il quale consente una falsa unità che ricopre la realtà della separazione gerarchica tra dirigenti ed esecutori. È questo il ruolo del terrorismo. «Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati».La mondializzazione dell’economia è l’apogeo di questo processo che si distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo elemento, ma d’importanza decisiva. «Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza». Si può quindi affermare che «l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo». Nella comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato dovrebbe riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto che l’economia è il vero motore della storia. A questa presa di coscienza si oppone lo spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia.Jean Baudrillard poi, altro acuto osservatore del postmoderno, ha illustrato la frammentazione dell’identità e l’immagine frammentata del mondo e dell’uomo, confezionata dai mass media contemporanei, i quali trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare. Per lo spettatore dei media tutto si riduce ad apprezzare l’intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di proiezione nei confronti di personaggi e caratteri. Baudrillard inizia con la critica polemica verso il capitalismo. Smantellate le grandi teorie che guardavano alla realtà come un sistema complesso ma ordinato e descrivibile (“Idealismo o Positivismo”), il presente diventa ora un insieme di segni. Oggi predomina una iperrealtà virtuale, fatta di segni e simulacri (“Simulacri e simulazioni”, 1981). Ad essere messo in discussione è il concetto di realtà, non di verità, come spesso era accaduto in passato. Lo sguardo di Baudrillard che si proietta sul quotidiano è pessimistico, per non dire tragico e drammatico. La cultura produce qualcosa senza significato, e la sola branca del reale che è in grado di tenere in mano le sorti dell’uomo è l’industria, la società dei consumi.I nuovi media hanno giocato un ruolo cruciale nella fabbricazione del significato o finto valore della realtà. Nel suo libro “Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?” (1996), Baudrillard ha spiegato come la televisione abbia sostituito la realtà. Tutto ciò che vediamo attraverso lo schermo è una comunicazione artificiale, un reale contraffatto, che diventa la vera realtà. Consideriamo Disneyland, Las Vegas, dove tutto è incastrato in un meccanismo di funzionamento invidiabilmente impeccabile, un mondo finto che però funziona alla perfezione. Ci rechiamo volontariamente in tali luoghi perché attratti dalla spettacolarità magnetica della ri-creazione, della meraviglia, del simulacro. Siamo assorbiti dalla manipolazione dei media, dei programmi informatici e delle psicologie commerciali. Qual è l’originale realtà per noi? Viviamo di segni e simulacri realtà virtuali o siamo in grado di coglierne la differenza con criticità? Viviamo nei non-luoghi, definiti così da Marc Augé nel libro “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”. Gli spazi privi di identità, relazioni e storia: autostrade, svincoli e aeroporti, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, sale d’aspetto, ascensori… ecc ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione, senza entrare in contatto, senza discutere, parlare, guardarsi, dialogare… l’esatto contrario dell’agorà di Atene, culla della democrazia. Sospinti solo dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare viaggi e percorsi.I nonluoghi sono prodotti della società della postmodernità, dove i luoghi della memoria sono confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Le differenze culturali sono massificate, in ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto racchiuso lì. