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Archivio del Tag ‘Bastiglia’

  • Prima i ladri, poi i barbari: assalto alla democrazia Usa

    Scritto il 07/1/21 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    I barbari contro i ladri, che ora si atteggiano a vittime e chiedono la testa del capo barbarico, dopo che quest’ultimo ha osato l’inosabile: far assaltare dai suoi pasdaran fanatizzati il “tempio” di una democrazia che, per metà dell’America, è rimasta tale solo nella forma, visto l’esito degli spogli elettorali del 3 novembre. L’attacco al Parlamento, ricorda l’Ansa, ha un solo precedente: fu incendiato nel 1814, ma non da americani (il clima era di guerra, e a darlo alle fiamme furono le truppe inglesi). Il 6 gennaio 2021 è nella storia: gli Stati Uniti non hanno potuto eleggere il nuovo presidente. Non solo: Congresso e Senato sono stati presi d’assalto ed “espugnati” da militanti anche armati, lasciati entrare nei palazzi con estrema facilità e decisi a raggiungere l’obiettivo: scuotere l’America e il mondo, e intanto bloccare la convalida delle schede dei grandi elettori a favore di Joe Biden, da settimane presentato abusivamente come “presidente eletto” nonostante l’opposizione di Trump e di oltre 100 parlamentari, decisi a contestare la regolarità delle elezioni. Più che una frode: un golpe bianco, quello di Biden, organizzato attraverso i brogli più colossali che la storia ricordi.
    Da un lato, le prove raccolte dal team legale di Trump sono schiaccianti: in alcuni Stati-chiave, dove Biden avrebbe prevalso per poche migliaia di voti, risultano aver votato anche 2-300.000 elettori in più, rispetto a quelli registrati, con le stesse schede contate anche 8 volte. I fatti sono noti: di fronte alla “vittoria a valanga” di Trump (almeno 75 milioni di sostenitori) i seggi sono stati chiusi in piena notte, per due ore, durante le quali sarebbe successo di tutto. Sotto accusa il sistema digitale Dominion, connesso in Rete e forse, secondo l’accusa, manipolabile anche dall’estero. A monte: non ha precedenti l’abuso del voto postale, interamente pro-Biden, cui si è fatto ricorso agitando la paura del Covid, vero protagonista degli eventi: senza l’emergenza pandemica, a inizio 2020 tutti i sondaggi davano per scontata la larghissima rielezione di Trump, grazie al favore del 60-65% degli americani. L’altra notizia è altrettanto scioccante: tutte le sedi giudiziarie interpellate, dalla Corte Suprema in giù, si sono sistematicamente rifiutate di esaminare le prove della frode: allo staff di Rudy Giuliani, le corti hanno opposto solo dinieghi procedurali, evitando di valutare i dossier.
    Proprio la sessione plenaria del Parlamento sarebbe potuta servire a questo: esporre a reti unificate le dimensioni dell’imbroglio, istituendo la commissione speciale d’inchiesta subito proposta dal senatore texano Ted Cruz. Illusoria la speranza – retoricamente evocata da Trump, nel suo comizio incendiario a poche ore dai lavori parlamentari – che potesse essere il vicepresidente, Mike Pence, a ribaltare l’esito dei conteggi truccati rigettando le schede dei grandi elettori degli Swing States (Georgia, Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, Arizona e Nevada). Camera, Senato e vicepresidenza hanno anche ignorato persino l’ultimo appello alla legalità istituzionale, proveniente dai membri dei Parlamenti di alcuni di quegli Stati: non convalidare le schede di Biden e rinviare la decisione agli Stati stessi, facendo pronunciare i parlamentari o addirittura ripetendo le elezioni. L’establishment ha evitato di rispondere, opponendo la sua sordità marmorea e il consenso (anche e soprattutto mediatico) attorno al “presidente eletto”, uno dei politici più corrotti d’America, a lungo quinta colonna del potere cinese, ricattabile in mille modi e anche attraverso le imprese di un prestanome come il figlio Hunter, percettore di maxi-tangenti da Cina e Ucraina.
    Sembrava persino credibile, Biden – un vero presidente, quello giusto – quando è apparso in televisione, mentre il Parlamento era in preda al panico, invitando Trump a ordinare ai rivoltosi di ripiegare. Trump lo ha fatto nel mondo più pericoloso: ha sì invitato i suoi hooligan ad abbandonare i palazzi, ma solo dopo aver manifestato apprezzamento per il loro gesto, costato 4 vittime. Un atto senza precedenti, in mondovisione, che precipita l’America (e lo stesso Trump) sull’orlo del baratro. Si parla di impeachment-lampo, e di rimozione del presidente. Si dà anche per scontato che Trump non la passerà liscia, a livello giudiziario, per la sua inaudita esortazione “eversiva”. I commentatori mainstream sono unanimi: Trump si è reso protagonista di un gesto disgustoso, che non potrà restare impunito e segnerà la sua fine politica. Sottinteso: chi condanna senza attenuanti la “presa della Bastiglia”, l’oltraggio alla sacralità della democrazia, finge di non vedere l’oceano, soverchiante, di indizi e prove che inchiodano i democratici, protagonisti di un “golpe” elettorale fraudolento, un vero e proprio attentato alla democrazia americana.
    Altri annotano: Trump ha staccato la spina ai repubblicani, ridotti a casta di potere, trascinando con sé decine di milioni di persone, l’America profonda, quella tradita dalla globalizzazione neoliberista. Impressionante l’accelerazione della crisi, così come la sconcertante ipocrisia dell’establishment: Facebook ha subito oscurato l’ultimo video di Trump, in ossequio allo stile orwelliano della “rivoluzione colorata” che nel 2020 ha sabotato la rielezione del presidente, ricorrendo alla violenza e alla guerriglia urbana di Antifa e Black Lives Matter, con frange estremistiche che hanno trascinato intere città sull’orlo della guerra civile. Ora, l’assalto al Parlamento rischia di allontanare da Trump i parlamentari rimastigli fedeli, e soprattutto di far impallidire il primo “assalto alla democrazia”, in ordine di tempo, cioè la colossale frode elettorale che – ove finalmente confermata, in sede giudiziaria – dimostrerebbe virtualmente la fine della democrazia elettorale, negli Stati Uniti.
    La reazione dei “barbari”, follemente fuori misura, sembra un avvertimento: Stati come il Texas hanno già ventilato l’intenzione di ridiscutere i termini della loro permanenza negli Usa, qualora l’establishment fingesse ancora di ignorare il raggiro organizzato dal clan Biden sulla pelle degli elettori. La situazione è delirante e pericolosa: se non verrà abbattuto, Trump resterà in carica fino al 20 gennaio. E non ha ancora esibito la relazione del Dni, la direzione dell’intelligence coordinatra da John Ratcliffe, che potrebbe evidenziare il ruolo di paesi come la Cina nella manipolazione digitale dell’esito del voto. L’America è spaccata in due, davanti al mondo intero: seguiranno alle mosse “eversive” di Trump, o il presidente ancora in carica verrà fermato con la forza? La rivolta dilagherà nelle città o l’assalto al Campidoglio comporterà la fine di Trump, e magari la sua incriminazione? Lo scenario è drammatico, con tratti allucinati, deliranti e rivoluzionari. Per intanto: la notte di follia di Washington ha devastato anche l’ipocrisia “negazionista” del mainstream, quello che tifa per il regime-Covid e vorrebbe cancellare fisicamente Trump. La democrazia americana? E’ in rianimazione: calpestata prima dai ladri, poi dai barbari.

    I barbari contro i ladri, che ora si atteggiano a vittime e chiedono la testa del capo barbarico, dopo che quest’ultimo ha osato l’inosabile: far assaltare dai suoi pasdaran fanatizzati il “tempio” di una democrazia che, per metà dell’America, è rimasta tale solo nella forma, visto l’esito degli spogli elettorali del 3 novembre. L’attacco al Parlamento, ricorda l’Ansa, ha un solo precedente: fu incendiato nel 1814, ma non da americani (il clima era di guerra, e a darlo alle fiamme furono le truppe inglesi). Il 6 gennaio 2021 è nella storia: gli Stati Uniti non hanno potuto eleggere il nuovo presidente. Non solo: Congresso e Senato sono stati presi d’assalto ed “espugnati” da militanti anche armati, lasciati entrare nei palazzi con estrema facilità e decisi a raggiungere l’obiettivo: scuotere l’America e il mondo, e intanto bloccare la convalida delle schede dei grandi elettori a favore di Joe Biden, da settimane presentato abusivamente come “presidente eletto” nonostante l’opposizione di Trump e di oltre 100 parlamentari, decisi a contestare la regolarità delle elezioni. Più che una frode: un golpe bianco, quello di Biden, organizzato attraverso i brogli più colossali che la storia ricordi.

