Archivio del Tag ‘azionisti’
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Se ci rubano anche le Poste, servizio pubblico universale
Dopo aver versato, per non più di un minuto, lacrime di coccodrillo sui dati della disuguaglianza sociale nel pianeta, forniti dal rapporto della ong Oxfam – le 85 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,5 miliardi di persone; l’1% del pianeta possiede il 50% della ricchezza mondiale – il ministro Saccomanni, presente all’annuale Forum di Davos, è passato alle cose serie e, in un incontro con i grandi investitori stranieri, ha annunciato l’avvio dell’ennesimo piano di privatizzazioni, con in testa le Poste Italiane. Senza senso del ridicolo, è riuscito a dire che l’operazione, che prevede, per ora, la messa sul mercato del 40% del capitale sociale di Poste, comporterà un’entrata di almeno 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico.Anche ai più sprovveduti credo risulti chiara l’inversione del contesto: Saccomanni dice di voler privatizzare le Poste per ridurre il debito pubblico, mentre è evidente come il debito pubblico sia solo l’alibi – lo shock teorizzato da Milton Friedman – per permettere la privatizzazione di un servizio pubblico universale. Bastano due semplici operazioni di matematica: la vendita del 40% di Poste Italiane porterebbe il debito pubblico da 2.068 a 2.064 miliardi, con un entrata una tantum non riproducibile, e nel contempo eliminerebbe un’entrata annuale stabile di almeno 400 milioni/anno (essendo l’utile di Poste Italiane pari a 1 miliardo). Ma, ovviamente, non c’è dato che conti quando l’obiettivo è quello di dichiarare una vera e propria guerra alla società, attraverso la progressiva spoliazione di diritti, beni comuni, servizi pubblici e democrazia, all’unico scopo di favorire l’espansione dei mercati finanziari.E, d’altronde, la messa sul mercato del 40% di Poste è la naturale prosecuzione di un processo di trasformazione del servizio, in corso già da quando l’azienda dello Stato è diventata una SpA: da allora abbiamo assistito a più riprese – tutte avvallate dagli accordi sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil di categoria – al progressivo smantellamento del servizio postale universale, con relativo attacco alle sue prerogative di uniformità di servizio su tutto il territorio nazionale, di tariffe contenute e di soddisfacente qualità del recapito. Ciò che si vuole perseguire, con la definitiva privatizzazione, è lo smantellamento della funzione sociale di Poste Italiane, attraverso la separazione di Banco Posta dal servizio di recapito, trasformando il primo – già oggi ricettacolo di molteplici attività finanziarie – in una vera e propria banca e mettendo sul mercato il secondo.Con la naturale conseguenza che i servizi postali saranno garantiti da una miriade di soggetti privati, solo laddove adeguatamente remunerativi (grandi città e grandi utenti) e smantellati, o a carico della collettività con aumento incontrollato dei costi, in ogni territorio dove il rapporto servizio/redditività non sarà considerato adeguato. Senza contare il fatto che, con questa operazione, anche tutta la funzione di raccolta del risparmio dei cittadini, oggi svolta dagli oltre 13.000 uffici postali, che convogliano il denaro raccolto a Cassa Depositi e Prestiti, verrebbe messa a rischio o profondamente trasformata. Stiamo già sentendo le consuete sirene ideologiche di accompagnamento: la vendita del 40% non intaccherà il controllo pubblico, mentre nel capitale sociale verranno coinvolti i lavoratori e i cittadini risparmiatori, in una sorta di azionariato popolare e democratico.Credo che tre decenni di privatizzazioni abbiano già fornito gli elementi per confutare entrambe le tesi: l’entrata dei privati nel capitale sociale di un’azienda pubblica ha sempre e inevitabilmente comportato la trasformazione della parte pubblica in soggetto finalizzato all’unico obiettivo del profitto; l’azionariato diffuso tra lavoratori e cittadini, aldilà delle favole sulla democrazia economica, è sempre servito a immettere denaro nell’azienda, permettendo agli azionisti maggiori – i poteri forti – di poterla possedere senza fare nemmeno lo sforzo di doverla comprare. Ogni smantellamento di un servizio pubblico universale consegna tutte e tutti noi all’orizzonte della solitudine competitiva: ciascuno da solo sul mercato in diretta competizione con l’altro. Opporsi alle privatizzazioni, oltre a fermare i processi di finanziarizzazione della società, consente di riaprire lo spazio pubblico dei beni comuni e di un altro modello sociale. Perché il futuro è una cosa troppo seria per affidarlo agli indici di Borsa.(Marco Bersani, “Il postino smetterà di suonare?”, da “Comunitaria” del 24 gennaio 2014).Dopo aver versato, per non più di un minuto, lacrime di coccodrillo sui dati della disuguaglianza sociale nel pianeta, forniti dal rapporto della ong Oxfam – le 85 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,5 miliardi di persone; l’1% del pianeta possiede il 50% della ricchezza mondiale – il ministro Saccomanni, presente all’annuale Forum di Davos, è passato alle cose serie e, in un incontro con i grandi investitori stranieri, ha annunciato l’avvio dell’ennesimo piano di privatizzazioni, con in testa le Poste Italiane. Senza senso del ridicolo, è riuscito a dire che l’operazione, che prevede, per ora, la messa sul mercato del 40% del capitale sociale di Poste, comporterà un’entrata di almeno 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico.