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente, caratterizzato dalla precarietà assoluta dalla provvisorietà, dal viaggio, dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. Nel film “The Terminal” di Steven Spielberg, il protagonista, Tom Hanks, un cittadino di un immaginario Stato dell’Europa orientale, atterra a New York e dopo aver scoperto che nel suo paese è avvenuto un colpo di Stato, diviene improvvisamente un uomo senza nazionalità, e perciò impossibilitato sia a uscire nella tanto agognata New York, sia a fare ritorno a casa, quindi resta prigioniero e si integra perfettamente nel nonluogo. I nonluoghi sono presenti anche sulla moneta Euro, con l’effigie di edifici e monumenti privi di identità e di storia, a differenza delle immagini presenti sulla Lira di Caravaggio, Verdi, Montessori, Galileo, Marconi, Colombo…Gli utenti si accontentano della sicurezza di poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Da qui un paradosso: il viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri nonluoghi (“Villaggio globale”, Marshall McLuhan). Il rapporto fra i nonluoghi e i suoi abitanti avviene solitamente tramite simboli, parole o voci preregistrate. L’esempio lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non superare la linea bianca davanti agli sportelli. L’individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche di cittadino e i suoi ruoli personali per continuare a esistere solo ed esclusivamente come cliente o utente. Non vi è un riconoscimento delle classi sociali, come siamo abituati a pensare nel luogo antropologico. Si è socializzati, identificati e localizzati solo in occasione dell’entrata o dell’uscita dal nonluogo; per il resto del tempo si è soli e simili a tutti gli altri utenti/ passeggeri/ clienti/ consumatori che si ritrovano a recitare una parte che implica il rispetto delle regole.La società che si vuole democratica non pone limiti all’accesso ai nonluoghi. Farsi identificare come consumatori solvibili, attendere il proprio turno, seguire le istruzioni, fruire del prodotto e pagare. Anche il concetto di “viaggio” è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: i grandi “nonluoghi” posseggono ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici. Il più grande centro commerciale degli Stati Uniti d’America, il “Mall of America”, richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno. Scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: «Si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland». Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L’identità storica delle città è stata ridotta a stereotipo di richiamo turistico. Nell’Europa che tenta di fermare l’ingresso dei migranti, si crea un’ambivalenza dei nonluoghi: quelli dell’abbondanza, e quelli della miseria, come campi profughi, centri di detenzione dei migranti et similia. In essi però l’identità è pericolosa per chi ci si trova, poiché espone al rischio di espulsione o incarcerazione.Zigmunt Bauman è stato forse il pensatore, che ha meglio interpretato il disorientamento contemporaneo. Molti saggi di grande successo, a partire da “Dentro la globalizzazione” del 1998, o “Modernità liquida” del 2000, lo hanno decretato il guru del pensiero della postmodernità. La modernità liquida, concetto fra i più noti del sociologo, ci dice che con la fine delle grandi narrazioni del secolo scorso sono finite anche le certezze del passato in ogni ambito, dal welfare al lavoro fisso, dalla sanità pubblica alle pensioni, la postmodernità le ha smontate tutte, dissacrandole e mescolandole a pulsioni nichilistiche. L’unica comunità dell’individuo è diventata il consumo, la sua unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui nuotiamo tutti noi senza più una missione comune (“Amore liquido”, 2003 o “Vita liquida”, 2005). La fase che viviamo è propizia alla nascita dei populismi, che nascono dall’indignazione. Dagli Indignados ad Occupy Wall Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito viene fortemente contestato, con istanze naturalmente diverse ma sempre antisistema. La modernità poggiava sull’etica del lavoro, perché il capitalismo produttivo aveva bisogno di quadri dirigenziali, che facessero funzionare le industrie, fonte del proprio profitto, quindi c’era necessità di welfare, scuola pubblica, benessere per la collettività destinata a gestire le fabbriche.Al contrario, la postmodernità esalta l’estetica del consumo, che trasforma il mondo in un “immenso campo di sensazioni sempre più intense”. Un mondo spesso investito dalla pubblicità o dal venditore di turno. L’esasperazione della soggettività, trova anche incredibili attuazioni tecnologiche come la realtà virtuale (“La solitudine del cittadino globale”, 1999). Bauman in particolare nel libro “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida” del 2014, parla di un approccio del tutto diverso rispetto alle strutture di potere. Jeremy Bentham e Michel Foucault avevano parlato di Panopticon, inteso come carcere centralizzato che controlla migliaia di detenuti, e