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Carpeoro: a colpire Palermo non sarà la mafia, ma l’Isis-P1
Se smarrisci la tua missione, poi ti riduci a essere un mero strumento di potere. Fino a mettere in atto il terrorismo, oggi travestito da “fondamentalismo islamico”. Ma, al di là degli esecutori, gli organizzatori risiedono nell’intelligence. Che a sua volta risponde a personaggi del massimo potere, interamente massonico. E’ la tesi del recentissimo libro “Dalla massoneria al terrorismo”, nel quale Gianfranco Carpeoro – già gran maestro della loggia “Serenissima”, del rito scozzese, nonché studioso di Giordano Bruno e grande esperto di simbologia – affronta il tema cruciale dell’attualità di oggi: la politica di rigore dell’élite finanziaria, imposta anche “con le cattive”, cioè gli attentati, per rispondere a una logica di puro dominio e sottomissione di Stati e popoli. Charlie Hebdo, Batalclan, Bruxelles, Nizza. Le stesse “firme”, leggibili da chi conosce il linguaggio esoterico, consentono di risalire ai veri mandanti. Che, secondo Carpeoro, oggi colpiscono con crescente ferocia perché stanno iniziando ad avere paura di perdere il loro potere, da quando settori dell’élite – lo si vede negli Usa, con l’appoggio alla candidatura Sanders – si sono sfilati dal super-vertice globalizzatore, in preda al delirio di onnipotenza e ormai pronto a tutto: forse anche a colpire l’Italia, a Palermo.Tempo fa, Carpeoro aveva avvertito del possibile pericolo per il nostro paese, legato a una data particolare, il 10 agosto: «Dovete sapere che Federico II ebbe un ruolo di protettore dell’Islam, visto che fu protagonista dell’unica crociata che finì con degli accordi riguardanti la restituzione pacifica di Gerusalemme ai cristiani», racconta Carpeoro a Marcus Mason, che l’ha intervistato per il blog “Lo Sciacallo”. L’imperatore-esoterista, però, subito dopo la pace per Gersusalemme avviò una persecuzione violentissima contro gli islamici siciliani, sterminandoli: «Questa persecuzione culminò il 10 agosto del 1222, quando catturò i capi, lo sceicco e i due figli, decapitandoli in piazza a Palermo». L’autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” conferma i suoi timori: «Prima o poi, qualcosa combineranno». Lo dice la logica, se si interpreta in chiave simbolica il corredo di informazioni attorno agli attentati in Francia e in Belgio, a partire dal massacro di Nizza il 14 luglio, data “sacra” per la massoneria progressista, vero “bersaglio” (tra gli altri) degli organizzatori dell’attentato. Poi la strage del Bataclan attuata il 13 novembre, giorno in cui i Templari messi al bando nel 1308 riuscirono a lasciare Parigi riparando in Scozia, dove contribuirono a fondare la massoneria moderna. E il doppio attacco a Bruxelles contro aeroporto e metropolitana, come a sottolineare il motto “così in cielo, come in terra”.Quanto a Charlie Hebdo, parla la cronaca: indagini “seppellite” dal governo Hollande con l’imposizione del segreto militare dopo la scoperta, da parte della magistratura, della strana triangolazione che collegava il commando “jihadista” ai servizi segreti parigini, attraverso il trafficante belga che fornì loro le armi. Meccanismo che Carpeoro, nel suo libro, chiama “sovragestione”: esponenti del massimo potere utilizzano settori dell’intelligence per reclutare, all’occorrenza, anche dei kamikaze, a volte completamente all’oscuro del piano, a differenza di quanto avviene nella mafia, dove almeno è possibile risalire ai mandanti, una volta catturati i killer. «E’ Cosa Nostra che ha copiato il metodo. Se uno si va a studiare come agiva Cosa Nostra, può notare che gli anelli superiori li conoscevano. La caratteristica di questo protocollo dell’intelligence, invece, è quella che gli anelli bassi non conoscono nemmeno l’esistenza degli anelli superiori. Questi bombaroli si fanno esplodere senza conoscere i vertici che dirigono questo tipo di operazioni. Molti sono convinti di agire come autonomi».“Sovragestione” non è sempre sinonimo di terrorismo: si tratta di una modalità di potere che collega elementi in apparenza lontani. Come Enrico Cuccia, ad esempio, a torto ritenuto «portabandiera della finanza laica», quando invece era di fede templarista: «Mediobanca era organizzata in capitoli templari e il Consiglio d’amministrazione era composto da 13 membri», racconta Carpeoro allo “Sciacallo”. Il gran capo «presenziava alle riunioni secondo una ritualità templare. Io sono in possesso della lettera che Cuccia scrisse a Romiti quando quest’ultimo fu inquisito, e vi posso assicurare che è una lettera templare al 100%». Il suo braccio destro, Raffaele Mattioli, contribuì alla ricostruzione dell’abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano, e chiese di esservi sepolto, «unico laico in un cimitero di frati». Nella lapide «è sdraiato con le mani incrociate, vestito da templare, con tanto di squadra e compasso». Templari, come quelli a cui ammiccherebbero gli “architetti” della strage del Bataclan? Cristiani “eretici”, nella doppia veste di monaci e guerrieri – allora, certo. Ma oggi?«La gente dà poco peso ai simboli e ai miti», premette Carpeoro nell’intervista. «Nel medioevo spesso venivano raffigurati dei draghi: ciò non significa che bisogna credere ai draghi, ma ai dinosauri sì. Questo significa che le leggende e i miti hanno le loro radici da un archetipo, e l’archetipo è una storia vera, reale. Il ricercatore saggio sa decifrare questi simboli fino a coglierne il vero significato, senza fermarsi a un’analisi superficiale». Il suo libro parte dalla spiegazione di questi simboli, dei riti, e poi si snoda indagando la parabola di potere del network massonico, di cui Carpeoro non fa più parte. «La massoneria e la Chiesa cattolica raggiungono insieme l’apogeo: l’apogeo della Chiesa viene raggiunto nel medioevo con la costruzione delle grandi cattedrali, tramite la manovalanza dei massoni». Poi, le due entità parallele si ritrovano su fronti opposti, perché «la Chiesa diventa potere: cessa di essere conoscenza e potere, abbracciando unicamente il secondo». Lo dimostra la stessa soppressione dell’ordine dei Templari. «D’altro canto, la massoneria comincia a mettere in discussione i dogmi, rendendo per questo fragile la costruzione della Chiesa cattolica, che in quegli anni si fondava sul dogma».Quello che ai più sfugge spesso – ma ora, libri come quello di Carpeoro contribuiscono a recuperare il gap di informazione – è il nesso profondissimo che lega il vertice del massimo potere ai simulacri della simbologia esoterica medievale. Dinamiche sempre parallele, che coinvolgono sia il mondo massonico che quello cattolico, ad esempio attraverso l’Opus Dei. «Lo scontro nacque perché la massoneria decise di prendere le difese dello gnosticismo: da quel momento la Chiesa comincia a scomunicare. E la massoneria diventa anticlericale, sbagliando, nella stessa misura in cui la Chiesa si proclamava antimassonica». Poi, però, ci fu una storica saldatura, a cominciare dal livello finanziario, come dimostrano le vicende di Calvi, Sindona e Gelli – su quest’ultimo, Carpeoro si sofferma a lungo, rivelando il ruolo della P2 nei tentativi di golpe di Italia, “sovragestiti” da una struttura-ombra che l’autore chiama P1. Grande burattinaio, un super-massone come il politologo statunitense Michael Ledeen, prima legato a Craxi e poi al suo demolitore, Di Pietro (oggi, si dice, a Matteo Renzi ma anche al grillino Luigi Di Maio). Già ai tempi di Craxi, ricorda Carpeoro, la “sovragestione” affondò le mani nella strategia della tensione, fino al caso Moro, nel quale Ledeen fu direttamente coinvolto, introdotto al Viminale come super-consulente di Cossiga.Terrorismo e mondo arabo, già allora. Nel mirino, Craxi: amico dei palestinesi (che cercò di finanziare, anche attraverso Gelli) e poi di Moro, che tentò di salvare. Tutto inutile, la “sovragestione” aveva deciso altrimenti: Bettino in esilio ad Hammamet, Moro ucciso. E oggi? L’Italia gode ancora di una «protezione speciale da parte dell’Islam», dice Carpeoro. C’è chi ricorda del Conto Protezione, istituito in Svizzera da Craxi per sostenere Arafat. «Perciò l’Italia ha un po’ di benemerenza nei confronti degli islamici. E’ vero che esiste la sovragestione, ma anche questa non può non tener conto che gli italiani non sono odiati dagli arabi. Non come i francesi». Certo, «abbiamo la macchia della Libia, ma è pur vero che è una macchia sbiadita, a differenza del colonialismo francese e di quello che hanno fatto poi gli americani: pensate che Sarkozy ha voluto la morte di Gheddafi perché erano soci e aveva paura che questi potesse parlare». Quindi, «escluso il Vaticano, dove l’Isis ha minacciato di colpire, a meno di clamorosi scenari politici, se l’Italia non parteciperà ai giochi francesi e americani difficilmente verrà colpita». Se invece gli strateghi della “sovragestione” sceglieranno di devastare il nostro paese, Carpeoro scommette che gli stragisti vorranno «invocare una motivazione strumentalmente forte, come i fatti di Palermo del 1222», il fatidico 10 agosto.(Il libro: Gianfranco Carpeoro, “Dalla massoneria al terrorismo”, sottotitolo “Come alcune logge massoniche sono divenute deviate e come con i servizi segreti vogliono controllare il mondo”, Uno Editori, 189 pagine, 13 euro).Se smarrisci la tua missione, poi ti riduci a essere un mero strumento di potere. Fino a mettere in atto il terrorismo, oggi travestito da “fondamentalismo islamico”. Ma, al di là degli esecutori, gli organizzatori risiedono nell’intelligence. Che a sua volta risponde a personaggi del massimo potere, interamente massonico. E’ la tesi del recentissimo libro “Dalla massoneria al terrorismo”, nel quale Gianfranco Carpeoro – già gran maestro della loggia “Serenissima”, del rito scozzese, nonché studioso di Giordano Bruno e grande esperto di simbologia – affronta il tema cruciale dell’attualità di oggi: la politica di rigore dell’élite finanziaria, imposta anche “con le cattive”, cioè gli attentati, per rispondere a una logica di puro dominio e sottomissione di Stati e popoli. Charlie Hebdo, Batalclan, Bruxelles, Nizza. Le stesse “firme”, leggibili da chi conosce il linguaggio esoterico, consentono di risalire ai veri mandanti. Che, secondo Carpeoro, oggi colpiscono con crescente ferocia perché stanno iniziando ad avere paura di perdere il loro potere, da quando settori dell’élite – lo si vede negli Usa, con l’appoggio alla candidatura Sanders – si sono sfilati dal super-vertice globalizzatore, in preda al delirio di onnipotenza e ormai pronto a tutto: forse anche a colpire l’Italia, a Palermo.