  • Yahvè SpA: chi domina il mondo, oltre la geopolitica visibile

    Scritto il 14/7/19 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Data fatidica, il 14 luglio: nel 1789 a Parigi veniva assaltata la Bastiglia, evento culminante della Rivoluzione Francese che segnò la fine dell’Ancien Régime, il sistema plurisecolare dell’assolutismo monarchico. Solo tre anni fa, invece – ma sempre in Francia, e sempre il 14 luglio – il killer franco-tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhle faceva strage a Nizza col suo camion, travolgendo i passanti sulla Promenade des Anglais: 86 morti e 302 feriti. Ovviamente l’attenatatore era già stato segnalato alla polizia, come poco di buono. E ovviamente nessuno aveva pensato di controllare e sgomberare quel camion bianco, fermo da giorni sul lungomare divenuto “off limits” in vista della festa nazionale francese. E ancora: l’assassino – prima di essere freddato dalle forze dell’ordine, come d’abitudine, prima che potesse parlare – aveva anche avuto cura di lasciare a disposizione dei poliziotti i suoi documenti, ben in vista nell’abitacolo del veicolo. Un caso da manuale, secondo Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni”: un messaggio intimidatorio rivolto alla massoneria progressista, che considera proprio il 14 luglio la prima pietra miliare verso la conquista della democrazia, almeno in Occidente.
    Fu l’Isis a rivendicare la strage di Nizza, ma le menti dello Stato Islamico sono altrove: Abu Bakr Al-Bahdadi, il sedicente Califfo, secondo Magaldi è affiliato alla superloggia “Hathor Pentalpha”, dominata dai Bush e responsabile del super-attentato del terzo millennio, quello dell’11 Settembre, comodamente attribuito al “barbaro jihadista” Bin Laden, in realtà massone, affiliato anch’esso alla medesima Ur-Lodge. La “Hathor Pentalpha”, sorta all’inizio degli anni ‘80 per volere di Bush padre, appena battuto da Reagan alle primarie repubblicane, raccolse il gotha dei golpisti del Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano: George W. Bush e suo fratello Jeb Bush, Dick Cheney e Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz e la stessa Condoleezza Rice. Oltre a Bin Laden (Al-Qaeda) e Al-Baghdadi (Isis), la “Hathor” avrebbe reclutato un ideologo come Samuel Huntington (“La crisi della democrazia”), insieme a Donald e Robert Kagan, Douglas Freith, Irving e William Kristol, Dan Quayle. Con loro Richard Perle, Karl Rove, Bill Bennett e il politologo Michael Leeden. Una rete trasversale, con affiliati in Medio Oriente: Oman, Bahrein, Qatar, Arabia Saudita e persino Iran (tra gli iraniani coinvolti, l’ex presidente Hashemi Rafsanjani).
    Obiettivo: destabilizzare ferocemente il pianeta, creando a tavolino il presunto “scontro di civiltà” tra Occidente e mondo arabo. Punta di lancia dell’operazione: Israele (era il premier Ariel Sharon l’uomo della “Hathor” a Tel Aviv). Ma arabi e israeliani non dovevano essere acerrimi nemici, anziché compagni di merende e di avventure anche terroristiche? Certo, ma solo in teoria, spiega Magaldi: in realtà sono tutti massoni, nella cabina di regia. E la vera geopolitica – al di là della narrazione dei media – passa per i circoli come la “Hathor”, incarnazione infernale dell’ala più reazionaria della supermassoneria occulta, apolide e sovranazionale. Convergenze insospettabili: dirigenti sauditi in riunione con Sharon e col presidente turco, il “fratello” Recep Tayyip Erdogan, insieme a un bel po’ di potenti europei: l’ex cancelliere tedesco Gehard Schröder, l’allora primo ministro spagnolo José Maria Aznar, l’intramontabile Tony Blair, il polacco Aleksander Kwasniewski e il francese Nicolas Sarkozy – più un paio di italiani: l’allora presidente del Senato, Marcello Pera, nonché Antonio Martino, all’epoca ministro berlusconiano e già segretario della Mont Pelerin Society, vero e proprio tempio ideologico dell’ultra-destra economica europea, culla dell’oligarchia neoaristocratica che ha incubato, progettatto e imposto l’austerity per infliggere la camicia di forza a paesi come l’Italia, alle prese con la nascente globalizzazione.
    Il primo a parlarne in termini espliciti è stato Paolo Barnard, nel saggio “Il più grande crimine”, uscito prima ancora della crisi italiana del 2011. La tesi: si trattava, semplicemente, di cancellare la memoria della Presa del Bastiglia. Il mitico 14 luglio? Un incidente della storia: aprì l’Europa a qualcosa di mai prima sperimentato – la democrazia – spalancando le porte alla modernità del futuro: Stato di diritto, suffragio universale. Traduzione euro-atlantica successiva: economia sociale, conquiste civili e diritti del lavoro. Bene, tutto questo doveva finire. E in modo drammatico: col terrorismo stragista della strategia della tensione (Al-Qaeda, Isis) o col terrorismo finanziario (rigore europeo). Per volere di chi? Dei soliti noti, gli antichi baroni. O meglio: di quella che un tempo costuitiva il nerbo dell’Ancient Régime, cioè l’aristocrazia feudale più parassitaria. Le era toccato finire sfrattata dal potere (politico) dal 14 luglio in poi? Niente paura: si è ripresa tutto, e con gli interessi, mantenendo le grandi leve della finanza. Ha finanziarizzato l’economia e ridotto gli Stati in bolletta, senza più sovranità monetaria. Il gioco perfetto dei leggendari Rothschild, padroni d’Europa (e di un pezzo d’America) da tre secoli questa parte.
    Nei suoi libri, un ricercatore come Pietro Ratto ricostruisce il ruolo di casati ebraici come quello dei Warburg, in realtà di origine veneta, poi soci in affari con i Rothschild – di cui sempre Ratto prova anche l’apparentamento coi Rockefeller, mediante matrimoni strategici. Dettaglio inquietante: furono i grandi finanzieri ebrei a sovvenzionare Hitler all’alba della sua tragica epopea. Non solo: è stato accertato che proprio il Terzo Reich – al suo esordio – fu un poderoso sponsor occulto del sionismo, favorendo l’espatrio degli ebrei tedeschi verso la Palestina e finanziando il primo colonialismo ebraico in Terrasanta. Scioccante? Quasi quanto il libro “L’altra Europa”, pubblicato dal vicentino Paolo Rumor, nipote del più volte primo ministro democristiano Mariano Rumor. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il padre dell’autore – Giacomo Rumor – agiva come 007 per conto di monsignor Montini, futuro Paolo VI, allora responsabile dell’intelligence vaticana. Gli Alleati già sapevano che avrebbero vinto, e volevano progettare in anticipo l’Europa del dopoguerra. Fin qui, tutto bene: logico che gli Usa si rivolgessero al Papa, visto che l’Italia era ancora in mano a Mussolini, e che l’antifascismo era largamente comunista. Ma un giorno l’esoterista francese Maurice Schumann, gollista e interlocutore di Rumor, svelò al cattolico italiano chi c’era veramente, dietro al piano: la Struttura. Una cupola esclusiva, ininterrottamente al potere, nel mondo, da quasi 12.000 anni.
    Follia? Non secondo l’archeologo Loris Bagnara, che ha verificato sul campo: le indicazioni di Rumor (cioè di Schumann) corrispondono in modo impressionante con la geografia e la toponomastica dei luoghi dove si sarebbe costituito quell’antico potere, nato in Mesopotamia e poi trasferitosi nell’Egitto dei faraoni prima di approdare in Palestina e quindi nel Mediterraneo fenicio e poi greco-romano. L’eminente politoligo Giorgio Galli, autore della prefazione del libro di Rumor, conferma: i nomi citati dal dossier-Schumann sono perfettamente coerenti con la mappa del vero potere, anche di quello euro-atlantico del Novecento. Politici, industriali e finanzieri: tutti esoteristi, vincolati al reciproco segreto sull’origine della Struttura, sostanzialmente iniziatica, risalente – a loro dire – attorno al 9.500 avanti Cristo, tra le rive del Tigri e quelle dell’Eufrate, cioè dove Zecharia Sitchin attribuisce agli Anunnaki, i misteriosi Figli delle Stelle, la “fabbricazione” dell’homo sapiens nella versione poi narrata dai Sumeri. Di quella storia – avverte Mauro Biglino, già traduttore ufficiale delle Edizioni San Paolo – la Bibbia non è che la fotocopia: la Genesi descrive la nascita di Eva mediante clonazione genetica, proprio come la pecora Dolly, ad opera degli Elohim come Yahvè, cioè i Figli delle Stelle palestinesi.
    Autore di culto in Italia, pubblicato anche da Mondadori (trecentomila copie vendute), a Biglino nessuno contesta la riscoperta letterale della Bibbia: l’interpretazione teologico-spiritualista del testo si rivela completamente infondata (Yahvè non era “Dio”, ma solo uno dei tanti Elohim citati). Semmai, la Bibbia – ammesso sia attendibile, visto che è stata riscritta ininterrottamente fino al medioevo – propone un’altra storia: la nascita dell’umanità attuale, così improvvisamente evoluta, sarebbe opera dell’ibridazione genetica dei Figli delle Stelle, che avrebbero immesso il loro Dna in quello dei primitivi ominidi. Biglino è rispettato anche ad Harvard, dove alla facoltà di medicina si raccomandano i suoi libri. E sulla sua ipotesi stanno convergendo decine di scienziati, che lo hanno messo a capo di un progetto di ricerca senza precedenti: studi interdisciplinari, anche archeologici, per verificare quel che la Bibbia racconta, alla lettera. E le religioni monoteiste? La prima, l’ebraismo, secondo Biglino sarebbe nata attorno al VI secolo avanti Cristo, quando Yahvè sparì di colpo, in seguito all’avvento dei babilonesi che sottomisero gli ebrei. Da allora, dice lo studioso, ad assumere la leadership del popolo ebraico furono i sacerdoti, cioè la casta degli ex “maggiordomi” di Yahvè: furono loro, manipolandola, a trasformare la Bibbia nel “libro sacro” che non era mai stato.
    Quando poi l’Impero Romano – oltre mezzo millennio dopo, nel 70 dopo Cristo – represse duramente gli ebrei distruggendo il Tempio di Salomone a Gerusalemme, gli stessi sacerdoti contrattarono il loro futuro con i nuovi padroni: cedettero ai romani il Tesoro del Tempio, in cambio di una vita agiatissima nella capitale imperiale, da cui poi – attraverso svariati passaggi – diedero vita alla nuova religione, il Cristianesimo cattolico, ufficialmente coniato da Costantino nel 325 al Concilio di Nicea. Lo stesso Paolo Rumor, attingendo al memoriale Schumann, sostiene che la mitica Struttura si sarebbe spezzata in due tronconi, a Gerusalemme, proprio attorno all’Anno Zero. Di recente, Biglino ha accennato a libri di prossima uscita, dal contenuto sconcertante: attraverso accurate analisi di fonti d’archivio, emerge una sbalorditiva continuità nel potere europeo attraverso i secoli, con in primo piano – da Gerusalemme a Roma, fino al Nord Europa – sempre le stesse famiglie. La sua tesi è nota: attraverso la Bibbia, siamo stati finora governati da un unico schema di potere, concepito sotto forma di dominio. Lo stesso sistema finanziario attuale, che regge il pianeta, è quello enunciato da Yahvè: potrai prestare denaro ma non richiederlo, perché chi riceve denaro in prestito ne diventa schiavo. E a proposito: dov’è finito, Yahvè? Sicuri che sia sparito per sempre dalla circolazione?
    Se un giorno si scoprisse che gli Elohim come quello che gestiva la famiglia di Giacobbe sono qui tra noi e controllano tutto – dice Biglino – certo non me ne stupirei: secondo la Bibbia potevano vivere anche 30.000 anni. Assurdo? Mica tanto: la distanza fra i loro 30 millenni e i nostri 90 anni è infinitamente più piccola di quella che separa una tartaruga gigante (200 anni) da una farfalla che viva solo 24 ore. Di giorno in giorno, si moltiplicano scoperte che sconquassano le vecchie certezze archeologiche: la Piramide di Cheope (vera datazione, 20.000 anni) è una potente “fabbrica di energia”: è presidiata dai fisici che vi osservano gli stranissimi fenomeni che ospita, come l’abbattimento di particelle subatomiche. A Visoko, in Bosnia, sono state scoperte le più grandi piramidi della Terra, risalenti a 30.000 anni fa. E al largo dell’India spuntano città sommerse – probabilmente dal maremoto di 11.500 anni fa (il Diluvo Universale?), scatenatosi proprio nel periodo in cui a Göbekli Tepe, in Turchia, fu costruito il tempio più antico della Terra, in un’area in cui gli scavi rivelano che la nascita dell’agricoltura risale addirittura al Mesolitico. Scoperte che costringono a retrodatare la nostra storia, cancellando quello che fino a ieri credevamo di sapere.
    Sotto certi aspetti, è come se le incredibili scoperte dell’archeologia odierna costringessero a ripensare la stessa geopolitica attuale. Si perde tempo, ripete Magaldi, se ci si ferma ancora a valutarla come scontro tra nazioni: c’è ben altro, dietro le quinte. Se lo domandava anche Barnard: vi siete mai chiesti come mai la politica non riesce mai a mantenere le sue promesse? E perché le cose vanno di male in peggio, nonostante il pianeta non sia mai stato così ricco, vista la nostra capacità esponenziale di produrre beni, grazie alla vertiginosa rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni? Colpa dell’élite neo-feudale, si risponde Barnard. Ed è un’élite non certo illuminata, aggiunge Magaldi: si tratta di un’oligarchia del denaro, reazionaria, neo-conservatrice, il cui massimo livello di potere – al di sopra delle entità paramassoniche come il Bilderberg – è rappresentato dalle 36 Ur-Lodges che dominano il globo. E se ci fosse dell’altro ancora, sopra le midiciali superlogge? Magari la “Yahvè SpA”, affidata a emissari collaudatissimi? E’ l’interrogativo che rilancia Biglino, convinto che gli Elohim (come gli Anunna sumeri, i Theoi greci, i Deva indiani) non siano affatto scomparsi, dimenticandosi delle loro “creature”. Anzi, aggiunge lo studioso: sarebbe perfettamente plausibile scoprire, un giorno, che dietro ai maggiori potentati terrestri vi siano proprio “quelli là”, i Figli delle Stelle, l’un contro l’altro armati: è uno schema ripetuto in tutti i libri antichi, compresa la Bibbia.