in cui bastano pochi agenti di sicurezza per la custodia, metafora evidente del potere centralizzato della modernità e del suo controllo sulla società moderna. Bauman invece parla di un modello di società in cui le forme di controllo assumono le fattezze dell’intrattenimento e dunque del consumo, in cui sotto l’attenzione delle organizzazioni transnazionali finiscono i dati e le persone, o meglio le loro emanazioni digitali, i cui rischi più elevati sono la privacy, la libertà di azione e di scelta. La novità postmoderna è che questo spazio del controllo ha perso i muri, e a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto che le “vittime” contribuiscono a collaborare al loro stesso controllo. Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti per individuare l’aspetto oscuro nascosto sotto a quello seduttivo.La globalizzazione è dunque un processo intimamente legato alle forze di mercato che ha ripercussioni su molti altri settori della vita, in pratica è una nuova forma d’imperialismo finanziario, impadronirsi dell’economia degli Stati, della loro moneta e della loro sovranità. Le forze economiche, infatti, hanno trasceso la dimensione nazionale, hanno perso ogni legame col territorio, dettano legge e non si prefigurano più come sistema produttivo dell’uomo per l’uomo, ma come sistema auto-referenziale, fine a se stesso. Le corporation trasnazionali muovono in uno spazio extraterritoriale, volano sopra i confini dello Stato nazionale, fino ad oggi strumento di rappresentazione delle identità sociali, eludendo ogni sorta di controllo politico e collettivo, ignorando le differenze economiche, politiche, culturali, etniche e religiose delle singole nazioni. Il potere della globalizzazione economica è ormai senza volto e senza luogo, introduce la flessibilità come dogma e preannuncia l’incertezza delle esistenze, vissute nell’affannosa rincorsa per rimanere nella società dei consumi. Il potere ci tiene in scacco lasciandoci soli, levandoci qualsiasi capacità di autodeterminazione e programmazione futura.Nascere in Italia 40 anni fa significava avere buone probabilità di vivere la propria vita in quegli stessi luoghi, avere la speranza di trovare un lavoro vicino a casa, di conoscere i propri concittadini, la possibilità di fare previsioni verosimili sul proprio futuro. Oggi, si nasce in luoghi che mediamente vengono lasciati nella prima adolescenza, i giovani seguono opportunità di lavoro fugaci, sempre più volatili ed evanescenti, i lavoratori vengono assunti in aziende che da un momento all’altro potrebbero delocalizzare. Le spinte all’individualismo e alla competizione determinano questo stile di vita veloce che porta con sé nuova alienazione: quella dell’uomo e dei suoi rapporti. Per il cittadino globale la leggerezza e la velocità di spostamento sono caratteristiche fondamentali, meno vincoli si hanno e più si è pronti alla sopravvivenza nella selva-mondo virtuale, senza barriere né confini. Anche le relazioni umane, dice Bauman, si adeguano e si plasmano sulla base di un consumo ipertrofico, sono sempre più numerose ma sempre più brevi e superficiali. E così, la nostra situazione affonda in un mare di indifferenza, che è l’unica arma di difesa valida a breve termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno.Nella postmodernità è nata una nuova immagine di società, come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più divisi e soli nelle proprie vite. Aumenta poi costantemente il divario tra la condizione dei poveri e quello dei ricchi. Il populismo, in modo particolare il M5S, per quanto riguarda la situazione italiana, è quindi la reazione culturale e politica rispetto alle condizioni sociali drasticamente mutate nel tempo della postmodernità, dopo il golpe messo in atto dalla nuova classe sociale dominante, quell’aristocrazia finanziaria che mira a distruggere i diritti del lavoro, a proletarizzare la middle class, a desovranizzare gli Stati, ad americanizzare l’Europa. Data la potenza propagandistica dei media, riuscirà veramente a vincere le prossime elezioni politiche e a prendere il potere? Oppure sarà costretto inevitabilmente ad abbandonare istanze essenziali delle proprie battaglie, soggiogato dalla potenza della restaurazione liberista?(Rosanna Spadini, “Populismi e postmodernità”, da “Come Don Chisciotte” del 28 settembre 2017).La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.