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La festa è finita, tra un po’ useranno l’esercito contro di noi
Signori, si scende: la globalizzazione è finita. Usa e Cina, Nato, Fmi, Ue, Banca Mondiale? Sono in avaria e lo sanno benissimo, anche se ancora non lo ammettono. Il sistema ha le ore contate, perché l’epoca della crescita è tramontata per sempre. Sta montando la marea del malcontento, ovunque, perché a pagare il conto della globalizzazione forzata sono miliardi di persone: così, se vorrà tenersi il potere, questa élite fallimentare dovrà ricorrere sistematicamente alla polizia e all’esercito, archiviando anche la democrazia. Lo sostiene Raúl Ilargi Meijer, analista indipendente, autore di “The Automatic Earth”. «La fine della crescita espone nella sua nudità la stupidità e ignoranza di tutti». Sotto accusa i leader, assolutamente inadeguati. In periodo di crescita, i politici «non devono fare altro che “sedurre” i votanti», vendendo loro la “certezza” di una crescita infinita. In tempi di contrazione, invece, hanno davanti difficoltà ben più sostanziali: «Gli tocca convincere i votanti di essere in grado di minimizzare “le sofferenze delle masse”. Una massa priva di garanzie, alla quale chiaramente nessuno vuol ritrovarsi a fare parte. E lì è proprio difficile “vendersi”».La fine di ogni ciclo di crescita, inevitabilmente, cambia la struttura democratica, avverte Meijer, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. La crisi produrrà nuovi politici, perché, come sostenne Hazel Henderson, «l’economia non è altro che un travestimento della politica». Tradotto: «Da un lato ti trovi la classe al potere che tenta di tenersi stretta al suo potere in declino, producendo falsi numeri positivi a vagonate e sostenendo che comunque non esiste alternativa possibile alla loro (semmai soltanto dosi maggiori della stessa ricetta), e dall’altro lato c’è una vaga affiliazione, nella misura in cui si può parlare di affiliazione, di destra e sinistra, individui e partiti, in grado di subodorare cambiamenti in corso che potranno usare a proprio beneficio». La classe al potere, i partiti tradizionali, inizieranno progressivamente ad estinguersi: «Gli verranno addossate le colpe, e perlopiù meritatamente, per la caduta del sistema economico». Infatti: «Se sei percepito come parte della vecchia guardia, sei fuori». L’ascesa di Trump, Farage e simili è stata molto più veloce di quanto chiunque potesse pensare. «Si nutrono di malcontento, ma sono in grado di farlo soltanto perchè questo malcontento è stato del tutto ignorato dalle classi dominanti».Il che, aggiunge Meijer, ha molto ha che fare con il fatto che tali governanti si sono senza dubbio arricchiti, mentre i “piani bassi” della società sicuramente no. «Inoltre, se il più della gente potesse ancora vantare comode esistenze da classe media, l’ostilità verso migranti e rifugiati sarebbe stata ben minore: e i vari Trump, Wilders, Le Pen o “Alternative für Deutschland” non avrebbero trovato le loro miniere d’oro. La percezione che i nuovi arrivati siano a qualche titolo responsabili per il peggioramento delle condizioni di vita crea terreno fertile per chiunque voglia servirsene». E siccome la sinistra «non tocca l’argomento», la destra «si prende tutto per assenza di concorrenza». Bernie Sanders e Jeremy Corbyn possono anche avere idee coraggiose, in materia di redistribuzione della ricchezza, ma il potere resiste e li ostacola. Così, molta parte della leadership – Hillary Clinton, Theresa May, Sarkozy, la Merkel – sta «orchestrando sagge virate verso destra», avendo sentore che «il potere non emanerà più dal centro». Politici che, conunque, sembrano ormai «destinati a essere spazzati via dal voto popolare».Ben più difficile, innvece, sarà «sbarazzarsi delle organizzazioni transnazionali, come l’Ue o l’Fmi (e molte altre) nonostante rappresentino un progetto fallito». “Bloomberg” certifica l’allarme del Fmi: «La fede nella globalizzazione è ormai a disagio di fronte alle evidenti disparità che crea. Dal voto britannico a favore dell’uscita dalla Ue, a Donald Trump che avanza al grido di “l’America prima di tutto”, aumentano le pressioni per porre un freno e ridurre l’integrazione economica, sempre all’ordine del giorno per Fmi e Banca Mondiale per almeno 70 anni. Alimentata da salari stagnanti e insicurezza lavorativa in costante crescita, la sommossa populista minaccia di gettare definitivamente nella depressione una economia che la dirigente dell’Fmi Christine Lagarde ammette essere già adesso debole e fragile». Attenzione: «La rappresaglia contro la globalizzazione si manifesta in sentimenti nazionalisti accentuati, sfiducia per il mondo esterno e desiderio di maggiore isolamento protezionistico», sostiene Luis Kuijs dell’Oxford Economics di Hong Kong, in passato anche burocrate del Fmi. Per il World Economic Outlook, l’espansione globale è già compromessa: l’economia mondiale sta rallentando.«Posso capire che un voto contro i vari Hollande, Hillary, Cameron costituisca una “rappresaglia contro la globalizzazione”», dice Meijer, a patto però che non venga demonizzato il termine “protezionismo”: «Ogni singola società del pianeta dovrebbe proteggere le sue esigenze di base evitando che finiscano sotto il controllo di stranieri, sia per profitto, sia per potere. Niente di buono può mai venirne dalla cessione di questa facoltà di controllo per nessuna società, assolutamente mai». Sicchè, «non c’è niente di sbagliato nel voler proteggere la propria capacità di controllo sul proprio approvvigionamento idrico, autosussistenza alimentare, garanzia di alloggi sicuri: parliamo di cose che, al contrario, non andrebbero mai negoziate o scambiate sui mercati globali». Chi vorrebbe globalizzare anche quelle? I soliti noti, «i cui comodi ruoli dirigenziali e comodi grassi conti bancari dipendono direttamente nella nostra progressiva perdita di controllo personale sopra le stesse esigenze di base per sopravvivere nella vita». In fondo, «è ciò che accade a ogni organismo che ha raggiunto i limiti della sua crescita: inizia a “nutrirsi dell’ospite”. Che si parli di un tumore, dell’Impero Romano, o dei nostri attuali modelli economici basati sul presupposto della crescita perenne».Trump ha abbaiato contro Messico e Cina, minacciando di innalzare grosse tariffe doganali sulle importazioni da entrambi i paesi. Innervositi dal Brexit, i leader europei «sono coscienti che potrebbe essere solo l’inizio di un terremoto politico che minaccia le vecchie certezze del continente». Il prossimo anno, ricorda Meijer, si voterà in Germania e Francia, le maggiori economie dell’Eurozona, nonchè in Olanda. «In ciascuno di questi paesi le forze anti-establishment stanno guadagnando terreno». Insieme al crescente risentimento verso la Ue da Budapest a Madrid, gli osservatori politici giudicano l’attuale avanzata del “populismo” come la più grande minaccia al blocco-Ue dalla sua creazione, dalle ceneri della Sconda Guerra Mondiale al presente. Per i media mainstream, la categoria “populista” include moltissima gente, «da Trump a Beppe Grillo con tutto ciò che ci sta in mezzo, passando dall’ungherese Orban a Nigel Farage, “Podemos” in Spagna, “Syriza” in Grecia, la Afd tedesca». Movimenti diversissimi tra loro, ma con una cosa in comune: «Protestano contro uno status quo già fallito e in rapido processo di deterioramento, e ricevono massiccio supporto popolare per questa ragione, dal momento che è la gente a portare sulle spalle il peso del fallimento».Né si intravedono avvisaglie di segno positivo: «Probabilmente il più vistoso fatto macroeconomico relativo alle economie avanzate oggi è il permanere di un’anemia della domanda nonostante i bassi tassi d’interesse», scrive l’ex capo-economista dell’Fmi, Olivier Blanchard. Questi esperti, scrive Meijer, dimostrano di aver sentore che qualcosa non torna, ma nessuno possiede risposte. Vi era “accordo sulla globalizzazione prima della crisi”, adesso non esiste più, e questo è tutto. «Immagino l’economia mondiale come qualcosa di simile a un’auto in corsa senza conducente e bloccata su una corsia lenta», ha detto David Stockton, ex burocrate della Fed. «Questa è l’economia globale, non va da nessuna parte e nel frattempo i soldi finiscono facilmente e in fretta», sottolinea Meijer. «In Europa, l’avanzata populista fornisce un potente incentivo ad abbandonare l’austerità per i governi prima delle prossime elezioni, e magari oltre; che una mossa del genere placherà coloro che sono rimasti nel lato perdente della globalizzazione è comunque suscettibile di dubbio».Il consenso alla globalizzazione si basava sulla promessa di maggior crescita economica, ammette Ding Shuang, capo-economista cinese, al Fmi dal 1997 al 2010: «Ma i benefici non sono stati ripartiti equamente, quindi adesso assistiamo a una ondata anti-globalizzazione». Per Meijer, la globalizzazione è già finita. «Non è mai stata intesa da nessuno come distribuzione di nulla, a parte forse di ricchezza tra le mani delle élites e bassi salari per chiunque altro. L’Ue e l’Fmi non hanno ottenuto nulla di quanto avevano promesso, come allo stesso modo non l’hanno fatto i partiti tradizionali, in Usa, Regno Unito, come in Europa in generale. Hanno promesso crescita e la crescita è finita. Avranno ottenuto risultati per i loro padroni ma hanno perso nei confronti di chiunque altro. Il resto è solo aria fritta». E il peggio è che «non si può assolutamente escludere che arriveranno a servirsi dell’esercito e della polizia, che controllano, per tenersi aggrapparti a ciò che hanno: anzi, temo sia qualcosa che succederà di sicuro». Anche perché «la crescita è finita, svanita da un pezzo per farsi sostituire dal debito», e noi «stiamo trascendendo verso uno stadio completamente diverso delle nostre vite, economie, società».Signori, si scende: la globalizzazione è finita. Usa e Cina, Nato, Fmi, Ue, Banca Mondiale? Sono in avaria e lo sanno benissimo, anche se ancora non lo ammettono. Il sistema ha le ore contate, perché l’epoca della crescita è tramontata per sempre. Sta montando la marea del malcontento, ovunque, perché a pagare il conto della globalizzazione forzata sono miliardi di persone: così, se vorrà tenersi il potere, questa élite fallimentare dovrà ricorrere sistematicamente alla polizia e all’esercito, archiviando anche la democrazia. Lo sostiene Raúl Ilargi Meijer, analista indipendente, autore di “The Automatic Earth”. «La fine della crescita espone nella sua nudità la stupidità e ignoranza di tutti». Sotto accusa i leader, assolutamente inadeguati. In periodo di crescita, i politici «non devono fare altro che “sedurre” i votanti», vendendo loro la “certezza” di una crescita infinita. In tempi di contrazione, invece, hanno davanti difficoltà ben più sostanziali: «Gli tocca convincere i votanti di essere in grado di minimizzare “le sofferenze delle masse”. Una massa priva di garanzie, alla quale chiaramente nessuno vuol ritrovarsi a fare parte. E lì è proprio difficile “vendersi”».