    Data fatidica, il 14 luglio: nel 1789 a Parigi veniva assaltata la Bastiglia, evento culminante della Rivoluzione Francese che segnò la fine dell’Ancien Régime, il sistema plurisecolare dell’assolutismo monarchico. Solo tre anni fa, invece – ma sempre in Francia, e sempre il 14 luglio – il killer franco-tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhle faceva strage a Nizza col suo camion, travolgendo i passanti sulla Promenade des Anglais: 86 morti e 302 feriti. Ovviamente l’attentatore era già stato segnalato alla polizia, come poco di buono. E ovviamente nessuno aveva pensato di controllare e sgomberare il suo camion bianco, fermo da giorni su quel lungomare divenuto “off limits” in vista della festa nazionale francese. E ancora: l’assassino – prima di essere freddato dalle forze dell’ordine, come d’abitudine, prima che potesse parlare – aveva anche avuto cura di lasciare a disposizione dei poliziotti i suoi documenti, ben in vista nell’abitacolo del veicolo. Un caso da manuale, secondo Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni”: un messaggio intimidatorio rivolto alla massoneria progressista, che considera proprio il 14 luglio la prima pietra miliare verso la conquista della democrazia, almeno in Occidente.

  • Guerra a Di Bella, l’angelo dei malati: tentarono di ucciderlo

    Scritto il 21/4/19 • nella Categoria: Recensioni • (5)

