Archivio del Tag ‘Brexit’
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Sapelli: Macron vuole “mangiarsi” l’Italia, grazie a Renzi
Sventato il “pericolo” gialloverde, ora il Conte-bis non serve più. E Macron potrebbe approfittarne per “prendersi l’Italia”, grazie all’amico Renzi, approfittando del caos politico nel quale versa l’Ue. Lo sostiene Giulio Sapelli, economista e storico, sondato da Marco Biscella per il “Sussidiario”. Tanto per cominciare, suona stonata la lettera della Commissione Europea che chiede chiarimenti al governo italiano sulla manovra 2020: fuoco amico contro un esecutivo allineato a Bruxelles? Il guaio, premette Sapelli, è che non si capisce più chi comandi, in questo momento, nell’Unione Europea: la Commissione von der Leyen è in stallo, al punto che «le trattative sulla Brexit le sta conducendo Juncker». Quanto ai francesi, «si sono messi contro tutti». Macron bloccato l’allargamento Ue a Macedonia e Albania. «C’è un’anarchia terribile», dice il professore, e quindi il Conte-bis è irrilevante. «Un tempo, uno sgarbo simile alla Germania, come quello fatto alla Commissione von der Leyen, non sarebbe mai stato possibile», precisa Sapelli. E la spaccatura a Bruxelles provoca «una caduta di credibilità enorme, di cui approfittebbero subito Cina e Stati Uniti».Secondo Sapelli, «i cinesi ci sguazzeranno, in questa carenza di potere». E così potranno perfezionare i loro rapporti con la Nuova Via della Seta, «su cui nessuno intende fare marcia indietro, a cominciare proprio dall’Italia». E Washington? «Gli Stati Uniti non esistono più: esistono due o tre Americhe, impegnate in una lotta spietata l’una contro le altre». Gli Usa, aggiunge il professore, non riescono più a esercitare la loro influenza stabilizzatrice. Gli Stati Uniti, dice, «sono grandi per potersi occupare del mondo, ma non grandi abbastanza per potersene occupare da soli». E quindi, «appena la potenza americana si è dimostrata non più grande come un tempo, si sono subito visti i riflessi sulle divisioni europee», che una volta «si risolvevano nell’ambasciata americana», e oggi non più. «Il problema dell’Europa non sono gli europei, ma gli Stati Uniti, che non riescono più a unire il gregge. Quindi, divisioni ed egoismi nazionali all’interno della Ue aumenteranno sempre di più». E oggi il problema numero uno, in Europa, si chiama Macron.Il presidente francese «è alle prese con grossi problemi interni», e ha davanti a sé «una campagna elettorale difficilissima con il suo pseudo-partito diviso, lacerato, a pezzi». Per Sapelli, il suo disegno troverà una via d’uscita gollista. Ovvero: «Fare il duro in Europa, non cooperare. E immaginiamoci un po’ cosa si appresta a fare la Francia in Italia». Allarme rosso: «Ora che sta per arrivare la stagione delle nomine ai vertici degli enti pubblici, la preoccupazione principale di Macron, muovendo quella macchina potente e perfetta che è la diplomazia francese, sarà di affermare la potenza della Francia nell’economia italiana». E non troverà ostacoli? «Renzi è sceso in campo per questo, per aiutare i francesi in questa posizione», sostiene Sapelli. «Situazioni che abbiamo già storicamente vissuto con il Risorgimento, con la Prima Guerra Mondiale: è una vecchia tiritera dei rapporti italo-francesi». Il professore allude anche al Trattato del Quirinale, impostato proprio sotto il governo Renzi: di quel trattato «non si sa nulla», e finora «è stato affidato a parti private: il Parlamento non ne ha mai avuto contezza».E dunque – domanda Biscella – che effetti avrà sulla politica italiana questa “comunione d’intenti” tra Macron e Renzi? «Macron si sente un re taumaturgo, invece Renzi è come un contadino che vuole farsi toccare dal re», risponde Sapelli. «Renzi è un elemento di disturbo che lavora per suoi fini, mira a disgregare i partiti. Che è la stessa operazione condotta da Macron per arrivare al potere: lui ha disgregato gollisti e socialisti, Renzi, se lo imita, vuole disgregare il Pd, e prima voleva rottamare tutti. Ma non essendo un re taumaturgo, ha poi dovuto fare un passo indietro». Secondo Sapelli, fino alla stagione delle nomine il governo non dovrà cadere. Poi, potrà succedere. Del resto, aggiunge, la creazione di “Italia Viva” è servita proprio a questo scopo. E il governo Conte-bis è a termine. «Renzi sa benissimo quanto è difficile che questo governo duri», sottolinea Sapelli.E la Germania? L’opposizione a 360° di Macron mette a rischio anche il Trattato di Aquisgrana firmato con la Merkel? «Assolutamente no», dice ancora Sapelli: «I legami fortissimi, culturali ed economici, tra Francia e Germania resistono. I due litigano continuamente, ma Berlino e Parigi sono una coppia, invece l’Italia non è fidanzata con nessuno. E’ una signora abbandonata a se stessa». Ma Conte non era il cocco dell’establishment euro-atlantico? «Parlare di un Conte accreditato presso l’establishment mondiale per aver partecipato a un G7 mi sembra un po’ esagerato», dice Sapelli, che non esclude una completa “riabilitazione” di Matteo Salvini. «Il destino di Salvini è nelle mani di Salvini, tutto dipende da cosa farà: se la Lega diventa quello che deve diventare, cioè una nuova Dc, una forza moderata, tutto potrebbe cambiare». Spiega Sapelli: «Le regioni più produttive dell’Italia, in larghissima parte rappresentate dalla Lega, hanno bisogno di un partito che sia ragionevole e riformista».Sventato il “pericolo” gialloverde, ora il Conte-bis non serve più. E Macron potrebbe approfittarne per “prendersi l’Italia”, grazie all’amico Renzi, approfittando del caos politico nel quale versa l’Ue. Lo sostiene Giulio Sapelli, economista e storico, sondato da Marco Biscella per il “Sussidiario”. Tanto per cominciare, suona stonata la lettera della Commissione Europea che chiede chiarimenti al governo italiano sulla manovra 2020: fuoco amico contro un esecutivo allineato a Bruxelles? Il guaio, premette Sapelli, è che non si capisce più chi comandi, in questo momento, nell’Unione Europea: la Commissione von der Leyen è in stallo, al punto che «le trattative sulla Brexit le sta conducendo Juncker». Quanto ai francesi, «si sono messi contro tutti». Macron bloccato l’allargamento Ue a Macedonia e Albania. «C’è un’anarchia terribile», dice il professore, e quindi il Conte-bis è irrilevante. «Un tempo, uno sgarbo simile alla Germania, come quello fatto alla Commissione von der Leyen, non sarebbe mai stato possibile», precisa Sapelli. E la spaccatura a Bruxelles provoca «una caduta di credibilità enorme, di cui approfitterebbero subito Cina e Stati Uniti».
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Giorni contati per il Conte-bis, Mario Draghi a Palazzo Chigi?
