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Archivio del Tag ‘Berlino’

  • Elezioni anticipate, se regge l’intesa tra Salvini e Zingaretti

    Scritto il 09/8/19 • nella Categoria: idee • (14)

    Non è a Roma la chiave di volta per spiegare quanto sta accadendo, bensì a Strasburgo. E non è il mese di agosto quello decisivo, bensì quello precedente, in particolare nel giorno 16, il giorno del voto al Parlamento Europeo che elegge Ursula von der Leyen alla guida dell’Unione Europea con il concorso (determinante) dei voti del M5S. Metà luglio a Strasburgo dunque, cioè il momento che ha cambiato il corso della politica nazionale e che, con elevata probabilità, ci condurrà presto alle urne. Perché quel voto e così importante e perché Salvini reagisce come stiamo vedendo? La risposta c’è ed è riassumibile in tre elementi piuttosto semplici. Punto primo: quel voto segna una vittoria del premier Giuseppe Conte, che riesce ad entrare nel gioco “grande” a livello europeo portandosi dietro il partito che l’ha voluto per primo a Palazzo Chigi, riuscendo così a trasformare (almeno in parte) il disastroso risultato del M5S nelle urne in un successo politico dentro il “palazzo”. Così facendo però il premier avvalla la linea che vuole il fronte sovranista fuori da tutto, con evidente messa all’angolo proprio di Salvini. Punto secondo: quel voto indica chiaramente che l’asse Berlino-Parigi vince il primo round della partita continentale, relegando i sovranisti non solo ai margini del potere, ma addirittura provando a fare di loro una “bad company” alla mercé dei russi (si veda ai casi Strache e Savoini).

  • Dalla Russia coi servizi (deviati) per agitare gli italiani idioti

    Scritto il 26/7/19 • nella Categoria: idee • (3)

    Un recente sondaggio dice che il 58% degli italiani ritiene grave la storia dei soldi promessi dai russi alla Lega per la campagna elettorale europea di quest’anno. Ciò dimostra ulteriormente che l’inconsapevolezza è la regina della democrazia come oggi praticata. Infatti, posto che il problema di questo ipotetico e non avvenuto finanziamento è quello dell’interferenza straniera nella politica italiana, cioè della tutela dell’indipendenza politica italiana, allora ogni non-idiota sa che questa indipendenza non esiste dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. L’Italia dal 1945 è militarmente occupata dagli Usa con oltre 100 basi sottratte al controllo italiano. Gli Usa hanno allestito, armato e finanziato in Italia la Gladio, un’organizzazione paramilitare illecita con fini di condizionamento politico. La Dc e il Pci hanno sempre preso miliardi rispettivamente dagli Usa e dall’Urss, dati per condizionare la politica italiana; in particolare l’Urss assicurava al Pci percentuali su determinati commerci. Il Pci riceveva questi soldi mentre l’Urss teneva puntati contro l’Italia i missili nucleari. Il Pci, in cui allora militava il futuro bipresidente della Repubblica Giorgio Napolitano, accettava la guida del Pcus di Stalin.
    Diversi leader politici italiani hanno sistematicamente svenduto a capitali stranieri i migliori asset nazionali. Moltissimi leader politici e statisti italiani hanno sistematicamente e proditoriamente ceduto agli interessi franco-tedeschi e della grande finanza in fatto di euro, fisco, bilancio, immigrazione; in cambio hanno ricevuto sostegno alle loro carriere. L’Italia ormai riceve da organismi esterni, diretti da interessi stranieri, l’80% della sua legislazione e della sua politica finanziaria. Essa è indebitata in una moneta che non controlla e che è controllata ultimamente da banchieri privati; la Banca d’Italia è controllata pure da banchieri prevalentemente stranieri. Ciliegina sulla torta: notoriamente, nel 2011, su disposizione di Bce e Berlino, il Palazzo italiano ha eseguito un golpe per sostituire il governo Berlusconi con uno funzionale agli interessi della finanza franco-germanica. E su tutto questo nessun Pm ha mai aperto un fascicolo per corruzione internazionale: andava tutto bene!
    Nel confronto con questi fatti, il problema dei soldi russi alla Lega, peraltro mai dati, è insignificante, e solo un idiota può considerarlo diversamente; mentre chi ha un minimo di buon senso nota che il problema grave è un altro, ossia che i servizi segreti – sottoposti al premier Conte – abbiano eseguito un anno fa, e tirato fuori proprio ora, le intercettazioni in questione, e che le tirino fuori ora per mettere in difficoltà la Lega in un momento critico per il M5S. Si ventila pure che possa essere stata, invece, la Cia, per colpire il legame Salvini-Russia. In ambo i casi, questa è la vera interferenza, questo è lo scandalo.
    (Marco Della Luna, “Dalla Russia coi servizi, deviati”, dal blog di Della Luna del 14 luglio 2019).

    Un recente sondaggio dice che il 58% degli italiani ritiene grave la storia dei soldi promessi dai russi alla Lega per la campagna elettorale europea di quest’anno. Ciò dimostra ulteriormente che l’inconsapevolezza è la regina della democrazia come oggi praticata. Infatti, posto che il problema di questo ipotetico e non avvenuto finanziamento è quello dell’interferenza straniera nella politica italiana, cioè della tutela dell’indipendenza politica italiana, allora ogni non-idiota sa che questa indipendenza non esiste dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. L’Italia dal 1945 è militarmente occupata dagli Usa con oltre 100 basi sottratte al controllo italiano. Gli Usa hanno allestito, armato e finanziato in Italia la Gladio, un’organizzazione paramilitare illecita con fini di condizionamento politico. La Dc e il Pci hanno sempre preso miliardi rispettivamente dagli Usa e dall’Urss, dati per condizionare la politica italiana; in particolare l’Urss assicurava al Pci percentuali su determinati commerci. Il Pci riceveva questi soldi mentre l’Urss teneva puntati contro l’Italia i missili nucleari. Il Pci, in cui allora militava il futuro bipresidente della Repubblica Giorgio Napolitano, accettava la guida del Pcus di Stalin.

  • Pd più 5 Stelle, il piano del Quirinale per “suicidare” Salvini

    Scritto il 17/7/19 • nella Categoria: segnalazioni • (10)

    La crisi di governo che finora era una minaccia di Salvini ora è diventata un’arma ostentata contro di lui. Lo scrive sul “Sussidiario” Ugo Finetti, giornalista e politologo, autore di importanti saggi sulla vita politica italiana (è del 2016 “Botteghe Oscure”, ovvero “Il Pci di Berlinguer & Napolitano”). «Già prima del voto europeo – scrive Finetti – il previsto successo della Lega attribuiva al suo leader il ruolo di dominus della legislatura». Ancora oggi, aggiunge l’analista, sembra scontato che la crisi di governo aprirebbe la strada alle elezioni anticipate: le consultazioni «vedrebbero certamente vincente la coalizione di centro-destra (con Berlusconi o con scissione di Toti) a guida Salvini, che tutti i sondaggi considerano ben oltre il 40 per cento», quindi la piena possibilità di varare un governo assai più unitario del tormentato connubio gialloverde, minacciato dalla fragilità dei 5 Stelle. «Con l’attuale legge elettorale, il leader della Lega si garantirebbe una sicura maggioranza parlamentare», sottolinea Finetti, osservando che lo stesso segretario del Pd, Nicola Zingaretti, «quasi quotidianamente cerca di rassicurare Salvini che se si apre la crisi chiederà le elezioni anticipate». Ma con il caso Metropol – lo strano Russiagate all’italiana – lo scenario è cambiato, avverte Finetti: «A cominciare dalle “provocazioni” di ministri ed esponenti del M5S, si direbbe che Salvini venga non solo sfidato, ma spintonato ad aprire la crisi».
    L’ipotesi che la Lega di Salvini si sia finanziata con fondi neri su cui ora indaga la Procura di Milano – continua Finetti – interessa ovviamente l’opinione pubblica italiana, «ma è un fatto sostanzialmente irrilevante per le cancellerie estere». Il vero “scandalo”, da Washington a Berlino, «è già ampiamente provato dalla “introduzione politica” divulgata in cui si sostiene che la politica di Salvini ha come obiettivo che l’Italia divida e indebolisca Nato e Unione Europea a favore di Mosca». Secondo Finetti «si tratta del resto di un fatto evidente da tempo», di cui Salvini in prima persona non fa mistero. Ma proprio questo – aggiunge Finetti – è il “vulnus” che porta al crescere di un concorso di intenti teso a destituire Salvini dall’attuale ruolo di guida dell’Italia. «Il fatto che, ad esempio, il ministro degli esteri Moavero abbia “preso in mano” a nome del premier Conte la questione migranti», da trattare con Bruxelles indipendentemente dal ministro dell’interno e del suo neoministro agli affari europei, «è chiaramente una “provocazione” verso la Lega e uno spintonamento a farle aprire la crisi». Insieme a Tria e allo stesso Conte, fra l’altro, lo stesso Moavero è indicato come esponente del “partito di Mattarella”, visto come costola di quel Deep State che frenerebbe l’azione del governo gialloverde ormai a guida leghista.
    Perché ora vorrebbe la crisi, l’establishment italiano che mal sopporta Salvini? «È evidente – spiega Finetti – che in caso di crisi, con l’eventualità di elezioni anticipate, il presidente della Repubblica non lascerebbe in vita il governo in carica con un quotidiano “teatro dei burattini” tra Salvini e Di Maio come è successo durante la campagna per il voto europeo». Per Finetti, la scelta scontata è quella di un “governo di garanzia” nominato dal Quirinale. E non è detto che il Parlamento lo bocci «per suicidarsi a vantaggio di un futuro governo salviniano (che eleggerebbe un successore di Mattarella di centro-destra)». Le elezioni anticipate non convengono al Pd, in coma farmacologico, né tantomeno ai parlamentari 5 Stelle, metà dei quali – sondaggi alla mano – non rimetterebbero più piede in Parlamento. In caso di crisi, la nascita di un nuovo governo (non come espressione di un accordo diretto tra Pd e M5S, ma che si presentasse “neutrale” come espressione del Quirinale, per concludere le trattative per i nuovi vertici dell’Ue e varare la necessaria legge finanziaria) «molto probabilmente non sarebbe bocciato», secondo Finetti, «ma troverebbe una maggioranza di non suicidi», e non solo gli esponenti Pd e quelli pentastellati.
    In particolare, aggiunge Finetti, «sembra sempre più evidente che anche in campo grillino, a cominciare dalla Casaleggio Associati, rimanere con Salvini, approvare la Tav, trattare in prima persona con Bruxelles è logorante, mentre sarebbe più vantaggioso mantenere voce in capitolo sulle nomine e prendere le distanze dalle quotidiane responsabilità di governo». Inoltre, prosegue l’analista, è proprio la grande crescita della Lega (che oggi supera il 35%) il vero “boccone” che unifica «gli appetiti di destra, di sinistra e di centro». Salvini è infatti cresciuto ed esploso nei voti e nei sondaggi in quanto “campione sul ring”. «Il match con la capitana tedesca gli ha portato più consensi che dissensi», annota Finetti. «Ma il giorno in cui si trovasse tra il “pubblico”, seduto sui banchi dell’opposizione, di fronte a un governo “benedetto” dal Quirinale, con la sdrammatizzazione della stessa emergenza migranti prefigurata da Moavero attraverso una politica di accordi con le cancellerie che oggi vedono Salvini come un sabotatore, il primeggiare mediatico del leader della Lega evaporerebbe».
    La visibilità che oggi il ministro dell’interno ha per i continui “braccio di ferro” sarebbe sostituita da una visibilità mediatica concentrata per lo più su inchieste giudiziarie, conclude Finetti, accennando allo stillicidio di iniziative che la magistratura ha intrapreso di recente contro la Lega. «Mancando il deterrente della crisi di governo e accettando di collezionare provocazioni quotidiane, Matteo Salvini rischia però lo “scacco matto”, e cioè di perdere il ruolo di “uomo forte” su cui si basa la sua crescita elettorale». Fin qui l’analisi di Finetti, che esamina con acutezza il retropensiero dell’eventuale piano per liquidare l’ingombrante leader leghista, cioè l’unico politico italiano che si sia schierato “all’opposizione di Bruxelles”, contestando (almeno a parole) lo strapotere – non elettivo, quindi non democratico – delle attuali autorità europee. Resta da capire come reagirebbero gli italiani, nel caso Salvini venisse davvero disarcionato dall’ennesima manovra di palazzo: scontata la morte politica dei 5 Stelle, resterebbe il Pd a vigilare sull’ordoliberismo finto-europeista che sta stritolando il paese. Non più ministro né vicepremier, Salvini avrebbe intere praterie da cavalcare, con esiti decisamente imprevedibili nel caso trovasse il coraggio di mobilitare il paese per liberarlo dal giogo di questa Unione Europea che deprime l’economia nazionale.