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Seguite i soldi, e capirete perché Repubblica è pro-Tav
“Follow the money”, come dicono gli americani. Fatelo, e scoprirete tante cose. Per esempio, perché il quotidiano “La Repubblica”, fondato da Eugenio Scalfari e edito dal finanziere Carlo De Benedetti, è così graniticamente pro-Tav. Convinzione ideologica? Forse. Ma come spiegarsi tanta sistematica “disattenzione” verso le inoppugnabili motivazioni dei No-Tav, supportate dai migliori tecnici? Seguite i soldi, dice John Siccardi, e vedrete che gli azionisti del grande quotidiano italiano tutto l’interesse – solido, materiale – perché l’opera pubblica più devastante, assurda e inutile d’Italia, la linea Tav Torino-Lione, si faccia comunque. Anche se il Consiglio d’Europa definisce «incompatibili con il corretto giornalismo investigativo» le campagne giornalistiche realizzate sulla base di prese di posizioni “al servizio di interessi particolari”, è un dato di fatto che proprio gli interessi particolari riescano a farsi strada, eccome, nel mondo della cosiddetta informazione. L’unica domanda che conta è: chi comanda, davvero, in redazione?«Individuati i proprietari, cioè gli azionisti – scrive Siccardi sul sito “NoTav.info” – bisognerà poi cercare i loro settori di attività e chiedersi, ad esempio nel caso delle opere pubbliche, se abbiano o potranno avere in futuro un interesse economico all’espansione delle infrastrutture». Se si scopre «un potenziale o concreto beneficio per i proprietari del media», ad esempio nell’alta velocità ferroviaria, «allora non si potrà dire che quel media sia neutro ed equidistante, né il suo messaggio affidabile, perché non disinteressato». Conflitto d’interessi? Siccardi esamina la posizione di “Repubblica”, schieratissima a favore della Torino-Lione. Il giornale è editato dal Gruppo Espresso, società per azioni di cui a detenere la maggioranza (53,8%) è la finanziaria Cir di De Benedetti. Il secondo più importante proprietario del gruppo è Bestinver Gestion, azionista di Cofide (gruppo Cir). A sua volta, Bestinver «è controllata al 100% dal gruppo spagnolo Acciona, che fa molte cose tra cui costruire linee ferroviarie ad alta velocità e fornire corrente elettrica a linee ferroviarie».Ricapitolando: attraverso Bestinver, la spagnola Acciona (alta velocità ferroviaria) «controlla più del 20% del principale azionista di “Gruppo L’Espresso S.p.A.” e del suo prodotto editoriale, “La Repubblica”». Ma non solo. La Cir è anche l’azionista di maggioranza di Sorgenia, società italiana che si definisce il secondo fornitore elettrico delle aziende italiane ed il primo operatore privato nel mercato italiano dell’energia elettrica e del gas naturale. «Come tutti sanno, i treni ad alta velocità vanno a corrente elettrica acquistata da fornitori, e così nel 2013 Acciona (azionista di Cir e quindi di Sorgenia) si è aggiudicata un appalto da 200 milioni di euro dal governo spagnolo per alimentare le reti ferroviarie spagnole tradizionali e ad alta velocità». Per Siccardi, l’interesse degli editori di “Repubblica” nello sviluppo dell’alta velocità è palesemente dimostrato dalla composizione azionaria e dal business degli azionisti: cantieri ferroviari Tav e forniture di energia elettrica. Pur senza escludere il legittimo esercizio di libere opinioni, anche in redazione, «si può dire con sicurezza che la linea editoriale complessiva, che da anni fa opinione e pressione su lettori e politici, è nettamente in salsa Sì Tav e che sulla carta ci sono elementi che la possono spiegare». Seguite i soldi, appunto. E le idee vi si chiariranno.“Follow the money”, come dicono gli americani. Fatelo, e scoprirete tante cose. Per esempio, perché il quotidiano “La Repubblica”, fondato da Eugenio Scalfari e edito dal finanziere Carlo De Benedetti, è così graniticamente pro-Tav. Convinzione ideologica? Forse. Ma come spiegarsi tanta sistematica “disattenzione” verso le inoppugnabili motivazioni dei No-Tav, supportate dai migliori tecnici? Seguite i soldi, dice John Siccardi, e vedrete che gli azionisti del grande quotidiano italiano potrebbero avere tutto l’interesse – solido, materiale – perché l’opera pubblica più devastante, assurda e inutile d’Italia, la linea Tav Torino-Lione, si faccia comunque. Anche se il Consiglio d’Europa definisce «incompatibili con il corretto giornalismo investigativo» le campagne giornalistiche realizzate sulla base di prese di posizione “al servizio di interessi particolari”, è un dato di fatto che proprio gli interessi particolari riescano a farsi strada, eccome, nel mondo della cosiddetta informazione. L’unica domanda che conta è: chi comanda, davvero, in redazione?