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Zupo, ex dirigente Pci: il M5S unico erede di Berlinguer
«Ai miei tempi l’onestà era un dna che andava preservato accuratamente, oggi è un optional fastidioso. Il pensiero di Berlinguer è attualissimo e l’unico erede della questione morale è il Movimento 5 Stelle». Parola dell’avvocato Giuseppe Zupo, 73 anni, responsabile nazionale giustizia del Pci ai tempi di Berlinguer. «Allora – dice Zupo, intervistato da “Micromega” – la corruzione non aveva il peso devastante che ha assunto negli anni successivi». C’era il terrorismo, che «trovava terreno fertile tra l’insoddisfazione dei giovani e delle masse popolari». Per questo Berlinguer «si è preoccupato di riguadagnare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, da qui la questione morale e l’intransigenza sull’onestà delle istituzioni». La battaglia di Grillo, dunque. E Renzi? «E’ il nulla, e sul niente c’è poco da dire». Quanto a Vendola, «sull’Ilva di Taranto ha fatto uno scivolone terribile e avrebbe dovuto trarne immediatamente le conseguenze: non si ride con i padroni che hanno inquinato una città e prodotto morti su morti».Questione morale non significa solo “non rubare”, è l’idea che lo Stato e le istituzioni democratiche sono un bene pubblico, «da preservare con attenzione essendo di proprietà di una comunità, frutto di sforzi di generazioni che nel passato hanno costruito le fondamenta per quelle future». Per Zupo, la “questione morale” impugnata dal leader del Pci era figlia della grande tradizione liberale, proveniente dalla Rivoluzione Francese, «non relegabile al campo della sinistra» ma cara a qualsiasi sincero democratico. Poi, dopo Berlinguer, il declino inarrestabile dei grandi ideali, in quel partito. Zupo “salva” anche il successore di Berlinguer, Alessandro Natta: dice che fu «defenestrato, mentre era in ospedale, dai vari D’Alema, Occhetto e Veltroni: lo dichiararono dimissionario – mentre era un falso – e lui apprese dal giornale radio di non essere più segretario del Pci». Prima di morire, nel 2001, Natta ha rilasciato un’intervista all’Unità: denunciava «la degenerazione che si era creata con Occhetto».Domanda: tra le forze politiche organizzate di oggi, chi ha preso il testimone di Berlinguer sulla questione morale? «Lo so, farò inorridire i miei compagni di una volta», premette Zupo. «Sono comunista semel semper berlingueriano e dopo il Pci non mi sono iscritto a nessun partito perché nessuno ha portato più avanti quei valori. Ora – dichiara – vedo nel M5S l’unico possibile erede». Una convinzione radicata: «Ho votato il movimento alle ultime elezioni nazionali e – pur non essendo un uomo ricco – l’ho finanziato. Sono andato al comizio di San Giovanni a Roma, prima del voto, e sono rimasto colpito dall’enorme partecipazione e dalla composizione della piazza: cittadini, lavoratori, giovani. La rappresentanza come servizio nelle istituzioni, a termine, per poi ritornare al proprio status di prima. Senza fortune politiche come avviene per gli altri partiti». Confortante, per Zupo, anche il dopo-voto: «I parlamentari 5 Stelle sono persone normalissime: casalinghe, ingegneri, impiegati, gente dalla porta accanto, non arruffoni di soldi e poltrone. Per questo sono del M5S e tornerò a votarlo».«Dall’altra parte – continua l’avvocato – abbiamo quel Pd che, tra l’incostituzionale “Porcellum” e la nuova legge elettorale, ha abrogato le preferenze togliendo alle persone il diritto di poter selezionare la propria classe dirigente. Il nominare loro i parlamentari è solo l’ennesimo atto di autoreferenzialità di una politica ormai lontana dai cittadini». Ormai il Pd è il partito di Renzi. «Berlinguer riteneva che Occhetto fosse solo un venditore di slogan e non un costruttore di politiche. Io penso lo stesso del premier Matteo Renzi, non aggiungo altro: è il nulla». Nella sinistra ufficiale, ci sono anche personaggi come Civati, il quasi-dissidente. «Civati è una persona simpatica e educata ma è compatibile al sistema», dice Zupo: «Ogni volta è lì lì per rompere e poi rientra nei ranghi: voto il M5S perché voglio una