    La crisi di governo che finora era una minaccia di Salvini ora è diventata un’arma ostentata contro di lui. Lo scrive sul “Sussidiario” il socialista Ugo Finetti, giornalista e politologo, autore di importanti saggi sulla vita politica italiana (è del 2016 “Botteghe Oscure”, ovvero “Il Pci di Berlinguer & Napolitano”). «Già prima del voto europeo – scrive Finetti – il previsto successo della Lega attribuiva al suo leader il ruolo di dominus della legislatura». Ancora oggi, aggiunge l’analista, sembra scontato che la crisi di governo aprirebbe la strada alle elezioni anticipate: le consultazioni «vedrebbero certamente vincente la coalizione di centro-destra (con Berlusconi o con scissione di Toti) a guida Salvini, che tutti i sondaggi considerano ben oltre il 40 per cento», quindi la piena possibilità di varare un governo assai più unitario del tormentato connubio gialloverde, minacciato dalla fragilità dei 5 Stelle. «Con l’attuale legge elettorale, il leader della Lega si garantirebbe una sicura maggioranza parlamentare», sottolinea Finetti, osservando che lo stesso segretario del Pd, Nicola Zingaretti, «quasi quotidianamente cerca di rassicurare Salvini che se si apre la crisi chiederà le elezioni anticipate». Ma con il caso Metropol – lo strano Russiagate all’italiana – lo scenario è cambiato, avverte Finetti: «A cominciare dalle “provocazioni” di ministri ed esponenti del M5S, si direbbe che Salvini venga non solo sfidato, ma spintonato ad aprire la crisi».

  • Bombacci: morì fascista il primo leader comunista italiano

    Scritto il 23/6/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Cent’anni fa apparve in Italia il primo leader comunista, amico personale di Lenin; morì poi da fascista, fucilato a Dongo e appeso per i piedi dai suoi compagni in Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Si chiamava Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Fu lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. Questa storia rimossa dai comunisti merita di essere raccontata. Il 1°maggio di cent’anni fa era nato a Torino “Ordine Nuovo”, fondato da Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti. A quel tempo, disse poi Tasca (che, esule dal Pci, finì a Vichy con Pétain): «Eravamo tutti gentiliani». Sull’onda della rivoluzione bolscevica nel giugno di cent’anni fa “Ordine Nuovo” propose i soviet in Italia. Quel progetto li ricongiunse a Bombacci e insieme poi fondarono a Livorno il Partito Comunista. «Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo»: così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata Bombacci.
    Romagnolo e maestro elementare come Mussolini, cacciato anch’egli dalla stessa scuola perché sovversivo, compagno di lotte e di prigione del futuro duce, e nemico dei riformisti, Bombacci si separò da Mussolini dopo la svolta interventista. Per tornare al suo fianco a Salò ed essere ucciso, dopo aver gridato “Viva il socialismo, viva l’Italia”. A differenza di Mussolini, Bombacci veniva dal seminario (come Stalin e Curcio) e da una famiglia papalina di Civitella di Romagna. Bombacci diventò il principale bersaglio dei fascisti che gli urlavano “Con la barba di Bombacci / faremo spazzolini. Per lucidare le scarpe di Mussolini” (la stessa canzone fu riadattata al Negus quando l’Italia fascista conquistò l’Etiopia). I fascisti lo trascinarono alla gogna, tagliandogli la barba. Zazzera biondastra e incolta, volto magro, zigomi sporgenti, malinconici occhi turchini e una voce appassionata, impetuoso trascinatore di piazza. Così lo ricordava Pietro Nenni: «Una selva di capelli spettinati, uno scoppio di parole spesso senza capo né coda. Nessun tentativo di convincere, ma lo sforzo di piacere. Un’innegabile potenza di seduzione. E in tutto questo, un soffio di passione…».
    Sposato in chiesa, tre figli e varie storie d’amore alle spalle, Bombacci si schierò con Gramsci dalla parte di D’Annunzio a Fiume con la Carta del Carnaro. Quando nacque il Pcd’I, Mussolini dirà in un discorso alla Camera: «Li conosco i comunisti, sono figli miei». Bombacci fece uscire il folto gruppo parlamentare socialista dalla Camera prima che parlasse il Re nel giorno dell’insediamento, al grido di “Viva il socialismo”. Bombacci fu l’unico dei comunisti italiani in diretti rapporti con Lenin. Bombacci ricevette da lui denaro, oro e platino per la propaganda. A Mosca, Bombacci tornò coi vertici del partito nel quinto anniversario della rivoluzione bolscevica, il 9 novembre del 1922 che nel calendario russo coincideva, col nostro 28 ottobre: quell’anno ci fu la Marcia su Roma. Bombacci sostenne l’intesa tra l’Italia fascista e l’Urss comunista, anche in Parlamento. Poi suggerì ai comunisti d’infiltrarsi nei sindacati fascisti (strategia che Togliatti poi teorizzò come “entrismo”). Fu lui il primo comunista a entrare (indenne) nella Camera con Mussolini al potere.
    Continuò a far la spola con Mosca, soprattutto dopo che l’Italia fascista era stata il primo paese occidentale a riconoscere l’Urss e ad avviare rapporti economici. Bombacci tornò a Mosca il 1924 ai funerali di Lenin ed era ritenuto il n.1 in Italia. Fu espulso dal partito quattro anni dopo, per deviazionismo e indegnità, dopo aver dato vita a un’agenzia di export-import tra l’Italia e l’Urss; Bombacci fu il precursore delle coop rosse. Per tutta la vita navigò tra i debiti; Mussolini aiutò i suoi famigliari e gli trovò un’occupazione all’Istituto di cinematografia educativa, in una palazzina di Villa Torlonia, proprio dove risiedeva il Duce. E gli finanziò un giornale fasciocomunista degli anni trenta, “La Verità”, che evocava la “Pravda” a cui Bombacci aveva collaborato. Odiato da Starace e dai fascisti, la “Verità” continuò a uscire fino al ’43. Dalle sue pagine teorizzò l’autarchia. Bombacci sognava d’unificare le rivoluzioni di Roma, Mosca e Berlino; ma con la rottura del patto Molotov-Ribbentrop, il comunismo si alleò con le plutocrazie occidentali, e lui, anti-capitalista, si schierò col fascismo.
    Ai tempi di Salò, Bombacci aveva i capelli corti e la barba non era più incolta; una palpebra gli si era abbassata davanti all’occhio, vestiva con abiti gessati. Ma coltivava ancora il suo velleitario socialismo. A Salò il sindacalista Francesco Grossi lo ricorda «caloroso nell’esporre, gli brillavano gli occhi chiari ed acuti che rivelavano una totale pulizia interiore». Perorò la socializzazione nella prima bozza della Carta di Verona e sognò la nascita dell’Urse, l’unione delle repubbliche socialiste europee. Con Carlo Silvestri voleva riaprire il caso Matteotti per dimostrare che quel delitto fu messo di traverso tra Mussolini e il socialismo per evitare il riavvicinamento. Con Silvestri Bombacci promosse l’estremo tentativo di consegnare le sorti della Rsi al partito socialista di unità proletaria con un messaggio consegnato a Pertini e a Lombardi, che i due leader partigiani cestinarono. Bombacci continuò a predicare tra gli operai la rivoluzione sociale: nel suo ultimo discorso a Genova il 15 marzo del ’45 ritrovò la foga della sua gioventù; lo raccontò in una lettera entusiasta a Mussolini. Fucilato con Mussolini a Dongo, fu esposto col cartello “Supertraditore”. Cadde cogli occhi azzurri spalancati verso il cielo, come si addice a un sognatore ad occhi aperti.
    (Marcello Veneziani, “Cent’anni fa il primo comunista italiano – che morì fascista”, da “La Verità” dell’11 giugno 2019).

    Cent’anni fa apparve in Italia il primo leader comunista, amico personale di Lenin; morì poi da fascista, fucilato a Dongo e appeso per i piedi dai suoi compagni in Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Si chiamava Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Fu lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. Questa storia rimossa dai comunisti merita di essere raccontata. Il 1°maggio di cent’anni fa era nato a Torino “Ordine Nuovo”, fondato da Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti. A quel tempo, disse poi Tasca (che, esule dal Pci, finì a Vichy con Pétain): «Eravamo tutti gentiliani». Sull’onda della rivoluzione bolscevica nel giugno di cent’anni fa “Ordine Nuovo” propose i soviet in Italia. Quel progetto li ricongiunse a Bombacci e insieme poi fondarono a Livorno il Partito Comunista. «Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo»: così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata Bombacci.

  • Fassina: sinistra neoliberista, teme i minibot e tifa spread

    Scritto il 21/6/19 • nella Categoria: idee • (6)

    «Minibot? C’è stata una strumentalizzazione inaccettabile sul fatto che siano la premessa per uscire dall’euro. E’ un racconto sbagliato che fa il gioco della Lega e di chi vuole lo sfascio. E poi ci sono larga parte della classe dirigente e parte dell’opposizione che sono tornate a fare il tifo per lo spread, perché quello che non sono riusciti a fare a livello elettorale, cioè far cadere il governo, vogliono farlo attraverso i mercati». Sono le parole pronunciate ai microfoni de “L’Italia s’è desta”, su “Radio Cusano Campus”, da Stefano Fassina, deputato di “Liberi e Uguali” e consigliere comunale di Roma. L’ex viceministro dell’economia del governo Letta attacca anche la sinistra: «Chi dice certe cose o è in malafede o è inconsapevole. Si alimenta un clima molto negativo, così. C’è timore, strumentalità e subalternità culturale da parte della sinistra, perché, ahimè e non solo in Italia, larga parte della sinistra rimane prigioniera di un pensiero unico neoliberista che la porta a contrastare qualunque ipotesi, anche sensata, di apertura di qualche breccia rispetto a un quadro asfissiante». E spiega: «Il minibot è un titolo di Stato definito “mini” perché, a differenza del valore ordinario dei buoni ordinari del Tesoro, è di taglio più piccolo».
    «Attenzione alle strumentalizzazioni, però. L’obiettivo della mozione in Parlamento riguardava il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese, che notoriamente hanno dei ritardi cronici, molto spesso causa della morte delle stesse piccole imprese. Non è una moneta parallela, è un titolo di Stato – continua Fassina – che su base volontaria può essere utilizzato come metodo di pagamento di un debito commerciale che è già stato fatto. Visco ha dichiarato la sua contrarietà ai miniboti definendoli sempre “debito”? Certo che sono debito, ma è un debito che è stato già fatto, non è un ulteriore debito. Il debito commerciale esiste già e prima o poi la pubblica amministrazione lo deve pagare, solo che viene scaricato sulle imprese. Coi minibot invece il debito, che è dello Stato, viene riconosciuto allo Stato. E, ripeto, resta un’opzione su base volontaria».
    Fassina puntualizza: «Si tratta di una mozione che dà delle indicazioni al governo, non di una norma di legge che è stata approvata. Se, rispetto a una proposta molto circoscritta, che non ha assolutamente l’obiettivo di portare l’Italia fuori dall’euro, i principali quotidiani italiani gridano al fatto che si sta uscendo dall’euro, è evidente che tutto questo non aiuta il paese. La classe dirigente “consapevole”, oltre a criticare le risse, le incapacità e le favole del governo gialloverde, dovrebbe fare un discorso di verità che ponga a Bruxelles e a Berlino nodi strutturali – conclude – cioè questioni di fondo, che andrebbero affrontati da chiunque governi. E invece prevale un conformismo, anche culturale, e una strumentalità politica che, alla fine, fanno male anche a coloro che le utilizzano, perché, dopo questo governo, chi sarà all’esecutivo si troverà di fronte agli stessi vincoli e agli stessi nodi che continueranno a soffocare il paese».
    (Gisella Ruccia, “Minibot, Fassina: passo per uscita euro? Strumentalizzazione inaccettabile, sinistra subalterna a neoliberismo”, dal “Fatto Quotidiano” del 3 giugno 2019).