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Le finte privatizzazioni? Maxi-favori ai banchieri amici
Privatizzare ha due obiettivi fondamentali. Il primo è scollegare la politica e il palazzo dalla gestione delle imprese restituendole al mercato. Il secondo è recuperare risorse una tantum per coprire il nostro gigantesco debito pubblico. Le privatizzazioni annunciate da Letta in una certa misura raggiungono il primo obiettivo. Facciamo un esempio. La Sace è una società attiva nel sostegno assicurativo alle imprese e vale circa 5 miliardi. C’è la possibilità che venga acquistata dalle Generali. Il passaggio dal pubblico al privato ci sarebbe e sarebbe decisivo. Stm, la società dei microchip, verrebbe invece ceduta dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti (che per l’80 per cento è del Tesoro stesso e per il resto delle Fondazioni bancarie) realizzando solo una partita di giro. Ma pur sempre giro pubblico. Ma proprio il caso Sace ci racconta il bluff contabile di queste privatizzazioni. Qualcuno ci deve infatti spiegare come si possa privatizzare due volte la stessa società.L’anno scorso infatti ci furono titoloni dei giornali che favoleggiavano sui dieci miliardi di privatizzazioni realizzate dal governo Monti. Succedeva che il Tesoro cedeva alla solita Cassa depositi e prestiti la medesima Sace. Scrivemmo che più che una privatizzazione si trattava dello spostamento da una tasca all’altra di un bene che rimaneva nella piena disponibilità pubblica. Tanto che a distanza di un anno si riparla di privatizzare la Sace. Un miracolo. Ma i paradossi non finiscono qui. Il governo Letta ha parlato di 10-12 miliardi derivanti dalle privatizzazioni. Circa nove di questi 12 miliardi sono di società nel portafoglio della Cdp (non solo la Sace, ma anche Fincantieri, gran parte dell’Eni e le reti infrastrutturali). La Cassa si terrà gran parte del bottino, poiché ha necessità di rafforzarsi patrimonialmente.Come proventi delle privatizzazioni resterebbero più o meno tre miliardi che la Cdp potrebbe dare al Tesoro con un dividendo straordinario. Ma c’è un problemino. Il 20 per cento di questo dividendo sarebbe ovviamente pagato al socio di minoranza e cioè le Fondazioni bancarie. Ricapitoliamo. Lo Stato dice di vendere per circa 12 miliardi. Il Tesoro incasserà poco più di 2 miliardi di euro. E 600 milioni finiranno nei forzieri, oggi a secco, delle Fondazioni bancarie. Giuseppe Guzzetti, il potente numero uno delle ex casse di risparmio, può finalmente aprire la bottiglia di champagne che aveva in fresco da anni. Con le banche conferitarie che non danno un dividendo, le Fondazioni rischiavano di rimanere impantanate. Ci pensa il governo Letta, che grazie alle privatizzazioni, fa loro questo bel regalo. Le assurdità contabili di queste vendite di Stato continuano. I circa 2,4 miliardi (sempre che si riesca a vendere tutto) che potrebbero arrivare nelle casse del Tesoro, non andrebbero a ridurre il nostro debito pubblico.Grazie all’invenzione fatta l’anno scorso dal governo Monti, si possono usare introiti straordinari (come quelli derivanti da vendite di società o di immobili, insomma dalla cessione dei gioielli della corona) per pagare le spese correnti. È come se una famiglia indebitatissima si vendesse la casa o le posate d’argento per andare a mangiare in un ristorante stellato. Se ciò avvenisse in una famiglia, si potrebbe chiamare la neuro. Se ciò avviene nello Stato, si chiama la finanziaria. La morale. Grazie alla vendita di pezzi del nostro patrimonio, stiamo dando una mano agli azionisti delle banche, oggi in grande difficoltà, stiamo rendendo sempre più forte la nuova e moderna Iri (cioè la Cdp) e con quel che resta stiamo finanziando i pasti del 2014. Che vedrete prima o poi qualcuno dovrà pagare.(Nicola Porro, “Finte privatizzazioni”, da “Il Giornale” del 13 novembre 2013).Privatizzare ha due obiettivi fondamentali. Il primo è scollegare la politica e il palazzo dalla gestione delle imprese restituendole al mercato. Il secondo è recuperare risorse una tantum per coprire il nostro gigantesco debito pubblico. Le privatizzazioni annunciate da Letta in una certa misura raggiungono il primo obiettivo. Facciamo un esempio. La Sace è una società attiva nel sostegno assicurativo alle imprese e vale circa 5 miliardi. C’è la possibilità che venga acquistata dalle Generali. Il passaggio dal pubblico al privato ci sarebbe e sarebbe decisivo. Stm, la società dei microchip, verrebbe invece ceduta dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti (che per l’80 per cento è del Tesoro stesso e per il resto delle Fondazioni bancarie) realizzando solo una partita di giro. Ma pur sempre giro pubblico. Ma proprio il caso Sace ci racconta il bluff contabile di queste privatizzazioni. Qualcuno ci deve infatti spiegare come si possa privatizzare due volte la stessa società.