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Brzezinski: contrordine, America. Pace con Putin e la Cina
«L’architetto principale del piano di Washington per governare il mondo ha abbandonato il progetto e ha richiesto la creazione di legami con la Russia e la Cina». Anche se l’articolo di Zbigniew Brzezinski su “The American Interest”, dal titolo “Towards a Global Realignment” (verso un riallineamento globale) è stato ampiamente ignorato dai media, «dimostra che membri potenti dell’establishment decisionale non credono più che Washington prevarrà nel suo tentativo di estendere l’egemonia degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente e in Asia», afferma Mike Whitney. Il super-massone reazionario Brzezinski, primo reclutatore di Osama Bin Laden in Afghanistan, «è stato il principale fautore di questa idea», l’espansione “imperiale”, già esposta nel 1997 nel libro “La Grande Scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”. Ora «ha fatto dietro-front e ha richiesto una incredibile revisione strategica». Infatti scrive che «gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale», dal momento che «finisce la loro epoca di dominio globale». Meglio sfruttare la residua potenza americana per affrontare in modo diverso, cioè pacifico, «l’emergente ridistribuzione del potere globale e il violento risveglio politico in Medio Oriente».Gli Stati Uniti, sottolinea Brzezinski, «sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo». Ma, aggiunge, «dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale». In un post su “Counterpunch” tradotto da “Come Don Chisciotte”, Mike Whitney invita a confrontare questo giudizio con quello che lo stesso Brzezinski aveva dato ne “La Grande Scacchiera”, quando affermava che gli Stati Uniti erano «il massimo potere a livello mondiale, giudice-chiave delle relazioni di potere eurasiatiche». Il crollo dell’Unione Sovietica aveva determinato «la rapida ascesa di una potenza dell’emisfero occidentale, gli Stati Uniti, come l’unica e, in effetti, la prima potenza veramente globale». Nell’ultima parte del ventesimo secolo, nessuna altra potenza gli si è nemmeno avvicinata». Ma, scrive oggi Brzezinski, «quell’epoca sta ormai per finire». L’ex consigliere strategico per la sicurezza nazionale sotto Jimmy Carter, autorevolissimo esponente della dottrina della supremazia mondiale degli Usa, ora «indica l’ascesa della Russia e della Cina, la debolezza dell’Europa e il “violento risveglio politico tra i musulmani post-coloniali”, come le cause approssimative di questa improvvisa inversione».I suoi commenti sull’Islam, continua Whitney, sono particolarmente istruttivi: Brzezinski infatti «fornisce una spiegazione razionale per il terrorismo, invece dell’aria fritta governativa sull’“odiare le nostre libertà”». Del resto, lo stesso Brzezinski seppe vedere lo scoppio del terrore come lo «sgorgare di lamentele storiche» da un «senso di ingiustizia profondamente sentito», e quindi non come «la violenza cieca di psicopatici fanatici». Nel libro “Massoni”, Gioele Magaldi presenta Brzezinski anche sotto un’altra luce: come leader del cartello super-massonico neo-aristocratico e ultra-conservatore. Un fronte che, però, si starebbe incrinando, davanti al cinismo della strategia della tensione – dall’11 Settembre all’Isis – e, soprattutto, alla crescente resistenza di Russia, Cina e loro alleati. Una parte di quell’élite, fino a ieri granitica, si starebbe “sfilando”. E questo, avvertono alcuni osservatori provienienti dalla cultura massonica democratica, forse spiega il crescente ricorso agli attentati: l’oligarchia teme di perdere la presa sulla scena geopolitica e sull’opinione pubblica occidentale. Anche così si spiega il clamoroso successo degli outsider nella campagna elettorale americana: Bernie Sanders e soprattutto Donald Trump, così morbido con Putin. Una “prudenza” che sembra ora pienamente condivisa da un ex super-falco come Brzezinski.«E’ chiaro che quello che più lo preoccupa è il rafforzamento dei legami economici, politici e militari tra la Russia, la Cina, l’Iran, la Turchia e gli altri Stati dell’Asia centrale», osserva Whitney. Un problema già segnalato nel libro del ‘97: «D’ora in poi – scriveva Brzezinski – gli Stati Uniti potrebbero dover stabilire come far fronte a coalizioni regionali che cercano di spingere l’America fuori dall’Eurasia, minacciando in tal modo lo status degli Stati Uniti come potenza mondiale». Ergo, per l’imperialista Brzezinski il problema era «prevenire la collusione e mantenere la dipendenza sulla difesa tra i vassalli, tenere i tributari docili e protetti, e impedire che i barbari si uniscano». Il che si è puntualmente verificato, prima con la “guerra infinita” promossa dal clan Blush, e poi con la «politica estera sconsiderata dell’amministrazione Obama, in particolare il rovesciamento dei governi in Libia e in Ucraina», cosa che – annota Whitney – ha «notevolmente accelerato la velocità con cui si sono formate queste coalizioni anti-americane». In altre parole, «i nemici di Washington sono apparsi, in risposta al comportamento di Washington. Obama può biasimare solo se stesso».Putin ha risposto a tono alla crescente minaccia di instabilità regionale e al posizionamento delle forze Nato ai confini della Russia: ha rafforzanto le alleanze con i paesi perimetrali della Russia e in tutto il Medio Oriente. Allo stesso tempo, insieme ai colleghi Brics (Brasile, India, Cina e Sudafrica) il presidente russo ha istituito un sistema bancario alternativo (Brics Bank e Aiib) che finirà per sfidare il sistema dominato dal dollaro, che è la fonte del potere globale degli Stati Uniti. È per questo, continua Whitney, che Brzezinski ha fatto una rapida svolta a U, abbandonando il piano egemonico degli Stati Uniti: è preoccupato «per i pericoli di un sistema non basato sul dollaro che sta nascendo tra i paesi emergenti e i non allineati, che dovrebbe sostituire l’oligopolio della Banca Centrale occidentale. Se ciò accadrà, allora gli Stati Uniti perderanno la loro morsa sull’economia globale». Quel giorno finirebbe anche «il sistema di estorsione nel quale biglietti verdi buoni per incartare il pesce vengono scambiati per beni e servizi di valore».Purtroppo, aggiunge Whitney, è improbabile che l’approccio più cauto di Brzezinski sarà seguito dao Hillary Clinton, «che è una convinta sostenitrice dell’espansione imperiale attraverso la forza delle armi». Spiegava infatti nel 2010, sulla rivista “Foreign Policy”: «Mentre la guerra in Iraq si esaurisce e l’America comincia a ritirare le sue forze dall’Afghanistan, gli Stati Uniti si trovano ad un punto di svolta. Negli ultimi 10 anni, abbiamo stanziato risorse immense in questi due teatri. Nei prossimi 10 anni, dobbiamo essere intelligenti e sistematici su dove investiremo tempo ed energia, in modo da metterci nella posizione migliore per sostenere la nostra leadership, garantire i nostri interessi e far avanzare i nostri valori. Uno dei compiti più importanti della politica americana nel prossimo decennio sarà quello di tenere al sicuro gli investimenti – diplomatici, economici, strategici, e di altro tipo – sostanzialmente aumentati nella regione Asia-Pacifico». L’apertura dei mercati in Asia «fornisce agli Usa opportunità senza precedenti per gli investimenti, il commercio, e l’accesso alla tecnologia d’avanguardia: le aziende americane devono sfruttare la vasta e crescente base di consumatori dell’Asia».L’Asia è il nuovo Eldorado: «Genera già oltre la metà della produzione mondiale e quasi la metà del commercio mondiale», affermava Hillary. «Mentre ci sforziamo di soddisfare l’obiettivo del presidente Obama di raddoppiare le esportazioni entro il 2015, siamo alla ricerca di opportunità per fare ancora più affari in Asia». Lo sapeva anche Brzezinski, 14 anni fa, quando scriveva “La Grande Scacchiera”: «Per l’America, il premio geopolitico principale è l’Eurasia», che è «il più grande continente del globo», il maggiore asse geopolitico. «Una potenza che domini l’Eurasia controllerebbe due delle tre regioni più avanzate ed economicamente produttive del mondo».Attenzione: «Circa il 75% della popolazione mondiale vive nell’Eurasia, e la maggior parte della ricchezza fisica del mondo sta lì, sia nelle sue imprese che sotto il suolo. L’Eurasia conta per il 60% del Pil mondiale e circa tre quarti delle risorse energetiche conosciute al mondo». Gli obiettivi strategici sono quelli della Clinton oggi, ma con una enorme differenza: sono passati 14 anni, e forse Hillary non se n’è accorta.«Brzezinski ha fatto una correzione di rotta sulla base di circostanze mutevoli e della crescente resistenza al bullismo, al dominio e alle sanzioni statunitensi», scrive Whitney. «Non abbiamo ancora raggiunto il punto di svolta per il primato degli Stati Uniti, ma quel giorno si sta avvicinando velocemente e Brzezinski lo sa». Al contrario, la Clinton «è ancora completamente impegnata ad ampliare l’egemonia degli Stati Uniti in tutta l’Asia. Non capisce i rischi che ciò comporta per il paese o per il mondo. E’ intenzionata a continuare con gli interventi fino a quando il titano combattente Stati Uniti si immobilizzerà di colpo, cosa che, a giudicare dalla sua retorica iperbolica, accadrà probabilmente dopo un po’ di tempo durante il suo primo mandato». Brzezinski presenta «un piano razionale ma opportunista per fare marcia indietro, ridurre al minimo i conflitti futuri, evitare una conflagrazione nucleare e mantenere l’ordine globale, cioè il “sistema del dollaro”. Ma la sanguinaria Hillary seguirà il suo consiglio? Nemmeno per sogno».«L’architetto principale del piano di Washington per governare il mondo ha abbandonato il progetto e ha richiesto la creazione di legami con la Russia e la Cina». Anche se l’articolo di Zbigniew Brzezinski su “The American Interest”, dal titolo “Towards a Global Realignment” (verso un riallineamento globale) è stato ampiamente ignorato dai media, «dimostra che membri potenti dell’establishment decisionale non credono più che Washington prevarrà nel suo tentativo di estendere l’egemonia degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente e in Asia», afferma Mike Whitney. Il super-massone reazionario Brzezinski, primo reclutatore di Osama Bin Laden in Afghanistan, «è stato il principale fautore di questa idea», l’espansione “imperiale”, già esposta nel 1997 nel libro “La Grande Scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”. Ora «ha fatto dietro-front e ha richiesto una incredibile revisione strategica». Infatti scrive che «gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale», dal momento che «finisce la loro epoca di dominio globale». Meglio sfruttare la residua potenza americana per affrontare in modo diverso, cioè pacifico, «l’emergente ridistribuzione del potere globale e il violento risveglio politico in Medio Oriente».