    “Il poeta della scienza”, vita di Luigi Di Bella: il volume, minuziosamente documentato e ricco di indicazioni delle fonti, dipana la complessa figura del professor Di Bella esaminandola sotto il profilo scientifico, morale, intellettuale e umano. Difficile non giungere alla conclusione che sono state proprio queste qualità e virtù a procurargli, per buona parte della vita, un’ostilità incessante che non di rado si è fatta autentica persecuzione. Il lettore rimane, oltre che indignato e amareggiato, anche stupefatto per la capacità dell’uomo di non farsi annichilire da un’opposizione tanto indiscriminata e violenta e di riuscire a compiere egualmente la sua opera. Luigi Di Bella, siciliano, classe 1912, era nato in una famiglia numerosa e di assai disagiate condizioni economiche, non in grado quindi di sostenere le spese per fare studiare quel ragazzo, nonostante avesse precocemente dimostrato rare doti d’ingegno e di forza di volontà. Luigi sopportò sacrifici di ogni genere per soddisfare la sua sete di sapere e superare le ristrettezze della povertà, arrivando anche a studiare la sera in piedi, sotto la luce del lampione della strada, per sopperire alla penuria di petrolio per la lampada.
    Fornisce ben presto le prove di un ingegno straordinario: avendo frequentato le scuole complementari che, non contemplando l’insegnamento del latino, non consentivano l’accesso al liceo scientifico, in due mesi apprende il latino, lasciando increduli i commissari durante la prova di idoneità prescritta. Per rendersi economicamente indipendente ed aiutare i fratelli, parteciperà anche ai concorsi nazionali riservati agli studenti poveri e meritevoli, vincendo tutti quelli che affronta. Divenuto studente della facoltà di medicina a Messina, la sua abitudine di studiare oltre che sui libri di testo anche su ponderose ed ostiche monografie (oltre ovviamente alle sue rare capacità di assimilazione), gli procura un “pubblico” di docenti universitari che corrono ad assistere ai suoi esami. Viene notato dal professor Pietro Tullio, considerato il più autorevole fisiologo del tempo – due volte candidato al Nobel per la medicina nel 1930 e nel 1932 (1) – che gli propone di diventare allievo interno presso l’Istituto di Fisiologia. Attraverso il suo maestro, Luigi Di Bella si forma nell’ambito di quella scuola medica che il mondo ci invidiava, annoverando luminari come Augusto Murri e Pietro Albertoni, considerati i più grandi medici dei tempi moderni.
    Non potendo soffermarci troppo su queste due figure di medici e professori universitari, ci limitiamo a riferire che raggiungevano percentuali elevatissime di diagnosi esatte, 92% Murri e 98% Albertoni (2), in un’epoca nella quale gli esami ematochimici erano ben più rudimentali di quelli odierni, e non esistevano Tac e risonanze magnetiche. A quel tempo l’insegnamento e la ricerca nell’ambito della medicina non erano disgiunti dalla pratica clinica, l’eccessiva specializzazione non aveva ancora contaminato ogni settore, e la fisiologia era ancora considerata la materia cardine di tutto il sapere medico, non essendo altrimenti possibile comprendere ed applicare razionalmente tutte le altre. Questo consentiva il raggiungimento di livelli di eccellenza diagnostica attualmente inarrivabili. Se pensiamo ai pazienti che oggi sono costretti a peregrinare tra specialisti e ospedali, spesso orfani di diagnosi – e quindi di efficace terapia – nonostante l’elefantiasi di esami di ogni genere, non si può rimanere che sconcertati.
    Luigi Di Bella è stato senza dubbio l’epigono di quella mentalità e cultura medico-scientifica che ha annoverato eccellenze quali Antonio Cardarelli, Pietro Lussana, Giuseppe Moscati, oltre che i luminari prima citati. E’ a quest’ultimo, il medico santo di Napoli, che Luigi Di Bella più si avvicina, oltre che per mentalità clinica, per umanità e condotta di vita cristiana. Il primo lavoro scientifico che riporta il nome di Luigi Di Bella (oltre ovviamente a quello del maestro) risale all’inizio del 1932, quando è ancora diciannovenne e studente del secondo anno di università. Lo stesso Tullio, qualche anno dopo, dichiarerà in un attestato di essersi limitato a curarne la bibliografia. Nel luglio 1936 si laurea in medicina con 110 e lode, dopo aver sostenuto 12 esami in più rispetto a quelli regolamentari. Subito dopo la laurea riceve una proposta di assunzione da parte di Guglielmo Marconi – allora presidente del Cnr – perché continui le ricerche in campo chimico che gli erano valse l’ultimo premio nazionale (è ancora disponibile il carteggio intercorso). Luigi Di Bella declina l’invito, dichiarando che desidera continuare le sue ricerche nell’ambito della medicina. Riceverà dal grande fisico una borsa di studio.
    Quando nel 1938 consegue le lauree in farmacia e in chimica, già da due anni, dopo avere superato brillantemente il previsto concorso, è incaricato dell’insegnamento della fisiologia e della chimica organica presso l’università di Parma. Durante questo periodo pubblica un libro di chimica organica. Il 3 settembre 1939 sposa Francesca Costa, e prende servizio nel ruolo di aiuto incaricato presso l’università di Modena, città nella quale si trasferisce con la famiglia. Dall’unione nasceranno Giuseppe (maggio 1941) che intraprenderà anche lui la professione di medico, e Adolfo (dicembre 1947). Il 3 settembre 1941, con il grado di capitano medico, viene inviato in Grecia, dove dirigerà due ospedali militari. Qui si sottopone ad ogni sacrificio pur di aiutare i malati, arrivando a donare loro il suo pasto da ufficiale e a dormire in piedi, appoggiato a una colonna, per poter accorrere più velocemente alle richieste d’aiuto. Raccontando anni dopo questi particolari, si limiterà a commentare: «Dopo un po’ ci si abitua». Alla fine, le immani fatiche sostenute presenteranno il conto: la salute degrada sempre più e all’inizio del 1943 rientra in Italia per una breve licenza. Le condizioni però peggiorano ulteriormente e viene ricoverato all’ospedale militare di Bologna per epatite, anemia e malaria.
    Posto in “licenza speciale in attesa di trattamento di quiescenza”, si riprende gradualmente e riesce a iniziare l’insegnamento per l’anno accademico 1943-44. A seguito dei bombardamenti alleati su Modena della prima metà del 1944, la famiglia Di Bella trova ospitalità in una casa colonica a Bastiglia, paese ad una dozzina di chilometri dalla città. Anche qui non sta con le mani in mano: visita gli abitanti dei dintorni che hanno bisogno e, nonostante i pericoli, si reca quotidianamente all’università in bicicletta. Nell’immediato dopoguerra iniziano a delinearsi le prime ricerche che lo porteranno anni dopo all’ideazione del suo metodo di cura per i tumori. In questo periodo si scatena una persecuzione durissima da parte dell’ambiente accademico, quantomeno nella facoltà di medicina, che non gli perdona limpidezza morale, superiorità d’intelletto e di cultura che lo caratterizzano. Gli studenti al contrario lo idolatrano, affollando le sue lezioni, a tal punto che durante l’occupazione studentesca del 1968 Luigi Di Bella sarà l’unico professore che gli studenti autorizzeranno ad entrare nell’università per svolgere le lezioni.
    Inizia a diffondersi anche la sua fama di medico capace di fare diagnosi di un’esattezza inarrivabile, e di risolvere situazioni ritenute senza speranza dai medici più blasonati. Anche questo contribuirà ad alimentare quelle invidie e quella persecuzione che non gli daranno tregua fino all’ultimo dei suoi giorni. Dirà un giorno: «A questo mondo, è rigorosamente proibito fare del bene». I malati, che per tutta la vita visiterà gratis arrivando a regalare loro le medicine, giungono sempre più numerosi, grazie al “meccanismo di passaparola”. Spesso sarà costretto a visitarli la sera – già sfinito da una intera giornata di lavoro – o la domenica presso la propria abitazione. Intervistato nel 1998 per la Rai da don Giovanni D’Ercole, alla domanda «ma lei non si fa pagare?» risponderà: «No, mi ripugna: uno viene qui perché ha bisogno, e io dovrei guadagnare sul bisogno di un altro?» (3).
    Inflessibile con se stesso, fa dell’umiltà e dell’autocritica una regola di vita, chiedendosi sempre se ha davvero fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità e il proprio dovere di medico e di uomo (3). Così come il denaro, anche il lusso gli ripugna: «La povertà e l’essenzialità sono più vicine alla realtà di tutto. Il lusso per me è una sovrapposizione all’essenziale, e quindi il mezzo migliore per deviare dalla retta via… la rinuncia è la dote essenziale di un uomo per progredire e per realizzare. Bisogna saper rinunciare a tutto quello che non è essenziale» (3). Quando, decenni dopo, durante una intervista gli verrà chiesto come ha fatto a trovare la cura per il cancro senza avere dietro un’università o un centro di ricerca iperfinanziato, risponderà: «In una maniera semplice: rinunciando a tutto quello che non è necessario per vivere. In questa maniera le spese le ho ridotte al minimo, e tutto quello che potevo risparmiare l’ho dedicato alla ricerca» (4).
    I “baroni” dell’università di Modena lo relegano in un’angusta stanzetta dell’istituto di fisiologia e gli impediscono, di fatto, di compiere ricerche, negandogli i fondi accademici a cui avrebbe diritto ad accedere. Lo scienziato sarà per questo costretto a indebitarsi per costruirsi un suo laboratorio privato che, una volta portato a termine nel 1952, gli consentirà di proseguire la sua attività di ricercatore. Intensifica anche la partecipazione a congressi medici e scientifici in Italia e all’estero, mentre continua a pubblicare i risultati delle sue ricerche. Al termine della sua vita, si conteranno 215 pubblicazioni e un centinaio di comunicazioni in congressi. Al rigore scientifico unisce sempre la sensibilità per il bello. Per lui queste due dimensioni sono inscindibili. Non c’è solo la bellezza delle arti figurative e della musica, che ama profondamente, ma anche l’infinita bellezza del Creato e degli intimi meccanismi che rendono possibile la vita. Ogni volta che, da ricercatore qual è, riesce a far luce su qualcuno di questi meccanismi, prova un profondo rapimento spirituale per la bellezza e la perfezione che vi intravede. In altre parole, è la meraviglia e lo stupore di chi giunge a scorgere quella particella di eternità che l’uomo incorpora in sé.
    Soltanto un poeta della scienza può arrivare a dire: «Un medico può considerarsi tale solo se ama l’ammalato ed è affascinato dall’ignoto, se cerca di far luce sui misteri del Creato e di confrontarsi con questi». E agli ammalati dona tutto se stesso, prendendo parte alle loro sofferenze: «Lei non immagina la sofferenza che mi viene ad ascoltare le sofferenze del prossimo, ad essere incapace di togliere queste sofferenze, almeno subito» (3). Quando visita, veste i panni di sacerdote in camice bianco. Molti pazienti avvertono istintivamente il bisogno di confidargli le loro pene interiori o i loro problemi familiari, e non pochi escono dalla visita letteralmente sconvolti nell’anima. Riportiamo per brevità solo un paio di esempi. Una signora, afflitta nel corpo e nello spirito, afferma: «E’ come se mi avessero messo una telecamera dentro al cuore e all’anima. Ha letto in me cose che non sa e non capisce nessun altro, e addirittura mi ha spiegato cose di me stessa che non riuscivo a comprendere. Un’esperienza sconvolgente, che non dimenticherò finché avrò vita». Un’altra, arrivata in uno stato di prostrazione profonda, esce trasformata: «Mi ha ridato la voglia di vivere. Non me ne frega niente se mi salvo o se muoio tra un mese o una settimana… Avere conosciuto un uomo così vale la vita. Sono serena».
    Nel 1963 Maria Teresa Rossi, una sua studentessa, gli si avvicina al termine di una lezione per chiedergli un consiglio sulla grave malattia che la affligge, il “lupus eritematosus”, a causa del quale i medici le hanno prospettato al massimo due anni di vita. Lo scienziato la visita e le prescrive una terapia. La ragazza, da tutti chiamata Deda, ne ricava presto netti benefici e in pochi anni diventerà una valida collaboratrice nelle ricerche del professore, il quale arriverà ad amarla come una figlia. E i due anni di vita residua, grazie a Luigi Di Bella, diventeranno ventiquattro. Dopo un complesso e faticoso iter sperimentale, il 6 dicembre 1973, invitato a tenere una conferenza presso la sede della Società Medico Chirurgica di Bologna dal professor Domenico Campanacci, il più illustre clinico italiano del dopoguerra, presenta il razionale e i primi risultati clinici della metodologia messa a punto per patologie ematologiche (successivamente perfezionata ed estesa ai tumori solidi).