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Polonia come Cipro: il governo “rapina” i fondi pensione
Ora che il “bail-in” è diventato una prassi accettata in tutto il pianeta, nessun conto in banca sarà più sicuro al 100 %. In realtà, la confisca delle ricchezze “alla cipriota” è ormai prassi in tutto il mondo, avverte Michael Snyder: in Polonia i fondi pensione privati sono stati appena alleggeriti da parte del governo, mentre in Italia è nel mirino il Montepaschi. Ed è solo l’inizio: il precedente di Cipro «viene utilizzato come modello» anche in Nuova Zelanda, in Canada e in tutta Europa. «E’ solo una questione di tempo, prima di vedere accadere questa cosa negli Stati Uniti: d’ora in poi, chiunque mantenga una grande quantità di denaro in un singolo conto bancario o fondo pensione si dimostrerà incredibilmente stupido». Se ne sono accorti a Varsavia, dove ora il governo “tosa” i fondi pensione privati per «ridurre le dimensioni del debito pubblico». Molte delle attività detenute dai fondi saranno trasferite allo Stato, «mettendo in dubbio il futuro di fondi da molti miliardi di euro, molti dei quali di proprietà straniera».Il governo polacco, scrive Snyder in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, sta facendo del suo meglio per farlo sembrare una sorta di complicata manovra legale, «ma la verità è che ciò che hanno fatto è stato rubare un patrimonio privato senza dare in cambio alcun compenso». Per l’organizzazione polacca dei fondi pensione, le modifiche sono incostituzionali. Secondo il premier Donald Tusk, ciò che rimane dei versamenti dei cittadini nei fondi privati sarà progressivamente trasferito nel sistema statale nel corso dei prossimi 10 anni, prima che i risparmiatori arrivino all’età età pensionabile. Analogo allarme in Islanda, dove – dopo l’iniziale rivolta contro i banchieri-truffa e i politici loro complici – ora si ventila l’adozione di garanzie vere e proprie, come da modello Ue, solo per i conti correnti fino ai 100.000 euro. E gli altri? Per i ministri delle finanze europei, in futuro il prelievo forzoso sarà la procedura standard per salvare le banche “troppo grandi per fallire”. Obbligazionisti, azionisti e grandi risparmiatori, con conti superiori ai 100.000 euro, saranno i primi a subire perdite nel caso le banche fallissero, mentre solo i titolari di conti inferiori a quella cifra saranno relativamente al sicuro.In Italia, parla da solo il caso Mps: la banca è senza soldi, dovrebbe essere nazionalizzata e ricapitalizzata dallo Stato, ma è praticamente impossibile che accada. La banca si prepara a non remunerare gli obbligazionisti, dopo aver dichiarato la sospensione dei pagamenti residui su tre titoli “ibridi”, «a seguito delle richieste da parte delle autorità europee che gli obbligazionisti contribuiscano alla ristrutturazione del debito della banca». Secondo “Bloomberg”, Siena «non pagherà nessun residuo su circa 481 milioni di euro (650 milioni di dollari) di titoli ibridi in circolazione, emessi attraverso Mps Capital Trust II e Antonveneta Capital Trust I e II». Perché questi titoli? «Perché gli obbligazionisti ibridi hanno protezione zero e zero possibilità di fare ricorso», spiega Snyder. «In base ai termini dei titoli senza scadenza, la banca senese è autorizzata a sospendere il pagamento degli interessi senza essere dichiarata inadempiente», e senza risarcire i titolari delle obbligazioni, “rapinati” per ripianare i conti. Tutto questo avviene solo adesso, cioè dopo le elezioni tedesche: con la Merkel ancora al potere, si è certi che la Germania non permetterà alla Bce di Draghi di varare un altro programma “Ltro” per immettere nuova liquidità salva-banche.Ma se l’Europa piange, il mondo anglosassone non ride: in Nuova Zelanda, i Verdi di Russel Norman accusano il governo di meditare una soluzione “alla Cipro”: i piccoli risparmiatori sarebbero “rapinati” dal programma Obr, “Open Bank Resolution”, messo a punto dal ministro delle finanze Bill English per affrontare un grande fallimento bancario. E persino il Canada si sta muovendo in questa direzione: lo conferma il “Piano d’azione economica 2013” già presentato al Parlamento dal governo di Stephen Harper. «Ciò significa che questo regime di “bail-in” è stato probabilmente progettato molto prima che scoppiasse la crisi di Cipro», annota Snyder. «Ciò significa che i governi del mondo stanno tenendo d’occhio i nostri soldi come parte della soluzione di eventuali futuri fallimenti delle grandi banche: di conseguenza, non vi è più alcun posto veramente “sicuro” per mettere il vostro denaro». L’unico modo per tentare di proteggersi è dislocare i depositi in banche diverse. «Ma se non dai retta agli avvertimenti e continui a mantenere tutte le tue sostanze in un unico grande mucchio, non sorprenderti se un giorno tutto sarà spazzato via in un attimo».Ora che il “bail-in” è diventato una prassi accettata in tutto il pianeta, nessun conto in banca sarà più sicuro al 100 %. In realtà, la confisca delle ricchezze “alla cipriota” è ormai prassi in tutto il mondo, avverte Michael Snyder: in Polonia i fondi pensione privati sono stati appena alleggeriti da parte del governo, mentre in Italia è nel mirino il Montepaschi. Ed è solo l’inizio: il precedente di Cipro «viene utilizzato come modello» anche in Nuova Zelanda, in Canada e in tutta Europa. «E’ solo una questione di tempo, prima di vedere accadere questa cosa negli Stati Uniti: d’ora in poi, chiunque mantenga una grande quantità di denaro in un singolo conto bancario o fondo pensione si dimostrerà incredibilmente stupido». Se ne sono accorti a Varsavia, dove ora il governo “tosa” i fondi pensione privati per «ridurre le dimensioni del debito pubblico». Molte delle attività detenute dai fondi saranno trasferite allo Stato, «mettendo in dubbio il futuro di fondi da molti miliardi di euro, molti dei quali di proprietà straniera».