Campane a morto per Giuseppe Conte, ormai in rotta con Di Maio e incalzato ogni giorno dall’abile manovratore Renzi. Occhio, avverte Zingaretti: se il Vietnam contro il premier e il governo giallorosso non si arresta, il Pd potrebbe rompere e tornare al voto, ricandidando come primo ministro proprio il professor-avvocato di Volturara Appula, l’unico – secondo l’impalpabile “fratello di Montalbano” – ad avere chance elettorali. Non la pensano così personaggi televisivi come Alan Friedman, secondo cui Conte sarebbe «un uomo vuoto», e lo stesso Paolo Mieli, per il quale “l’avvocato degli italiani” avrebbe ormai i giorni contati, non disponendo di un reale peso parlamentare da opporre alle intemperanze dei renziani e al crescente malpancismo di un Di Maio emarginato da Grillo e contestato dai suoi. Lo scrittore Gianfranco Carpeoro l’aveva vaticinato a settembre: qui si rischia di tornare a votare entro tre mesi, al più tardi a gennaio. Ora Carpeoro rilancia: il governo traballa, e le elezioni anticipate potrebbero essere evitate solo dall’eventuale piano-Draghi, cioè l’ipotesi di potere che vorrebbe insediato a Palazzo Chigi il presidente uscente della Bce, il cui ruolo dietro le quinte potrebbe essere destinato a crescere, incidendo direttamente sull’Italia ex gialloverde, delusa dal modestissimo Conte-bis e spiazzata dalla fulminea alleanza tra Renzi e Grillo.
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Petizione: la Gruber è faziosa, va cacciata da Otto e mezzo
«Non si permetta, io non dico sciocchezze!». L’ultima a protestare è Giorgia Meloni, che si è sentita presa a sberle in trasmissione, insolentita da Lilli Gruber. Il sulfureo Vittorio Feltri definisce la conduttrice di “Otto e mezzo” con poche parole: «Capace di dirigere con grande abilità un programma brutto, un ring dove non vince il più forte bensì il più cafone». Lilli Gruber? Sa anche prodursi in «qualcosa di disgustoso e fuori dalle elementari regole del giornalismo», sentenzia il mitico direttore di “Libero”. Perché allora non chiedere che cambi mestiere, la navigatissima giornalista di origine altoatesina che esordì al Tg2 nell’era Craxi? Facile a dirsi, ma la Lilli nazionale «ottiene buoni ascolti», aggiunge Feltri: «E Cairo, il padrone de “La7”, gongola». Tra chi non rinuncia alla speranza di vedere la televisione italiana “bonificata” dall’invadente presenza della Gruber c’è Marco Moiso, pubblicitario londinese, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «Lilli Gruber – scrive, nel testo di una petizione su “Change.org” – non sembra essere in grado di fare il mestiere della giornalista in maniera obiettiva ed equanime». L’accusa: «Il suo stile di giornalismo, giudicato fazioso (e strumentale all’agenda politico-finanziaria neoliberista), offende troppe persone per poter continuare ad avere uno spazio importante come quello di “Otto e Mezzo”».
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Il fantasma illiberale e questo liberalismo senza più libertà
Putin ha annunciato il tramonto del liberalismo nel mondo ed è stato subito additato come il capofila dell’onda sovranista, populista, nazionale, tradizionale e autoritaria che si abbatte sul pianeta. Ma quando in tutto il mondo forti leadership sovrane s’impongono nelle urne, dagli Stati Uniti al Brasile, dai paesi di Visegrad alla Brexit, dall’India alle Filippine e al Giappone, e grandi autocrati come Erdogan e Xi Jin Ping, oltre lo stesso Putin, mantengono saldo il potere sovrano, vuol dire che qualcosa è radicalmente cambiato nel mondo. Solo l’Europa non se ne accorge e vive tra mezzi leader e maggiordomi, sotto tutela tecnofinanziaria. Nel mondo la politica si prende la rivincita sull’economia, la sovranità sui mercati, le identità sui formalismi giuridici, i popoli sulle democrazie delegate. Sta davvero finendo l’età liberale, l’epoca dominata dall’economia, dalle oligarchie transnazionali e dalle democrazie rappresentative. Il punto di svolta nasce dopo la crisi economica del 2008 e il lungo strascico che ha lasciato. Poi i flussi migratori, la concorrenza globale, il disagio, la necessità di proteggere il commercio interno hanno fatto il resto.Va in crisi il modello liberale. Non rappresenta più i popoli, il rapporto tra governati e governanti, non riesce a dare risposte ai temi della sovranità e dei confini, delle identità e della sicurezza, della decisione e della semplificazione. Quarant’anni fa, di questi tempi, cominciava in Gran Bretagna con Margaret Thatcher la terza stagione liberale. La prima età liberale era sorta all’indomani del Congresso di Vienna e caratterizzò gran parte dell’Ottocento, all’insegna delle monarchie costituzionali, gli statuti, i parlamenti, il capitalismo e la borghesia, e un intreccio tra nazioni e libertà. Durò a lungo, con alti e bassi, e fu poi messa in crisi dalla Prima Guerra Mondiale con la nascita dei regimi totalitari e della democrazia di massa. Rinacque una seconda stagione liberale nel secondo dopoguerra e assunse connotati antifascisti e poi anticomunisti, atlantisti e sovranazionali. Ma in Europa prevalsero modelli di Stato interventista, politiche economiche pubbliche keynesiane, il Welfare State dei cristiano-democratici, dei social-democratici e dei laburisti. Gli Stati s’indebitarono con le loro politiche assistenziali, le protezioni sociali e sindacali ingessarono l’economia e il dinamismo sociale.Così alla fine degli anni Settanta, prima la Thatcher e poi Ronald Reagan avviarono la terza rivoluzione liberale, con la deregulation, il mercato globale, la crescita del turbocapitalismo, il trionfo del privato e del singolo, i tagli al welfare, alle tasse e all’intervento pubblico in economia. Conservatori sul piano politico, modernizzatori sul piano sociale, liberisti sul piano economico. Quell’ondata veniva da destra, ma una destra atlantica, non continentale. Però contagiò tutti. Il crollo del comunismo e dello statalismo condusse a una professione di liberalismo da sinistra a destra, ovunque. Rivoluzione liberale fu la parola d’ordine di Berlusconi e dei suoi nemici; chi pensava a Friedman, chi a Gobetti. Liberali si definirono i conservatori come gli ex-comunisti, gli ex-missini come i progressisti, chi ispirandosi direttamente al reagan-thacherismo e chi ai loro oppositori liberal e radical anglo-americani. L’onda attiva degli anni Ottanta produsse espansione, forti guadagni, diffuso benessere e un certo ottimismo. Però si spegnevano le passioni ideali e politiche, l’impegno civile, le ideologie e le nazionalità, cadevano i muri e il comunismo, le società coltivavano i miti del successo, del guadagno, della sfrenata libertà. Ma poi toccò pagare i conti.L’euforia di fine secolo, che sembrava ricordare l’euforia d’inizio secolo, si spense con l’avvento del nuovo millennio: le cupe previsioni, la diffusa disperazione, il fanatismo e il terrorismo islamista, la denatalità occidentale e la sovrappopolazione