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Quelle strane morti nella campagna elettorale della Clinton
La campagna della Clinton è lastricata di morti sospette: gente che avrebbe potuto parlare contro di lei? In più, Hillary è regolarmente accompagnata da un uomo obeso che sembra il suo assistente medico. In una foto, l’obeso tiene in mano un auto-iniettore di Diazepam: nome commerciale “Valium”, è un farmaco indicato nel trattamento di ansia, insonnia, paranoie, persino allucinazioni e spasmi muscolari di varia gravità, fino alla sclerosi multipla. La candidata democratica, scrive Maurizio Blondet, ha subito un ictus nel 2013, per il quale sembra venga trattata con anticoagulanti. Il web s’è scatenato in diagnosi ipotetiche, che vanno dall’epilessia ad altre malattie neurologiche o cardiovascolari (fino alla sifilide, che avrebbe contratto dal marito). «Spesso la signora è confusa e si abbandona a movimenti spastici del capo; fa fatica a salire una piccola rampa di scale e inciampa spesso; ha talora una tosse convulsa o nervosa: che la candidata abbia problemi di salute che si aggravano, non pare dubbio», anche se i media fingono di non accorgersene. La cosa però non è sfuggita a Donald Trump, che ripete: “low energy”, Hillary è troppo debole per reggere una semplice conferenza stampa. Non ne tiene più da ben 7 mesi, infatti.Letteralmente, continua Blondet nel suo blog, Hillary non fa che dormire. E ha un dottore che la segue continuamente. Si chiama Oladotun Okunola, è un afroamericano corpulento. L’hanno ripreso mentre le mette una mano sulla spalla e le dice: “keep talking”, inizia pure a parlare. Un uomo dei servizi? Quella volta, «la Clinton si è ripresa e ha detto in tono semi-isterico, a voce molto alta, “here we are, I keep talking”, eccoci, ora parlo. Una candidata solo in parte padrona di sé? Ma il peggio, scrive Blondet, è quella che definisce la «inquietante lista di morti attorno alla campagna di Hillary: persone che per qualche motivo potevano rovinargliela». Il primo era l’avvocato Shawn Lucas, incaricato dai sostenitori di Bernie Sanders di querelare Debbie Wasserman Schultz, presidente della Convention democratica, dopo la fuga delle email in cui costei mostrava di favorire Hillary sul candidato Sanders – ragion per cui la Wasserman Schultz ha dovuto dimettersi. Il 2 agosto, l’avvocato Lucas è stato trovato morto nel bagno di casa dalla sua fidanzata. Sulle cause della morte le autorità non hanno dichiarato nulla.Il secondo uomo si chiama Seth Rich. Era direttore del Voter Expansion Data dei democratici. E’ stato ucciso da vari colpi di pistola alla schiena a due passi da casa. L’omicidio, annota Blondet, è avvenuto dopo che Wikileaks aveva spifferato le 20.000 email che provano che il Dnc, la struttura elettorale democratica, stava favorendo Hillary contro Sanders: e Seth Rich, per le sue mansioni, poteva essere lo spifferatore. Per la polizia è stato un tentativo di rapina finito tragicamente. Ma sul corpo della vittima c’erano ancora portafoglio e orologio. C’è poi il caso di Victor Thorn, giornalista, che sulla “American Free Press” (un periodico di destra estremamente ben informato) ha firmato decine di articoli-inchiesta contro il clan Clinton e i suoi segreti più oscuri; tre suoi saggi – una trilogia, “Crowning Clinton: Why Hillary Shouldn’t Be in the White House” – stavano per essere tradotti all’estero. Ma il 1° agosto Thorn è stato trovato morto, anche lui ucciso da un colpo di pistola presso casa. Suicidio, ha decretato la polizia.E poi Joe Montano, presidente del Dnc prima di Debbie Wasserman Schultz. Dopo che Wikileaks a diffuso le 20.000 email dello scandalo – scrive Blondet – Montano è morto improvvisamente il 25 luglio scorso. «Attacco cardiaco, è stato decretato: a 47 anni e nessuna storia di malattie». Infine la lista delle strani morti si completa con John Ashe, già presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: stava per essere sottoposto a un processo per aver accettato mazzette da un ricco cinese, Ng Lap Seng, nel 1996. «Seng aveva fatto donazioni illegali per la rielezione di Bill Clinton; Ashe avrebbe certamente dovuto testimoniare sui legami tra il cinese e i Clinton». E’ morto il 23 giugno scorso, il giorno stesso in cui avrebbe testimoniato. Secondo la polizia, stava sollevando un pesante bilancere da ginnastica ma se l’è fatto cadere addosso, e – sfortuna – l’attrezzo gli ha schiacciato la gola. «Cose che succedono», commenta Blondet, sarcastico. Che aggiunge: ad un comizio di Hillary vicino a Orlando, è apparso al suo fianco Seddique Mateen, il padre di Omar Mateen, protagonista della strage del 12 giugno in quella città. Ai giornalisti che gli hanno domandato come mai fosse al comizio, a soli due mesi dalla tragedia, papà Mateen ha risposto: «Hillary Clinton è buona per gli Stati Uniti, al contrario di Trump che non offre soluzioni».La campagna della Clinton è lastricata di morti sospette: gente che avrebbe potuto parlare contro di lei? In più, Hillary è regolarmente accompagnata da un uomo obeso che sembra il suo assistente medico. In una foto, l’obeso tiene in mano un auto-iniettore di Diazepam: nome commerciale “Valium”, è un farmaco indicato nel trattamento di ansia, insonnia, paranoie, persino allucinazioni e spasmi muscolari di varia gravità, fino alla sclerosi multipla. La candidata democratica, scrive Maurizio Blondet, ha subito un ictus nel 2013, per il quale sembra venga trattata con anticoagulanti. Il web s’è scatenato in diagnosi ipotetiche, che vanno dall’epilessia ad altre malattie neurologiche o cardiovascolari (fino alla sifilide, che avrebbe contratto dal marito). «Spesso la signora è confusa e si abbandona a movimenti spastici del capo; fa fatica a salire una piccola rampa di scale e inciampa spesso; ha talora una tosse convulsa o nervosa: che la candidata abbia problemi di salute che si aggravano, non pare dubbio», anche se i media fingono di non accorgersene. La cosa però non è sfuggita a Donald Trump, che ripete: “low energy”, Hillary è troppo debole per reggere una semplice conferenza stampa. Non ne tiene più da ben 7 mesi, infatti.
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Media ridicoli: Trump impresentabile, come Silvio e Reagan
Ricordate la battuta di Marx su Napoleone III? La storia si ripete sempre due volte, scriveva il genio di Treviri, la seconda in forma di farsa. Di recente la storia ha preso il vizio di ripetersi più di due volte, ma la battuta funziona ancora, solo che, a ogni replica, l’elemento farsesco si acuisce, fino al grottesco. La colpa è dei media, i quali, nel raccontarci il mondo contemporaneo, ripropongono ossessivamente gli stessi schemi, che suonano ogni volta più ridicoli e stantii. Un esempio? Guardate come ci stanno raccontando la resistibile ascesa di Donald Trump, fino alla sua “intronazione” a candidato repubblicano alle imminenti elezioni presidenziali americane – evento che si è appena celebrato in quel di Cleveland. Ogni volta che leggo un articolo sul “New York Times”, sull’“Economist”, sul “Guardian” o sul nostro “Corriere della Sera”, mi scattano ricordi su come, qualche decennio fa, furono raccontate le fortune politiche di personaggi come Ronald Reagan o Silvio Berlusconi: il primo dipinto come un vecchio, patetico attore di western, un ridicolo parvenu che, se fosse riuscito a farsi eleggere, avrebbe sicuramente combinato pasticci; il secondo come un volgare arricchito, digiuno di ogni più elementare nozione e competenza politica, destinato a ottenere, tuttalpiù, una breve parentesi di notorietà come Guglielmo Giannini e il suo Uomo Qualunque.Sappiamo come sono andate le cose: Reagan ha inaugurato la controrivoluzione liberista e contribuito ad affossare l’impero sovietico, Berlusconi si è trasformato nell’“eroe” di un ventennio che ha rivoltato come un calzino il nostro sistema politico. Ed entrambi sono stati servilmente celebrati come straordinari “innovatori” dai media che li avevano presi in giro. Ora tocca a Trump. La grande stampa americana non riesce a digerire il fatto che un outsider si sia fatto beffe dell’establishment repubblicano e delle lobby che lo sostengono, per cui, scongiurato il pericolo di una candidatura Sanders in campo democratico, si stanno scatenando, sia attaccandone da “sinistra” (parola che suscita ilarità ove si considerino i pulpiti da cui provengono gli attacchi) le dichiarazioni razziste, sessiste e xenofobe, sia cercando di metterne in ridicolo i gesti, l’aspetto fisico e il linguaggio. Il “Corriere” del 19 luglio scorso si è allineato a tale strategia, pubblicando un articolo dello scrittore Richard Ford in cui leggiamo frasi come «non potrei cenare da solo con Trump nel mio ristorante preferito di Parigi. Rovinerebbe la cena»; oppure: «Sono certo che non potrei discutere con lui di un grande romanzo appena letto»; mentre, nella pagina a fianco, compare un trafiletto sulla “odissea tricologica” del tycoon (accompagnato da immagini che ritraggono Trump nelle varie fasi della metamorfosi subita dalla sua improbabile chioma).Sorvolando sui tempi in cui il “Corriere” sviolinava Berlusconi (dimostrandosi assai più indulgente con le di lui chiome), è chiara l’intenzione di mettere alla gogna questo “villano rifatto”. Al pari di sua moglie, sbeffeggiata in un altro articolo di Maria Laura Rodotà, nel quale ci si chiede come potrebbe questa “ex modella di biancheria intima” diventare First Lady. Essendo cinico e maligno, penso che a nessuno di questi giornali importi qualcosa se alla Casa Bianca dovesse approdare un “cafone” (non sarebbe certo il primo). Ciò che spaventa non è il candidato sporco, brutto e cattivo: sono gli elettori sporchi brutti e cattivi, cioè quel proletariato bianco impoverito e incazzato che sostiene Trump allo stesso modo in cui si è “permesso” di votare Brexit. Così come spaventano le sparate di Trump contro il free trade, le promesse di abbandonare l’Europa al proprio destino (si paghi da sola le sue avventure neocoloniali), le minacce contro Wall Street e i super ricchi e altre cosette di sinistra che sembra aver “rubato” al populista di sinistra Bernie Sanders.Vorrei rassicurare lor signori: non credo che Trump possa vincere, visto che la macchina politica – ormai trasversale – e le super lobby che appoggiano la Clinton le regaleranno quasi certamente la vittoria (benché la maggioranza del popolo americano la odi cordialmente – e con buone ragioni). Ma quand’anche vincesse, vedrete che la sua demagogia antisistema sparirà come d’incanto, e lui farà esattamente quello che l’establishment si attende da un “buon” presidente. Dopodiché “New York Times”, “Economist”, “Corriere” e compagnia cantante inizieranno a sviolinarlo così come hanno sviolinato Reagan e Berlusconi. Un’altra replica, un’altra farsa.(Carlo Formenti, “Trump e i media, la storia si ripete in farsa”, da “Micromega” del 21 luglio 2016).Ricordate la battuta di Marx su Napoleone III? La storia si ripete sempre due volte, scriveva il genio di Treviri, la seconda in forma di farsa. Di recente la storia ha preso il vizio di ripetersi più di due volte, ma la battuta funziona ancora, solo che, a ogni replica, l’elemento farsesco si acuisce, fino al grottesco. La colpa è dei media, i quali, nel raccontarci il mondo contemporaneo, ripropongono ossessivamente gli stessi schemi, che suonano ogni volta più ridicoli e stantii. Un esempio? Guardate come ci stanno raccontando la resistibile ascesa di Donald Trump, fino alla sua “intronazione” a candidato repubblicano alle imminenti elezioni presidenziali americane – evento che si è appena celebrato in quel di Cleveland. Ogni volta che leggo un articolo sul “New York Times”, sull’“Economist”, sul “Guardian” o sul nostro “Corriere della Sera”, mi scattano ricordi su come, qualche decennio fa, furono raccontate le fortune politiche di personaggi come Ronald Reagan o Silvio Berlusconi: il primo dipinto come un vecchio, patetico attore di western, un ridicolo parvenu che, se fosse riuscito a farsi eleggere, avrebbe sicuramente combinato pasticci; il secondo come un volgare arricchito, digiuno di ogni più elementare nozione e competenza politica, destinato a ottenere, tuttalpiù, una breve parentesi di notorietà come Guglielmo Giannini e il suo Uomo Qualunque.