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Ansaldo Energia, solita privatizzazione a nostre spese
L’operazione Ansaldo Energia va studiata da vicino, perché se ci si fermasse agli astrusi comunicati di Finmeccanica e del Fsi, il Fondo Strategico Italiano, la cosa resterebbe avvolta nel più fitto mistero. Società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, a sua volta controllata dal ministero dell’economia, il Fsi ha comprato il 100% di Ansaldo Energia, di cui da tempo Finmeccanica (pubblica) voleva sbarazzarsi per fare un po’ di cassa e ridurre l’indebitamento. In questa strana ri-nazionalizzazione, rivela Giorgio Meletti, non un solo euro verrà utilizzato per lo sviluppo di Ansaldo Energia, destinata ad essere al più presto rivenduta. Ma il punto più doloroso è un altro: già in passato, Finmeccanica ha svenduto alla finanza parti della holding, strategica per l’Italia. Due anni fa, sotto la guida di Pier Francesco Guarguaglini e Giuseppe Orsi, per pagare a primavera 2011 agli azionisti un dividendo di 237 milioni di euro, a dispetto delle condizioni già critiche del gruppo, Finmeccanica decise di svendere al fondo americano First Reserve il 45% di Ansaldo Energia, per la cifra di 225 milioni.«Bastava non pagare il dividendo e tenersi l’Ansaldo Energia, direbbe l’anima semplice. Ma se si fosse fatto ciò che il buonsenso comanda – scrive Meletti sul “Fatto Quotidiano – non ci sarebbero state le parcelle per gli studi legali, le consulenze per le banche d’affari, e non si sarebbero fatte le acrobazie grazie alle quali, incassando solo 225 milioni, si attribuì all’Ansaldo Energia un valore d’impresa di 1,2 miliardi di euro, con gli ovvi vantaggi di imbellettamento del bilancio». Dopo poco più di due anni, il capo di First Reserve, «che nonostante il nome esotico è l’italianissimo Francesco Giuliani, ex manager di Finmeccanica e di General Electric», torna a Roma e rivende il suo 45% al Fondo strategico per 387 milioni, con una plusvalenza del 72% in due anni. Un affarone clamoroso per il fondo First Reserve, «un disastro per gli interessi generali degli italiani, che attraverso lo Stato possiedono solo il 30% di Finmeccanica». Parlano le cifre: «Due anni fa, quando si vendette la quota di Ansaldo Energia per pagare il dividendo di 237 milioni, lo Stato prese solo una settantina di milioni; adesso che c’è da ricomprarsi Ansaldo Energia per salvare l’italianità dell’azienda, sono pubblici tutti i 387 milioni finiti nelle tasche del fondo First Reserve».Desta una certa curiosità, aggiunge Meletti, anche il fatto che il Fondo strategico italiano paghi 387 milioni per il 45% del fondo First Reserve e la stessa cifra a Finmeccanica per il 55%. In realtà Finmeccanica prenderà un po’ meno, visto che adesso cede solo il 39% delle azioni, mentre il restante 15% passerà di mano nei prossimi anni, quindi con pagamento differito che in termini finanziari comporta un costo per il venditore. «Poi c’è un altro meccanismo, chiamato in inglese “earn out”», che secondo Finmeccanica e Fondo strategico «gli italiani (che ci stanno mettendo i soldi) non hanno diritto di sapere che cos’è». In pratica, spiega il “Fatto”, Finmeccanica si vedrà riconosciuto un premio fino a 130 milioni di euro relativo ai risultati economici di Ansaldo Energia dei prossimi tre anni: «Se andrà tutto molto bene, Finmeccanica incasserà tutti i 130 milioni, ma se le cose andassero male potrebbe anche non incassare un solo euro, e si troverebbe ad aver venduto il suo 55% a meno di quanto il fondo americano ha incassato per il 45%».Mistero presto svelato, conclude Meletti: «Due anni fa gli americani rappresentati da un italiano hanno ottenuto un diritto di co-vendita: Finmeccanica non poteva vendere il suo 55% senza cedere anche il 45% del fondo First Reserve». Alla fine dell’anno scorso, infatti, ci fu già un’offerta italiana coordinata dal Fondo strategico per il 55% di Ansaldo Energia, e Finmeccanica dovette rispondere “no, grazie ” perché sennò il fondo First Reserve si sarebbe arrabbiato. «Insomma, per 225 milioni First Reserve si comprò anche il diritto di incassare il premio di maggioranza nella futura vendita». Come si è puntualmente verificato ora. Niente da dire: «Un grande affare all’italiana».L’operazione Ansaldo Energia va studiata da vicino, perché se ci si fermasse agli astrusi comunicati di Finmeccanica e del Fsi, il Fondo Strategico Italiano, la cosa resterebbe avvolta nel più fitto mistero. Società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, a sua volta controllata dal ministero dell’economia, il Fsi ha comprato il 100% di Ansaldo Energia, di cui da tempo Finmeccanica (pubblica) voleva sbarazzarsi per fare un po’ di cassa e ridurre l’indebitamento. In questa strana ri-nazionalizzazione, rivela Giorgio Meletti, non un solo euro verrà utilizzato per lo sviluppo di Ansaldo Energia, destinata ad essere al più presto rivenduta. Ma il punto più doloroso è un altro: già in passato, Finmeccanica ha svenduto alla finanza parti della holding, strategica per l’Italia. Due anni fa, sotto la guida di Pier Francesco Guarguaglini e Giuseppe Orsi, per pagare a primavera 2011 agli azionisti un dividendo di 237 milioni di euro, a dispetto delle condizioni già critiche del gruppo, Finmeccanica decise di svendere al fondo americano First Reserve il 45% di Ansaldo Energia, per la cifra di 225 milioni.