del sud del pianeta, lo squilibrio tra ricchezza e povertà, la crisi finanziaria, il contrasto tra lusso e degrado, l’alienazione e la rabbia degli esclusi, le nuove povertà… Tutto questo ha portato alla crescita dei populismi e dei leaderismi nel mondo. Un fenomeno epocale, non locale, ma globale. Ora la risposta liberale non affronta gli assetti sociali, gli scenari mutati, le paure e le aspettative del nostro tempo. Bisogna cambiare passo, adottare svolte radicali, rimettere in discussione il primato mondiale e indiscusso del tecno-capitalismo. Liberale, a questo punto, non basta più, è come restare abbarbicati a un modello culturale, lessicale inadeguato alle esigenze di oggi, al mondo dei social e delle reti. Il modello liberale non riesce a contenere, garantire ed esprimere le energie e le spinte del nostro tempo.E allora dobbiamo continuare coi vecchi esorcismi, ritenendo che ogni tentativo di affacciarsi a pensare oltre il liberalismo debba necessariamente farci tornare indietro ai regimi autoritari e totalitari del passato? L’errore su cui sta franando il modello globale è nell’averlo ritenuto il capolinea definitivo dell’umanità oltre il quale non si può andare, ma si può solo retrocedere. Oggi invece si contrappongono due opzioni di fondo, con una miriade di livelli intermedi e di mescolanze: da una parte l’ideologia no border, di chi rigetta ogni confine ai popoli, agli individui, ai sessi, ai limiti morali, territoriali e naturali. E dall’altra la cultura delle identità e delle sovranità, della sicurezza e del sacro fondate sul senso del confine. In questa sfida tra radicali e radicati, ha poco senso dirsi liberali. La libertà un bene prezioso da salvaguardare ma è necessario rispondere se va concepita come un assoluto, che non tollera limiti o se invece la libertà ha bisogno di riconoscere limiti e confini per non debordare e non perdersi, per riconoscere la libertà altrui e garantire la propria. Liberi, e poi? Da cosa, per far cosa, con chi?(Marcello Veneziani, “Il fantasma illiberale”, dal “Borghese” del settembre 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Putin ha annunciato il tramonto del liberalismo nel mondo ed è stato subito additato come il capofila dell’onda sovranista, populista, nazionale, tradizionale e autoritaria che si abbatte sul pianeta. Ma quando in tutto il mondo forti leadership sovrane s’impongono nelle urne, dagli Stati Uniti al Brasile, dai paesi di Visegrad alla Brexit, dall’India alle Filippine e al Giappone, e grandi autocrati come Erdogan e Xi Jin Ping, oltre lo stesso Putin, mantengono saldo il potere sovrano, vuol dire che qualcosa è radicalmente cambiato nel mondo. Solo l’Europa non se ne accorge e vive tra mezzi leader e maggiordomi, sotto tutela tecnofinanziaria. Nel mondo la politica si prende la rivincita sull’economia, la sovranità sui mercati, le identità sui formalismi giuridici, i popoli sulle democrazie delegate. Sta davvero finendo l’età liberale, l’epoca dominata dall’economia, dalle oligarchie transnazionali e dalle democrazie rappresentative. Il punto di svolta nasce dopo la crisi economica del 2008 e il lungo strascico che ha lasciato. Poi i flussi migratori, la concorrenza globale, il disagio, la necessità di proteggere il commercio interno hanno fatto il resto.
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Giannuli: Renzi (e Cairo) per creare un’alternativa a Salvini
Renzi, Berlusconi e Cairo? «La cosa complicata è mettere insieme tre pavoni come quelli: con la ruota che si ritrovano, non entrano in un solo ascensore». Aldo Giannuli però li vedrebbe bene, insieme, almeno stando agli elettorati potenziali di riferimento: il neo-rottamatore del Pd, nonno Silvio e il suo quasi-erede, patron de “La7” e della corazzata cartacea italiana, il “Corriere della Sera”. La notizia? Tutto è in movimento. Anche se il politologo dell’ateneo milanese non lo dice (considera uno scivolone la rottura estiva di Salvini), a terremotare la palude italiana – dopo il congelamento del governo gialloverde, commissariato dall’Ue tramite Conte, Tria e Mattarella – è stato proprio lo strappo del leader della Lega, con il suo “a queste condizioni non ci sto più”. Solo a quel punto, Renzi ha deciso di giocare la sua nuova partita, inducendo Zingaretti a ingoiare l’accordo-horror coi 5 Stelle, a loro volta “sinistrati” dall’inciucio. Obiettivo del fiorentino: oggi controllare il Conte-bis, ricattandolo, e domani gestire la partita delle super-nomine, fino alla rielezione del presidente della Repubblica nel 2022. Giannuli si limita a un’analisi tattico-elettorale senza tener conto delle voci sui contatti tra Renzi e il super-potere massonico, resi evidenti dalla passerella al meeting 2019 del Bilderberg.«Gli hanno promesso di farlo entrare finalmente nel salotto che conta, se fosse riuscito a fermare i gialloverdi», sostiene Gianfranco Carpeoro, saggista, legato a importanti ambienti massonici europei. Stando a Carpeoro – progressista, da sempre socialista – oggi Renzi può vantare una grande vittoria da esibire sui tavoli dei suoi veri mandanti: e potrebbe quindi anche alzare la posta, per chiedere per sé qualcosa di importante, con la minaccia di far cadere il Conte-bis. Semplici indiscrezioni, ma preziose: perché concorrono a delineare un quadro coerente, ben ancorato allo scenario internazionale da cui – come tutti hanno capito – dipendono le crisi italiane, compresa quella in corso. Giannuli invece preferisce attenersi al panorama di casa, articolando un’analisi ravvicinata sulle possibili mosse dei vari attori sul terreno. Renzi? Per ora è accreditato di pochi voti: dal 3 al 5% al massimo. «Ma sono convinto che si tratti solo di una base di partenza che, se il fiorentino ci saprà fare, è destinata a crescere, e non di poco», scrive Giannuli sul suo blog. Inutile negarlo: «Il sistema dei partiti esistente è tutto in crisi e c’è un diffuso malcontento dei cittadini per l’offerta politica: Forza Italia si sta liquefacendo, il M5S ha avuto una batosta alle europee dalla quale è difficile che si rimetta».Quanto al Pd, «la batosta l’ha presa alle politiche, e alle europee ha recuperato percentualmente solo per l’altissimo numero di astenuti, ma ha perso altri 100.000 voti reali)». Sinistra, +Europa e Fratelli d’Italia «non riescono a sfondare» e, di fatto, «galleggiano». Solo la Lega era esplosa: al 34% delle europee erano seguiti sondaggi che la davano prossima al 40%. «Ma la gestione scellerata della crisi di governo ha fatto crollare la credibilità di Salvini», sostiene Giannuli. «E se ancora questo non si riflette pienamente nei sondaggi, è lecito aspettarsi un calo lento ma costante, a meno che i giallorossi non ne facciano talmente tante da resuscitare la Lega e andare al voto in primavera». Dunque Renzi non sbaglia, quando dice che “c’è spazio”. La sua formazione, in primo luogo, «ha ancora da risucchiare al Pd: ci sono ancora renziani