    Riceve l’appoggio e la considerazione, oltre che del professor Domenico Campanacci, dell’illustre ematologo Edoardo Storti, del fisiologo Giuseppe Moruzzi e di Emilio Trabucchi, famoso farmacologo. Ma neanche costoro, dall’alto della loro autorevolezza, possono vincere il montante potere delle aziende farmaceutiche e l’ostilità di un’onco-ematologia che, invece di offrire collaborazione, si sente scavalcata e surclassata da quello scienziato che aveva osato dare concrete possibilità di salvezza a malati altrimenti condannati. Vale ricordare che nel 1973 si conoscevano solo 500 casi di leucemia in tutto il mondo sopravvissuti per più di 5 anni. Gli unici interessamenti genuini gli arrivano dall’estero: medici e istituzioni ospedaliere di ogni parte del mondo lo contattano e si informano sui princìpi della sua cura. Il numero dei pazienti che accorrono da lui, grazie anche alle testimonianze dei malati curati e ad alcuni articoli pubblicati su diversi periodici, aumenta fino a livelli insostenibili. Anche perché non cura solo i tumori: la sua impostazione squisitamente fisiologica della medicina, unita a un raro ingegno e alla conoscenza profonda di tutte le branche della scienza medica, gli consentono di curare con successo diverse patologie, specialmente neurologiche e neuromotorie.
    Vale la pena soffermarsi brevemente sul valore delle ricerche che lo hanno condotto a formulare il suo metodo di cura dei tumori. Già nel 1969 aveva relazionato (Alghero, congresso della Società Italiana di Biologia Sperimentale) sugli esperimenti con cui aveva dimostrato l’influenza del sistema nervoso centrale sulla crasi ematica (si trattava della stimolazione, nei ratti, di una determinata zona del cervello vicina alla ghiandola pineale, che portava a forti aumenti delle piastrine in circolo). Fino a quel momento nessuno aveva intuito che il sangue, e quindi le concentrazioni delle sue componenti, potessero essere influenzate e determinate a livello cerebrale. Già solo tale scoperta, che porterà lo scienziato a introdurre la melatonina (prodotta principalmente dalla ghiandola pineale) come uno dei cardini della sua cura, avrebbe meritato, come osservarono alcuni studiosi, il Premio Nobel per la Medicina. L’estensione della cura ai tumori solidi risale alla metà degli anni ’70, quando nel suo metodo introduce la somatostatina. E’ il primo al mondo a proporre l’uso di questa sostanza per le patologie tumorali. Ancora oggi il suo impiego terapeutico in oncologia è limitato ai soli tumori neuroendocrini, nonostante migliaia di pubblicazioni, tra le quali quelle di premi Nobel come Viktor Schally (5), che ne dimostrano l’efficacia in un’amplissima varietà di patologie neoplastiche.
    Nel frattempo, già un anno dopo la presentazione della sua cura, era stato vittima, mentre era nell’istituto di fisiologia, di un tentativo di avvelenamento – da cui riuscì a salvarsi intuendo la causa dei gravi sintomi che avvertiva e prendendo le opportune contromisure. Poco tempo dopo subirà diversi inspiegabili incidenti per le strade di Modena, mentre era in sella alla sua inseparabile bicicletta. L’ultimo attentato avverrà nel 1996 mentre, ormai ottantaquattrenne, si reca in bici al suo laboratorio per visitare i malati: colpito alle spalle con un sacco di sabbia, finirà a terra e si risveglierà in ospedale con un trauma cranico, una commozione cerebrale e la compromissione dell’udito ad un orecchio. Nonostante ciò, appena riavutosi ha un’unica preoccupazione: chiede di essere dimesso, si fa accompagnare in laboratorio e, con ancora le bende macchiate di sangue, inizia a visitare i malati che lo attendevano all’ingresso. Intervistato negli anni ’90 da un canale televisivo, lascia a bocca aperta la giornalista che gli chiedeva, viste le mille difficoltà attuali e quelle incontrate nella sua vita, quali fossero le sue gratificazioni: «Non ho bisogno di gratificazioni. Sono arrivato ad una semplice morale che a volte meraviglia anche i miei figli: ringrazio il Padreterno per la sofferenza che m’ha dato, perché attraverso la sofferenza ho imparato cos’è la vita» (6).
    La famigerata sperimentazione del 1998 richiederebbe una trattazione troppo lunga. Quello che è importante sottolineare è che non fu Luigi Di Bella a chiederla, ritenendo egli che l’ampia letteratura scientifica disponibile e la casistica raccolta avrebbero da tempo dovuto consentirne l’adozione. Il ministero dalla sanità preferì ignorare tali pubblicazioni, decidendo di organizzare una sperimentazione che, per i presupposti di partenza e poi per la sua conduzione, aveva l’esito già scritto. Basandosi esclusivamente su documenti ufficiali (Rapporti Istisan 98/17 e 98/24), si rileva infatti che condizione fondamentale per l’arruolamento fosse «essere non suscettibili, o non più suscettibili di trattamento»: in parole semplici, dovevano essere malati tanto gravi da far considerare inattuabile qualsiasi tentativo terapeutico (chirurgia, radioterapia, ormonoterapia, chemioterapia). La sopravvivenza stimata dagli sperimentatori andava da un minimo di 11 giorni (!) ad un massimo di 90. E’ un ben curioso criterio quello di ritenere efficace una terapia solo se riesce a replicare il miracolo di Lazzaro, salvando malati terminali e candidati all’assistenza domiciliare!
    Sempre sulla base della documentazione ufficiale si rileva un altro inquietante “mistero”: ad onta della reiterata affermazione che il professor Di Bella avesse accettato queste condizioni ostative, non esiste un documento ufficiale che attesti dove e quando lo scienziato avrebbe firmato i protocolli della sperimentazione; e anzi risulta agli atti uno schema autografo e da lui firmato il 31 gennaio 1998, totalmente incompatibile con gli schemi terapeutici praticati. L’esito così precostituito venne ulteriormente presidiato con numerose altre anomalie, costituenti obiettivamente e autonomamente cause di invalidazione (7): 3-4 farmaci previsti sui 10 del sopra richiamato schema autografo; interruzione del trattamento nell’86% dei casi; galenici somministrati dopo la data di scadenza o resi tossici dalla presenza di acetone (soluzione di retinoidi); somatostatina somministrata senza indispensabile impiego di siringa temporizzata, ecc. Ma, a parte quanto sopra, la demolizione della validità di questo studio fu fatta da uno scioccante editoriale comparso su quella che dai più è ritenuta la più autorevole rivista scientifica del mondo, il “British Medical Journal” (Marcus Mullner: “Di Bella’s therapy: the last word?” – Bmj, 1999, 318, 208).
    L’editoriale, dopo alcune severe critiche (mancanza di randomizzazione e di gruppo di controllo), conclude: «E’ proprio il progetto scadente di questo studio a non essere etico… Il progetto di questa sperimentazione è fallace». Il vero miracolo (mai comunicato all’opinione pubblica) fu che, nonostante quanto osservato, il 48% dei pazienti risultava in vita al termine della sperimentazione (Rapporti Istisan: 167 pazienti in vita al 31 ottobre 1998 su 347 pazienti ‘valutabili’), nonostante che la prognosi di massimo 90 giorni (la prova iniziò nel marzo 1998 e si concluse il 31 ottobre dello stesso anno) facesse prevedere il decesso di tutti i 347 pazienti arruolati. Nel follow-up del giugno 1999 risultavano ancora in vita 88 arruolati (25%).
    Malgrado le amarezze, le perfidie subìte e le delusioni, Luigi Di Bella continuerà la sua attività di medico fino al termine della sua vita, vincendo la stanchezza ed i crescenti problemi di salute. A chi tenta di farlo desistere almeno dalle visite ai malati che si presentano senza appuntamento, lui risponde con semplicità disarmante: «Se vengono qui, è perché hanno bisogno». Per tutta l’esistenza ha combattuto la “buona battaglia”. E ai figli, che in uno dei momenti di maggiore ostilità e attacchi crescenti, gli avevano chiesto se non fosse il caso di ritirarsi cercando di badare alla sua salute, aveva risposto: «Non capite che io sono sempre stato un lottatore?». Lascerà questo mondo il 1° luglio 2003, a pochi giorni dal suo 91° compleanno. Qualche mese prima aveva scritto: «Sono degno? Lo diranno gli altri. L’animo mi dice tuttavia che non sono vissuto inutilmente, perché ho fatto del bene ed ho gioito per il bene fatto».
    Infine, qualche osservazione sul Metodo Di Bella: si tratta di una cura squisitamente fisiologica, impostata cioè sui princìpi della fisiologia, la disciplina che studia il funzionamento degli organismi viventi, dai fenomeni macroscopici fino ai più piccoli legami molecolari. Per dirla in breve, è la scienza che studia la vita e i meccanismi con cui essa si esprime. E’ una materia fondamentale e alla base di tutte le altre discipline mediche, e non a caso, nel degrado voluto e pianificato della medicina attuale che va di pari passo col degrado di tutta la civiltà, essa è stata ridotta e svilita nei programmi universitari a tal punto che lo studente arriva a laurearsi in medicina capendone poco o nulla. Il tumore, inoltre, è una malattia sistemica e multifattoriale, per cui non potrà mai essere guarita da un unico rimedio. Non a caso, il metodo Di Bella comprende un numero ben nutrito di diverse sostanze fisiologiche, farmaci e princìpi vitaminici, la cui composizione è stata studiata per avere azione sinergica e fattoriale, per cui l’effetto di ognuno è impressionato e potenziato dall’assunzione di tutti gli altri. Per ciascuna di queste componenti sono comparsi negli anni un’infinità di studi sulle riviste scientifiche (attualmente ammontano a qualche decina di migliaia) che ne dimostrano l’efficacia antitumorale.
    Un altro fatto significativo sono i circa 1.000 casi documentati di efficacia del metodo Di Bella pubblicati su riviste scientifiche accreditate e “peer review”, rintracciabili agevolmente sul portale www.pubmed.gov. Tra le pubblicazioni più recenti, quelle sui pazienti con tumore alla prostata e alla mammella, molti dei quali hanno avuto remissione della malattia senza chirurgia, senza radioterapia e senza chemioterapia, ma unicamente con il Metodo Di Bella. Si tratta peraltro di casi documentati nella maniera più scrupolosa, con diagnosi e successivi accertamenti strumentali effettuati in strutture pubbliche o private. Per comprendere l’eccezionalità della pubblicazione, occorre evidenziare che in tutta la letteratura scientifica mondiale non esiste un solo caso pubblicato di tumore solido guarito con qualsivoglia strumento farmacologico o radiante. Considerando che circa 180.000 persone in Italia muoiono ogni anno a causa di patologie tumorali, quante vite si sarebbero potute salvare se la sperimentazione del 1998 fosse stata condotta in maniera corretta? Tanti altri aspetti del metodo, della pseudo-sperimentazione e della vita dello scienziato, oltre ad una ricca documentazione fotografica, sono riportati nel volume “Il poeta della scienza” scritto da Adolfo Di Bella, che ha voluto affidare a questa biografia una testimonianza unica: quella di una vita trascorsa accanto ad un genio e benefattore dell’umanità.
    (Luca Iezzi, “Il poeta della scienza: vita del professor Luigi Di Bella”, da “Coscienze in Rete” del 9 aprile 2019. Il libro: Adolfo Di Bella, “Il poeta della scienza. Vita del professore Luigi Di Bella”, Mattioli editore, 444 pagine, 28 euro).
    Note:
    (1) I dettagli delle candidature al Nobel del professor Pietro Tullio sono disponibili sul sito ufficiale del prestigioso premio: https://www.nobelprize.org/nomination/archive/show_people.php?id=9395
    Dal libro Si può guarire? La mia vita. Il mio metodo. La mia verità (Luigi Di Bella e Bruno Vespa, ediz. Mondadori, 1998, pag.34)
    (2) Intervista di Mons. Don Giovanni D’Ercole a Luigi Di Bella, trasmessa il 14 marzo
    1998 su Raidue nel programma “Prossimo tuo”: https://www.youtube.com/watch?v=IjexHtSSvlc.
    (3) Programma “Moby Dick” trasmesso il 6 novembre 1997 su Italia Uno e condotto da Michele Santoro: https://www.youtube.com/watch?v=T65W48zYxPo.
    (4) Si veda ad esempio, tra i tanti lavori di Schally: Barabutis N, Siejka A, Schally AV. Effects of growth hormone releasing hormone and its agonistic and antagonistic analogs in cancer and non-cancerous cell lines. International Journal of Oncology 2010 May;36(5):1285-9 (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20372804).
    (5) Intervista fatta a Luigi Di Bella nella primavera 1996: https://www.youtube.com/watch?v=uQJDUmwkugg.
    (6) La sperimentazione del 1998 – motivi e prove della sua invalidità: http://www.metododibella.org/la-sperimentazione-truffa-sul-metodo-di-bella.html .
    Un’enorme mole di dati e documenti che demolisce completamente la sperimentazione ministeriale è raccolta nel volume “Un po’ di verità sulla terapia Di Bella” (Vincenzo Brancatisano, ediz. Travel Factory, 1999).