forza capace di ribaltare il tavolo su cui questi signori consumano la politica, e non qualcuno che cambi loro le stoviglie».Ai 5 Stelle, conclude l’avvocato, sono stati tesi dei trabocchetti, per esempio da Bersani, e i neoparlamentari hanno commesso errori d’inesperienza e ingenuità: per questo vanno sostenuti, perché continuino a crescere. Il Pd, invece, «ha disperso un immenso patrimonio, quello del Pci». Come diceva Natta, «non hanno tenuto conto che eravamo il punto di arrivo di una particolarità storica, significativa e apprezzata a livello internazionale: un partito socialdemocratico, sul modello scandinavo, che aveva con sé la classe operaia». Tutto questo, sostiene Zupo, non deve andare perduto, e il Movimento 5 Stelle è un’occasione: «In Europa il malcontento si sta riversando verso partiti reazionari, fascisti o addirittura neonazisti, mente qui da noi prende le sembianze del M5S che è invece antifascista, democratico e progressista. Basta osservare come Grillo ha replicato al corteggiamento di Marine Le Pen. Questa specificità del M5S andava compresa e sostenuta, e non osteggiata come fatto dal Pd. Anche le istituzioni che continuano ad accusare il movimento di populismo sbagliano in maniera grossolana».«Ai miei tempi l’onestà era un dna che andava preservato accuratamente, oggi è un optional fastidioso. Il pensiero di Berlinguer è attualissimo e l’unico erede della questione morale è il Movimento 5 Stelle». Parola dell’avvocato Giuseppe Zupo, 73 anni, responsabile nazionale giustizia del Pci ai tempi di Berlinguer. «Allora – dice Zupo, intervistato da “Micromega” – la corruzione non aveva il peso devastante che ha assunto negli anni successivi». C’era il terrorismo, che «trovava terreno fertile tra l’insoddisfazione dei giovani e delle masse popolari». Per questo Berlinguer «si è preoccupato di riguadagnare la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, da qui la questione morale e l’intransigenza sull’onestà delle istituzioni». La battaglia di Grillo, dunque. E Renzi? «E’ il nulla, e sul niente c’è poco da dire». Quanto a Vendola, «sull’Ilva di Taranto ha fatto uno scivolone terribile e avrebbe dovuto trarne immediatamente le conseguenze: non si ride con i padroni che hanno inquinato una città e prodotto morti su morti».
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Sinistra italiana senza il coraggio di sostenere Tsipras
«Loro son troppo marxisti. O troppo poco. Troppo massimalisti. O troppo poco. Troppo pacifisti. O troppo poco. Troppo anti-berlusconiani. O troppo poco. Troppo giustizialisti; o troppo poco». Non servono raffinate sociologie per riconoscere la crisi letale della sinistra nella demenza autoreferenziale del suo dibattito interno. Non è un problema solo dell’ultimo quarto di secolo, s’intenda, né solo del nostro paese. Da noi tuttavia il pregresso del più grande partito comunista d’Occidente ha ingigantito quella sindrome autocritica capace di demolire tutto salvo ciò che andava demolito davvero: il proprio settarismo, il prendersela anzitutto con qualche categoria interna di “altri”, di “compagni che sbagliano”. Peccato, perché l’occasione sarebbe a portata di mano, qui e ora, per almeno due ottime ragioni. La prima è che la Sinistra Europea ha lanciato un’eccellente candidatura, quella del giovane ingegnere Alexis Tsipras, leader di Syriza, ovvero di quella resistenza laica e ferma che, dalla Grecia, costituisce il peggior incubo per i governanti continentali dell’austerità.La seconda è che la Sinistra Europea, a dispetto degli sterili psicodrammi, ai fatti ha avuto ragione pressoché su tutto in questi ultimi 25 anni, a iniziare dai temi più cruciali, dalla critica all’accelerazione monetarista dei Trattati (da Maastricht in poi) al no alle guerre della Nato. La sinistra c.d. “radicale” aveva ragione; gli altri, “moderati” inclusi (senza eccezione per i socialdemocratici), torto. Sarebbe il momento dell’“incasso” elettorale, e invece si cede lo scettro della critica – e della rappresentanza – agli anti-europeisti, populisti e intolleranti, in una parola alla destra. Il primo a tirarsi fuori – spiace sottolinearlo – è stato Nichi Vendola, che al “Manifesto” ha dissimulato con un elogio a Tsipras la propria scelta politica: Sel non si candiderà per Tsipras o per la Linke bensì, assieme al Pd, per Martin Schulz e il New Labour. Gli altri italiani? Praticamente il nulla, come ha denunciato la leader tedesca della Sinistra Europea Gabi Zimmer (mia intervista per “Il Fatto Quotidiano”) il 13 dicembre scorso.Qualcosa per la verità poi si è mosso e, da Barbara Spinelli a Paolo Flores d’Arcais ad Alessandro Gilioli, non passa oramai quasi giorno senza che qualche intellettuale lanci il suo appello per realizzare anche da noi una lista per Tsipras, rompendo seppur tardivamente la solitudine di chi da tempo si era speso per la sua candidatura, come l’ex capogruppo della Sinistra europarlamentare Roberto Musacchio. Le strade sarebbero almeno due. Una sarebbe quella indicata da Giulietto Chiesa, ovvero un’assunzione di responsabilità dei movimenti più popolari (quali Emergency), che però per statuto o antica scelta difficilmente lo faranno. Ci sarebbe Azione Civile, che per ora esita a uscire dai generici appelli dato il recente scotto elettorale. Ci sono già Alba e Alternativa, degli stessi Musacchio e Chiesa, ma ovviamente non basta.L’altro possibile “primo passo” potrebbero farlo gli stessi partitini che sostengono Tsipras, a iniziare da Rifondazione. «Prendiamo atto della catena di batoste, ci sciogliamo e mettiamo modestamente a disposizione quel po’ di struttura, esperienza e militanza per ricostruire la sinistra italiana ben al di là del nostro esiguo perimetro», potrebbero dire, anziché rimanere nel feudo e perpetuare il settarismo di cui sopra. Non sarebbe così difficile, in fondo: il volto c’è, ed è quello di Tsipras; il logo pure, quello della “Gue”. In italiano si legge “Sinistra Unitaria Europea”. Non sono tre brutte parole. E’ vero che la “sinistra” italiana è morta, ma permangono alcuni milioni di elettori di sinistra che stabilmente disertano le urne. Cari partitini e movimenti, davvero non interessa?(Alessandro Cisilin, “Elezioni 2014, Sinistra Europea occasione italiana?”, da “Megachip” del 7 gennaio 2014).«Loro son troppo marxisti. O troppo poco. Troppo massimalisti. O troppo poco. Troppo pacifisti. O troppo poco. Troppo anti-berlusconiani. O troppo poco. Troppo giustizialisti; o troppo poco». Non servono raffinate sociologie per riconoscere la crisi letale della sinistra nella demenza autoreferenziale del suo dibattito interno. Non è un problema solo dell’ultimo quarto di secolo, s’intenda, né solo del nostro paese. Da noi tuttavia il pregresso del più grande partito comunista d’Occidente ha ingigantito quella sindrome autocritica capace di demolire tutto salvo ciò che andava demolito davvero: il proprio settarismo, il prendersela anzitutto con qualche categoria interna di “altri”, di “compagni che sbagliano”. Peccato, perché l’occasione sarebbe a portata di mano, qui e ora, per almeno due ottime ragioni. La prima è che la Sinistra Europea ha lanciato un’eccellente candidatura, quella del giovane ingegnere Alexis Tsipras, leader di Syriza
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Spiazzati dagli italiani: veri sconfitti, i media di regime
Le recenti elezioni italiane hanno decretato diversi sconfitti, primi fra tutti il Pd e “Rivoluzione civile”. I giornalisti ne hanno disinvoltamente dimenticato un terzo: se stessi. Vorrei essere molto esplicito: i giornalisti non ne hanno azzeccata una, e tuttavia continuano a pontificare come se qualcuno avesse loro conferito un qualche diritto di prescienza. Si chiama opinionismo, naturalmente. Ma ha i chiari caratteri del vaniloquio. D’altronde è inevitabile che sia così. Avendo ridotto la realtà alla sua rappresentazione mediatica, costoro hanno perso di vista la complessità con cui il reale si manifesta. Lo hanno parcellizzato in statistiche, proiezioni, categorie politologiche e diatribe televisive. Quando essa pulsava dentro cuori, animi e problematiche che con la tarantella dei talk show non solo non hanno nulla a che fare ma non vogliono più avere a che fare.