    «Minibot? C’è stata una strumentalizzazione inaccettabile sul fatto che siano la premessa per uscire dall’euro. E’ un racconto sbagliato che fa il gioco della Lega e di chi vuole lo sfascio. E poi ci sono larga parte della classe dirigente e parte dell’opposizione che sono tornate a fare il tifo per lo spread, perché quello che non sono riusciti a fare a livello elettorale, cioè far cadere il governo, vogliono farlo attraverso i mercati». Sono le parole pronunciate ai microfoni de “L’Italia s’è desta”, su “Radio Cusano Campus”, da Stefano Fassina, deputato di “Liberi e Uguali” e consigliere comunale di Roma. L’ex viceministro dell’economia del governo Letta attacca anche la sinistra: «Chi dice certe cose o è in malafede o è inconsapevole. Si alimenta un clima molto negativo, così. C’è timore, strumentalità e subalternità culturale da parte della sinistra, perché, ahimè e non solo in Italia, larga parte della sinistra rimane prigioniera di un pensiero unico neoliberista che la porta a contrastare qualunque ipotesi, anche sensata, di apertura di qualche breccia rispetto a un quadro asfissiante». E spiega: «Il minibot è un titolo di Stato definito “mini” perché, a differenza del valore ordinario dei buoni ordinari del Tesoro, è di taglio più piccolo».

  • Cucù, i minibot-vudù: così la Germania disinforma i tedeschi

    Scritto il 10/6/19 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    Ai suoi lettori tedeschi, il giornalista Daniel Eckert non racconta la verità. Il suo articolo appena pubblicato su “Die Wielt” non è che l’ultimo esempio di come l’opinione pubblica europea venga regolarmente disinformata, da cronisti che sono a loro volta disinformati oppure in malafede. «Il governo italiano gioca con il fuoco», avverte Eckert: «I politici della Lega di Matteo Salvini continuano a mettere sul tavolo l’idea di una moneta parallela». E spiega: «I minibot, ora resi possibili dal Parlamento, sono un primo passo in questa direzione». Aggiunge: «Portano un nome che suona in qualche modo carino: i minibot. Ma una volta diffusi, i loro effetti potrebbero non essere carini. Perché i minibot sono uno strumento finanziario con il quale il governo populista d’Italia potrebbe scardinare l’Eurozona». Secondo l’economista keynesiano Nino Galloni, è esattamente il contrario: qualsiasi forma di moneta parallela, compresi gli eventuali minibot, serve all’Italia proprio per tentare di restarci, nell’euro. Quella che Eckert evita di porsi è la domanda fondamentale: perché. Ovvero: perché l’Italia propone i minibot? La risposta, implicita, arriva alla fine dell’articolo (tradotto da “Voci dall’Estero”). E cioè: l’Italia non ha guadagnato nulla dall’Eurozona, anzi. Ma di nuovo: perché?
    Qui però si ferma il giornalismo, quello di Eckert e di tanti colleghi, anche italiani. Con un’aggravante: neppure stavolta “Die Welt” spiega ai connazionali che la Germania se la gode, in Eurozona, solo grazie a privilegi esclusivi: non rispetta le condizioni-capestro che invece impone agli altri. E’ lo stesso Galloni a riassumere il senso della “vacanza europea” della Germania. Primo: le piccole banche tedesche – solo loro – si permettono il lusso di non rispettare i vincoli del Trattato di Basilea. E quindi continuano di fatto a emettere credito (quindi moneta-debito) verso l’economia reale. Secondo: il governo di Berlino non include nel bilancio la colossale spesa previdenziale: il costo delle pensioni non pesa sul debito nominale dello Stato. Terzo: nel calcolo del debito pubblico non entra neppure l’ingentissima spesa pubblica dei Lander, le Regioni. Se aggiungessimo queste voci – ha ricordato sul “Giornale” un imprenditore italiano come Fabio Zoffi, da anni attivo a Monaco di Baviera – il debito pubblico reale della Germania risulterebbe il 280% del Pil, cioè più del doppio del tanto vituperato debito italiano, per il quale il Belpaese viene sistematicamente messo in croce dai signori di Bruxelles.
    Se Daniel Eckert chiarisse tutto questo, probabilmente i lettori di “Die Welt” capirebbero perché l’Italia – in affanno, per disperata carenza di liquidità – tenta di giocare anche la carta dei minibot. «Sbaglia, chi pensa che siano l’anticamera dell’uscita dall’euro», sostiene su “ByoBlu” un parlamentare come Pino Cabras, in quota ai 5 Stelle: le forme di moneta parallela servono proprio a rimanere aggrappati alla moneta unica. Acrobazie italiane? Certo, perché l’Italia non gode dei privilegi della Germania e neppure di quelli della Francia, ricorda ancora Galloni, citando il franco Cfa che Parigi impone a 14 ex colonie africane. «Quella è valuta a pieno titolo, perché circola in più paesi, mentre i minibot non avrebbero valore fuori dall’Italia». Mario Draghi teme che possano aggravare il debito pubblico? Galloni lo smentisce anche su questo: «Tecnicamente, sarebbero solo “titoli di pagamento”, a valere su debiti già maturati e contabilizzati dalla pubblica amministrazione». Se poi lo Stato li accettasse come pagamento delle tasse, potrebbero anche essere scambiati come moneta: «Ma sarebbero moneta parallela solo nazionale, senza corso legale fuori dall’Italia, e in più accettabile – come mezzo di pagamento – solo su base fiduciaria, cioè con la possibilità di non accettarla».
    In altre parole, riassume Galloni: «I minibot sono perfettamente legali, in quanto non violano nessuna delle condizioni richiamate da Draghi: sarebbero illegali se corrispondessero all’emissione di euro o se costituissero uno stock aggiuntivo di debito pubblico, e invece non sono né una cosa né l’altra». La rabbia di Draghi, aggiunge Galloni, deriva semmai dalla piena consapevolezza di non poter intervenire sul vero problema, cioè la distribuzione della liquidità. Infatti, la Bce si occupa solo dell’erogazione complessiva della massa monetaria: «Gli euro emessi da Francoforte finiscono largamente alla finanza anziché all’economia reale, settore di cui ormai fanno parte anche gli Stati, ridotti a elemosinare credito alle banche». Con due eccezioni, appunto: la Germania (cui è permesso di non rispettare le regole Ue) e la Francia, che a sua volta “respira” grazie al franco Cfa: «Si dirà che il Cfa non viola il Trattato di Lisbona perché quello delle ex colonie francesi è un circuito chiuso. Ma se è legale il franco Cfa – chiosa Galloni – allora sono “legalissimi” i minibot italiani, concepiti per tamponare la disperata “fame” di liquidità a cui la Bce non riesce a rimediare. E questo, Draghi lo sa benissimo».
    Non lo sanno, di sicuro, i lettori tedeschi “informati” da Eckert, allarmatissimo all’idea che Roma vari minibot di piccolo taglio (100 euro) come pagamento di aziende che attendono di essere saldate dallo Stato, e addirittura impiegabili anche per pagare le tasse (e quindi scambiabili, da un contribuente all’altro, come pagamento alternativo agli euro). «Da quel momento in poi, è solo un piccolo passo verso una valuta parallela», scrive Eckert, che evidentemente ignora la differenza fondamentale tra “valuta” (convertibile in oro, in euro o in divise estere) e “moneta parallela” (non convertibile, né spendibile fuori dal paese). Mai e poi mai, i minibot potrebbero essere “valuta parallela”. Eppure, scrive sempre Eckert, è esattamente «quello che potrebbe mirare a fare» quel mascalzone di Matteo Salvini, «leader della Lega di destra». La prova? «Il portavoce economico della Lega, Claudio Borghi, è un acceso sostenitore dei piccoli mostri fiscali». Fantastico: la Germania bara su tutto, dopo aver raso al suolo la Grecia e sabotato l’Italia, ma a produrre i “mostri” è il terribile Claudio Borghi, universalmente noto per essere di gran lunga il più mite e prudente tra gli economisti al lavoro per tentare di tamponare la voragine-Italia creata da questa Europa a trazione franco-tedesca, sfrontatamente autocelebratasi nell’inaudito Trattato di Aquisgrana (che fa a pezzi l’idea stessa di Unione Europea).
    «Come per gli altri paesi dell’unione monetaria, vale anche per l’Italia: la moneta a corso legale è solamente l’euro», strilla Daniel Eckert, sfoderando accenti criminologici contro gli incorreggibili italiani. Ma sbaglia, anche qui: in base all’articolo 128 del Trattato di Lisbona, l’euro è l’unica moneta a corso legale a livello di valuta (valida anche per l’estero), mentre lo stesso trattato non esclude affatto la creazione di monete parallele, anch’esse “a corso legale”, sebbene solo entro il territorio nazionale. «Se i minibot si diffondessero in tutta l’economia italiana e venissero passati di società in società e di cittadino in cittadino, lo Stato italiano potrebbe farsi il proprio denaro», aggiunge l’ineffabile Eckert, senza domandarsi – di nuovo – perché mai gli italiani dovrebbero ricorrere a questa mossa, che crea loro un sacco di guai diplomatici. «Nel corso del tempo – aggiunge – i nuovi coupon sarebbero negoziati sul mercato e quotati ad un prezzo (presumibilmente inferiore) rispetto all’euro». Per “Die Welt”, «sarebbe l’inizio della strisciante uscita dell’Italia dall’euro». Si possono scrivere stupidaggini di questo tipo, nel 2019, su un grande giornale europeo? Eccome. E succede in quasi tutti i giornali europei, grandi e piccini.
    Sempre in chiave criminologica, il “detective” Eckert consulta un super-tecnocrate come Thomas Mayer, capo-economista del “Flossbach von Storch Research Institute”. Con i minibot, sostiene Mayer, si può almeno «minacciare di lasciare gradualmente l’euro, se si è costretti dall’Ue a ridurre il deficit». Un altro “guru” interpellato da Eckert, il banchiere Erik Nielsen (capo-economista di Unicredit a Londra), chiarisce che i minibot «non sono l’inizio di una nuova valuta». Ma Eckert non si dà per vinto: «La confusa politica di comunicazione di Roma – scrive – ha contribuito a confondere l’idea potenzialmente significativa di cartolarizzare il debito pubblico, con la dottrina “voodoo” di una valuta parallela». Dopo il thriller, ecco l’horror: i lettori di “Die Welt” apprendono da Eckert che l’abominevole governo italiano pratica pure la stregoneria del voodoo. Aggiunge il giornalista tedesco, come monito: in Grecia, Yanis Varoufakis aveva seguito una strategia simile durante il suo breve mandato come ministro delle finanze. «Alla fine, tuttavia, non è riuscito a prevalere contro la Troika». E certo: Ue, Bce e Fmi hanno disintegrato Atene, riducendo la Grecia a paese del terzo mondo, coi bambini uccisi dall’assenza di medicine negli ospedali. Gran bel risultato.
    «La Commissione e altri paesi preferirebbero non minacciare una uscita dell’Italia», dice Thomas Mayer, secondo cui «Salvini ha carte migliori oggi, rispetto a Varoufakis nel 2015», riferendosi all’importanza dell’economia italiana rispetto a quella ellenica. L’Italia, riconosce infine lo stesso Eckert, è la terza economia più grande nell’Eurozona dopo Germania e Francia, ma «a differenza di altre economie», il Belpaese, pure membro fondatore della Comunità Europea del 1957, «non ha apparentemente beneficiato dell’appartenenza all’unione monetaria». Evviva. «Soprattutto dopo la crisi finanziaria – aggiunge Eckert – la debolezza degli europei del Sud è divenuta sempre più evidente: l’indice della Borsa di Milano oggi è allo stesso livello di dieci anni fa, e il Dax è più che raddoppiato nello stesso periodo. Mentre altre importanti economie europee possono indebitarsi a tassi d’interesse pari a zero o appena marginali – continua Eckert, sempre senza mai chiedersi il perché – i partecipanti al mercato dei capitali italiani richiedono il 2,6% per i titoli di Stato decennali». E la Grecia ridotta alla fame, che il giornalista definisce «agitata», ora «paga solo leggermente di più, il 2,8%».
    “Die Welt” ricorda che il debito italiano «è uno dei più alti del mondo», pari a oltre il 130% del Pil. «Secondo le normative dell’Ue, è consentito un massimo del 60%». Bravo Eckert: evita di ricordare che il debito nominale della Germania è attorno all’80% (quindi oltre la soglia Ue). Ma soprattutto: non sa, o finge di non sapere, che il debito pubblico tedesco – quello vero – è oltre il triplo della cifra dichiarata. Su queste basi omertose e omissive, reticenti e quindi disastrosamente fuorvianti, il “professor” Eckert – senza curarsi di informare davvero i lettori tedeschi – si permette di aggiungere che, visto il boom elettorale delle europee, in cui «i populisti di destra hanno raddoppiato la loro percentuale di voti», arrivando a superare il 34%, ora «l’uomo politico della Lega potrebbe impostare le eventuali elezioni anticipate come un voto sull’indipendenza del paese da Bruxelles». Anche qui: per quale motivo, tutto questo dovrebbe accadere? Ma niente da fare: alle domande, Eckert preferisce le risposte: «Da sola, la minaccia di una valuta parallela potrebbe destabilizzare l’Eurozona». Ah, questi italiani: pazzi criminali. «Con un debito totale di 2,3 trilioni di euro, Roma ha un enorme potenziale di minaccia». Brrr, che paura…