che non sono usciti, parecchi indecisi, e poi Zingaretti praticamente non esiste: Renzi non avrà difficoltà ad oscurarlo». Poi, se dovessse ingranare, «avrebbe da beccare molto nel pollaio di centro (da +Europa a Calenda, fino ai rimasugli di Dc»).Ma è soprattutto Forza Italia, col suo striminzito 6% residuo, che può dare un po’ di sangue alla neonata creatura renziana: anzi, non è neppure da escludere che i berlusconiani possano confluire nel nuovo soggetto renziano. «Insomma, un traguardo dell’11-12% potrebbe essere a portata di mano». E a quel punto, continua Giannuli, «potrebbe funzionare la sirena del fiorentino sia sul fianco della Lega che su quello dell’astensionismo». In concreto: «Non sono immaginabili particolari sfracelli, ma l’elettorato potenziale del nuovo partito potrebbe crescere sino al 15-18%», addirittura. Tornando alla realtà: «Bisognerà vedere molte cose: che farà il governo, che mosse farà Renzi, quali Salvini». Soprattutto, occorrerà valutare «se la mossa renziana di oggi sarà imitata da altri». In quel caso, alla fine ci sarebbe «un gran rimescolamento di carte che cambierà il volto del sistema dei partiti». Prima tappa, scontata, il pallido Pd: potrebbero rientrare quelli di Leu (Bersani e compagni), inducendo le ultime “sentinelle” renziane ad uscirne. Poi c’è il caso particolare di Conte: i sondaggi danno un modestissimo recupero al M5S dopo la soluzione della crisi di governo, ma un altissimo indice di consenso personale per il presidente del Consiglio. E c’è chi si spinge a ipotizzare che un suo partito possa raccogliere sino al 21%.«Certo i sondaggi vanno presi con le molle», premette Giannuli, però vanno monitorati con attenzione. «E qui la domanda sorge spontanea: che farà “Giuseppi” alle elezioni? Potrebbe ritirarsi a vita privata, come ha ripetutamente assicurato (e questo è una conferma che non si ritirerà affatto: tutti quelli che vogliono restare in campo dicono di star facendo le valide per ritirarsi). Oppure potrebbe presentarsi con il M5S, magari come candidato presidente del Consiglio». O ancora – terza opzione – potrebbe fare una sua lista, «più o meno apparentata coi 5 Stelle: dipenderà dal sistema elettorale». Secondo Giannuli, una “lista Conte” potrebbe attingere voti tanto al M5S quanto al Pd e persino all’area di centro (e quindi sottrarre voti a Renzi), ma potrebbe anche dare credibilità al partito di Renzi come possibile alleato. Altri sconvolgimenti, sempre secondo Giannuli, potrebbero investire la Lega: se si votasse tra un anno, il monte voti del Carroccio «potrebbe precipitare anche verso il 20%, e a quel punto non è detto che il partito resti integro». Ad esempio, Maroni «potrebbe uscire per fare altro». Oppure i maggiorenti della Lega (Giorgetti in testa) potrebbero «pensare a una qualche congiura per cacciare il “rais”».Se questo è lo scenario dell’attuale palazzo, poi ci sono quelli che premono da fuori: in primo luogo i Verdi, che «senza aver attaccato un solo manifesto, con pochissime apparizioni televisive e con una manciata di euro per la campagna elettorale, hanno preso il 2%», ovvero «un po’ di più della “Sinistra”, che pure aveva parlamentari, più spazi televisivi e decisamente più soldi». I Verdi avrebbero dalla loro «la simpatia dei giovani “gretisti”, il mutamento climatico che ormai non è più una previsione ma una realtà in atto, e di conseguenza una certa attenzione dei mass media». Gli ultimi eredi del “Sole che ride” potrebbero anche «fare liste comuni con quel che resta della sinistra o assorbirne un po’ di voti». Giannuli non prende nemmeno in considerazione il piccolo fronte rosso-bruno apertosi con “Vox Italia”, il sovranismo “socialista” capitanato da Diego Fusaro (che sembra autoemarginarsi da subito, peraltro, chiedendo l’uscita dall’euro, dall’Ue e dalla Nato). Una galassia, quella del voto-contro, che nel 2018 diede largamente fiducia ai 5 Stelle: milioni di voti che poi, di fronte al fallimento gialloverde incarnato da Di Maio, sono tornati a gonfiare l’oceano dell’astensionismo già alle europee, tornata in cui ha votato poco più di un italiano su due (un elettore su tre, invece, ha scommesso ancora su Salvini).Tornando a Renzi, Giannuli punta i riflettori sul grande centro: l’altra grande incognita esterna è l’editore Urbano Cairo, che recentemente ha concesso «un’intervista di due ettari» al “Foglio” «per spiegare che non ha intenzione di candidarsi», e che però, «se fosse costretto a farlo, avrebbe un programma fatto così e così». Tradotto: «La smentita, al solito, vale la conferma delle intenzioni di esserci». Su che seguito elettorale potrebbe contare, Cairo? «Impossibile a dirsi, allo stato attuale», che è quello di una intenzione «molto futura». E poi, candidarsi per fare che? «Un partito suo? Entrare in Forza Italia e rivitalizzarla? Fare il presidente di una qualche confederazione di centro con Renzi e lo stesso Cavaliere? Tutto possibile». Urbano Cairo possiede “La7” e il “Corriere della Sera”, «ma non sono più i tempi della discesa in campo del Cavaliere». Inoltre, «l’appporto dei suoi media è realisticamente molto più ridotto». Secondo Giannuli, poi, «un appoggio troppo sfacciato, soprattutto da parte del blasonatissimo “Corriere”, potrebbe costare molto in termini di audience e di lettori». Lo si è visto con il mitico “fate presto” con cui la grande stampa italiana accolse il finto salvatore Mario Monti nel 2011, salvo poi “scoprire” – fuori tempo massimo – che non si trattava esattamente di un benefattore della nazione.Resta virtualmente da spendere la carta del classico partito personale, a meno che Cairo non abbia già nella manica «un parterre da far paura» fatto di grandi nomi, «presidenti di associazioni», e magari la benedizione del Papa. Viceversa, avrebbe «qualche possibilità di successo in più la sua adesione a Forza Italia», che di fatto «potrebbe dare qualche goccia di sangue fresco alla moribonda creatura berlusconiama». Ma la cosa più ragionevole, per Giannuli, sarebbe «la confederazione con il fiorentino e il Cavaliere». Poi ci sono una serie di personaggi singoli molto noti (Tremonti, Sgarbi, Monti, Rutelli, magari anche Fini), che forse hanno «solo un po’ di seguito d’opinione», eppure «possono regalare visibilità a una forza politica nuova», anche perché «la parata di vecchie stelle del varietà funziona sempre», fino a un certo punto. L’unica vera notizia è che «le bocce sono in movimento, e altre – completamente nuove, che oggi neanche immaginiamo – possono entrare in campo». Molte cose cambieranno, conclude Giannuli, sempre senza tener conto del quadro internazionale, europeo e non solo, così determinante – finora – per la crisi italiana (dalla Via della Seta al decreto Golden Power contro Huawei, dal Russiagate anti-Salvini alla guerriglia con Macron e il voltafaccia dei 5 Stelle, fino all’elezione di Ursula von der Leyen).L’analisi di Giannuli, apprezzabile per i riflessi