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Ecco perché le banche non hanno più soldi da prestarci
Il ruolo delle banche è da sempre quello di ricevere denaro e di farlo fruttare prestandolo. Oggi, come sa chiunque ci abbia provato a chiederglielo, le banche il denaro non lo prestano più. Senza credito non ci può essere sviluppo. Senza credito le imprese soccombono e licenziano. Senza credito è impossibile per chiunque non sia “ricco di suo” creare un’attività. E siccome chi oggi è ricco di suo tra il rischio di un investimento e il comodo porto dei Bot preferisce certamente la seconda attività, comprendiamo perché la disoccupazione sia raddoppiata in soli 4 anni. Le banche non sono l’unico problema, però sono uno snodo centrale e sono una metafora della crisi Italiana dovuta alla capacità della classe politica di occupare lo spazio che dovrebbe essere di quella civile. Non importa se non funziona, l’importante è mantenere la poltrona.Il Fmi (non sarà il Vangelo, però i numeri li sanno leggere) ci dice che la causa di ciò è la sottocapitalizzazione delle nostre banche. In parole povere, vuol dire che se non hanno soldi non li possono prestare. Una banca che si trova in questa situazione ha una sola soluzione se vuole continuare a operare: chiedere ai suoi azionisti nuovi soldi. In Italia questo non è possibile. Non lo è perché, per quanto formalmente “privati”, tutti i maggiori istituti italiani sono propaggini del sistema politico. Quando 20 anni orsono il Tesoro decise di vendere la maggioranza delle azioni, per mantenere il controllo i politici italiani inventarono il trucco delle fondazioni bancarie, che mantennero la quota di controllo (sufficiente a nominare i manager). Fu una finta privatizzazione, perché a decidere chi comandava restava sempre la politica. E’ questo il motivo per cui le banche sono rimaste senza soldi; perché li hanno prestati non a chi li meritava, ma a chi il politico di riferimento ordinava.L’unica soluzione sarebbe, appunto, di chiedere ai soci di tirare fuori il grano. Ma se ciò avvenisse, le fondazioni perderebbero il controllo degli istituti perché non avrebbero il denaro sufficiente per coprire la loro parte, e la perdita del controllo significherebbe che i partiti non potrebbero più nominare i manager e questo il sistema non lo potrebbe accettare. Quindi preferiscono tirare a campare continuando a evitare di dirci che i soldi che hanno prestato non esistono più perché li hanno prestati agli amici degli amici, che se li sono pappati. Se si facesse pulizia nei conti, la quasi totalità delle nostre banche sarebbe fallita. Allora si preferisce prendere i soldi dei cittadini e “prestarli” alle banche; ma un prestito è un prestito quando esiste la possibilità che venga rimborsato, altrimenti si chiama regalo. I cosiddetti “Monti bond” che hanno salvato l’Mps appartengono a questa categoria. Non è questione di essere di destra o di sinistra per rendersi conto che ciò è assurdo.Esistono solo due soluzioni possibili a questa situazione. Se è il mercato a decidere, allora i soldi li devono tirare fuori i privati, guadagnandoci se son bravi e perdendoci se cattivi. Se invece siamo noi (lo Stato) a metterci il grano, è giusto che siamo noi a possedere le banche, quindi una sorta di ri-nazionalizzazione del sistema. A prima vista la soluzione più ragionevole è un mix delle due precedenti; lasciare ai privati quello che i privati possono salvare e fare intervenire lo Stato laddove ciò non è possibile. Per parare l’obiezione che già sento arrivare (ai privati il salvabile, al pubblico le carrette) ricordo che lo Stato è già garante del sistema bancario e che, in caso di fallimento, dovrebbe comunque intervenire a coprire il buco. All’obiezione di chi invece dice che riportare al Tesoro la proprietà non significa certo eliminare l’influenza della politica, rispondo che è vero ma almeno esiste la speranza che a nominarne i vertici non sia il solito capobanda locale.(Marco Di Gregorio, “Perché le banche non hanno più soldi da prestare”, dall’“Huffington Post” del 7 ottobre 2013).Il ruolo delle banche è da sempre quello di ricevere denaro e di farlo fruttare prestandolo. Oggi, come sa chiunque ci abbia provato a chiederglielo, le banche il denaro non lo prestano più. Senza credito non ci può essere sviluppo. Senza credito le imprese soccombono e licenziano. Senza credito è impossibile per chiunque non sia “ricco di suo” creare un’attività. E siccome chi oggi è ricco di suo tra il rischio di un investimento e il comodo porto dei Bot preferisce certamente la seconda attività, comprendiamo perché la disoccupazione sia raddoppiata in soli 4 anni. Le banche non sono l’unico problema, però sono uno snodo centrale e sono una metafora della crisi Italiana dovuta alla capacità della classe politica di occupare lo spazio che dovrebbe essere di quella civile. Non importa se non funziona, l’importante è mantenere la poltrona.