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Magaldi: da Nizza ad Ankara, nessuno vi racconta la verità
Toglietevi dalla testa l’idea che un pazzo solitario abbia compiuto la strage sul lungomare di Nizza, non casualmente programmata il 14 luglio, data simbolo della principale rivoluzione europea attuata dalla massoneria progressista. Di qui l’automatismo che collega il massacro francese alla “risposta” andata in scena poche ore dopo in Turchia, paese amministrato dall’oligarca Erdogan, esponente del vertice internazionale della super-massoneria di destra. E’ la lettura fornita da Gioele Magaldi, massone a sua volta, già gran maestro della loggia romana Monte Sion, poi fondatore del Grande Oriente Democratico e transitato nella superloggia Thomas Paine. A fine 2014, col dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” edito da Chiarelettere, Magaldi ha svelato inquietanti retroscena del massimo potere mondiale, spiegando il ruolo di 36 Ur-Lodges (logge madri, a carattere cosmopolita) nella genesi delle principali decisioni politiche, militari, economiche e finanziarie dell’ultimo mezzo secolo: rivoluzioni e colpi di Stato, terrorismo e strategia della tensione, welfare democratico e involuzioni autoritarie, fino all’avvento della globalizzazione a mano armata e della “guerra infinita” inaugurata dalla tragedia dell’11 Settembre.Primo capitolo, la Francia: il paese è chiaramente sotto attacco a partire dalla strage della redazione di Charlie Hebdo, le cui indagini sono state fermate dal governo Hollande con l’apposizione del segreto militare dopo la scoperta, da parte della magistratura parigina, della triangolazione che ha coinvolto la Dgse, cioè i servizi segreti francesi, nella fornitura di armi al commando-killer (armi slovacche, acquistate in Belgio sotto la copertura dell’intelligence). Il grande spauracchio dell’ultimo scorcio si chiama Isis? Si tratta di un paravento, sostiene Magaldi, nonché di una “firma”: Isis è anche il nome della dea egizia Iside, chiamata anche Hathor, e Hathor Pentalpha è il nome della “loggia del sangue e della vendetta” fondata nel 1980 da Bush padre quando fu battuto da Reagan alle primarie repubblicane. A quella cupola di potere, sempre secondo Magaldi, è ascrivibile la regia dell’11 Settembre, con annessa “fabbricazione del nemico”, da Al-Qaeda a Saddam Hussein: della Hathor Pentalpha, scrive Magaldi, hanno fatte parte sia Tony Blair, “l’inventore” delle armi di distruzione di massa irachene, sia Nicolas Sarkozy, il demolitore del regime di Gheddafi. E inoltre lo stesso Erdogan, il massimo padrino dell’Isis.«Da fonti riservate – racconta Magaldi a “Colors Radio” – sapevo con certezza che in Turchia si stesse preparando un golpe: non il maldestro tentativo cui abbiamo appena assistito, facilmente controllato da Erdogan, ma un golpe autentico, programmato per l’autunno». Niente di più facile che il “sultano” l’abbia semplicemente anticipato, in modo farsesco, provando a disinnescare la minaccia. Ma attenzione: «Erdogan sa benissimo che i suoi veri, potenti nemici non sono toccabili: la sua repressione, feroce e molto rumorosa, non li sfiorerà neppure. Nel caso di un golpe a tutti gli effetti, quindi con il coinvolgimento dei massimi vertici dell’esercito, della marina e dell’aviazione, oltre che con la partecipazione degli Usa e di Israele, Erdogan verrebbe liquidato in poche ore, arrestato o ucciso». Cosa manca, al puzzle? Il piatto forte: le elezioni Usa. Solo allora, cioè dopo novembre, è plausibile che il quadro geopolitico possa chiarirsi. A cominciare da Ankara: al di là del chiasso organizzato in queste ore da Erdogan, dice Magaldi, la Turchia non ha ancora deciso “cosa fare da grande”. E soprattutto: come chiudere la pratica Isis, di cui resta la principale azionista.Quanto alla strage di Nizza, si tratta della «ripetizione ormai stanca» di un copione già invecchiato, quello dei tagliatori di teste che hanno seminato il terrore – con sapiente regia hollywoodiana – tra Iraq e Siria. La dominante, oggi, si chiama caos. E nessuno – tantomeno Erdogan – sa esattamente cosa accadrà domani, ovvero: su quale configurazione di forze si baseranno i poteri forti, anche super-massonici, che finora hanno assegnato precisi spazi agli attori sul terreno, da Obama a Putin, dalla Merkel a Erdogan. Sempre secondo Magaldi, il network trasversale della super-massoneria progressista si è impegnato con successo nelle primarie Usa, da un lato lanciando Bernie Sanders per spostare a sinistra la politica della Clinton, e dall’altro utilizzando Donald Trump come cavallo di Troia per eliminare dalla corsa il pericolo numero uno, Jeb Bush, ultimo esemplare della filiera Hathor Pentalpha. Comunque vada a novembre, conclude Magaldi, gli “architetti del terrore” dovrebbero finalmente perdere terreno: la stessa Clinton si starebbe smarcando da certi legami pericolosi con i settori più opachi del potere di Washington, e Trump non sarebbe certo disponibile a coprire azioni di macelleria internazionale come quelle a cui stiamo assistendo.Una grande retromarcia, dopo 15 anni di orrori? Qualche segnale lo stiamo già avendo, dice un altro analista dal solido retroterra massonica come Gianfranco Carpeoro: a inquietare i gestori del massimo potere è proprio la recente “diserzione” di una parte del vertice planetario, non più disposto ad avallare la strategia della tensione (da Bin Laden al Califfato) promossa dall’élite neo-aristocratica, quella che ha cinicamente ideato e gestito l’austerity europea incarnata da Draghi e Merkel. Se cresce il bilancio di sangue, anche in Europa – questa la tesi – è perché il potere oligarchico si sta indebolendo e teme di perdere la sua presa. E’ di ieri lo strappo del Brexit, e la Francia resta sotto tiro anche per via del suo ruolo-cardine in una struttura antidemocratica come l’attuale Unione Europea. I tempi stanno per cambiare? Se sì, a quanto pare, non sarà una passeggiata: è saggio aspettarsi di tutto, in questa fase di incertissima transizione. Certo, dice ancora Magaldi, bisogna tenere gli occhi aperti: è impensabile che la sicurezza francese abbia potuto “dimenticarsi” di quel camion-killer, parcheggiato da giorni sul lungomare di Nizza. E forse il primo a cadere sarà proprio il capo della “democratura” turca: «Erdogan sembra forte, ma in realtà è fragilissimo». Un consiglio? Allacciare le cinture, in attesa delle elezioni Usa.Toglietevi dalla testa l’idea che un pazzo solitario abbia compiuto la strage sul lungomare di Nizza, non casualmente programmata il 14 luglio, data simbolo della principale rivoluzione europea attuata dalla massoneria progressista. Di qui l’automatismo che collega il massacro francese alla “risposta” andata in scena poche ore dopo in Turchia, paese amministrato dall’oligarca Erdogan, esponente del vertice internazionale della super-massoneria di destra. E’ la lettura fornita da Gioele Magaldi, massone a sua volta, già gran maestro della loggia romana Monte Sion, poi fondatore del Grande Oriente Democratico e transitato nella superloggia Thomas Paine. A fine 2014, col dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” edito da Chiarelettere, Magaldi ha svelato inquietanti retroscena del massimo potere mondiale, spiegando il ruolo di 36 Ur-Lodges (logge madri, a carattere cosmopolita) nella genesi delle principali decisioni politiche, militari, economiche e finanziarie dell’ultimo mezzo secolo: rivoluzioni e colpi di Stato, terrorismo e strategia della tensione, welfare democratico e involuzioni autoritarie, fino all’avvento della globalizzazione a mano armata e della “guerra infinita” inaugurata dalla tragedia dell’11 Settembre.
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Fermare Trump: maxi-attentato e terzo mandato per Obama
Un terzo mandato per la presidenza Obama? Sarebbe perfetto per sospendere le presidenziali di novembre e allontanare quello che resta l’incubo numero uno per Wall Street, ovvero Donald Trump. Naturalmente, per arrivare a tanto servirebbe qualcosa di eccezionale, mostruoso, devastante. Come ad esempio un replay del maxi-attentato dell’11 Settembre. La cosa incredibile è che se ne stia parlando apertamente, negli Usa, come racconta Alexander Azadgan: «Recentemente, si è sollevato un certo interesse (negli Stati Uniti e all’estero) sulla validità giuridica di un eventuale terzo mandato della presidenza Obama nel caso di una guerra imminente in forma di attacco terroristico stile 11 Settembre che, senza essere di quelle proporzioni, permetterebbe una sospensione temporanea delle elezioni presidenziali di novembre». Solo supposizioni, naturalmente, che si devono a esponenti della destra dell’intellighenzia americana e a fonti di intelligence. L’uica certezza è che Wall Street e i cospiratori del Pnac desiderano «il proseguimento della politica di Obama attraverso la candidatura di Hillary Clinton», dal momento che «rappresenta per loro l’opzione più sicura, la più prevedibile, malleabile e controllabile».In ogni caso, avverte Azadgan in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, meglio stare in guardia rispetto all’auto-terrorismo “false flag”, alias strategia della tensione: «Queste astuzie diaboliche sono sempre state usate nel corso della storia umana, ma abbiamo assistito a una concentrazione senza precedenti del loro impiego a partire dall’11 Settembre, che altro non era che una ricetta prefabbricata per garantire la durata del primo mandato di Bush (2000-2004) e, poi, della sua rielezione nel 2004-2008». La storia del ‘900 parla da sola. Prima il naufragio del Lusitania nel 1915 come preludio all’entrata di Washington nella Prima Guerra Mondiale. Poi la macchinazione di Hitler per bruciare il Reichstag nel 1933 ed eliminare i suoi avversari politici schierati a sinistra. Quindi l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941, servito come pretesto per l’ingresso di Washington nella Seconda Guerra Mondiale. E ancora: l’incidente nel Golfo di Tonchino che è servito come scusa per la guerra in Vietnam. Ultimo, ma non meno importante, l’11 Settembre. Quindici anni di guerra ininterrotra in Medio Oriente, a scopo di dominio.Tutti eventi «progettati con astuzia, attraverso un calcolo preprogrammato avente come conseguenza la fabbricazione fallace del consenso del popolo americano, ipnotizzato da paure largamente false e mal percepite». Tornando a oggi: “colpo di Stato” di Obama nel caso in cui Trump abbia la meglio contro Clinton? «Tutti questi fattori di paura, in combinazione con il crollo economico del 2008 che non è mai stato veramente risolto (tranne che per quell’1% a scapito del 99%), così come le dispendiose e sconsiderate guerre del primo decennio del 2000, e non solamente nel Medio Oriente, ma anche alle porte della Russia, attraverso l’Ucraina», secondo Azadgan ha creato avversione e diffidenza nei confronti di Hillary Clinton, «essendo lei coinvolta in pieno in queste decisioni rivelatesi errate, ossia l’invasione del 2003 e l’occupazione dell’Iraq e la seguente in Libia con la destituzione di Muhammar Gheddafi nel 2011 e l’assassinio dell’ambasciatore Stevens, un colpo organizzato dai servizi americani in associazione con quel guazzabuglio chiamato Bengasi».Pesa il coinvolgimento della Clinton in tutti questi fatti, e più ancora il suo comportamento sospetto ed evasivo, la sua intenzionale mancanza di trasparenza (la soppressione di migliaia di mail dal server del suo computer personale nel corso delle sue attività per sovvertire il regime libico, fatto nel quale lei è invischiata fino ai collo). «Il suo comportamento arrogante e solitamente aggressivo hanno prodotto ed esacerbato una profonda avversione e sospetto da parte di una notevole porzione di elettorato americano, democratico e repubblicano in ugual misura: ciò che spiega il fenomeno Bernie Sanders benché quest’ultimo fosse ormai a fine carriera». Tutto questo favorisce la campagna di Donald Trump, che peraltro fino a oggi ha offerto «uno spettacolo clownesco della realtà, nel quadro di una politica demagogica tossica e pericolosa». Ci sarebbero dunque le condizioni (teoriche) per «una continuazione del regime Obama», alla quale però lo stesso Azadgan dice di non credere. Ma restano rischi, «se le strutture di potere a Wall Street (e a Washington) si sentissero minacciate da ciò che potrebbe somigliare a una presa di controllo imminente da parte di Trump».Alcuni gruppi di analisti, conclude Azadgan, sostengono che «la cricca di Washington neocon/neolib potrebbe produrre un’altra operazione sotto falsa bandiera stile 11 Settembre, ma non di pari grandezza, al fine di sostenere il regime Obama con il falso pretesto di un’urgenza nazionale». Questi stessi ambienti, inoltre, denunciano che il complesso delle percezioni, dei sentimenti e dei timori americani è già stato perfettamente «plasmato per preparare le masse ad accettare questo possibile scenario attraverso una serie di operazioni “false flag”». Lo scenario non è rassicurante: «Dall’ “inside job”dell’11 Settembre al 7 luglio 2005 nel Regno Unito, e tutto il cammino percorso per arrivare alla creazione di uno stato di ferocia permanete attraverso gli agenti Isis a Parigi, San Bernardino, Bruxelles, e adesso nell’orribile atto di Orlando, in Florida».Un terzo mandato per la presidenza Obama? Sarebbe perfetto per sospendere le presidenziali di novembre e allontanare quello che resta l’incubo numero uno per Wall Street, ovvero Donald Trump. Naturalmente, per arrivare a tanto servirebbe qualcosa di eccezionale, mostruoso, devastante. Come ad esempio un replay del maxi-attentato dell’11 Settembre. La cosa incredibile è che se ne stia parlando apertamente, negli Usa, come racconta Alexander Azadgan: «Recentemente, si è sollevato un certo interesse (negli Stati Uniti e all’estero) sulla validità giuridica di un eventuale terzo mandato della presidenza Obama nel caso di una guerra imminente in forma di attacco terroristico stile 11 Settembre che, senza essere di quelle proporzioni, permetterebbe una sospensione temporanea delle elezioni presidenziali di novembre». Solo supposizioni, naturalmente, che si devono a esponenti della destra dell’intellighenzia americana e a fonti di intelligence. L’uica certezza è che Wall Street e i cospiratori del Pnac desiderano «il proseguimento della politica di Obama attraverso la candidatura di Hillary Clinton», dal momento che «rappresenta per loro l’opzione più sicura, la più prevedibile, malleabile e controllabile».