    Ai suoi lettori tedeschi, il giornalista Daniel Eckert non racconta la verità. Il suo articolo appena pubblicato su “Die Wielt” non è che l’ultimo esempio di come l’opinione pubblica europea venga regolarmente disinformata, da cronisti che sono a loro volta disinformati oppure in malafede. «Il governo italiano gioca con il fuoco», avverte Eckert: «I politici della Lega di Matteo Salvini continuano a mettere sul tavolo l’idea di una moneta parallela». E spiega: «I minibot, ora resi possibili dal Parlamento, sono un primo passo in questa direzione». Aggiunge: «Portano un nome che suona in qualche modo carino: i minibot. Ma una volta diffusi, i loro effetti potrebbero non essere carini. Perché i minibot sono uno strumento finanziario con il quale il governo populista d’Italia potrebbe scardinare l’Eurozona». Secondo l’economista keynesiano Nino Galloni, è esattamente il contrario: qualsiasi forma di moneta parallela, compresi gli eventuali minibot, serve all’Italia proprio per tentare di restarci, nell’euro. Quella che Eckert evita di porsi è la domanda fondamentale: perché. Ovvero: perché l’Italia propone i minibot? La risposta, implicita, arriva alla fine dell’articolo (tradotto da “Voci dall’Estero”). E cioè: l’Italia non ha guadagnato nulla dall’Eurozona, anzi. Ma di nuovo: perché?

  • Si scrive Brexit, ma si legge Commonwealth. E addio Merkel

    Scritto il 05/4/19 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Con la Brexit c’è una parte d’Inghilterra che si vuole riposizionare geopoliticamente, privilegiando i rapporti commerciali con l’area del Pacifico, l’India, l’Australia e il Canada, e al tempo stesso vuole liberarsi dei lacci e lacciuoli dell’Unione Europea. E’ un processo non facile e lungo, come stiamo vedendo, scrive Massimo Bordin su “Micidial”: «L’economia è un fatto commerciale e monetario, ma nel caso inglese quello monetario è secondario, avendo Londra sempre conservato la sterlina come moneta nazionale». Detto diversamente, l’Inghilterra ha voluto (e sta cercando di) uscire dall’Unione Europea «perché Bruxelles lega i paesi membri attraverso un sistema doganale che avvantaggia alcuni paesi a scapito di tutti gli altri, sfasandone le bilance commerciali». In Italia, ad esempio, «molti media da anni difendono il mercato comune, sottolineando i tanti vantaggi che la fine delle barriere doganali avrebbe portato al paese». Per Bordin, questa visione «è miope e in malafede», perchè proprio quando negli anni ‘90 l’Unione si stava burocratizzando al suo interno, «il resto del mondo procedeva a instaurare nuovi rapporti commerciali, rendendo obsoleto il modello tedesco».
    Quello di Berlino, aggiunge Bordin, è un modello che porta vantaggi solo alla Germania, all’Austria e ai paesi del Benelux, penalizzando il resto d’Europa. «L’Inghilterra se n’è accorta per prima e ha pensato bene di andarsene, anche e soprattutto perchè ha fondato nei secoli scorsi il Commonwealth». Per chi non lo sapesse, ci sono 53 paesi che oggi appartengono allo storico network a guida britannica. «Tutti insieme fanno 2,2 miliardi di popolazione, sparsi in tutti i continenti del mondo, e in 16 di questi 53 paesi la Regina d’Inghilterra è anche il capo di Stato». Il termine Commonwealth può sembrare curioso, ma non è altro che un concetto della lingua inglese coniato da Oliver Cromwell durante la prima Rivoluzione Inglese. «La frase originale da cui esso deriva è “common wealth” o “the common weal”, e viene dal vecchio significato di “wealth”, che è “benessere”». Il termine, aggiunge Bordin, è stato poi utilizzato per identificare il Commonwealth delle Nazioni, un’organizzazione che unisce Stati che in passato erano parte dell’Impero Britannico (ammesso che abbia mai cessato di esistere).
    Sotto un profilo meramente logico, conclude Bordin, per gli inglesi è più intelligente commerciare col resto del mondo alle loro regole, piuttosto che con mezzo miliardo di europei con le regole tedesche. «Il motivo dei mancati accordi subiti dalla May sta tutto in questo fatto». Al contrario, i media e i documenti ufficiali «puntano a spiegarci la Brexit e le sue difficoltà sulla scorta di confini irlandesi, proroghe, divisioni parlamentari». Ma è tutta aria fritta, sostiene Bordin, secondo cui le vere difficoltà della Brexit «stanno nella posta in gioco, che è il commercio internazionale e le sue regole». O meglio: «L’impossibilità per gli inglesi di negoziare tariffe agevolate con i paesi extraeuropei». Ecco perchè il cosiddetto “no deal” «dovrebbe spaventare molto più Berlino che Londra». Per l’eventuale uscita senza accordo sono tutti in fibrillazione, ma secondo Bordin nel Regno Unito non accadrà proprio nulla. «E sarà persino divertente vedere come, dopo l’uscita “hard” della perfida Albione, tutti faranno finta di non aver mai evocato l’apocalisse».

    Con la Brexit c’è una parte d’Inghilterra che si vuole riposizionare geopoliticamente, privilegiando i rapporti commerciali con l’area del Pacifico, l’India, l’Australia e il Canada, e al tempo stesso vuole liberarsi dei lacci e lacciuoli dell’Unione Europea. E’ un processo non facile e lungo, come stiamo vedendo, scrive Massimo Bordin su “Micidial”: «L’economia è un fatto commerciale e monetario, ma nel caso inglese quello monetario è secondario, avendo Londra sempre conservato la sterlina come moneta nazionale». Detto diversamente, l’Inghilterra ha voluto (e sta cercando di) uscire dall’Unione Europea «perché Bruxelles lega i paesi membri attraverso un sistema doganale che avvantaggia alcuni paesi a scapito di tutti gli altri, sfasandone le bilance commerciali». In Italia, ad esempio, «molti media da anni difendono il mercato comune, sottolineando i tanti vantaggi che la fine delle barriere doganali avrebbe portato al paese». Per Bordin, questa visione «è miope e in malafede», perché proprio quando negli anni ‘90 l’Unione si stava burocratizzando al suo interno, «il resto del mondo procedeva a instaurare nuovi rapporti commerciali, rendendo obsoleto il modello tedesco».

  • Magaldi: gialloverdi al 70% se osano sfidare il Deep State

    Scritto il 03/4/19 • nella Categoria: idee • (19)

    Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).
    Non se ne esce mai, dal trappolone europeo? Certo, e non se ne uscirà fino a quando il cosiddetto Deep State sarà saldamente radicato in tutti i gangli vitali dello Stato. Burocrati e tecnocrati, servizi segreti pubblici e privati, banca centrale, uffici ministeriali, Quirinale. Ne ha parlato apertamente un parlamentare pentastellato, Pino Cabras, il 30 marzo a Londra. Eletto alla Camera in Sardegna lo scorso anno, Cabras – storico collaboratore di Giulietto Chiesa – ha partecipato al convegno “Un New Deal per l’Italia e per l’Europa”, promosso dal Movimento Roosevelt, soggetto meta-partitico fondato da Magaldi per rigenerare in senso democratico la politica italiana, stimolando i partiti a fare di più per recuperare la perduta sovranità popolare. Decisamente fuori programma l’esplicita ammissione di Cabras: a unire Lega e 5 Stelle, alleati ma sostanzialmente divisi su tutto, è l’impegno a resistere insieme alle “mostruose” pressioni del Deep State, che si è attivato per frenare il cambiamento promesso: dare più soldi agli italiani, ampliando il welfare e tagliando le tasse. Ed è intervenuto sin dal primo giorno, lo “Stato profondo”, inserendo le sue pedine nell’esecutivo Conte. Postilla: senza i “controllori di volo” (esempio, Tria al posto di Savona), il governo non sarebbe mai nato.
    Di Maio e Salvini hanno accettato la sfida: meglio di niente, si sono detti, perché solo il governo gialloverde (benché azzoppato in partenza) avrebbe potuto almeno tentare di cambiare qualcosa, liberando l’Italia dall’incubo dell’austerity. Ce l’ha fatta? No, purtroppo. Si è visto bocciare persino la timida richiesta di portare il deficit al 2,4%, cioè ben al di sotto del famigerato tetto del 3% imposto da Maastricht (e che la Francia di Macron violerà, con l’alibi della protesta dei Gilet Gialli). Proprio i Gilet Jaunes, sostiene Magaldi, erano un regalo della massoneria progressista internazionale. Il piano: destabilizzare la Francia, sentinella dell’euro-rigore, proprio mentre l’Italia friggeva, per quel misero 2,4%, sulla graticola della Commissione Europea. Ma il governo Conte non ne ha saputo approfittare: raro caso di insipienza politica e di mancanza di coraggio, di assenza di visione. Ora i pericoli sono dietro l’angolo: senza la necessaria benzina finanziaria per mantenere le promesse, i 5 Stelle sono già in picchiata nei sondaggi. Regge la Lega, ma solo per ora, grazie alla muscolarità (verbale) di Salvini. Però il tempo vola: in soli due anni, Matteo Renzi è passato dal 40% all’estinzione politica.
    Si spera nelle europee, per erodere il potere dello “Stato profondo” neoliberista che utilizza come clava l’asse franco-tedesco? Pie illusioni: secondo Magaldi non cambierà proprio niente, fino a quando la bandiera della protesta sarà agitata dai sedicenti sovranisti, velleitari demagoghi delle piccole patrie. Per chi non se ne fosse accorto, impera la globalizzazione: tutto è fatalmente interconnesso. Nessun paese, da solo, può sperare di uscire indenne da una fiera diserzione. Parla per tutti la Grecia, che disse “no” all’euro-tagliola. Risultato: Tsipras fu intimidito e costretto a piegarsi, tradendo la volontà del popolo. Alla Grecia arrivarono aiuti finanziari, ma solo per soccorrere le banche tedesche e francesi esposte con Atene. Il paese è stato sventrato, svenduto e distrutto, riducendo i greci in povertà. E nessuno Stato europeo è intervenuto in suo soccorso. In Francia, era stato François Hollande a candidarsi come anti-Merkel, promettendo di allentare il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. Esito inglorioso: blandizie e minacce, compresi gli attentati terroristici targati Isis. In pochi mesi, Hollande ha ceduto su tutta la linea, rassegnandosi al ruolo di docile esecutore dell’ordoliberismo Ue.
    Anni fa, proprio Magaldi sosteneva che solo l’Italia avrebbe potuto accendere la miccia del cambiamento. «L’Italia traccia le strade», diceva Rudolf Steiner, attribuendo al Belpaese un ruolo storico di battistrada. Una specie di destino: prima il “format” dell’Impero Romano, poi il Rinascimento e la democrazia comunale, le prime università, le prime banche. Italia caput mundi, nel bene e nel male: in fondo, Hitler si considerava allievo del maestro Mussolini. Proprio l’Italia primeggiò ancora una volta nel dopoguerra: fece il record mondiale di crescita, con il boom economico, anche se non tutti applaudivano. L’uomo-simbolo di quegli anni ruggenti, Enrico Mattei, fu disintegrato a bordo del suo aereo. Oggi, dopo mezzo secolo, l’Europa è ancora una volta alle prese con il “problema” Italia, grazie a un governo teoricamente non-allineato a Bruxelles. Esecutivo capace di firmare un memorandum d’intesa commerciale con la Cina, che irrita pericolosamente gli Usa e manda su tutte le furie Parigi e Berlino, ovvero i due maggiori nazionalismi anti-europeisti su cui si regge l’infame Disunione Europea, quella che ha lasciato morire impunemente i bambini greci, negli ospedali rimasti senza medicine.
    Non bastano più, dice Magaldi, le sole analisi degli economisti democratici che in questi anni hanno smascherato tutte le bugie del neoliberismo. La prima: tagliare il debito pubblico risana l’economia. Falso: lo dimostra la scienza economica, da Keynes in poi, e lo confermano Premi Nobel come Krugman e Stiglitz. Ovvero: il deficit strategico – a patto che sia massiccio, e investito con oculatezza – può valere anche il 400%, in termini di Pil. Tradotto: oggi spendo dieci, e domani incasserò quattro volte tanto (lavoro, salari, consumi, e infine anche tasse). Beninteso: lo sanno tutti, a cominciare da quelli che fingono di non saperlo. Come Mario Draghi, che fu allievo del maggior economista keynesiano europeo – italiano, tanto per cambiare: il professor Federico Caffè. Tesi di laurea del giovane Draghi: l’insostenibilità di una moneta unica europea. Farebbe ridere, se non ci fosse da piangere. Specie se si calcola che Draghi fu accolto a bordo del Britannia, all’epoca della grande spartizione della Penisola, alla vigilia delle privatizzazioni degli anni ‘90 che hanno sabotato la nostra florida economia. Lo stesso Draghi ha lasciato il segno anche in Grecia: prima come manager della Goldman Sachs, la banca-killer che gonfiava i bilanci di Atene, e poi – a disastro compiuto – come inflessibile censore della Bce, in seno alla spietata Troika europea.
    Ancora lui, Mario Draghi, è l’uomo a cui risponde, di fatto, il governatore di Bankitalia. E proprio da Ignazio Visco, il presidente Mattarella – con una mossa senza precedenti – spedì l’allora premier incaricato, Conte, a prendere appunti su come non attuarlo affatto, il cambiamento appena promesso agli elettori. Pino Cabras lo chiama “Stato profondo”, e difende la strategia di Di Maio e Salvini: accettare la logica di una guerra di logoramento, dice Cabras, è l’unica soluzione praticabile. Non la pensa così Gioele Magaldi: a suo parere, è una tattica perdente. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, ridisegna la mappa del Deep State, presentandolo come interamente massonico. Un potere a due facce: quella progressista (da Roosevelt ai Kennedy, fino allo svedese Olof Palme) spinse avanti la modernità dei diritti sociali in senso democratico, nei decenni del grande benessere diffuso. L’altra faccia, oligarchica – Merkel e Macron, Prodi e D’Alema, lo stesso Draghi – ha chiuso i rubinetti della finanza pubblica, inaugurando la globalizzazione del rigore e quindi l’impoverimento generale della popolazione occidentale, fino alla quasi-sparizione della classe media (che infatti oggi in Italia vota Salvini e Di Maio).
    Contro questo regime, insiste Magaldi, non valgono più né le pregevoli rivelazioni dei tanti economisti onesti, né i recenti tatticismi dei gialloverdi. Serve una rivoluzione, a viso aperto. Un paese che dica: “Adesso sforiamo il tetto di Maastricht. E se non vi va bene, sospendiamo la vigenza dei trattati europei”. Addirittura? Certo, altra via non esiste. Se ci si piega al racket, l’estorsione continua all’infinito. Anche in politica: la molla su cui fa leva il prevaricatore è sempre la stessa, la paura. Se si smette di avere paura, tutto il castello crolla. Perché quel ricatto è basato su un sortilegio psicologico, come quello che rende misteriosamente tenebroso l’invisibile Mago di Oz, in apparenza invincibile: in realtà è soltanto una bolla, che può dissolversi in un attimo. E’ già successo, nella storia. Sotto la sferza della Grande Depressione, la destra economica consigliò a Roosevelt di tagliare il debito – pena, l’apocalisse. Ma il presidente, ispirato da Keynes, fece l’esatto contrario: espansione smisurata del deficit. Risultato: l’America, che era alle prese con l’incubo quotidiano della fame, divenne una superpotenza. Non è che siano cambiate, le regole: il sistema è sempre quello capitalista. Non solo: è diventato universale, incorporando anche Russia e Cina (che infatti, così come gli Usa e il Giappone, non hanno nessuna paura di fare super-deficit, sapendo che è il solo modo per alimentare il mercato interno dei consumi, e quindi l’occupazione).
    Il Mago di Oz ora si chiama Unione Europea, si chiama Eurozona. Una vergogna mondiale, senza più democrazia: comanda la Bce, insieme alla Commissione formata da tecnocrati non-eletti. Non c’è una vera Costituzione, e il Parlamento Europeo non può eleggere il governo europeo. Siamo precipitati nella barbarie di un neo-feudalesimo, una specie di Sacro Romano Impero. D’accordo, ma per volere di chi? Magaldi non ha esitazioni nell’indicare i responsabili: massoni reazionari. Militano nelle Ur-Lodges neoaristocratiche. Sono strutture segrete e trasversali, spregiudicate e apolidi, senz’altra patria che il denaro. Hanno deformato la stessa geopolitica: quando parliamo di Russia, Europa, Cina e Stati Uniti, dovremmo invece saper distinguere tra élite oligarchiche ed élite a vocazione democratica. Esistono anche quelle, infatti: sono di segno progressista. Negli ultimi decenni sono state costrette a cedere il passo alla plutocrazia neoliberista, ma adesso stanno rialzando la testa. Lo stesso Magaldi ammette di agire d’intelligenza con alcune di queste strutture, come la superloggia Thomas Paine. Problema pratico, innanzitutto: se è stata la supermassoneria a creare il problema, non può che essere la stessa supermassoneria (lato B, progressista) a contribuire a risolverlo.
    Magaldi non demonizza le Ur-Lodges, non ne fa una speculazione complottistica. Se la massoneria sa di aver fondato la modernità – Stato di diritto, laicità delle leggi, suffragio universale democratico – è umano che pensi (sbagliando) di poter fare quello che vuole, della sua “creatura”. La distorsione è cominciata negli anni ‘70, con il saggio sulla “Crisi della democrazia” commissionato dalla Trilaterale, potente entità paramassonica. La tesi: troppa democrazia fa male. Dove siamo arrivati, oggi? Lo si è visto: un certo signor Pierre Moscovici, non votato da nessuno, ha il potere di bocciare il bilancio del governo italiano regolarmente eletto. Lo si può subire in silenzio, un affronto simile? Nossignore: la verità va gridata. Lo stesso Moscovici sa benissimo che un deficit robusto farebbe volare l’economia. Una volta, lo sapeva anche la sinistra (che oggi tace). Lega e 5 Stelle? Si limitano a brontolare, ma poi ingoiano il rospo. Peggio: sparano a vanvera contro la massoneria, fingendo di non sapere che sono proprio i supermassoni oligarchici a ostacolare il loro governo. Cosa aspettano a vuotare il sacco?
    Magaldi è esplicito: le Ur-Lodges progressiste sono pronte ad aiutarli, se smetteranno di essere ipocriti sulla massoneria, come se non sapessero che persino il governo gialloverde pullula di massoni occulti, non dichiarati. Sperano nelle europee, leghisti e grillini? Errore grave: nessuno verrà in aiuto dell’Italia, se non sarà il nostro paese – per primo – ad alzare la testa. Come? Nell’unico modo possibile: una rivoluzione gandhiana, basata sull’obiezione ideologica. Può svanire in attimo, la grande paura del Mago di Oz, se solo qualcuno avrà l’elementare coraggio democratico che oggi ancora manca, ai gialloverdi. Una rivoluzione potrebbe spazzarli via in un amen, i mammasantissima del peggior Deep State. Restano invece al loro posto, i boiardi dello “Stato profondo”, proprio perché a proteggerli – prima di ogni altra cosa – è proprio la nostra stessa paura. Per Magaldi, scontiamo anche un vuoto culturale: da riempire, per la precisione, ricorrendo al socialismo liberale teorizzato da Carlo Rosselli. Una corrente di pensiero illuminante ma rimasta in ombra, schiacciata dal fascismo e dallo stesso socialismo massimalista, prima ancora che dal comunismo. Poi venne l’atroce neoliberismo, nelle due versioni: quella sfrontata, della destra economica reaganiana, e quella – più ambigua nella forma ma identica della sostanza – del “terzismo” di Anthony Giddens adottato dall’ex-sinistra occidentale, da Blair fino a D’Alema, grandi protagonisti dell’attuale post-democrazia.
    Il succo non cambia: Stato minimo. Il privato ha sempre ragione. Nei fatti, il neoliberismo è un imbroglio: santifica l’impresa, ma a spese dello Stato. E quando scoppia Wall Street, è il bilancio pubblico a tenere in piedi le banche-canaglia. Turbo-globablizzazione mercantile, e addio diritti. Delocalizzazioni, privatizzazioni. Parola d’ordine, per i non privilegiati: arrangiarsi. Dogma assoluto: demolire l’impresa pubblica, che era il cemento armato del boom italiano. In Svezia, Olof Palme impegnò lo Stato a salvare le aziende traballanti, a due condizioni: management statale, e lavoratori coinvolti come azionisti (con tanto di dividendi, a fine anno). Fu ucciso a Stoccolma nel 1986, all’uscita di un cinema. Tuttora sconosciuto il killer, ma non il mandante: possiamo chiamarlo Deep State. Con Palme, questa Europa cialtrona non sarebbe mai potuta nascere. Al leader svedese, il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano il 3 maggio. Sul podio altri due giganti, lo stesso Rosselli e l’africano Thomas Sankara, anch’essi assassinati. Non difettavano di coraggio: sapevano di dover combattere, sfidando il potere ostile a viso aperto. E’ quello che dovrebbe fare anche l’Italia, ribadisce Magaldi. Sapendo che, da sole, le élite possono fare poco. Se però si sveglia il popolo, allora non c’è Deep State che tenga. E’ così che funzionano, le rivoluzioni che mandano avanti, da sempre, la storia dell’umanità.
    (Le riflessioni di Gioele Magaldi sono tratte dalla diretta web-streaming su YouTube “Gioele Magaldi Racconta” del 1° aprile 2019, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”).

    Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).

  • Magaldi: ipocriti e invidiosi, i nemici dell’accordo Italia-Cina

    Scritto il 26/3/19 • nella Categoria: idee • (9)

    Bei sepolcri imbiancati, i nemici dell’accordo Italia-Cina: di loro, par di capire, “il più pulito ha la rogna”. Francia e Germania friggono d’invidia: ma come possono rinfacciare a Roma il fatto di aver scavalcato Bruxelles, se Parigi e Berlino sono reduci dal Trattato di Aquisgrana, stipulato come se l’Unione Europea non esistesse neppure? Una discreta faccia tosta anche da parte dell’alleato americano: furono proprio gli Usa ad aprire alla Cina le porte del mercato globale, ricorda Gioele Magaldi in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti. Sempre in video-chat con il conduttore di “Border Nights”, lo stesso Gianfranco Carpeoro (che del Movimento Roosevelt è un dirigente) rincara la dose: «Ha fatto benissimo, il governo Conte, a fare l’accordo con la Cina: tutela i legittimi interessi dell’Italia. Gli Usa strepitano? Pazienza, capiranno: anche loro mirano all’interesse nazionale. Ci rinfacciano che stringiamo un’alleanza con un paese non democratico? Prima ci spieghino la loro alleanza con monarchie autoritarie come l’Arabia Saudita». Aggiunge Carpeoro: «Dopo l’accordo con la Cina, ora l’Italia passi oltre: faccia fronte comune con paesi come la Spagna e la Grecia. E’ ora di metter fine al domino abusivo nord-europeo, finora esercitato da nazioni come la Germania, la Francia e l’Olanda».
    La verità è che siamo attaccati in modo pretestuoso da politici invidiosi e smemorati, sintetizza Gioele Magaldi. Sono ipocriti, i bellimbusti come Macron che vorrebbero imporre proprio all’Italia una cabina di regina europea per la gestione del commercio con Pechino. Quanto ai rimbrotti degli Usa, irritati dal fatto che l’Italia stringa accordi con un paese non esattamente democratico, Magaldi ricorda che fu proprio il massimo potere statunitense – ben incarnato da una struttura come la Trilaterale, guidata dai vari Kissinger, Rockefeller e Brzezinski – ad accogliere la Cina nel Wto, senza pretendere da Pechino né una svolta democratica né la tutela dei diritti sindacali del lavoro, pur sapendo che in quel modo la Cina avrebbe potuto immettere sul mercato globale prodotti a bassissimo costo. Del resto, sostiene Magaldi, questa è la natura dell’attuale globalizzazione progettata dalla massoneria sovranazione di segno reazionario: un club opaco, che ha anteposto il business ai diritti umani e alla sovranità democratica. Nessuno, oggi, ha le carte in regola per criticare l’Italia: chi dice di pretendere democrazia da Pechino non gestisce affatto in modo democratico la stessa governance europea, preferendo il neoliberismo mercantile al libero mercato, e la post-democrazia alla sovranità effettiva delle istituzioni, completamente piegate all’ordoliberismo dell’élite finanziaria.
    Pur ribadendo la propria fede atlantista, Magaldi critica la stessa Nato, che in passato supportò in Grecia il regime dittatoriale dei colonnelli. La Cina, ribadisce Magaldi, non è certo un modello di democrazia. E l’aspetto peggiore del suo turbo-capitalismo, che pure ha fatto progredire rapidamente il paese garantendo un crescente benessere, sono i protagonisti del boom cinese: grandi magnati che hanno acquisito posizioni dominanti, in patria e all’estero, in quanto provenienti dalla ristretta oligarchia del partito comunista. Da qui a contestare l’Italia, però, ne corre: tra i grandi gestori mondiali del vero potere – conclude Magaldi – nessuno è estraneo alla vorticosa ascesa della Cina, con la quale l’Italia ha giustamente stretto il suo recente accordo. Secondo Magaldi, il nostro paese dovrebbe insistere proprio nell’interpretare il suo ruolo naturale di “ponte”: non solo verso Pechino ma anche verso la Russia, l’Africa e il Medio Oriente, impegnandosi a sviluppare relazioni che, accanto ai commerci, producano un’evoluzione democratica dei partner. Tutto questo, per arrivare infine a pretendere – come il Movimento Roosevelt chiederà nel suo convegno il 30 marzo a Londra – un “New Deal Rooseveltiano” per l’Europa, basato sul recupero del capitalismo sociale keynesiano: un forte investimento pubblico per sostenere l’economia e, al tempo stesso, la conquista di istituzioni comunitarie finalmente democratiche.

    Bei sepolcri imbiancati, i nemici dell’accordo Italia-Cina: di loro, par di capire, “il più pulito ha la rogna”. Francia e Germania friggono d’invidia: ma come possono rinfacciare a Roma il fatto di aver scavalcato Bruxelles, se Parigi e Berlino sono reduci dal Trattato di Aquisgrana, stipulato come se l’Unione Europea non esistesse neppure? Una discreta faccia tosta anche da parte dell’alleato americano: furono proprio gli Usa ad aprire alla Cina le porte del mercato globale, ricorda Gioele Magaldi in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti. Sempre in video-chat con il conduttore di “Border Nights”, lo stesso Gianfranco Carpeoro (che del Movimento Roosevelt è un dirigente) rincara la dose: «Ha fatto benissimo, il governo Conte, a fare l’accordo con la Cina: tutela i legittimi interessi dell’Italia. Gli Usa strepitano? Pazienza, capiranno: anche loro mirano all’interesse nazionale. Ci rinfacciano che stringiamo un’alleanza con un paese non democratico? Prima ci spieghino la loro alleanza con monarchie autoritarie come l’Arabia Saudita». Aggiunge Carpeoro: «Dopo l’accordo con la Cina, ora l’Italia passi oltre: faccia fronte comune con paesi come la Spagna e la Grecia. E’ ora di metter fine al domino abusivo nord-europeo, finora esercitato da nazioni come la Germania, la Francia e l’Olanda».

  • I tedeschi: l’euro, un affare solo per noi. Vittima: l’Italia

    Scritto il 02/3/19 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Mai come in questi tempi, l’euro è stato messo in discussione. I movimenti critici nei confronti della moneta unica e nel mondo in cui è stata gestita, sono cresciuti in maniera esponenziale. E anche se non tutti sono dichiaratamente a favore dell’uscita dall’euro, sono in molti a chiedere un cambio di passo. Così, ed è evidente, la moneta unica non funziona. E lo dimostrano ormai innumerevoli studi che hanno sancito più volte una critica definitiva nei confronti del sogno di molti difensori dell’Ue. L’euro può anche non essere stato un errore, come affermano i suoi difensori. Ma il fatto che sia un’emanazione e un’arma della politica economica della Germania è una realtà di fatto. Tanto che adesso sono numerosi i think tank e i centri studi che affermano che Berlino sia l’unica ad aver realmente guadagnato da questo sistema. Come riporta l’“Huffington Post”, il Cep di Friburgo (Centrum für Europäische Politik) ha pubblicato un report molto dettagliato su vincitori e vinti a vent’anni dalla sua istituzione della moneta. E quello che ne scaturisce, è che ci sono solo due paesi ad aver tratto profitto dalla moneta unica: Germania e Olanda. E se a dirlo è un centro studi tedesco, va da sé che non lo si può accusare di essere avverso alla Germania.
    I dati sono eloquenti. Tra il 1999 e il 2017, la Germania ha guadagnato circa 1.900 miliardi di euro, ovvero circa 23.000 euro per abitante. E a parte l’Olanda, per il resto nessun paese ha tratto realmente beneficio da questo moneta. Anzi, le altre due potenze europee, Italia e Francia, hanno assistito a un netto calo della crescita e della competitività. Per Parigi si parla di una perdita di 3.600 miliardi di euro, mentre per l’Italia addirittura di 4.300 miliardi. Numeri che, divisi in base ai cittadini, indicano che si sono persi 56.000 euro pro capite in Francia e 74.000 euro in Italia. Il problema dell’euro, come scritto da “Huffington Post”, riguarda in particolare la competitività e le disuguaglianze sociali. Quello della competitività, in particolare, è un problema che sembra non solo irrisolto ma anche (attualmente) irrisolvibile poiché, a detta del Cep, «i singoli paesi non possono più svalutare la propria valuta per rimanere competitivi a livello internazionale». Una perdita di competitività che ha condotto «a una minore crescita economica, a un aumento della disoccupazione e al calo delle entrate fiscali». La Grecia e l’Italia, in particolare, «stanno attualmente attraversando gravi difficoltà a causa del fatto che non sono in grado di svalutare la propria valuta».
    Lo studio si fonda su analisi di come sarebbe stato alto il Pil pro capite in assenza dell’euro. E l’Italia è quella che ha perso più di tutti. I ricercatori del centro tedesco affermano che senza l’euro, il Pil italiano sarebbe stato più alto di 530 miliardi di euro. «In nessun altro paese tra quelli esaminati l’euro ha portato a perdite così elevate di prosperità» come in Italia, scrive il report. E sulla situazione del nostro paese, il rapporto conclude: «L’Italia non ha ancora trovato un modo per diventare competitiva all’interno dell’Eurozona. Nei decenni prima dell’introduzione dell’euro, l’Italia svalutava regolarmente la propria valuta con questo scopo. Dopo l’avvento dell’euro non è stato più possibile. Invece, erano necessarie riforme strutturali. La Spagna mostra come le riforme strutturali possono invertire la tendenza negativa». Insomma, adesso a criticare la nostra moneta, ma soprattutto a puntare il dito sulla Germania non sono più solo i movimenti sovranisti ed euroscettici. Anche i ricercatori tedeschi iniziano a essere molto duri nei confronti della politica di Berlino verso l’Unione Europea. Ed è una conferma di come sia stata proprio la Germania la prima responsabile della crisi economica e di consenso nel sistema europeo.
    (Lorenzo Vita, “Lo studio che inchioda la Germania: solo Berlino ha guadagnato dall’euro”, dal “Giornale” del 25 febbraio 2019).