immediati sull’agenda di Palazzo Chigi e dintorni, non legge le ricadute italiane dei grandi giochi in corso, dalla Hard Brexit alla crociata contro Trump. Clamoroso il guanto di sfida lanciato dal governatore della Bank of England, uomo Rothschild: Mark Joseph Carney è stato applaudito a Wall Street, nientemeno, per aver annunciato la necessità di una valuta internazionale alternativa al dollaro. Corretto il focus di Giannuli su Cairo: ma come si schiererebbe, l’editore, rispetto allo scacchiere che conta, cioè quello dei veri poteri che telecomandano l’Italia? E poi: sicuri che Salvini sia sul viale del tramonto? Cosa c’è nella testa di quei milioni di italiani che tuttora fanno della Lega il primo partito? Salvini non è certo ostile a Putin, che peraltro non è un campione di democrazia. A sua volta, Putin non è assolutamente lontano da Trump, che pure sembra aver cessato di sostenere Salvini. Quello che si legge è un caos, nel quale sembra precipitata l’oligarchia di ieri. L’Italia gialloverde era vista – da fuori, forse a torto – come un “pericoloso” banco di prova per sperimentare un’alternativa al paradigma ordoliberista. Il pallottoliere di Giannuli, per ora, non ne fa cenno. Ma sarebbe ingenuo non cercare di mettere a fuoco la vera domanda: per chi sta lavorando, oggi, Matteo Renzi? Per se stesso, come al solito? Certo, anche. Ma si sa, le cose accadono a più livelli. I giochi sono tanti, così come i giocatori. E quelli italiani, visibili, sono solo la vetta dell’iceberg.Renzi, Berlusconi e Cairo? «La cosa complicata è mettere insieme tre pavoni come quelli: con la ruota che si ritrovano, non entrano in un solo ascensore». Aldo Giannuli però li vedrebbe bene, insieme, almeno stando agli elettorati potenziali di riferimento: il neo-rottamatore del Pd, nonno Silvio e il suo quasi-erede, patron de “La7” e della corazzata cartacea italiana, il “Corriere della Sera”. La notizia? Tutto è in movimento. Anche se il politologo dell’ateneo milanese non lo dice (considera uno scivolone la rottura estiva di Salvini), a terremotare la palude italiana – dopo il congelamento del governo gialloverde, commissariato dall’Ue tramite Conte, Tria e Mattarella – è stato proprio lo strappo del leader della Lega, con il suo “a queste condizioni non ci sto più”. Solo a quel punto, Renzi ha deciso di giocare la sua nuova partita, inducendo Zingaretti a ingoiare l’accordo-horror coi 5 Stelle, a loro volta “sinistrati” dall’inciucio. Obiettivo del fiorentino: oggi controllare il Conte-bis, ricattandolo, e domani gestire la partita delle super-nomine, fino alla rielezione del presidente della Repubblica nel 2022. Giannuli si limita a un’analisi tattico-elettorale senza tener conto delle voci sui contatti tra Renzi e il super-potere massonico, resi evidenti dalla passerella al meeting 2019 del Bilderberg.
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Tribuni della Plebe, per completare la Democrazia Mafiosa
“Democrazie mafiose”: mezzo secolo fa, il giurista Panfilo Gentile (che aveva aderito al “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, redatto da Benedetto Croce) pubblicò un affilato pamphlet sull’involuzione oligarchica delle democrazie. I partiti? Progressivamente ridotti a «circuiti chiusi e autoreferenziali di stampo mafioso». Volume pubblicato nel 1969 dall’editore Volpe, nella ristretta cerchia dei lettori di destra, ma poi “sdoganato” da Indro Montanelli sul “Corriere della Sera”. Lo ricorda Marcello Veneziani su “Panorama”: «Ci aveva visto giusto, Gentile, sull’involuzione mafiosa e partitocratica delle democrazie». Sua, tra l’altro, l’invenzione dell’espressione “sottogoverno”. Ma Gentile, aggiunge Veneziani, non aveva ancora visto l’Italia (e l’Europa) dei nostri anni, cioè «la spaccatura verticale tra popolo e notabilato, tra sovranità nazionali e potentati interni e internazionali, l’esproprio del voto fino al disprezzo per la volontà popolare e gli interessi nazionali». Osserva Veneziani: con la nascita del grottesco Conte-bis, «è la quarta volta consecutiva che la sinistra in Italia si affaccia al governo non legittimata direttamente dalle urne». Dopo l’orrore del governo Monti-Fornero, costato carissimo al paese (disastro sociale e perdita del 25% del potenziale industriale italiano) si sono succeduti Letta, Renzi e Gentiloni, senza mai la convalida delle urne. E ora il Conte-bis, «nato con lo scopo evidente di evitarle».«Per adeguarsi al tono e al livello delle accuse che lancia la sinistra a chiunque governi senza il suo benestare – dittatura, ritorno al nazismo e al fascismo, leader anti-sinistra trattati tutti come delinquenti comuni – si potrebbe dire che la sinistra è un’associazione politico-culturale di stampo mafioso che elimina gli avversari con sistemi non democratici, mette a tacere i dissidenti con forme di omertà e discriminazione, s’impossessa del potere con metodi non democratici e impone un protettorato antipopolare funzionale ai codici ideologici e politici della cosca», accusa Veneziani su “Panorama”. Tralasciando per un attimo «il terreno melmoso» delle polemiche italiane, sosa sta succedendo alle democrazie europee? «Le classi dirigenti si sentono assediate a nord dal modello Brexit, a sud dal modello Salvini, a est dal modello Orban e a ovest dal modello Le Pen». Secondo Veneziani «sono i quattro punti cardinali del sovranismo, ma sono anche quattro forze maggioritarie nei loro paesi, tutte criminalizzate». Dietro di loro «vengono esorcizzati gli spettri di Trump, di Putin, di Bolsonaro, di Modi, di Abe, e si potrebbe continuare: forme diverse di primato nazionale e identitario rispetto al modello liberal-radical-dem della sinistra».Per trovare un modello diverso di rifermento, continua Veneziani, si ricorre al modello cinese. Recensioni entusiastiche del “Corriere della Sera” e della “Repubblica” hanno accompagnato la traduzione del libro di Daniel Bell “Il modello Cina”, che ha un sottotitolo indicativo: “Meritocrazia politica e limiti della democrazia” (Luiss, prefazione di Sebastiano Maffettone). «Il modello cinese non è una democrazia, ma è un regime liberista, oligarchico e comunista, col doppio primato del mercato e del partito. È un sistema capitalistico ma illiberale, in cui la sovranità popolare è in realtà un feticcio ereditato dai tempi di Mao, che elogiava il popolo ma poi lo rieducava con la forza, instaurando una sanguinaria dittatura». Ora quel tempo è passato, la Cina ha fatto passi da gigante e si espande nel mondo tra tecnica e finanza, dall’Africa all’Occidente, eppure «il turbo-comunismo resta catechismo di Stato», e il capitalismo «assume in Cina il ruolo che aveva la tecnologia per Lenin: la sua formula fu “socialismo + elettrificazione”, oggi la formula cinese è “comunismo + mercato”».Bell, canadese che guida una facoltà di scienze politiche e pubblica amministrazione in Cina, non sposa il regime cinese nei suoi tratti più repressivi, corrotti