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Scalea: soldi facili, così la finanza ha rovinato l’economia
Il problema è che la finanza, da strumento dell’economia, ne è divenuta il cuore. La banca, a sua volta, da strumento dell’impresa ne è diventata proprietaria. E la Borsa non è più lo strumento degli investitori, ma il tempio degli speculatori. Così la speculazione ha superato l’investimento, e la rendita i profitti: questo, riassume Daniele Scalea, è il problema a monte che rende qualsiasi ripresa fragile, e il sistema economico globale squilibrato e instabile. Difficile, per il sistema politico mondiale, porre un freno al disastro. Ci ha provato la Russia al G-20 di San Pietroburgo, fissando come priorità «lo sviluppo di una serie di misure volte a promuovere una crescita sostenibile, inclusiva ed equilibrata, e la creazione di posti di lavoro nel mondo». Secondo Putin, il benessere va ottenuto tramite investimenti in posti di lavoro di qualità, condizioni di trasparenza e fiducia, nonché un’efficace regolamentazione: cioè una retromarcia completa rispetto allo spettacolo messo in scena dall’Occidente negli ultimi trent’anni.«La deregulation, parola d’ordine lanciata negli anni ‘70, ha rappresentato un mantra del neoliberalismo, almeno finché non è divenuto evidente il ruolo da essa avuto nel provocare la crisi finanziaria del 2008», scrive su “Huffington Post” lo stesso Scalea, condirettore della rivista “Geopolitica” e direttore dell’Isag di Roma, istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie. «L’episodio più importante fu rappresentato, negli Usa, dal Gramm-Leach-Bliley Act, proposto dai tre parlamentari repubblicani eponimi ma approvato nel 1999 con un’ampia maggioranza bipartisan». Fine delle regole: «La legge era nata per rispondere all’esigenza creatasi con la nascita di Citigroup, l’anno precedente, e abolì una parte del Glass-Steagall Act del 1933», la famosa legge varata dopo la Grande Depressione del ’29, che aveva separato le banche d’investimento dalle banche commerciali, impedendo alle prime – impegnate nelle speculazioni più rischiose – di raccogliere depositi dai risparmiatori.Dal fatidico ’99, dunque, anche i risparmi delle famiglie sono finiti nelle speculazioni a più alto rischio, in particolare quelle legate alle cartolarizzazioni, fattesi sempre più sofisticate dagli anni ‘80 in poi. «La cartolarizzazione – spiega Scalea – altro non è che la cessione di crediti o attività di una società tramite l’emissione di titoli obbligazionari». Nei primi anni ‘90 divennero popolari i famigerati derivati: titoli il cui prezzo è legato al valore di mercato di uno o più beni, e la cui ratio è la copertura da un rischio finanziario connesso a quei beni stessi. Proprio i derivati «sono divenuti lo strumento prediletto della speculazione, in particolare tramite le vendite allo scoperto», cioè l’impegno a vendere, in una certa data, un determinato bene che ancora non si possiede nel momento in cui si sigla il contratto. Tuttavia, aggiunge Scalea, la deregolamentazione e i “fantasiosi” nuovi strumenti finanziari (creati non da economisti, ma da matematici) rappresentano «solo il corso finale d’una più grande problematica che scorre a monte: quella della finanziarizzazione dell’economia».Quando la finanza prende il sopravvento, sottolinea il condirettore di “Geopolitica”, l’economia reale finisce sempre per risentirne. Accadde così anche nel ’29: «Nel primo dopoguerra, l’economia mondiale era ripartita grazie a uno schema triangolare tra Usa, Germania e altri paesi dell’Europa Occidentale. Washington garantiva alla Germania gl’investimenti per ricostruirne l’economia (non a caso, la tensione postbellica tra Parigi e Berlino fu risolta dal Piano Dawes, che deve il suo nome non a un abile diplomatico bensì a un ricco banchiere); la Germania poteva così pagare le riparazioni di guerra ai paesi europei vincitori del conflitto, e quest’ultimi acquistavano grosse quantità di beni di consumo dagli Usa». La macchina, continua Scalea, s’inceppò proprio quando i profitti a Wall Street divennero così elevati che risparmiatori, imprenditori e banchieri americani cominciarono a trovare più profittevole speculare tutto in Borsa, piuttosto che investire qualcosa nell’economia reale europea. «Quest’ultima rallentò, facendo calare bruscamente gli ordinativi di beni dagli Usa, con conseguente crisi di sovrapproduzione e successivo crollo della Borsa».Analogamente, anche la crisi del 2008 trova la sua genesi nella supremazia della finanza sull’economia reale. Dopo la “stagflazione” degli anni ‘70, ricorda Scalea, la ripresa della crescita economica ha visto quest’ultima concentrarsi sempre più nel segmento finanziario, con parallelo esplodere però anche dei debiti pubblici e il fabbisogno statale crescentemente affidato ai mercati per la sua copertura. Crescita che è stata alimentata da una serie di bolle: prima quella dell’information technology (2000-2001), poi quella dei mutui immobiliari Usa (2007). «L’esigenza di immettere sul mercato titoli da negoziare ha spinto a trascurare la solidità dei sottostanti (vedi mutui subprime): il derivato finanziario è divenuto la ragion d’essere, l’economia reale un semplice strumento». Idem la Borsa: era «il luogo ideale in cui far incontrare i risparmiatori desiderosi d’investire i loro capitali e gl’imprenditori capaci di farli fruttare», quindi in un orizzonte fatto di economia reale, e invece è divenuta una realtà a sé stante: «Le azioni non si comprano più per partecipare dell’impresa e dei suoi utili, ma per speculare sulle variazioni del prezzo di mercato dei titoli stessi».La Borsa, scrive Scalea, ha preso a pullulare di strumenti finanziari, come i derivati, solo debolmente connessi alla realtà economica: «Gli azionisti non guardano più al bene a lungo termine dell’azienda, ma alla possibilità a breve termine di realizzare plusvalenze uscendo dall’azionariato». Complici di questo gioco, i manager: «Per compiacere gli azionisti, hanno indugiato nella pratica di distribuire generosi dividendi anche quando i conti della società non erano positivi, col semplice fine di rendere le azioni più appetibili e dunque farne crescere il valore di mercato a breve, anche se questo minava la solidità aziendale sul lungo periodo». Fenomeno aggravato dall’abitudine di concedere ai manager bonus in azioni della società. Pratiche state denunciate anche dai media all’indomani del crollo borsistico del 2008, eppure continuano ad essere messe in atto. Se fino a ieri la finanza era un mezzo per supportare l’economia, ora è l’unico vero fine a cui mira chi dovrebbe occuparsi del benessere generale, a cominciare dai posti di lavoro.Il problema è che la finanza, da strumento dell’economia, ne è divenuta il cuore. La banca, a sua volta, da strumento dell’impresa ne è diventata proprietaria. E la Borsa non è più lo strumento degli investitori, ma il tempio degli speculatori. Così la speculazione ha superato l’investimento, e la rendita i profitti: questo, riassume Daniele Scalea, è il problema a monte che rende qualsiasi ripresa fragile, e il sistema economico globale squilibrato e instabile. Difficile, per il sistema politico mondiale, porre un freno al disastro. Ci ha provato la Russia al G-20 di San Pietroburgo, fissando come priorità «lo sviluppo di una serie di misure volte a promuovere una crescita sostenibile, inclusiva ed equilibrata, e la creazione di posti di lavoro nel mondo». Secondo Putin, il benessere va ottenuto tramite investimenti in posti di lavoro di qualità, condizioni di trasparenza e fiducia, nonché un’efficace regolamentazione: cioè una retromarcia completa rispetto allo spettacolo messo in scena dall’Occidente negli ultimi trent’anni.