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Il golpe mediatico di Hillary, nostra signora della guerra
«Tecnicamente non è un colpo di Stato, certo, ma gli somiglia tanto». Quel che si è compiuto in queste ore intorno alla candidatura di Hillary Clinton, scrive Pino Cabras, è abbastanza simile a quanto accade ovunque, nell’Occidente in crisi: «Le oligarchie hanno bisogno della cerimonia rassicurante e ratificante del voto, ma non vogliono che il suffragio popolare possa mai disturbare le loro decisioni». Così non hanno aspettato che la California, il boccone più grosso del piatto elettorale delle primarie Usa, potesse sconfiggere la sempre più traballante Hillary fiaccata dagli scandali, ed esprimere così una possibile alternativa nella persona del “socialista” Bernie Sanders. «Non volevano trovarsi in imbarazzo, con i cosiddetti “superdelegati” (i notabili di partito non espressi dal voto delle primarie) costretti a imporsi sulla volontà degli elettori solo a cose fatte, con un Sanders in grado di contestarli energicamente».Perciò, aggiunge Cabras su “Zero Consensus”, le “cose fatte” le han volute fare loro: «Hanno proclamato la nomination in anticipo, hanno dettato la grande notizia al sistema mediatico mettendo a tacere il resto, e al diavolo gli elettori democratici». Non c’è che dire, «un bell’assaggio di quel che sarebbe una presidenza in mano alla candidata preferita da Wall Street e dai superfalchi neoconservatori». Cabras mette in evidenza la titolazione di “Repubblica”, attorno al report di Federico Rampini: “Usa, Hillary vince la nomination. Prima donna, momento storico. Sarà la candidata democratica alla Casa Bianca”. A ancora: “Figlie, potete diventare tutto, anche presidente”. Dulcis in fundo, anche la chiosa del presidente uscente: “Obama chiede a Sanders di ritirarsi e unire il partito”.In questo quadro, osserva Cabras, il coro dei media occidentali non trova di meglio che esaltarsi per la “prima volta di una nomination di una donna”. «C’è da capire la valenza del simbolo, ma Hillary non è un simbolo: è un individuo specifico, una personalità politica concretamente distinguibile per i suoi comportamenti, già sperimentata nel suo ruolo di Segretaria di Stato, quando ha preso decisioni politiche che hanno acceso nuove guerre». Le risate della Clinton alla notizia dell’uccisione di Gheddafi, il “traffico di jihadisti” dalla Libia alla Siria, con corredo di armi chimiche. «Il caos che ha voluto creare ha ucciso donne: innocenti e a migliaia», conclude Cabras. «Potrebbero diventare milioni, se potesse applicare le sue idee sul Medio Oriente e sul rapporto fra Europa e Russia».«Tecnicamente non è un colpo di Stato, certo, ma gli somiglia tanto». Quel che si è compiuto in queste ore intorno alla candidatura di Hillary Clinton, scrive Pino Cabras, è abbastanza simile a quanto accade ovunque, nell’Occidente in crisi: «Le oligarchie hanno bisogno della cerimonia rassicurante e ratificante del voto, ma non vogliono che il suffragio popolare possa mai disturbare le loro decisioni». Così non hanno aspettato che la California, il boccone più grosso del piatto elettorale delle primarie Usa, potesse sconfiggere la sempre più traballante Hillary fiaccata dagli scandali, ed esprimere così una possibile alternativa nella persona del “socialista” Bernie Sanders. «Non volevano trovarsi in imbarazzo, con i cosiddetti “superdelegati” (i notabili di partito non espressi dal voto delle primarie) costretti a imporsi sulla volontà degli elettori solo a cose fatte, con un Sanders in grado di contestarli energicamente».
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Barnard: ciao Sanders, finto ribelle guidato da Wall Street
Obama non era ancora presidente, nel 2008, ma c’era «l’intero mondo delle belle anime con il cranio che gli scoppiava perché vinceva il negro di sinistra dopo il cattivo Bush». Chi l’aveva finanziato, Obama? Le mega-banche, scriveva Paolo Barnard, con largo anticipo, dopo aver studiato gli atti di Obama al Congresso negli anni precedenti, su armi, Israele e diritti civili. «Oggi sappiamo che ha travasato più soldi lui dal 99% all’1% di tutta la Storia d’America, e ha ucciso più veri negri innocenti lui di Reagan, Bush I&II, Clinton messi assieme». In altre parole: «Oggi anche le ponghe del Tevere sanno che Obama è stato il peggior presidente di destra finanziaria, baciapile dei miliardari e assassino internazionale della Storia d’America». E dopo Obama? Bernie Sanders. Stessa storia: ci caschiamo, puntualmente. Il primo a insospettirsi anche su Sanders fu proprio Barnard, nel 2015: non è tollerabile – scriveva – che un candidato alle presidenziali Usa risponda con slogan buonisti da “anima bella” a domande su equità fiscale, divario tra élite e classe media, tra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Superficiale ed evasivo anche sui bankster, i gangster delle banche, e sulle 14.000 basi americane nel mondo, con relative guerre in corso. Volta la carta, e scopri chi c’era dietro a Sanders.Sempre nell’autunno 2015, Barnard rivela che Sanders, nell’ottobre del 2011, mise insieme una squadra di economisti per portare avanti quello che certamente era il programma sociale «più socialista dai tempi di Rosa Luxemburg». Ma chi chiamò al suo fianco «per portare la salma di Marx alla Banca Centrale Usa»? E qui casca l’asino. Perché il primo nome è quello di Joseph Stiglitz: un neo-keynesiano “dimezzato”, «che crede che l’intervento del Deficit Positivo di Stato ci deve essere solo se il meraviglioso Mercato ha fatto errori». E poi Robert Reich: «Uomo di Bill Clinton, il presidente che ha creato le basi per la più devastante crisi economica dal 1929. Ma anche uomo di Obama (si legga sopra)». Quindi James Galbraith: «Un mezzo insulso keynesiano che quando poi ha fatto da consulente al governo di Atene sulla crisi mortale delle Austerità, non ha saputo che balbettare cazzate finite negli scoli dei greci. Ha preso parcelle ed è tornato a casa». E poi Lawren Mishel, uno che «braita che i Deficit di Stato sono insostenibili», e Nomi Prince, «un ex di Goldman Sachs, ex di Lehman, ex di ogni altra mega-banca di Wall Street. Commenti non necessari: come prendere un dirigente della Pfizer a sperare di promuovere l’omeopatia».Nel team del “rivoluzionario “ Sanders, anche William Greider: «Volenteroso critico delle Banche Centrali, ma totalmente ignaro di macro-economia dello Stato». Senza contare «un gruzzolo di camomille economiche come Tim Canova, poi Robert Johnson, poi Gerald Epstein, Roger Hickey, Bob Pollin, e soprattutto il noto Dean Baker: tutti ‘belle anime’ che rigettano categoricamente l’idea che i Deficit Positivi di Stato sono in realtà la salvezza della Piena Occupazione, Sanità, Servizi, Istruzione, per tutti i cittadini», continua Barnard. Ma non è tutto. Sanders ha preso a bordo anche un uomo come Robert Auerbach, «che ha diligentemente servito tutte le moderne disastrose economie Usa sotto Paul Volker, Alan Greenspan e (conato) Ronald Reagan». Sicché: «Come una cariatide incrostata di Imperialismo Usa potesse stare vicino a Sanders, ce lo spiegherà Bernie». E si arriva al “peggio del peggio”, Jeffrey Sachs: «E’ il più schifoso falsario dell’economia Neoliberista e Assassina del mondo accademico, che mentre scrive libri su libri infarciti di ‘lotta alla povertà’, ha lavorato per decenni per devastare la vita di centinaia di milioni di polacchi e russi dopo il 1989».La sua “Shock Terapia”, continua Barnard, «portò la Russia a un’inflazione al 2.500% (no errori di stampa), quindi disintegrò l’ottimo risparmio privato russo che poteva salvare il paese, e portò la mortalità media dei russi a livelli afghani. Bravo Sanders, hai passato la seconda asilo?». Un «infame purè di economisti», da cui si salvano solo Stephanie Kelton, Randall Wray e Bill Black, della Mmt, Modern Money Theory. «Ma che cazzo contano in coda a questo drappello di nemici giurati dei Deficit Positivi e di super-affermati colossi politici? Zero, acquetta. Poi nessuna menzione di Warren Mosler, né allora né oggi». Nel 2011 «la scena fu talmente desolante, che non scrivo altro», chiosava Barnard l’anno scorso. «E non nutro nessuna speranza che tu faccia meglio questa volta, Sanders». Oggi sappiamo che Bernie non ce l’ha fatta, a battere Hillary. Niente paura: non abbiamo perso niente, chiarisce Barnard.Obama non era ancora presidente, nel 2008, ma c’era «l’intero mondo delle belle anime con il cranio che gli scoppiava perché vinceva il negro di sinistra dopo il cattivo Bush». Chi l’aveva finanziato, Obama? Le mega-banche, scriveva Paolo Barnard, con largo anticipo, dopo aver studiato gli atti di Obama al Congresso negli anni precedenti, su armi, Israele e diritti civili. «Oggi sappiamo che ha travasato più soldi lui dal 99% all’1% di tutta la Storia d’America, e ha ucciso più veri negri innocenti lui di Reagan, Bush I&II, Clinton messi assieme». In altre parole: «Oggi anche le ponghe del Tevere sanno che Obama è stato il peggior presidente di destra finanziaria, baciapile dei miliardari e assassino internazionale della Storia d’America». E dopo Obama? Bernie Sanders. Stessa storia: ci caschiamo, puntualmente. Il primo a insospettirsi anche su Sanders fu proprio Barnard, nel 2015: non è tollerabile – scriveva – che un candidato alle presidenziali Usa risponda con slogan buonisti da “anima bella” a domande su equità fiscale, divario tra élite e classe media, tra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Superficiale ed evasivo anche sui bankster, i gangster delle banche, e sulle 14.000 basi americane nel mondo, con relative guerre in corso. Volta la carta, e scopri chi c’era dietro a Sanders.