e totalitari o l’autocrazia di Xi Jinping ma lo addita come modello per la formazione di classi politiche competenti, per il controllo del consenso popolare e la nascita di una tecnocrazia vigilata sotto il profilo etico (l’ultimo travestimento dell’ideologia e del politically correct). La Cina diventa per l’Europa e in particolare per l’Italia (che coi grillini ha già sposato la Via della Seta) il paese di riferimento per uscire dalla morsa Usa-Russia-India-Brasile più sovranisti nostrani e per limitare la democrazia. «Un modello che ruota intorno all’Intellettuale Collettivo che è poi il Partito, la Setta, la Casta; è la Cupola a rilasciare o revocare patenti di legittimazione, a vigilare sulla democrazia e a stabilirne i filtri, i limiti e a deciderne gli assetti», prosegue Veneziani, che aggiunge: «Resta però irrisolto un molesto interlocutore, il popolo sovrano. Come aggirarne la volontà e come impedire – oltre che con le inchieste giudiziarie e le criminalizzazioni mediatiche – l’avvento di leader sovranisti?».In modo non del tutto ironico, Veneziani suggerisce di prendere esempio «non dalla lontana Cina ma dalla lontana Roma del quinto secolo avanti Cristo: istituire i Tribuni della Plebe». Ovvero: «Incanalare il consenso popolare, gli umori, e legare i capi populisti verso quei ruoli d’alta magistratura». I tribuni della plebe, scrive Veneziani, erano difensori civici che rappresentavano i sentimenti popolari, legittimamente nominati e ascoltati; ma poi a governare ci pensavano i consoli e i patrizi («ora provvisoriamente consociati a un altro clan prodotto dalla piattaforma Rousseau»). Quella tribunizia, per Veneziani, sarebbe forse «la soluzione più equilibrata e meno truffaldina di limitare la democrazia: il popolo non esercita più la sovranità, ma solo il controllo tramite i tribuni». Così, come anticipato da Panfilo Gentile, «il potere resta saldamente nelle mani del patriziato, delle oligarchie, delle cupole». Tribuni della plebe? «Un compromesso, una divisione dei poteri, una regolamentazione “costituzionale” del potere mafioso vigente in Italia e per certi versi in Europa, dove governano leader di minoranza quasi ovunque, dalla Francia alla Germania, alla Spagna». Conclude Veneziani: «Pensateci, è una soluzione per aggirare la democrazia e frenare i populisti».“Democrazie mafiose”: mezzo secolo fa, il giurista Panfilo Gentile (che aveva aderito al “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, redatto da Benedetto Croce) pubblicò un affilato pamphlet sull’involuzione oligarchica delle democrazie. I partiti? Progressivamente ridotti a «circuiti chiusi e autoreferenziali di stampo mafioso». Volume pubblicato nel 1969 dall’editore Volpe, nella ristretta cerchia dei lettori di destra, ma poi “sdoganato” da Indro Montanelli sul “Corriere della Sera”. Lo ricorda Marcello Veneziani su “Panorama”: «Ci aveva visto giusto, Gentile, sull’involuzione mafiosa e partitocratica delle democrazie». Sua, tra l’altro, l’invenzione dell’espressione “sottogoverno”. Ma Gentile, aggiunge Veneziani, non aveva ancora visto l’Italia (e l’Europa) dei nostri anni, cioè «la spaccatura verticale tra popolo e notabilato, tra sovranità nazionali e potentati interni e internazionali, l’esproprio del voto fino al disprezzo per la volontà popolare e gli interessi nazionali». Osserva Veneziani: con la nascita del grottesco Conte-bis, «è la quarta volta consecutiva che la sinistra in Italia si affaccia al governo non legittimata direttamente dalle urne». Dopo l’orrore del governo Monti-Fornero, costato carissimo al paese (disastro sociale e perdita del 25% del potenziale industriale italiano) si sono succeduti Letta, Renzi e Gentiloni, senza mai la convalida delle urne. E ora il Conte-bis, «nato con lo scopo evidente di evitarle».
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Grillopardi e mercenari franco-tedeschi governano l’Italia
Giuseppe Conte, l’uomo che visse due volte, la prima a destra, la seconda a sinistra, l’uomo che sussurrava alla Merkel le sue ricette per far fuori Matteo Salvini e aprire i porti, l’uomo mai votato da nessuno, se non dalle cancellerie europeiste e globaliste, e dalla massoneria vaticana, lavorava da tempo alla riammissione della prodiga Italia a pieno titolo tra i paesi europeisti. Le trame del novello Andreotti sono state candidamente rivelate dal ministro all’agricoltura Teresa Bellanova, quando ha detto apertamente chez madame Gruber che l’accordo tra 5S e Dem è stato tessuto a Bruxelles per «dare a questo paese un presidente della Repubblica che non sia ostile all’Europa». Una gigantesca operazione di trasformismo ad opera di due partiti che si sono odiati fino al giorno prima, e si ritrovano in un governo dove il presidente del Consiglio è lo stesso del governo precedente, ma che dice che sarà in discontinuità con se stesso. Non solo per scongiurare le politiche “razziste e fasciste” della Lega, quanto per poter manovrare la prossima elezione del presidente della Repubblica, in programma per il 2022, l’anno in cui scadrà il mandato di Sergio Mattarella al Quirinale.Nulla di particolarmente oscuro quindi, visto che al ribaltone hanno partecipato i Dem, augurandosi di poter conquistare lo scranno del Colle, cui non potrebbero certo rinunciare per quel diritto egemonico di appartenenza al sistema di potere cattocomunista erede della Resistenza, che però strada facendo ha perso di vista le istanze popolari e si è sempre più asservito agli interessi oligarchici della finanza apolide. La fine del governo gialloverde è stata segnata da accordi segreti presi in Europa da Giuseppe Conte, che appare sempre più chiaramente un emissario della massoneria vaticana, la crisi infatti è letteralmente esplosa con il cosiddetto Russiagate, quando contro Salvini si è prontamente scatenata al momento opportuno la stampa mainstream, dall’“Espresso” al “Fatto Quotidiano”. Ha fatto male Salvini a negare il tutto, ma restano oscure le dinamiche ed appare risibile il fatto che la tangente avrebbe dovuto passare per Eni, che è controllata dal Pd di Renzi. E comunque l’avvocato democristiano venuto dal nulla, indicato da Grillo e stimato da De Mita nonché dal Vaticano, alla nascita del governo gialloverde aveva tenuto per sé la delega ai servizi (Aise, Aisi e Dis), che negli esecutivi precedenti (Renzi e Gentiloni) era stata affidata come di consueto al ministro dell’interno (Minniti).Probabilmente gli azionisti occulti del governo gialloverde non si fidavano di Salvini e non intendevano lasciare nelle sue mani l’arma dell’intelligence. Questo spiegherebbe anche l’intransigenza di Salvini nel voler liquidare ad ogni costo l’avvocato venuto in apparenza dal nulla, ma in realtà solidamente pilotato dai veri responsabili della crisi, pronti a schierare i grillini con la Merkel per far eleggere Ursula von del Leyen alla Commissione Ue, contro Salvini e contro gli interessi nazionali