    Mai come in questi tempi, l’euro è stato messo in discussione. I movimenti critici nei confronti della moneta unica e nel mondo in cui è stata gestita, sono cresciuti in maniera esponenziale. E anche se non tutti sono dichiaratamente a favore dell’uscita dall’euro, sono in molti a chiedere un cambio di passo. Così, ed è evidente, la moneta unica non funziona. E lo dimostrano ormai innumerevoli studi che hanno sancito più volte una critica definitiva nei confronti del sogno di molti difensori dell’Ue. L’euro può anche non essere stato un errore, come affermano i suoi difensori. Ma il fatto che sia un’emanazione e un’arma della politica economica della Germania è una realtà di fatto. Tanto che adesso sono numerosi i think tank e i centri studi che affermano che Berlino sia l’unica ad aver realmente guadagnato da questo sistema. Come riporta l’“Huffington Post”, il Cep di Friburgo (Centrum für Europäische Politik) ha pubblicato un report molto dettagliato su vincitori e vinti a vent’anni dalla sua istituzione della moneta. E quello che ne scaturisce, è che ci sono solo due paesi ad aver tratto profitto dalla moneta unica: Germania e Olanda. E se a dirlo è un centro studi tedesco, va da sé che non lo si può accusare di essere avverso alla Germania.

  • Galloni, euro-suicidio 2020. Paracadute: moneta parallela

    Scritto il 25/1/19 • nella Categoria: idee • (13)

    Se tutto resta com’è, in Europa, entro il 2020 l’insostenibilità sociale diverrà assoluta, con esiti imprevedibili. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale fotografa i possibili sviluppi: potremmo assistere a un accordo tra Stati per metter fine alla disastrosa Eurozona prima che la moneta unica imploda, oppure è possibile che sia proprio il maggior paese europeo, la Germania, a salutare la compagnia. Alternative? Una: attrezzarsi con moneta statale parallela per aggirare le forche caudine della finanza “privatizzata” che ricatta il sistema pubblico. Fuori discussione, in ogni caso, l’aggravarsi della crisi generale se perdurasse la situazione attuale. In caso di “invarianza”, dice Galloni, faremmo i conti – sempre di più – con l’insostenibile architettura dell’euro, introdotto per un modello economico orientato alla ricerca di competitività, con un obiettivo preciso: deflazione salariale e compressione della domanda interna, e quindi disoccupazione e precarizzazione del lavoro, pagato sempre meno. «Se si fosse voluta una maggiore competitività dei mercati – osserva Galloni – si sarebbe dovuto partire dalla convergenza tributaria, non dalla moneta unica».
    Siamo ai fondamentali della macroeconomia: se si punta tutto sull’export «anche a costo di sacrificare i salari e l’occupazione, vale a dire la domanda interna», non si può fingere di non sapere che «le esportazioni di un paese sono le importazioni di un altro». Quindi il modello scelto «presuppone l’esistenza di uno squilibrio, nella bilancia commerciale, che spinge sia all’aumento della remunerazione del capitale finanziario (per attirare capitali dall’estero, onde riallineare la bilancia dei pagamenti), sia a perseverare nella deflazione salariale e occupazionale». In questo modo, scrive Galloni, si ottiene un duplice effetto negativo sui conti pubblici, «dovuto all’aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico e all’esigenza di aggravare la pressione fiscale sui ceti meno abbienti e più numerosi, già provati dalla deflazione». La società, dunque, «si divide tra una maggioranza che si impoverisce sempre più per effetto della deflazione, dell’aumento del carico tributario e del peggioramento dei servizi pubblici, e una minoranza che può scaricare sulla clientela i maggiori oneri, compresi gli stessi incrementi di tasse». Non deve stupire, quindi, se questa maggioranza cerchi di esprimere il proprio disagio nei vari modi possibili: dalle elezioni alle proteste di piazza, fino alla prospettiva della disobbedienza civile.
    Dentro l’attuale cornice dell’euro e dell’Unione Europea, ribadisce Galloni, lo scenario sociale «può esser definito solo come insostenibile in maniera assoluta». Sul fronte finanziario, benché i dati disponibili siano più che allarmanti, «il sistema internazionale appare ancora in grado di resistere». Motivo? «Non hanno limiti, le risorse monetarie producibili dalle banche centrali per gestire le incredibili tossicità debitorie create dai grandissimi intermediari: è sempre possibile “collateralizzare” un titolo, magari allungandone la scadenza, se la banca centrale lo accetta a garanzia in cambio di moneta a corso legale e a “costo zero”». L’attuale capitalismo ultra-finanziario ha superato la scarsità dei mezzi di pagamento, e la sua sostenibilità (relativa) si basa sul fatto che «l’immensa liquidità non arriva all’economia reale». Infatti, precisa Galloni, il credito bancario verso le aziende è bloccato dalle regole vigenti. Lo stesso credito, virtualmente illimitato, resta però ampiamente disponibile per le operazioni speculative, e così la giostra continua. Potrà essere fermata solo «da un cambiamento delle regole imposto dalla politica», e dall’atteggiamento delle banche centrali: nella seconda metà del 2019 la Bce dovrebbe allinearsi alla condotta più restrittiva della Fed (a meno che Trump non le faccia cambiare indirizzo, e sempre che la Germania confermi di voler chiudere i rubinetti della Bce, quando ne sarà alla guida).
    Nel frattempo, aggiunge Galloni, l’acuta insostenibilità sociale dell’Eurozona «sarà confermata dai necessarissimi – ma mancati – superamenti del paradigma capitalistico e di quello della scarsità». Nei comparti produttivi ad elevata redditività, infatti, la domanda di lavoro è decrescente: sempre meno addetti garantiranno i beni materiali e i servizi ad alto valore aggiunto di cui abbiamo bisogno. L’aumento dei profitti sarà consistente, ma inferiore all’effetto di riduzione del Pil dovuto al calo occupazionale, dove le retribuzioni possono essere più elevate, e sarà anche inferiore alla necessità di investimenti tecnologici. «La soluzione, almeno parziale, sarebbe la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, ma gli stessi percettori di profitti vi si oppongono perché ne percepiscono solo l’effetto reditributivo a loro avverso». In più «non ne percepiscono neanche l’effetto di insostenibilità sull’economia complessiva, sicché si può considerare storicamente esaurita la spinta sociale del capitalismo stesso».
    Morale: crescono solo i profitti, non l’occupazione e nemmeno il Pil. E resta scarsamente conveniente investire in tecnolgia, perché l’industria è meno redditizia della speculazione finanziaria. «Ciò vuol dire che, presto, lo Stato dovrà riprendere a fare investimenti non solo “strategici”, ma anche industriali». Invece, nei comparti dove l’occupazione deve crescere (servizi di cura delle persone, dell’ambiente, del patrimonio esistente) il paradigma capitalistico «non può essere applicato, perché il fatturato – che dipende dal reddito disponibile dei cittadini – è inferiore al costo (il lavoro necessario, appunto)». Che fare, dunque? Possibile che i membri dell’Ue si mettano d’accordo per riformare le regole, ovvero abbandonare – finalmente – il catastrofico euro? «Scenario molto teorico, visti gli interessi di chi ha continuato a prosperare alle spalle degli altri consociati». Unica speranza: la politica potrebbe «raggiungere la consapevolezza di un modello economico sostenibile, vale a dire caratterizzato dal comune obiettivo di sostituire importazioni», ovvero: favorire le economie locali, «restituendo alla crescita della domanda interna il suo fondamentale ruolo di traino». Le elezioni europee di fine maggio 2019 ci diranno qualcosa, in proposito. Ma per ora, ammette Galloni, questo scenario appare decisamente il più improbabile.
    Più realistico invece il terzo scenario: l’esplosione-implosione dell’euro-sistema. Una calamità, se l’evento fosse accidentale, per la quale – come già ipotizzato da Paolo Savona – sarebbe fondamentale «essersi dotati tempestivamente di un “Piano B” in grado di realizzare, in tempi e modi accettabili, un ritorno improvviso alla valuta nazionale». E se invece – quarto scenario – fosse un grande paese europeo a lasciare l’Eurozona? «Premesso che l’abbandono di Italia, Francia o Germania porterebbe quasi sicuramente al crollo dell’euro», scrive Galloni, se c’è uno Stato che potrebbe essere tentato dalla “fuga” è proprio la Germania: Berlino infatti «ha già capitalizzato tutti i vantaggi della situazione». E adesso «avrebbe più ragioni di guardare verso la Russia, soprattutto se l’Unione Europea dovesse continuare a manifestare una scarsa indipendenza internazionale dagli Usa». Ma gli Stati Uniti lo vorrebbero davvero, uno sfaldamento dell’Ue? O piuttosto, si domanda Galloni, temono un allargamento dell’Europa – ma non certo di questa Ue – alla Federazione Russa?
    Resta, in compenso, una soluzione alternativa: quella della moneta parallela. «Un qualsiasi tipo di abbandono dell’euro – ragiona Galloni – non porrebbe più problemi di quanti ne risolverebbe». Eppure, nell’opinione pubblica «prevale il disagio», di fronte all’ipotesi del ritorno alla valuta nazionale. «Vi sono, invece, molte buone ragioni per proporre una soluzione più pratica e di facile applicazione: vale a dire l’introduzione di una valuta parallela statale, a sola circolazione nazionale, non convertibile ma a corso legale, con cui sarebbe possile, soprattutto, pagare le tasse». La moneta parallela non è contemplata (e quindi, nemmeno proibita) dal Trattato di Lisbona – dove si parla, appunto, di banconote e non di “statonote”. «La competenza sottratta alle banche nazionali per essere attribuita alla Bce, infatti, riguarda la sola “moneta a debito”, non la sovranità monetaria dello Stato, che può essere o non essere esercitata per sola volontà amministrativo-politica interna».
    Il vantaggio di una simile soluzione? Presto detto: un’immissione di mezzi di pagamento “alternativi” per una quota non superiore al 3% del Pil basterebbe a finanziare spese pubbliche necessarie (come le assunzioni nella pubblica amministrazione) senza aggravare disavanzi o debito. Sarebbero risorse a costo zero: «Avrebbero lo stesso segno algebrico delle tasse e si sommerebbero ad esse, controbilanciando il livello della spesa». Riassumendo: l’intera impalcatura dell’Unione risulta in crisi. Le tensioni tra Italia e Francia (dall’affaire Gheddafi ai Gilet Gialli) sono persino più gravi degli eccessi del capitalismo ultrafinanziario internazionale, considerate le “luci” dei paesi emergenti come Cina e India. Quello che manca è la convergenza su un “programma minimo”. Cioè: meglio rinunciare alle parole d’ordine più nette, «giuste ma divisive» (“fuori dall’Unione, fuori dall’euro”). Secondo Galloni, conviene innanzitutto trovare un primo e fondamentale elemento di coagulo. Il paradigma capitalistico della scarsità è già in crisi. E può essere superato proprio «attraverso l’introduzione di una valuta parallela», capace di finanziare investienti e occupazione, ma «senza creare ulteriore debito».

    Se tutto resta com’è, in Europa, entro il 2020 l’insostenibilità sociale diverrà assoluta, con esiti imprevedibili. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale fotografa i possibili sviluppi: potremmo assistere a un accordo tra Stati per metter fine alla disastrosa Eurozona prima che la moneta unica imploda, oppure è possibile che sia proprio il maggior paese europeo, la Germania, a salutare la compagnia. Alternative? Una: attrezzarsi con moneta statale parallela per aggirare le forche caudine della finanza “privatizzata” che ricatta il sistema pubblico. Fuori discussione, in ogni caso, l’aggravarsi della crisi generale se perdurasse la situazione attuale. In caso di “invarianza”, dice Galloni, faremmo i conti – sempre di più – con l’insostenibile architettura dell’euro, introdotto per un modello economico orientato alla ricerca di competitività, con un obiettivo preciso: deflazione salariale e compressione della domanda interna, e quindi disoccupazione e precarizzazione del lavoro, pagato sempre meno. «Se si fosse voluta una maggiore competitività dei mercati – osserva Galloni – si sarebbe dovuto partire dalla convergenza tributaria, non dalla moneta unica».