    “Il poeta della scienza”, vita di Luigi Di Bella: il volume, minuziosamente documentato e ricco di indicazioni delle fonti, dipana la complessa figura del professor Di Bella esaminandola sotto il profilo scientifico, morale, intellettuale e umano. Difficile non giungere alla conclusione che sono state proprio queste qualità e virtù a procurargli, per buona parte della vita, un’ostilità incessante che non di rado si è fatta autentica persecuzione. Il lettore rimane, oltre che indignato e amareggiato, anche stupefatto per la capacità dell’uomo di non farsi annichilire da un’opposizione tanto indiscriminata e violenta e di riuscire a compiere egualmente la sua opera. Luigi Di Bella, siciliano, classe 1912, era nato in una famiglia numerosa e di assai disagiate condizioni economiche, non in grado quindi di sostenere le spese per fare studiare quel ragazzo, nonostante avesse precocemente dimostrato rare doti d’ingegno e di forza di volontà. Luigi sopportò sacrifici di ogni genere per soddisfare la sua sete di sapere e superare le ristrettezze della povertà, arrivando anche a studiare la sera in piedi, sotto la luce del lampione della strada, per sopperire alla penuria di petrolio per la lampada.

  • Guzzi: noi, umanità nuova, e i morti viventi ancora al potere

    Scritto il 09/7/17 • nella Categoria: idee • (24)

    Questa crisi è antropologica, quindi molto più profonda dei numeri, molto più radicale. Ma è anche una grande crisi di crescita. Io sono positivo. È una grande crisi, ma non è più grande di noi: è alla nostra portata. Dobbiamo renderci conto della sua radicalità e prenderla di petto. È una crisi di crescita, è una crisi sostanzialmente evolutiva, e noi non siamo ancora in grado di interpretare questa direzione evolutiva e facilitarla. E questo la aggrava. Questa è la cosa più pericolosa: non tanto che la crisi sia antropologica, cioè è una crisi paragonabile a quella del Neolitico, perché sta cambiando un’antropologia, cioè un modo di essere uomini. La crisi antropologica del Neolitico è il momento in cui (grossomodo dall’8.000 al 5.000 a.C.) l’umanità si dà una forma che è poi quella che – con moltissime evoluzioni – arriva fino a noi. Inizia l’agricoltura, gli uomini cominciano quindi a stabilizzarsi in un luogo, a costruire le città, e sorge la civiltà che poi, con enormi mutazioni, arriva fino a noi. Noi siamo in una fase di trasformazione ancora più grande per l’essere umano. Questo vuol dire, in termini semplici, che tutto un modo di “essere umani”, come il diritto, l’economia, la filosofia, la democrazia, la politica, i rapporti sessuali, i rapporti familiari, cioè tutte le forme antropologiche, le istituzioni in cui l’umanità organizza la sua vita, sono in travaglio.
    Quelle che appartengono alla modalità che sta finendo tracollano. Ecco perché c’è una crisi generale. Tutto è in crisi perché le forme storiche – matrimonio, democrazia, università, religioni – è come se si stessero esaurendo, non ci soddisfano più. Per cui noi non sappiamo che fare. Siamo in una fase caotica – che è una fase, però, di transizione. Se noi riuscissimo a capire un po’ meglio quale figura di uomo si sta consumando e quale modalità nuova sta emergendo, riusciremmo a vivere questo passaggio per quello che è: un enorme momento di crescita. Mi viene in mente la fase decadente dell’Impero Romano. Ci vollero centinaia di anni, ci volle un’epoca di barbarie per far rifiorire un nuovo Rinascimento. Oggi forse, con tutta questa tecnologia, con la rete, potremmo metterci di meno? Quando abbiamo una crisi esistenziale, possiamo reagire in due modi diversi. Il primo modo è: negare la crisi, fare finta che la crisi non ci sia, non capire che certe modalità della nostra vita non funzionano più. Se facciamo così, cioè resistiamo, fingiamo, neghiamo, la crisi diventa molto lunga e molto dolorosa.
    Se invece iniziamo a interrogarci e ci chiediamo: “Ma forse c’è qualche cosa nella nostra vita che posso correggere, forse c’è qualche cosa nel modo di fare, nei miei affetti, nel modo in cui lavoro che non è giusto, che non va più bene, che posso incominciare a correggere”, se assumiamo un atteggiamento di questo tipo, direi di cura, allora la crisi solitamente è meno penosa e anche meno lunga. La stessa cosa vale per la nostra civiltà. Il problema è che questa civiltà non vuole capire. E non è mica una cosa che nasce ieri. Tutto il XX° Secolo è catastrofico dal punto di vista della vecchia umanità. Un certo tipo di “essere uomo” vive lungo il XX° Secolo catastrofi mondiali: due guerre mondiali, campi di concentramento, totalitarismi. C’è una fase di distruzione mostruosa. Eppure non abbiamo ancora ben capito, non vogliamo capire. E questo neoliberismo degli ultimi trent’anni – a mio parere – è la forma estrema di resistenza al cambiamento. Cioè, il vecchio io, l’uomo morente, quello che non funziona più, che io amo chiamare “Egoico bellico”, cioè un’umanità che si rafforza nel contrapporsi, contrapporsi all’altro, contrapporsi alla natura, ecco: questa forma tracolla, ma resiste.
    Il neoliberismo è una forma estrema di egotismo, di egocentrismo, di individualismo egoistico, cieco e suicidario, che non vuole capire la lezione. E quindi le catastrofi non sono rappresentative solo del nostro passato, ma sembrano purtroppo prefigurare anche il futuro. La politica vigente? E’ la politica neoliberista. Quindi le classi dominanti occidentali, oggi, sono i portavoce dell’io morente. Sono i portavoce di questa forma di umanità che è già morta, è già esaurita, ma che persiste a dominare sul mondo in una forma vampiristica o zombistica. È come un mondo di morti viventi che fingono di essere vivi, ma sono zombie, sono morti e vogliono che tutti siano come loro. Perché gli zombie, come i vampiri, vogliono che tu diventi come loro. Una metafora un po’ forte? Questa metafora era alla base anche del primo film di zombie, “La notte dei morti viventi“, diretto da George Romero, alla fine degli anni sessanta, che metteva in scena proprio questa critica della società. Tant’è vero che lo zombie lo uccidi annientando il cervello, perché è nel cervello che si annida quella forma di massificazione, di non-pensiero, che non può morire se non esiste – ma, appunto, era questo il paradosso, la metafora.
    D’altra parte “The Walking Dead”, il serial che sta avendo successo mondiale in questi anni (la storia – appunto – di un manipolo di umani che sono sopravvissuti a questa epidemia di zombie), simbolicamente molto significativo, ci racconta proprio la disperata volontà di questo gruppo di uomini di rimanere umani in un mondo di zombie. Ed è per questo che ha tanto successo, perché spesso le serie americane – in modo non sempre consapevole – riescono a parlare in modo diretto, ma anche mitico dei drammi dell’umanità contemporanea. Perciò hanno uno straordinario successo. “Breaking Bad”, “The Walking Dead”, insomma quelle… Ma anche “House of Cards”. Cioè… ci parlano come pochi, oggi, di questo tempo finale. Quel tempo che si viene a collocare dopo la fine della storia in cui siamo come congelati. Un po’ anche “Matrix” ci ha raccontato questo. Siamo bloccati e congelati, per cui i politici attuali – quelli che oggi dominano i paesi occidentali – sono i funzionari di questa resistenza al cambiamento e adoperano tutti i loro strumenti, specialmente le armi di distrazione di massa: cioè ci distraggono, ci distolgono, ci occupano per mesi interi a discutere di una legge elettorale in Italia che ha il valore del due di picche, capite?
    Nel contesto terminale in cui sta vivendo il pianeta, con fenomeni come quello migratorio che si sta scatenando e che nell’arco di pochi anni diventerà una cosa incredibile… I demografi ci dicono che nell’arco di 15/20 anni solo la Nigeria avrà 500 milioni di abitanti, cioè superererà l’intera area europea! Capite? Questo è il paesaggio prossimo futuro, e questi deficienti – questa vergognosa Unione Europea gestita da queste persone inverosimili – si occupano di quisquilie! Ma non è un caso: è appunto una strategia di distrazione, perché se ci dovessimo occupare dei veri problemi, l’intero assetto che loro dominano dovrebbe essere messo in discussione. Le vaccinazioni? Non posso pensare che, come tali, siano un male, perché le vaccinazioni nella storia – a partire dall’antivaiolosa – ci hanno liberato da alcune patologie. Che poi ci sia una degenerazione, un pericolo, un eccesso per cui dobbiamo obbligatoriamente farne 12, su questo anch’io ho qualche dubbio. Ma anche questo si può inserire nel processo di meccanicizzazione tecnologica della società, dove l’unico criterio che si adotta è la quantificazione di pulegge e ruote, ingranaggi che girano.
    Tutto è algoritmo, il fattore umano è diventato un inquinante. Cioè è tutta una questione di numeri, di leve, di giochi di forza e di potere, di catene di montaggio. E’ chiaro che la “figura di umanità morente”, che io chiamo “egoico-bellica” ma che si può chiamare anche neoliberista, materialistica, nichilistica, questa forma di umanità vuole sostanzialmente eliminare l’io umano come principio libero e spirituale. Quindi vuole trasformare l’essere umano in qualcosa di meccanico, di non spirituale, di non libero, essenzialmente, di condizionato e determinato al punto da potersi inserire dentro un sistema nel quale tu sei solo una rotellina sostituibile, come diceva Heidegger. Tutto dev’essere sostituibile. E questa è proprio la natura antitetica dell’io. L’io, nel suo mistero è proprio insostituibile. Ognuno di noi è se stesso: un mistero insostituibile. Loro vogliono, invece che tutto venga sostituito. E da qua, per esempio, la svalutazione crescente del mondo del lavoro, delle professioni. Perché le professioni connotano qualche qualità umana che non è sostituibile. Invece tutto deve essere sostituibile, tutto deve essere disanimato, calcolabile, contabile.
    Tutto deve essere ridotto a numero, a economia matematica che viene fatta passare come legge naturale, come se fosse una legge della natura. Mentre sappiamo – almeno da 150 anni – che non esiste alcuna economia come scienza esatta, ma esiste sempre un’economia che è l’organizzazione di interessi molto precisi. E qui è il punto. È questo che non si vuole mostrare. È questo l’indicibile! E qui ci stanno degli interessi precisi di élite oligarchiche precise che dominano il mondo a livello finanziario. Ma questo oggi ce lo dice Habermas, cioè ce lo dicono pensatori moderati. Quest’idea del complottismo è veramente ridicola e denuncia una grande ignoranza. Perché allora è complottista anche il Papa, è complottista Habermas, è complottista Rifkin, cioè sono complottisti praticamente tutti quelli che ancora pensano. Ci sarebbe da chiedere, se questi sono complottisti, gli altri chi sono? Sono quelli che i complotti li fanno davvero! Perché questo è il problema: c’è una vasta area di collaborazionismo, oggi! Perciò ci vuole una rivoluzione culturale inedita, che è la rivoluzione della nuova umanità. Cioè, quella che sta nascendo in questa crisi, perché sta nascendo una nuova umanità. Un’umanità più relazionale, un’umanità che non si può meccanicizzare, che scopre i livelli più profondi di libertà interiore e li vuole manifestare socialmente.
    L’uomo nascente, la nuova umanità, ancora non trova dei fuochi di aggregazione, per cui è disseminata e molto controversa e confusa. Quindi dobbiamo trovare dei minimi comuni denominatori, cioè dei punti su cui persone molto diverse, che hanno anche formazioni diverse, potranno convergere in questa dinamica rivoluzionaria. E io credo che i punti poi siano pochi, quelli necessari per creare poi un’aggregazione. C’è un accordo tra una visione laica e una visione di chi pratica il buddismo, lo yoga, le medicine alternative e via dicendo: tutti concordano sul fatto che è un’intera figura di umanità che non funziona più. Il secondo punto su cui possiamo concordare tutti è che questo passaggio non può essere soltanto estrinseco, cioè “cambiamo le strutture del mondo”, come sono state le rivoluzioni moderne: “assaltiamo la Bastiglia”, “prendiamo il Palazzo d’Inverno”, “facciamo l’insurrezione mazziniana”… No! Questo è oggi impossibile. Dobbiamo organizzare un movimento di trasformazione che parta sempre anche dal profondo di sé. Cioè, il Palazzo d’Inverno ce l’ho anche dentro di me. La modalità “egoico-bellica” c’è anche nei gruppi alternativi ed è fortissima! La modalità bellica di pensare la trovi anche in tanti pacifisti. Dobbiamo collaborare ad un processo che certo sarà secolare, però ce lo possiamo godere anche oggi.
    Dobbiamo immaginare un movimento che sia al contempo interiore, diciamo spirituale in senso assolutamente transconfessionale, e politico-storico. Insieme, su questi due grandi fuochi, io credo che potremo organizzare un’aggregazione finalmente in grado di avere una rappresentanza politica e finalmente mettere seriamente in crisi il sistema, altrimenti rimaniamo nell’ambito dell’idealismo, della testimonianza, anche bella ma di nicchia, e non potremo aspirare a quello che invece dobbiamo aspirare: cioè a trasformare le strutture. La grande riforma implica una riforma spirituale. Dobbiamo cioè aiutarci a far uscire l’umanità dalla modalità bellica, che non è naturale. Ecco perché io ho creato dei gruppi di liberazione interiore, con un percorso che dura sette anni. Perché sennò sono chiacchiere. E di chiacchiere, negli ultimi duecento anni, ne abbiamo sentite tante… Dall’Illuminismo in poi c’è questa idea che l’uomo, di punto in bianco, diventi santo, diventi generoso, diventi altruista, ma sono tutte balle! Poi abbiamo prodotto il Terrore di Robespierre, abbiamo prodotto le devastazioni del comunismo nel XX° secolo in nome della pace e della giustizia e della libertà. Dovrebbe essere finito questo tempo, cioè: trasformarci è un lavoro quotidiano.
    Ma questo deve poi divenire un movimento storico, culturale e quindi politico. Politico nel senso grande e in un senso nuovo. Dovremmo creare aggregazioni, anche delle forme di attestazione non-violenta, totalmente post-novecentesca, post-ideologica, direi ridente, sorridente e determinata, che abbia la forza della novità, la forza della vita crescente. Capite che è travolgente la vita che cresce? Se ne strafotte del passato, non ha nemmeno più bisogno di confutarlo, si manifesta nella sua novità. La novità è travolgente. Questo è quello che io sento e che i grandi poeti – ai quali mi rifaccio – profetizzano da almeno duecento anni. Perché questa è una storia – ripeto – antica, è una storia antica che sta vivendo una fase nuova. Ma non è una cosa che nasce adesso. L’idea della nuova umanità non nasce adesso: ha perlomeno duemila anni, in Occidente. E tutta la modernità – a partire del XV°/XVI° secolo – si è proposta come una nuova umanità. Noi siamo in una fase nuova di questo lungo processo e anche questo lo dobbiamo capire, perché altrimenti poi facciamo la new age, che è un fenomeno di costume, si sbriciola.
    I passi io li vedo molto semplici e chiari, anche se poi i tempi della realizzazione storica di questa insurrezione non sono facilmente prevedibili. Bisogna partire da sé stessi, ma bisogna ripartire tutti i giorni. Cioè non è che parti e poi te lo scordi. L’insurrezione della nuova umanità è il processo quotidiano attraverso il quale ci liberiamo di legami interiori, schiavitù, paure, blocchi, terrori, risentimenti, di tutto ciò che impedisce alla nuova umanità, alla sua creatività di esprimersi. Questo è il primo passo sempre da rifare. Dopodiché, questa cosa bisogna viverla in gruppi, non è che la vivi da solo. Bisogna espandersi a cerchi concentrici partendo dai gruppi – potremmo dire – più iniziatici, quelli che lavorano assiduamente su di sé. Bisogna poi che questo diventi un discorso comune, ecco: dobbiamo far sì che questi concetti elaborino una nuova cultura.
    (Marco Guzzi, dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora per la video-intervista “Siamo entrati in un nuovo Neolitico”, pubblicata da “ByoBlu” il 16 giugno 2017. Poeta e filosofo, Guzzi è il fondatore del movimento “Darsi pace”, un laboratorio di nuova umanità).