italiani. Il nuovo governo giallorosso è nato quindi in Europa, ben prima delle elezioni europee, che hanno solo drasticamente rimarcato l’ascesa inarrestabile della Lega e la vorticosa perdita di consensi del M5S. Trattative che portarono allo scambio tra David Sassoli e Fabio M. Castaldo e all’elezione, per soli 9 voti dei 5S, di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue, già membro della Cdu, e ministra per vari portafogli in tutti i governi presieduti da Angela Merkel. Una Commissione che è il risultato dell’alleanza obbligata di quei partiti che hanno visto ridursi notevolmente i loro consensi, così come è avvenuto per il ribaltone italiano.Infatti proprio le europee hanno registrato la tenuta del Partito popolare, la crescita dei sovranisti (pur divisi tra di loro), il boom del Brexit Party, e la virata a destra di molte correnti interne ai moderati, ma in pratica non hanno sortito alcuna novità se non quella di conservare l’Ue nelle mani del Ppe, più i socialisti di Pse, con l’appoggio dei liberali di Alde e i conservatori di Ecr. La spartizione delle deleghe nella Commissione di Ursula Von der Leyen è stato solo un tragico tentativo di serrare le file per scongiurare ogni forma di cambiamento. L’asse franco-tedesco non avrebbe certo permesso che la trasformazione dell’Italia a paese più euroscettico dell’Ue potesse proseguire oltre, i rischi sarebbero stati troppo consistenti per gli oligarchi mondialisti, interessati a scongiurare ogni tentativo di resistenza nei confronti della demolizione degli Dtati nazionali, ultimo baluardo democratico contro lo strapotere elitario che tutela i poteri forti a scapito dei popoli. Unica soluzione il superamento degli Stati nazionali, la cancellazione delle frontiere e la moneta unica.In particolare si sta cercando di realizzare un sistema giuridico sovranazionale al quale gli Stati-nazione democratici sono chiamati a sottomettersi, un modo simulato per esautorare le democrazie nazionali sostituendole con una non-democrazia sovranazionale. Quindi non può esistere nessun potere dei popoli in Eurozona, visto che governano i capitali, che trovano qui i più compiacenti paradisi fiscali. Le masse, come strumenti di produzione di potere e ricchezza per le oligarchie, ormai sono divenute superflue, ridondanti ed eliminabili (Marco Della Luna). Esiste anche la possibilità tecnologica di gestirle come mandrie al pascolo, ridotte completamente a strumento, merce, file formattabile, usa e getta. E intanto in Italia il Conte Zio, proveniente dai corridoi vaticani (Silvestrini, Parolin), si è rivelato il grimaldello che doveva far saltare il governo giallo verde, un breve intermezzo durato appena 14 mesi, una parvenza di sovranismo, marcato stretto dal Quirinale e dal sistema europeista, poi tutto è tornato come prima, nessuna volontà di cambiamento, archiviato in fretta il populismo, asfaltato rapidamente il sovranismo.Ha vinto il CamaleConte democristiano, duttile, multitasking e paraculista, servitore di mille padroni, esponente occulto del partito-sistema, il partito-apparato, il partito-deepstate, il partito di Mafia Capitale, quello del Jobs Act, di Mps, del prelievo forzoso agli obbligazionisti, della Pessima Scuola… previo naturalmente bacio della morte all’Ue col voto a Ursula, ed endorsement internazionali di tutto il gotha neoliberista globalizzato: Merkel, Macron, Vaticano, Trump. Da trent’anni il Deep State, il Potere Profondo, il Sistema, ha sempre avuto la meglio. L’Europa franco-tedesca si è compattata con il recente patto di Aquisgrana proprio per contrastare e schiacciare i tanti nazionalismi sorti in Europa.Mentre i grillopardi, sostenuti da numerosi androidi fanatizzati e autoproclamatisi dei missionari della San Francesco Associati, finti giacobini di una finta rivoluzione, che vivono di pane amore e sacrificio per il bene dell’Italia, ora l’hanno svenduta ai poteri forti italiani ed europei, che possono tornare speditamente all’assalto del benessere degli italiani. Il Sì di Rousseau fa volare MpS a +13%, e le Ong tornano all’assalto dei porti aperti. I simulacri di Philip Dick vivono tra noi…(Rosanna Spadini, “I mercenari del trasformismo vivono tra noi”, da “Come Don Chisciotte” del 15 settembre 2019).Giuseppe Conte, l’uomo che visse due volte, la prima a destra, la seconda a sinistra, l’uomo che sussurrava alla Merkel le sue ricette per far fuori Matteo Salvini e aprire i porti, l’uomo mai votato da nessuno, se non dalle cancellerie europeiste e globaliste, e dalla massoneria vaticana, lavorava da tempo alla riammissione della prodiga Italia a pieno titolo tra i paesi europeisti. Le trame del novello Andreotti sono state candidamente rivelate dal ministro all’agricoltura Teresa Bellanova, quando ha detto apertamente chez madame Gruber che l’accordo tra 5S e Dem è stato tessuto a Bruxelles per «dare a questo paese un presidente della Repubblica che non sia ostile all’Europa». Una gigantesca operazione di trasformismo ad opera di due partiti che si sono odiati fino al giorno prima, e si ritrovano in un governo dove il presidente del Consiglio è lo stesso del governo precedente, ma che dice che sarà in discontinuità con se stesso. Non solo per scongiurare le politiche “razziste e fasciste” della Lega, quanto per poter manovrare la prossima elezione del presidente della Repubblica, in programma per il 2022, l’anno in cui scadrà il mandato di Sergio Mattarella al Quirinale.
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Sapelli: Ursula e Macron affondano l’Italia, complice Renzi
Luna di miele con l’Europa? Per nulla. Anzitutto, l’Europa è di nuovo un protettorato tedesco, che ha un formidabile alleato come la Francia. È il duopolio scritto nel Trattato di Aquisgrana. E il prossimo passo sarà che la Francia farà il trattato italo-francese, già scritto da Renzi sotto dettatura di Macron e sulla cui bozza non abbiamo ancora assistito ad alcun dibattito parlamentare, in base al quale la Francia si piglierà tutto. Basta vedere chi è la nuova commissaria all’industria militare, alla difesa e all’industria spaziale: la francese Goulard, che ha già lavorato con Monti e con Prodi. Però la partita è ancora aperta, perché gli italiani, durante il governo gialloverde, hanno concluso un accordo per il caccia Tempest inglese, che è un attacco al predominio franco-tedesco nell’industria degli armamenti. Non so se il Conte-2 terrà ancora duro su questo punto. La nuova Commissione Ue ci tratterà meglio? No, perché, Ursula von der Leyen non è solo la mamma di sette figli, di cui uno siriano adottato, ma è soprattutto la figlia del più grande intellettuale protestante, Ernst Albrecht, il primo segretario generale dell’Ue. Quindi è senz’altro europeista, ma è figlia di quel protestantesimo che ha visto nell’Europa la possibilità di riscattarsi dal nazismo. E’ una persona che prende sul serio l’ordoliberismo, di cui sono un convinto avversario.