  • Patto franco-tedesco, Magaldi: minacciamoli di lasciare l’Ue

    Scritto il 22/1/19 • nella Categoria: idee • (21)

    «Il governo gialloverde non fa paura a nessuno, in Europa: abbaia, ma non morde. Ecco perché l’oligarchia europea non ha alcun interesse a farlo cadere, men che meno per instaurare un esecutivo “tecnico” come quello di Monti, oggi improponibile all’elettorato italiano». Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, l’allarme lanciato da Gianfranco Carpeoro (Cottarelli al posto di Conte, in attesa di Draghi) ha un significato  «sottilmente apotropaico», quello cioè di evocare un pericolo – l’ennesimo complotto – proprio allo scopo di scongiurarlo, “bruciandolo”. Per Magaldi, in fondo, la realtà è persino peggiore di quella tratteggiata da Carpeoro: perché «gli spaventapasseri Di Maio e Salvini non hanno nemmeno saputo approfittare della rivolta francese dei Gilet Gialli per pretendere, come avrebbero dovuto, il rispetto delle legittime istanze del governo italiano». Mazziati e cornuti, ma senza ammetterlo: «Bravi ad alzare la voce sui migranti e magari su Battisti, e invece zitti di fronte ai diktat della Commissione Europea», peraltro dominata da due paesi – Germania e Francia – che adesso, con lo scandaloso Trattato di Aquisgrana, «rifilano un ceffone plateale a tutti i cantori, anche italiani, della mitica Unione Europea, finora in realtà mai esistita e mai davvero nata».
    Chiamiamola Disunione Europea: è una cupola di oligarchi affaristi, impegnati a svuotare le nostre democrazie impoverendo i popoli. Di fronte a questo, «l’Italia dovrebbe minacciare di sospendere la vigenza dei trattati europei». Il dado è tratto, avverte Magaldi: ormai, i gruppi di potere (privatistici) che sostengono la Merkel e Macron hanno gettato la maschera. «Odiano a tal punto la democrazia, da stipulare un accordo smaccatamente egoistico, in danno degli altri paesi europei». Oltre all’incredibile “Consiglio dei ministri congiunto, franco-tedesco”, c’è anche «la barzelletta dei “due sederi” che si alternerebbero al seggio, attualmente solo francese, del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». Parigi è disposta a cedere il 50% di quella poltrona a Berlino? «Curioso: da Francia e Germania, non una parola sul penoso stato in cui è ridotta l’Onu, ormai incapace di far rispettare i diritti umani nel mondo». Quanto alla Francia, «persino Di Maio, meglio tardi che mai, si è premurato di ricordare l’incredibile atteggiamento predatorio e neo-coloniale che i francesi impongono a 14 paesi africani, quelli da cui provengono molti dei migranti diretti in Italia, su cui poi il signor Macron si permette di fare lo spiritoso».
    Una denuncia che il presidente del Movimento Roosevelt anticipa in una video-chat su YouTube con Marco Moiso, ribadendola poi nel web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”: l’Italia, semplicemente, non può accettare che una cricca di faccendieri oligopolisti decida – per giunta, parlando a nome del popolo tedesco e di quello francese – di prendere a calci i partner europei per tentare di ipotecare all’infinito il loro potere, finora affidato ai burattini Merkel e Macron. La verità è un’altra: la cancelliera è al tramonto, mentre l’Eliseo è assediato dalla rivolta di strada: 8 francesi su 10 voterebbero contro l’attuale presidente. E in queste condizioni i governi di Francia e Germania pensano di poter dichiarare guerra, impunemente, al resto d’Europa? I fatti potrebbero dar loro ragione, commenta Magaldi con amarezza, solo se il governo italiano continuasse la sua indecorosa manfrina: proclami altisonanti, per poi lasciarsi regolarmente umiliare. Sembra proprio che tutto sia cominciato il 27 maggio 2018, quando Lega e 5 Stelle hanno accettato di subire il “niet” di Mattarella sull’incarico a Paolo Savona come ministro dell’economia.
    Da lì in poi, gli oligarchi devono aver capito che il nascituro governo gialloverde si sarebbe rassegnato a ingoiare qualsiasi rospo, rinunciando alle grandi promesse della campagna elettorale: reddito di cittadinanza, Flat Tax, rottamazione della legge Fornero sulle pensioni. Per invertire la rotta e bocciare l’Europa del rigore serviva un deficit di almeno il 4%, capace di stimolare l’economia già nel 2019. Ma l’esecutivo Conte non è andato oltre la proposta del 2,4%, restando al di sotto della soglia (artificiosa, ideologica e dannosa) sancita dal famoso 3% di Maastricht. Salvo poi perdere definitivamente la faccia, facendosi limare un altro mezzo punto di deficit, sotto la minaccia della procedura d’infrazione. Risultato: accorciata ulteriormente la coperta, tutte le promesse gialloverdi sono evaporate. L’irrisorio reddito grillino appare condizionato da intricatissimi vincoli burocratici, mentre la riforma delle pensioni (quota 100) è ridotta a puro ecloplasma. E non s’è vista nessuna vera riduzione del carico fiscale. Anche per questo, dice Magaldi, i gialloverdi alzano il volume su questioni secondarie e irrilevanti, come l’arresto di Cesare Battisti, estradato solo perché in Brasile è salito al potere l’imbarazzante Bolsonaro.
    Un avviso a Salvini: non basta cambiare felpa, tutti i giorni, per nascondere la bancarotta politica del “governo del cambiamento”, che si sta rivelando una colossale presa in giro. «Che bisogno c’è di farlo cadere, un governo così docile? E’ perfetto, per lasciare tutto com’è». Con in più il vantaggio di dare agli italiani, per ora, l’illusione di un’inversione di rotta. «Ma attenzione: le cose possono cambiare in tempi rapidissimi». Se n’è accorto Matteo Renzi, «altro campione di chiacchiere», passato in pochi mesi dal 40% al ruolo di profugo politico. Anche per questo, sottolinea Magaldi, è necessario dare fiato a una nuova prospettiva, quella del “partito che serve all’Italia”, i cui promotori – tra cui Ilaria Bifarini, Nino Galloni e Antonio Maria Rinaldi – torneranno a riunirsi a Roma il 10 febbraio. Orizzonte: costruire un vero Piano-B per uscire dall’autismo dell’Europa degli oligarchi. Se ne parlerà anche a Londra il 30 marzo, in un forum sull’economia europea indetto dal Movimento Roosevelt, al quale parteciperanno personalità come Guido Grossi, già supermanager Bnl.
    E’ il momento di parlar chiaro, ribadisce Magaldi: oggi, l’Italia ha il dovere di convocare i partner europei – Francia e Germania in testa – per obbligarli a riscrivere le regole dell’Unione. Ovvero: una Costituzione democratica e un governo continentale finalmente eletto dal Parlamento Europeo, espressione diretta degli elettori. E quindi: una politica economica unitaria, la fine dello spread, il sostegno al debito mediante gli eurobond. Addio al Trattato di Maastricht e al suo ignobile 3%. O si disegna un New Deal, come invocato dallo stesso Savona nel suo discorso al Senato, o l’Europa è morta. E se Parigi e Berlino pensano di fare da sole, a maggior ragione: l’Italia le fermi. «Dica chiaramente, il nostro governo, che se la linea è quella del Trattato di Aquisgrana, il nostro paese sospende la vigenza di tutti i trattati europei». In questo modo, aggiunge Magaldi, l’Italia parlerebbe anche a nome degli altri partner Ue, esercitando un ruolo autorevole: «Un governo italiano realmente europeista, che denunciasse come anti-europeisti i difensori di questa Europa così com’è, dovrebbe dire a tutti gli altri partner che è giunta l’ora di sciogliere il patto».
    E questo, peraltro, «vorrebbe dire assumersi la leadership di un processo di riconversione democratica dell’Europa». Se invece Francia e Germania rifiutassero di ascoltare l’Italia, a quel punto «l’eventuale uscita dai trattati avrebbe ben altra legittimazione, anche internazionale». Certo, aggiunge Magaldi, lo schiaffo franco-tedesco deve bruciare soprattutto sulle guance «di tutti quegli imbecilli, anche italiani», che hanno fatto del mantra “ce lo chiede l’Europa” un dogma di fede, «credendo che il sogno europeo dovesse passare per l’imposizione di una governance post-democratica». Una sonora lezione anche per i velleitari “eroi” del nuovo sovranismo, ambigua bandiera «da sventolare in campagna elettorale, per poi ammainarla una volta al governo». Prendete Salvini: la sua ipotetica alleanza tra nazionalismi contava soprattutto su Ungheria e Polonia, «cioè proprio i due paesi che, per primi, hanno bocciato la manovra del governo Conte».
    Per Magaldi, in sostanza, «dobbiamo essere abili, e anche leali verso gli altri popoli europei». Illusorio rifugiarsi entro i confini nazionali: chi rimpiange l’Italia della lira, che stava certamente assai meglio di quella dell’euro, «dimentica sempre di ricordare che il nostro paese beneficiava innanzitutto del supporto internazionale degli Usa». Ovvero: «Con gli “assi” fondati sugli egoismi nazionali non si va da nessuna parte: fare da soli è impossibile, in un mondo sempre più interconnesso. E qualunque idea di una nazione isolata che possa resistere all’urto dei poteri globali è pura follia». L’alternativa? Semplice, in teoria: «Per contrastare le reti sovranazionali private, cementate da interessi inconfessabili, bisogna costruire reti sovranazionali pubbliche e finalmente democratiche». L’Italia di eri – fino a Monti, Letta, Renzi e Gentiloni – era «subalterna, imbelle e servile». Quella di oggi, gialloverde, preferisce «il piagnisteo velleitario, i proclami muscolari a cui poi non seguono i fatti». Serve un’altra Italia, «sovrana e democratica, orgogliosa di sé», capace di alzarsi in piedi e proporre la democrazia come modello imprescindibile, «non solo in Europa ma anche alle Nazioni Unite».

    «Il governo gialloverde non fa paura a nessuno, in Europa: abbaia, ma non morde. Ecco perché l’oligarchia europea non ha alcun interesse a farlo cadere, men che meno per instaurare un esecutivo “tecnico” come quello di Monti, oggi improponibile all’elettorato italiano». Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, l’allarme lanciato da Gianfranco Carpeoro (Cottarelli al posto di Conte, in attesa di Draghi) ha un significato  «sottilmente apotropaico», quello cioè di evocare un pericolo – l’ennesimo complotto – proprio allo scopo di scongiurarlo, “bruciandolo”. Per Magaldi, in fondo, la realtà è persino peggiore di quella tratteggiata da Carpeoro: perché «gli spaventapasseri Di Maio e Salvini non hanno nemmeno saputo approfittare della rivolta francese dei Gilet Gialli per pretendere, come avrebbero dovuto, il rispetto delle legittime istanze del governo italiano». Mazziati e cornuti, ma senza ammetterlo: «Bravi ad alzare la voce sui migranti e magari su Battisti, e invece zitti di fronte ai diktat della Commissione Europea», peraltro dominata da due paesi – Germania e Francia – che adesso, con lo scandaloso Trattato di Aquisgrana, «rifilano un ceffone plateale a tutti i cantori, anche italiani, della mitica Unione Europea, finora in realtà mai esistita e mai davvero nata».

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