    Questa crisi è antropologica, quindi molto più profonda dei numeri, molto più radicale. Ma è anche una grande crisi di crescita. Io sono positivo. È una grande crisi, ma non è più grande di noi: è alla nostra portata. Dobbiamo renderci conto della sua radicalità e prenderla di petto. È una crisi di crescita, è una crisi sostanzialmente evolutiva, e noi non siamo ancora in grado di interpretare questa direzione evolutiva e facilitarla. E questo la aggrava. Questa è la cosa più pericolosa: non tanto che la crisi sia antropologica, cioè è una crisi paragonabile a quella del Neolitico, perché sta cambiando un’antropologia, cioè un modo di essere uomini. La crisi antropologica del Neolitico è il momento in cui (grossomodo dall’8.000 al 5.000 a.C.) l’umanità si dà una forma che è poi quella che – con moltissime evoluzioni – arriva fino a noi. Inizia l’agricoltura, gli uomini cominciano quindi a stabilizzarsi in un luogo, a costruire le città, e sorge la civiltà che poi, con enormi mutazioni, arriva fino a noi. Noi siamo in una fase di trasformazione ancora più grande per l’essere umano. Questo vuol dire, in termini semplici, che tutto un modo di “essere umani”, come il diritto, l’economia, la filosofia, la democrazia, la politica, i rapporti sessuali, i rapporti familiari, cioè tutte le forme antropologiche, le istituzioni in cui l’umanità organizza la sua vita, sono in travaglio.

  • Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi. E nacque la Francia

    Scritto il 08/5/17 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    «Tuez-les tous, Dieu reconnaîtra les siens»: intanto uccideteli tutti, sarà poi Dio a riconoscere i suoi, distinguendo i fedeli dagli eretici. Frase terribile, attribuita all’abate cistercense Arnaud Amary, legato pontificio, nel 1209 di fronte alle mura della città rivierasca di Béziers, ferocemente assediata e annientata, con lo sterminio dell’intera popolazione, nel corso della prima e unica grande crociata in terra europea, quella contro gli Albigesi. L’inaudito massacro di Béziers, “colpevole” di tollerare la presenza di 200 càtari, smuove la geopolitica medievale europea: a fianco della Linguadoca assediata scende in campo la potente armata spagnola del re d’Aragona: Pietro II è un campione della cristianità, ma non può sopportare la “desmesura” della ferocia dei crociati. Lo scontro avviene a Muret, alle porte di Tolosa, nel 1213: lo schieramento occitanico-catalano è soverchiante, almeno il doppio dell’esercito papale, ma viene sconfitto. Quei cavalieri “combattevano come in un torneo”, cioè lealmente, scrive la “Canso”, il poema della crociata albigese. I difensori dei càtari credevano in un ideale cavalleresco intraducibile, dall’occitano: il Paratge. Onestà, coraggio, capacità di sacrificarsi per il debole. Da quel massacro nacque la Francia. E, scrive Simone Veil, morì l’ultima reincarnazione europea della Grecia di Pericle, il culto della bellezza, della tolleranza (la libertà di religione). La democrazia ateniese.
    La disfatta di Muret fu l’inizio della fine per l’orgogliosa e libera contea di Tolosa, dove vivevano musulmani nei loro villaggi, le finanze della contea erano gestite dagli ebrei sefarditi fuggiti dall’Andausia, e i càtari potevano liberamente disputare di religione, in chiesa, accanto al clero cattolico. A scatenare il terrore non fu solo la pericolosità dell’eresia dualista incarnata dal catarismo balcanico introdotto in Linguadoca attraverso la Lombardia: un cristianesimo “alternativo” che riteneva il mondo materiale opera del Dio Straniero, il “principio del male”, paragonabile al Demiurgo degli gnostici e, prima ancora, ad Ahriman, l’antagonista della divinità celeste di Zoroastro. L’adesione al catarismo comportava la rinuncia alla proprietà privata e il divieto assoluto di giurare – decisamente eversivo in un sistema, come quello feudale, interamente basato sull’istituto del giuramento, per legittimare ogni forma di potere terreno, che si pretendeva investito dall’alto. La notizia sconvolgente, per il Vaticano, non era solo il dilagare dei “buoni cristiani”: Roma cominciò a tremare, al punto da scatenare la guerra, quando vide che ad aderire al catarismo non era solo la plebe, ma anche l’aristocrazia occitanica, la classe dirigente nobiliare di quella che, allora, era una delle regioni più evolute d’Europa, sul piano economico, sociale e culturale: fioriva la civiltà letteraria dei trovatori, in prospere cittadine dove il governo aristocratico era condiviso da “consoli” regolarmente eletti.
    Nel 1213, osserva la Veil nel libro-capolavoro “I Càtari e la civiltà mediterranea”, gli Stati feudali di Tolosa e Barcellona, accomunati persino dalla lingua (occitano e catalano sono lingue “gemelle”), rappresentavano una parte considerevole d’Europa: se avessero vinto, sostiene l’autrice, avremmo visto nascere un’altra Europa, con meno guerre e senza nessun Hitler, fondata su valori diversi dal “culto della forza” incarnato dai crociati, eredi dell’Impero Romano. Per veder risorgere la libertà di culto, sempre in Francia, c’è voluto mezzo millennio: il secolo dei Lumi, la presa della Bastiglia. Quindi la rivoluzione industriale e l’evoluzione continua della società, fino al socialismo. Oggi, sostengono svariati critici, siamo tornati – con l’Unione Europea – a un sistema neo-feudale. Il nuovo presidente francese Macron, già banchiere Rothschild ed ex ministro dell’incolore Hollande, prono ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, è una “creatura” di Jacques Attali, storico esponente della supermassoneria internazionale reazionaria. In molti hanno guardato alle elezioni francesi del 2017 come a un passaggio cruciale, storico: la possibilità di ribaltare il paradigma del rigore imposto dall’élite o, viceversa, la riaffermazione dell’ancient régime: non più militare ma elettorale, benché sospinta dalla paura, dopo anni di strategia della tensione affidata a un opaco terrorismo domestico, al servizio della logica perversa del dominio.