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Dopo Kissinger, ecco Hillary: è la dea della prossima guerra
In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”: «Resterò nella Nato. Resterò nella Nato, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la Nato era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La Nato è accorsa in nostra difesa dopo l’11 Settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la Nato è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre».Tracciando un abile collegamento tra l’11 Settembre e “l’aggressione russa”, che presumibilmente sta cambiando la faccia dell’Europa, qui c’è tutto, incluse due delle cinque principali minacce all’esistenza degli Usa secondo il Pentagono: la prima (la Russia) e l’ultima (il terrorismo); le altre sono la Cina, la Corea del Nord e l’Iran (si noti che Hillary ha sempre accusato Teheran di “terrorismo”). “Continueremo a cercare missioni” dovrebbe essere decrittografato come “altre guerre” e implica, senza – mai – ammetterlo che la Libia e la Siria sono stati notevoli disastri nella politica estera degli Usa. In effetti, Hillary si spinge persino oltre, affermando di non aver finito con il Medio Oriente e di essere pronta a continuare la sua “missione” di imporre la democrazia con qualsiasi mezzo necessario, dai droni alla R2P (“responsibility to protect” [responsabilità di proteggere])… grazioso eufemismo per imperialismo umanitario. È inutile che i cittadini europei manifestino choc e timore reverenziale; in fin dei conti, hanno a che fare con un falco della guerra che è arrivato ad ammettere, ufficialmente, per la prima volta durante la sua campagna presidenziale, di essere realmente un falco della guerra. Per quanto riguarda la “nazione indispensabile” (copyright del mentore di Hillary, Madeleine Albright), sarà come al solito un affare… come la ricerca di guerre senza fine. Quindi, basta con l’immagine, coltivata con cura dai pr, di una gentile, innocua, vecchia nonnina: qui abbiamo piuttosto Hillary che apre l’argine al Kissinger che ha dentro di sé.Il consolato americano di Bengasi era essenzialmente la copertura di una linea clandestina usata dalla Cia per contrabbandare armi ai “ribelli moderati” che si battevano contro Damasco. Seymour Hersh è stato tra coloro che lo hanno rivelato: «L’amministrazione di Obama non ha mai ammesso pubblicamente il proprio ruolo nella creazione di quella che la Cia chiama la “linea dei ratti“, un canale clandestino che portava dritto in Siria. La “linea dei ratti”, autorizzata agli inizi del 2012, era usata per convogliare armi e munizioni all’opposizione partendo dalla Libia e passando per la Turchia fino ad attraversare il confine con la Siria. Molti dei siriani che alla fine ricevevano le armi erano jihadisti, alcuni dei quali collegati ad al-Qaeda». Ora, immaginate il segretario di Stato Hillary Clinton che agevola la spedizione di missili antiaerei terra/aria Sa-7 e di granate a propulsione missilistica a dei jihadisti collegati ad al-Qaeda. È decisamente qualcosa che non si può volere nel proprio curriculum, soprattutto nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.Hillary sta già combattendo una battaglia per la credibilità per quanto riguarda il suo server sotterraneo di e-mail. Celate nella sua crociata personale per la privatizzazione di dati dal Dipartimento di Stato degli Usa, ci potrebbero essere almeno tre gravissime infrazioni: distruzione, alterazione, o falsificazione di documenti; convertire a proprio uso proprietà di un Dipartmento degli Usa; raccogliere, trasmettere o perdere dati relativi alla difesa. L’intera nazione attende di sapere se il procuratore generale degli Usa, Loretta Lynch, che risponde al suo capo, il presidente Obama, deciderà di perseguire l’ex segretario di Stato a causa di tali infrazioni. Come se la suspense non bastasse, l’ex capo della Cia, Robert Gates, fonte credibile e in buona fede, ha messo in discussione, pubblicamente, il “buon senso” di Hillary e la sua mancanza di investigazione e approfondimento dei dati nel disastro della Libia, praticamente dichiarando che Hillary è una mina vagante.Gates ha rivelato quello che nell’ambiente governativo è un segreto di Pulcinella: che Hillary era completamente concentrata su un cambiamento di regime in Libia: «Il presidente mi ha detto che si è trattato di una delle decisioni più difficili che si sia mai trovato a prendere, una specie di 51 a 49, e sono certo che non avrebbe preso quella decisione se il segretario di Stato Clinton non l’avesse sostenuta». Gates più tardi ha ricordato la domanda di Obama: «Posso portare a termine le due guerre in cui sono già coinvolto prima che voi ne andiate a cercare una terza?». Gates ha aggiunto che il colonnello Gheddafi «non rappresentava affatto una minaccia per noi. Rappresentava una minaccia per il suo popolo, tutto qui». Nemmeno essere il principale architetto di una Libia “liberata”, che si è trasformata in un covo di terrorismo aperto a tutti è una descrizione del proprio operato che si possa volere nel proprio Cv nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.Le affermazioni di Gates riguardano fatti in qualche modo già trapelati nel marzo 2011: il famoso incontro notturno a Parigi tra Hillary e il “ribelle” libico Mahmoud Jibril. Uomo decisamente ammaliante, istruito negli Usa, Jibril aveva messo nel sacco Hillary dicendo «tutte le cose giuste sul fatto di sostenere la democrazia e l’inclusività e di creare istituzioni libiche, alimentando una certa speranza sul fatto che saremmo stati in grado di farcela», stando a Philip H. Gordon, uno degli aiutosegretari della Clinton. «Ci hanno detto quello che volevamo sentire. E si tende a voler credere». Ed ecco il punto conclusivo: si tratta di quello che un’amministrazione degli Usa “vuole credere”. Hillary ne era stata immediatamente convinta, senza minimamente far seguire la retorica a una stima, così come deve essere fatta secondo l’Abc dei servizi segreti americani.Questa versione, in quanto catalizzatore decisivo del cambiamento di regime in Libia, è più pertinente del fantasioso racconto francese sul fatto che il piccolo Napoleone Nicolas Sarkozy abbia preso il comando incitato da un patetico filosofo con l’immancabile camicia bianca aperta sul suo microscopico plesso solare. Così la Libia è diventata la guerra di Hillary, proprio come quella dell’Iraq nel 2003 era stata la guerra del regime neo-conservatore di Cheney. Obama, come presidente, incitato dal suo segretario di Stato, si è addentrato in Libia senza un piano B, senza un piano di azioni da intraprendere successivamente, senza nessuna meta strategica di politica estera a lunga scadenza. Eppure nessuno in Europa si dovrebbe aspettare che la dea della guerra spieghi le proprie mete strategiche… che siano portate avanti con l’uso di droni, sovversione, sanzioni, bombardamenti con fini liberatori o R2P. Che siano in Libia, o facciano parte di tutte queste “missioni” una volta che lei diventerà presidente.(Pepe Escobar, “Hillary Clinton, della della guerra”, da “Occhi della guerra” del 2 maggio 2016).In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”: «Resterò nella Nato. Resterò nella Nato, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la Nato era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La Nato è accorsa in nostra difesa dopo l’11 Settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la Nato è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre».