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La finanza parassitaria, il cancro che uccide il lavoro
Se l’industria produce 100, la finanza pretende una “tangente” che va da 50 a 70. I parassiti stanno letteralmente divorando le aziende, cui impongono costi finanziari mostruosi. L’Unione Europea sta dalla parte della finanza e lascia al suo destino l’industria. La quale, complici i dirigenti – reagisce in un solo modo, e cioè tagliando posti di lavoro. E’ la crisi europea “spiegata” dall’economista francese Laurent Cordonnier, co-autore di un importante studio dell’università di Lille, che dimostra che è proprio la rendita finanziaria ad aver cannibalizzato il lavoro in Europa, provocando l’attuale disastro. «L’aumento del costo del capitale – o piuttosto del suo sovraccosto – sulla scia della finanziarizzazione dell’economia, spiega le performance deludenti che le vecchie economie sviluppate hanno offerto negli ultimi trent’anni: il ritmo fiacco dell’accumulazione di capitale, l’aumento delle diseguaglianze, il boom dei redditi finanziari, la persistenza di un massiccio fenomeno di sottoccupazione».
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Stiglitz: basta trucchi, dobbiamo nazionalizzare le banche
«La notizia che la nazionalizzazione delle banche potrebbe essere necessaria anche secondo Alan Greenspan dimostra quanto la situazione sia disperata: come è evidente da tempo, l’unica soluzione è che il nostro sistema bancario sia rilevato dal governo, forse sulla falsariga di quanto fecero Norvegia e Svezia negli anni ‘90». Parola di Joseph Stiglitz, docente della Columbia University e Premio Nobel per l’economia. Nazionalizzare le banche: «Bisogna farlo, e farlo in fretta, prima che altri soldi vadano sprecati in manovre di salvataggio», dopo la catastrofe planetaria provocata da «anni di comportamenti sconsiderati, tra cui la concessione di crediti inesigibili e l’avere giocato d’azzardo con i derivati». Teoricamente, siamo già alla bancarotta: se il governo rispettasse le regole del gioco, sono moltissime le banche che uscirebbero dal mercato. Nessuno sa con certezza quanto sia grande il buco: almeno due-tremila miliardi di dollari, se non di più.
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Finmeccanica, la super-holding per la guerra che ci attende
Per metà “bancomat” destinato ad alimentare il sistema di corruzione politico nazionale, e per metà centro dispensatore di incarichi, consulenze e prebende per mogli, amanti e figli dei potenti di turno. Dopo la Fiat, Finmeccanica è la seconda holding industriale d’Italia: produce aerei, elicotteri, locomotive, carri armati, missili, satelliti e centri di telecomunicazione, con una spiccata vocazione per gli strumenti di morte da esportare ad ogni esercito in guerra. Dal 2009 è tra le dieci regine del complesso militare industriale mondiale e ha intrecciato partnership con i giganti d’oltreoceano moltiplicando ordini e commesse. Una gallina dalle uova d’oro per manager e azionisti, inclusi il ministero dell’economia e delle finanze, che ancora controlla il 30,2% del pacchetto azionario.
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Parguez: l’euro creato per azzopparci, ecco come e perché
In questo mio contributo dedicato ai coraggiosi esponenti della Modern Money Theory in Italia, intendo enfatizzare la straordinaria natura della crisi dell’eurozona. Siamo al termine di un modo di produrre, del capitalismo dinamico inteso in termini marxiani. È la regressione verso un sistema parassitario e decadente, un’economia di puri “rentier” che si alimentano attraverso le banche e le altre istituzioni finanziarie che estraggono risorse dall’economia reale grazie alle permanenti politiche di deflazione applicate dagli Stati. Una regressione simile appare ovvia nel momento in cui si osservano i livelli di disoccupazione in Europa, in particolare in Francia, Belgio e Olanda. Per esempio, in Olanda la disoccupazione effettiva eccede il 50, 60% della forza lavoro! Questo condurrà al drammatico collasso dei redditi anche per chi ancora gode di un normale lavoro
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Dosi: euro folle, Italia e Spagna respingano il maxi-debito
Spread sopra i 500 punti e curva dei tassi d’interesse che ricomincia ad appiattirsi: i rendimenti dei titoli di Stato a breve durata si avvicinano a quelli a scadenza più lunga, sintomo di alta incertezza sulle prospettive del paese anche nel breve termine. Dopo otto mesi di “cura Monti”, 80 miliardi di manovre solo nel 2011, siamo tornati quasi al punto di partenza: i “mercati” dubitano seriamente della tenuta dell’Italia e della sua capacità di ripagare i prestiti. Secondo l’economista Giovanni Dosi, docente della Scuola Superiore universitaria Sant’Anna di Pisa e collaboratore del premio Nobel Joseph Stiglitz alla Columbia University, il problema è proprio la “terapia” del rigore: dire che l’austerity è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per uscire dalla crisi, «a mio parere è assolutamente sbagliato». Come liberarsi dal ricatto del debito? In un solo modo. Italia e Spagna dovrebbero imporsi sulla Germania, “costringendo” la Bce a comportarsi da prestatore di ultima istanza.