    «Tuez-les tous, Dieu reconnaîtra les siens»: intanto uccideteli tutti, sarà poi Dio a riconoscere i suoi, distinguendo i fedeli dagli eretici. Frase terribile, attribuita all’abate cistercense Arnaud Amaury, legato pontificio, nel 1209 di fronte alle mura della città rivierasca di Béziers, ferocemente assediata e annientata, con lo sterminio dell’intera popolazione, nel corso della prima e unica grande crociata in terra europea, quella contro gli Albigesi. L’inaudito massacro di Béziers, “colpevole” di tollerare la presenza di 200 càtari, smuove la geopolitica medievale europea: a fianco della Linguadoca assediata scende in campo la potente armata spagnola del re d’Aragona: Pietro II è un campione della cristianità, ma non può sopportare la “desmesura” della ferocia dei crociati. Lo scontro avviene a Muret, alle porte di Tolosa, nel 1213: lo schieramento occitanico-catalano è soverchiante, almeno il doppio dell’esercito papale, ma viene sconfitto. Quei cavalieri “combattevano come in un torneo”, cioè lealmente, scrive la “Canso”, il poema della crociata albigese. I difensori dei càtari credevano in un ideale cavalleresco intraducibile, dall’occitano: il Paratge. Onestà, coraggio, capacità di sacrificarsi per il debole. Da quel massacro nacque la Francia. E, scrive Simone Veil, morì l’ultima reincarnazione europea della Grecia di Pericle, il culto della bellezza, della tolleranza (la libertà di religione). La democrazia ateniese.

  • Col Padrino al posto di Bush, oggi non saremmo in guerra

    Scritto il 18/12/15 • nella Categoria: idee • (2)

    «C’è questo fortissimo istinto a rispondere contrattaccando, che elude la razionalità. Tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere, in termini di sapienza e moralità, lo sappiamo già da migliaia di anni. Niente di nuovo. Ma non prendiamo mai questa strada». Parola di Tim Willocks, scrittore, intervistato da Edoardo Rialti per il “Foglio”. L’autore di “Fine ultimo della Creazione”, salutato da James Ellroy come il miglior thriller carcerario di sempre, sostiene che Bush avrebbe fatto bene a comportarsi come il “Padrino”, nel leggendario film di Coppola, che considera «un esempio straordinario». All’indomani dell’11 Settembre, Willocks ricorda che ci pensò. «Quando il consigliori va a dire al padrino che suo figlio è stato massacrato, Brando assorbe questo dolore terribile. E la prima cosa che dice è: “Non voglio indagini, non voglio vendette. Questa guerra finisce qui”». E’ stupefacente, dice Willocks. «Un esempio di grande saggezza politica. E se l’11 Settembre ci fosse stato un leader che avesse avuto quel potere, il carisma di dire “Niente vendetta”, io credo che oggi il mondo, quindici anni dopo, sarebbe un posto completamente diverso. Avessimo avuto un Gandhi, un Martin Luther King, una figura di quella statura, il mondo forse l’avrebbe seguito».
    Gandhi era un affiliato del network massonico rosacrociano, e Martin Luther King (altro massone progressista) secondo Gioele Magaldi è stato assassinato insieme a Bob Kennedy anche in base a un preciso calcolo: quei due erano il “ticket” perfetto su cui puntava il milieu super-massonico internazionale che aveva tifato per John Kennedy dopo aver manovrato per far eleggere al soglio pontificio il cardinale Angelo Roncalli, il “Papa buono”, nonché l’unico pontefice massone della storia (affiliato a una superloggia in Turchia e poi introdotto, in Francia, in un cenacolo rosacrociano). Da allora, sostiene Magaldi, l’Occidente del welfare e dei diritti sociali ha cominciato a scivolare sul piano inclinato della restaurazione neoliberista e guerrafondaia, fino appunto all’11 Settembre e, oggi, all’Isis. Per una sinistra ricorrenza, scrive Rialti sul “Foglio”, Parigi resta «la grande cartina di tornasole dei conflitti che ci dilaniano: dalla Bastiglia ai nazisti che sfilano vittoriosi, dalla Comune alla strage del Bataclan». Sul nesso inestricabile tra città e violenza, a Parigi e altrove, il “Foglio” ha dialogato con Tim Willocks, che ne “I dodici bambini di Parigi” racconta la prima celebre notte della capitale francese, la strage religiosa di San Bartolomeo, «un labirinto di carne e sangue, di innocenza perduta, follia, e inaspettato, anonimo eroismo».
    «Se vuoi colpire una città che rappresenta la civiltà, l’illuminismo, Parigi è forse la scelta migliore, e non solo per la Rivoluzione», dice lo scrittore. «Lo Stato islamico è molto specifico al riguardo. Per loro è la grande prostituta, tutto ciò che è empio. E Parigi è anche uno dei luoghi più violenti della storia. E’ una sorta di campo di battaglia». Di fronte alla violenza e alla follia di oggi, e alla nostra ricerca spasmodica di soluzioni, Willocks non ha tutte le risposte, ma ha molte domande, annota Rialti. “Cantami l’ira”, inizia l’Iliade: il primo poema della nostra letteratura inizia con la rabbia di Achille, e termina con le sue lacrime, condivise (inaspettatamente) dal nemico Priamo. «Rabbia e lacrime. Come muoversi dalla rabbia alla compassione, e se è possibile. Siamo forse destinati alla rabbia e alla compassione, per sempre?». Willocks si dichiara «orripilato e stupefatto» da quanto la violenza sia «intrecciata con la civiltà, fin dall’inizio, in tutto il mondo». Secondo l’autore, «non parliamo abbastanza di cosa voglia dire uccidere. Camuffiamo questa realtà con molta retorica e eufemismi».
    «L’altro aspetto così vero dell’Iliade è la gioia, l’eccitazione, l’attrazione che da sempre la guerra, le battaglie, la violenza hanno esercitato. E quando, 50.000 anni fa, un periodo brevissimo in termini d’evoluzione biologica, eravamo spaventati dai leoni, e i nostri anonimi ‘Achille’ ci hanno difeso, letteralmente, dai leoni, con un bastone o sasso, è stato qualcosa da celebrare, eccome!», continua lo scrittore. «Fondamentalmente non siamo cambiati, da allora. Credo il ruolo della letteratura sia proprio di incarnare tutto questo. E’ il nostro destino, come specie, affrontare queste contraddizioni. Non vediamo molti Achille e Priamo, che sono anche due grandi capi politici, che piangono insieme». Fu già Sant’Agostino a notare che nei grandi miti i fondatori di città sono tutti fratricidi. Caino, Romolo: c’è davvero un nesso inscindibile tra comunità civile e violenza? «Sì, i fondatori di città sono assassini», ammette Willocks. «La fondazione di una città richiede violenza. Una gerarchia di potere, che è essenzialmente ingiusta».
    Per un intellettuale come Francesco Saba Sardi, la nostra civiltà nasce con un atto di guerra, il primo della storia, per la conquista della terra. Accade per la prima volta nel neolitico, con la scoperta dell’agricoltura: da allora “servono” schiavi, lavoratori agricoli e soldati. E nasce il potere, sotto forma di dominio, che (grazie alla capacità di persuasione esercitata dalla religione, altra invenzione dell’epoca) riesce a imporre ruoli sociali sgradevoli. Ironia della sorta, aggiunge ora  Willocks, è che la civiltà stessa richiede il ricorso alla violenza, «perché i contadini non hanno tempo e lusso per fermarsi e pensare alla scienza, alle invenzioni, alla poesia, alla cultura nel suo senso più ampio». Dostoevskij faceva dire al suo terrorista che niente lega due uomini come ammazzare insieme un terzo, osserva Rialti. Siamo uno contro l’altro: è «la perenne seduzione del sacrificio umano: basta che qualcosa ci turbi e spaventi e torniamo subito uomini delle caverne, nemici di chiunque sia fuori della grotta». Dal 2001, poi, la guerra è diventata permanente e planetaria. “La guerra infinita”, la chiamò Giulietto Chiesa. Ma se allora, alla Casa Bianca, ci fosse stato il Padrino, dice Willocks, oggi non saremmo a questo punto.

    «C’è questo fortissimo istinto a rispondere contrattaccando, che elude la razionalità. Tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere, in termini di sapienza e moralità, lo sappiamo già da migliaia di anni. Niente di nuovo. Ma non prendiamo mai questa strada». Parola di Tim Willocks, scrittore, intervistato da Edoardo Rialti per il “Foglio”. L’autore di “Fine ultimo della Creazione”, salutato da James Ellroy come il miglior thriller carcerario di sempre, sostiene che Bush avrebbe fatto bene a comportarsi come il “Padrino”, nel leggendario film di Coppola, che considera «un esempio straordinario». All’indomani dell’11 Settembre, Willocks ricorda che ci pensò. «Quando il consigliori va a dire al padrino che suo figlio è stato massacrato, Brando assorbe questo dolore terribile. E la prima cosa che dice è: “Non voglio indagini, non voglio vendette. Questa guerra finisce qui”». E’ stupefacente, dice Willocks. «Un esempio di grande saggezza politica. E se l’11 Settembre ci fosse stato un leader che avesse avuto quel potere, il carisma di dire “Niente vendetta”, io credo che oggi il mondo, quindici anni dopo, sarebbe un posto completamente diverso. Avessimo avuto un Gandhi, un Martin Luther King, una figura di quella statura, il mondo forse l’avrebbe seguito».

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