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11 Settembre: l’uomo che condannò Moro accusa Israele
Accusa i neocon con nomi e cognomi: Paul Wolfowitz allora viceministro al Pentagono, l’israelo-americano Michael Chertoff, il rabbino Dov Zakheim (numero 3 al Pentagono) di essersi infiltrati nel governo Bush jr. e di aver organizzato, “su istigazione di Israele”, il mega-attentato dell’11 Settembre 2001. E non è un complottista marginale: è stato un alto funzionario del Dipartimento di Stato, da Nixon a Carter a Bush-padre, esperto in guerra psicologica, attore in operazioni coperte (come l’uccisione di Moro) per conto degli Stati Uniti. Membro fino al 2012 del Council on Foreign Relations, quindi dell’élite dell’establisment. Né lo si può accusare di avere come motivazione l’antisemitismo: i suoi genitori erano ebrei russo-polacchi fuggiti alla Shoah, lui ha scritto persino una biografia di sua “mamma yiddish”, Teodora. E’ Steve Pieczenik. Una vecchia conoscenza anche per l’Italia, come vedremo. Steve Pieczenik ha detto tutto il 21 aprile 2016, intervistato da Alex Jones, creatore del sito “InfoWars”.La video-intervista, di 47 minuti, è stata diffusa, probabilmente non a caso, nel pieno della campagna americana per incolpare la monarchia saudita del mega-attentato dell’11 Settembre, con la minaccia di pubblicare le 28 pagine del rapporto della Commissione Senatoriale sul 9/11, secretate da Bush jr. proprio perché mostrerebbero il coinvolgimento dei sauditi ai più alti livelli. Steve Pieczenik corregge: sì, c’è stata la cooperazione di “agenti sauditi”, ma il mandante principale è Israele, insiste nell’intervista. Egli si dichiara disposto a testimoniare sotto giuramento davanti a un tribunale federale e rivelare lì le sue fonti, fra cui (dice) “un generale”. L’importanza del testimone non può essere sottovalutata. Il dottor Pieczenik (è psichiatra) fu in Italia nel marzo del 1978 e per tutti i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro da parte delle Br; speditovi dall’allora segretario di Stato Cyrus Vance, si inserì nel Comitato di Crisi allestito da Cossiga, allora ministro dell’interno (a fianco del criminologo Franco Ferracuti, l’esperto in difesa e sicurezza Stefano Silvestri, una grafologa e il magistrato Renato Squillante) ufficialmente per dare la sua esperta assistenza al salvataggio del politico italiano e negoziare con le Brigate Rosse. In realtà, come ha rivelato in un libro nel 2008, per assicurarsi che Moro non ne uscisse vivo: gli Usa avevano deciso che Moro doveva essere “sacrificato” per garantire “la stabilità dell’Italia” (nella Nato).Intervistato da “France 5” e poi da Gianni Minoli a “Mixer” nel novembre 2013, Steve Pieczenik ha confermato tutto: per esempio raccontando che silurò l’iniziativa di Paolo VI di raccogliere una grossa somma (pare di dieci miliardi di lire), per pagare un riscatto. «Stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate Rosse e il processo di destabilizzazione dell’Italia». Chiese Minoli: «Sostanzialmente, lei fin dal primo giorno ha pensato e ha detto a Cossiga: Moro deve morire». «Evidente», rispose il consulente: «Cossiga se ne rese conto solo nelle ultime settimane. Aldo Moro era il fulcro da sacrificare attorno al quale ruotava la salvezza dell’Italia». Sic. Per questo la Procura di Roma, nel 2014, ha accusato l’americano di concorso in omicidio. E Gero Grassi, vicepresidente dei deputati Pd che voleva una nuova commissione d’indagine sul caso, disse: «Steve Pieczenik stava al ministero dell’interno per manipolare le Brigate rosse e arrivare all’omicidio di Aldo Moro».Non è stata la sua unica impresa. Nel Dipartimento di Stato, ai tempi di Reagan, il dottore è stato incaricato di architettare il “cambio di regime” a Panama, ossia il rovesciamento di Noriega (che lo accusò apertamente di essere “un assassino” che aveva ucciso vari suoi collaboratori). Ufficialmente capo-negoziatore in una quantità di prese di ostaggi e dirottamenti (ad opera di Farc colombiane, Abu Nidal, Idi Amin, Olp) ha contribuito a creare la Delta Force, il gruppo di teste di cuoio di intervento rapido in situazioni di crisi. Ha dato le dimissioni quando fallì il tentativo di liberare gli ostaggi americani nell’ambasciata di Teheran; decisione del presidente Carter, ma probabilmente scacco suo, del dottor Pieczenik. S’è rifatto però una carriera di successo ideando trame di thriller per Tom Clancy. Nel 2011 è tornato sotto i riflettori per denunciare che la “cattura di Bin Laden” messa a segno ad Abbottabad in Pakistan e passata come un grande successo del presidente Obama, era stata tutta una messinscena (ne abbiamo avuto tutti il sospetto): il vero Bin Laden, secondo lui, è morto fin dal 2001, di sindrome di Marfan.Non può esser casuale il fatto che adesso, a 72 anni e a 15 dal mega-attentato, il vecchio agente del Dipartimento di Stato con le mani in pasta in tante storie oscure di destabilizzazione e sovversione, esca ad accusare Israele mentre tutta la grancassa politico-mediatica sta additando gli spregevoli sauditi. Una campagna a cui partecipa stranamente anche Seymour Hersh, il grande giornalista investigativo con “gole profonde” nel settore militare, che ha condotto inchieste scomode per lo “stato profondo” americano. Pochi giorni fa, intervistato da “Alternet”, Hersh ha raccontato: nel 2011 «i sauditi hanno pagato i pakistani perché non ci dicessero [che Bin Laden si trovava ad Abbottabad, sotto la loro protezione] perché non volevano che noi (americani) interrogassimo Bin Laden perché ci avrebbe parlato – è la mia ipotesi – del loro coinvolgimento [nell’11 Settembre]». Ma quale Bin Laden nascondevano i pakistani nel 2011, se Pieczenik dice (confermando versioni solide del tempo) che è morto nel 2001, pochi mesi dopo l’attentato alle Towers e al Pentagono?Può esserci una lotta di informazione e contro-informazione all’interno stesso dello “Stato profondo” americano? Certo è che i media americani sono scatenati in esibizioni di spregio verso i monarchi wahabiti: “Royal Scum”, feccia regale, titolava il “New York Daily News” qualche giorno fa. Tanto insolito “coraggio” deve essere autorizzato. Naturalmente la “rivelazione” delle 28 pagine colpisce anche il presidente Bush jr., e la sua amministrazione, perché è evidente che, se hanno coperto la parte avuta dai sauditi, sono colpevoli. Lo scandalo anti-saudita va accuratamente controllato, perché è facile che debordi e i suoi liquami schizzino a colpire proprio gli israeliani o con doppio passaporto che erano al Pentagono ai tempi di Bush jr., e additati dall’agente Pieczenik: Paul Wolfowitz, rabbi Dov Zakhiem (e il terzo, ebreo anche lui, era Douglas Feith) più Michael Chertoff, capo dell’Homeland Security e grande insabbiatore-depistatore delle indagini.Questo scontro interno è senza dubbio in relazione con l’ascesa del candidato imprevedibile, Donald Trump, nella lizza presidenziale. Dopo il suo discorso sul suo programma in politica estera – liquidato con rabbia dal “New York Times” perché propone fra l’altro un accordo con Putin e la fine dell’interventismo – «gli americani sentono di avere, per la prima volta dopo molto tempo, una alternativa sobria e basata sull’interesse nazionale alle disastrose politiche dei neocon», ha detto Jim Jatras, l’ex consigliere repubblicano del Senato. Con grande dispetto dell’establishment, Trump non raccoglie voti solo tra i rozzi arretrati operai bianchi di basso reddito che odiano gli immigrati messicani e lo sentono volgare come loro. Negli exit poll delle primarie in Pennsylvania, Maryland, Delaware, Connecticut e Rhode Island – dove ha trionfato – s’è visto che hanno scelto lui la metà degli elettori repubblicani con alto titolo di studio e con reddito di 100 mila dollari annui: il suo discorso di politica estera ha convinto proprio la classe media benestante. Questo per l’elettorato repubblicano. Quanto a quello democratico: «Continuo a incontrare gente che non sa decidere se votare Bernie Sanders oppure Donald Trump», ha confessato al “Baltimore Sun” Robert Reich, ex ministro del lavoro sotto Bill Clinton e uomo molto di sinistra (nella misura statunitense). L’elettorato di “sinistra”, quello che ha favorito Sanders il “socialista”, sta pensando di votare Trump, non Hillary. Forse è proprio la grande liberazione da Israel….(Maurizio Blondet, “11 Settembre, l’uomo di Washington accusa Israele”, dal blog di Blondet del 29 aprile 2016).Accusa i neocon con nomi e cognomi: Paul Wolfowitz allora viceministro al Pentagono, l’israelo-americano Michael Chertoff, il rabbino Dov Zakheim (numero 3 al Pentagono) di essersi infiltrati nel governo Bush jr. e di aver organizzato, “su istigazione di Israele”, il mega-attentato dell’11 Settembre 2001. E non è un complottista marginale: è stato un alto funzionario del Dipartimento di Stato, da Nixon a Carter a Bush-padre, esperto in guerra psicologica, attore in operazioni coperte (come l’uccisione di Moro) per conto degli Stati Uniti. Membro fino al 2012 del Council on Foreign Relations, quindi dell’élite dell’establisment. Né lo si può accusare di avere come motivazione l’antisemitismo: i suoi genitori erano ebrei russo-polacchi fuggiti alla Shoah, lui ha scritto persino una biografia di sua “mamma yiddish”, Teodora. E’ Steve Pieczenik. Una vecchia conoscenza anche per l’Italia, come vedremo. Steve Pieczenik ha detto tutto il 21 aprile 2016, intervistato da Alex Jones, creatore del sito “InfoWars”.
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Sanders e i bari del globalismo-canaglia, da Hillary a Renzi
Gli avvocati del Free Trade cominciano a preoccuparsi per le critiche che piovono sulla globalizzazione selvaggia da tutti i maggiori candidati in corsa per la Casa Bianca, dal repubblicano Trump al democratico-socialista Sanders, senza escludere la democratica moderata Hillary Clinton che, dimentica di quanto sostenuto in passato assieme al marito ultraliberista, oggi corteggia gli elettori radicali di Sanders con dichiarazioni contro il TTIP, temendo che le neghino l’appoggio nel caso quasi certo che sia lei correre per le presidenziali di novembre. Dopo Zuckerberg, che giorni fa ha tuonato contro gli anacronistici costruttori di muri che vorrebbero farci regredire al medioevo, è intervenuta la segaligna managing director del Fmi, Christine Lagarde: «Non entro nelle campagne politiche, ma dico che chi mette in discussione il free trade sbaglia», ha detto, per poi aggiungere: «I commerci internazionali portano benessere per tutti e la loro contrazione costa cara soprattutto ai paesi più poveri». Quindi è stata la volta del boss dei boss Bill Gates, il quale ha dichiarato al “Financial Times”: «Qualcuno dovrà pure ricordare alla gente che gli Stati Uniti sono stati di gran lunga il maggiore beneficiario della globalizzazione».Insomma chi beneficia della globalizzazione: i paesi più poveri? Gli Stati Uniti? Tutti? La risposta sta nel fatto che queste indignate reazioni bersaglino soprattutto il repubblicano Trump e i populismi europei di destra. Questo perché sono bersagli “facili”, a causa del loro sgangherato razzismo contro i migranti. Più difficile misurarsi con Sanders che, nei suoi discorsi, smaschera sia le menzogne dei guru americani della New Economy, dimostrando cifre alla mano che a beneficiare del free trade non è stato il popolo americano (che al contrario ha perso milioni di posti di lavoro, oltre a subire tagli ai salari e al welfare) ma la casta dei super ricchi, sia quella della Lagarde, dimostrando che i presunti “benefici” per i paesi poveri consistono nella schiavizzazione di milioni di lavoratori in fabbriche lager come le maquilladoras messicane e la cinese Foxconn.E la battaglia di Sanders serve a smascherare anche le menzogne degli ex socialdemocratici convertiti al neoliberismo, i quali, da Blair a Renzi, celebrano a loro volta le magnifiche sorti e progressive di un mondo sempre più interconnesso, “libero” e “felice”. Inoltre, nella misura in cui dimostra che si può essere contro la globalizzazione dei flussi finanziari senza demonizzare i flussi migratori, può forse instillare un po’ di saggezza nei cervelli assopiti di quegli intellettuali della “sinistra radicale” che credono che la globalizzazione, ad onta dei “danni collaterali” che provoca, sia cosa buona perché favorisce la modernizzazione, l’innovazione, lo sviluppo delle forze produttive, ecc., alimentando l’equivoco che il cosmopolitismo borghese dei Gates e dei Zuckerberg possa avere qualcosa da spartire con l’alter mondialismo progressista.(Carlo Formenti, “A chi giova la globalizzazione? Il dibattito alle primarie Usa”, da “Micromega” del 20 aprile 2016).Gli avvocati del Free Trade cominciano a preoccuparsi per le critiche che piovono sulla globalizzazione selvaggia da tutti i maggiori candidati in corsa per la Casa Bianca, dal repubblicano Trump al democratico-socialista Sanders, senza escludere la democratica moderata Hillary Clinton che, dimentica di quanto sostenuto in passato assieme al marito ultraliberista, oggi corteggia gli elettori radicali di Sanders con dichiarazioni contro il TTIP, temendo che le neghino l’appoggio nel caso quasi certo che sia lei correre per le presidenziali di novembre. Dopo Zuckerberg, che giorni fa ha tuonato contro gli anacronistici costruttori di muri che vorrebbero farci regredire al medioevo, è intervenuta la segaligna managing director del Fmi, Christine Lagarde: «Non entro nelle campagne politiche, ma dico che chi mette in discussione il free trade sbaglia», ha detto, per poi aggiungere: «I commerci internazionali portano benessere per tutti e la loro contrazione costa cara soprattutto ai paesi più poveri». Quindi è stata la volta del boss dei boss Bill Gates, il quale ha dichiarato al “Financial Times”: «Qualcuno dovrà pure ricordare alla gente che gli Stati Uniti sono stati di gran lunga il maggiore beneficiario della globalizzazione».