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Parla Conte, come se fosse antani: ma gli italiani non ridono
Ci vuole impegno, per credere che la partita italiana abbia davvero a che fare, in qualche modo, con le grandi decisioni del mondo – di questo mondo, poi, che sembra preda di un caos mai visto prima, lacerato da verti incrociati e guerre finanziarie interpretate da oligarchi globali, l’un contro l’altro armato. Visto col telescopio, dalla Luna, sembra surreale il ciuffo di Giuseppe Conte, reduce dalla più goffa delle manovre: Gentiloni promosso all’Ue, che in cambio commissaria il governo (già auto-commissariato, peraltro) sistemando l’euro-tecnocrate Roberto Gualtieri all’economia. Intanto si ciancia, “come se fosse antani”: Green Deal sostenibile, rinascita del Mezzogiorno, eccetera, come neppure il grande Tognazzi di “Amici miei”. A tre italiani su quattro, il Conte-bis fa ribrezzo: lo confermano tutti i sondaggi. E mentre il fantasma di Di Maio si aggira per i ministeri ex gialloverdi, il Pd neo-renziano trascina in tribunale il disertore Matteo Richetti, costringendolo a versare i contributi arretrati alla “ditta”. Nel frattempo, gli italiani parlano coi fatti: le ultime elezioni regionali hanno relegato i 5 Stelle tra specie in via di estinzione, lungo il viale del tramonto dove si attarda l’inguardabile Pd. Esito confermato in modo spietato dalle europee, con in più un dato eloquentissimo: un italiano su due ha evitato di votare.
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Della Luna: siamo in trappola, e la politica non conta nulla
Mentre gli animi si infuocano sulle manovre politiche in corso per il nuovo governo, definito da alcuni “dei cialtroni voltagabbana al servizio dello straniero”, Marco Della Luna passa oltre: «Rispetto alla politica alta e segreta, che pianifica e decide a porte chiuse, tacendo gli obiettivi che persegue, tutta quest’altra politica bassa, palese, narrata e recitata al grande pubblico, consiste solo di riflessi, conseguenze e di atti esecutivi della politica vera, con minimi margini di libertà». La politica visibile, in altre parole, conta pochissimo: «I politici bassi, dediti a tatticismi, spartizioni e obiettivi ristretti, presentano questi come se fossero fondamentali e decisivi, così come i loro programmi elettorali e i loro provvedimenti esecutivi o legislativi, ma non lo sono». Ultimamente, il bipolarismo popolo-élite ha sostituito quello precedente, tra destra e sinistra. «Ma lo hanno presentato in modo illusorio, come cioè se tale struttura fosse un’anomalia correggibile, e non una costante universale ineluttabile, connaturata all’organizzarsi stesso della società». La politica palese, riflessa nel teatrino dei media mainstream, «dibatte di millesimi in più o in meno che si possono fare di deficit sul Pil», grazie a cui «ricollocare altri millesimi tra sanità, pensioni, investimenti, sgravi o aggravi fiscali per lavoratori o imprese». Briciole, in realtà.Davvero nulla che conti davvero, sostiene l’avvocato Della Luna, brillante saggista euroscettico, sia che si tratti di migranti o di «diritti civili consolatori come l’eutanasia, la droga, il matrimonio e l’adozione da parte di coppie omosessuali, l’affitto di utero e la fecondazione eterologa». Al livello più profondo «si trovano fattori strutturalmente molto più potenti, come gli effetti recessivi e deindustrializzanti dell’euro». Effetti «visibili a tutti, e dei quali i partiti nostrani, erroneamente ritenuti sovranisti, populisti e antisistema, parlavano prima di andare al governo contemplando la possibilità di uscire dall’euro, mentre subito dopo hanno dichiarato fedeltà ad esso senza condizioni, rivelandosi non sovranisti né populisti, ma sottomessi ai gestori dell’Ue». Del resto, «quando si hanno incarichi istituzionali, certi principi e certi dati di realtà bisogna rinnegarli: così è avvenuto con Syriza in Grecia e Podemos in Spagna: si sono omologati», a differenza – secondo Della Luna – dello Ukip di Nigel Farage e del Brexit Party. Ma c’è un livello ancora più profondo, e quindi «mai o quasi mai proposto al pubblico dalla politica», dove affiorano «tematiche quali la intenzionale, dolosa pianificazione dell’uso dell’euro e dei suoi effetti nocivi per alcuni paesi a vantaggio della Germania, e l’analisi della stessa costruzione europeista come concepita per questo fine».In quel livello decisionale, inaccessibile alla politica ordinaria, «si trovano pure fatti come l’imperialismo e il neocolonialismo cinese, francese e statunitense, con il land grabbing e la rimozione dei popoli locali, come causa della marea migratoria dall’Africa verso l’Europa, della quale noi dovremmo farci carico». Si trovano inoltre temi come “l’inestinguibilità” del debito pubblico di quasi tutti i paesi, la tendenza nazionale italiana (dopo 27 anni di declino) ad almeno altri 25 anni di perdita di efficienza comparata. Ci sono «la sostituzione etnica (afro-islamizzazione) congiunta alla fuga di cervelli, capitali e imprese», nonché «gli ingravescenti effetti di una coesione nazionale mantenuta e mantenibile solo spogliando Veneto e Lombardia del loro reddito (quindi della capacità di investimento e innovazione) per integrare il reddito di una Roma e di un Meridione storicamente dimostratisi incapaci di crescere nonostante gli aiuti». A una maggior profondità, quindi a una maggior lontananza dalla “notiziabilità” popolare e dalla pubblica “dibattibilità” politica nelle istituzioni, c’è poi «il problema dei rapporti gerarchici tra le potenze (Stati, ma anche potentati bancario-finanziari)», che è «il problema delle sovranità limitate».Quanta libertà di autodeterminazione politica resta, all’Italia, “colonia” statunitense com 130 basi militari sul suo territorio? Cosa resta, di un’Italia vincolata all’Eurosistema a guida franco-tedesca, che dopo l’equivoco gialloverde torna pienamente sottomessa grazie al Conte-bis? «E’ divenuto manifesto, ma non se ne parla in Parlamento, il fatto che un paese che non controlla la propria moneta è diretto politicamente da chi gliela fornisce, cioè dai banchieri». Nel frattempo, «si è constatata la capacità di Ue, Bce e agenzie di rating di prescrivere coercitivamente (con la minaccia di impedire il finanziamento del debito pubblico) all’Italia e ad altri paesi deboli politiche e riforme socio-economiche favorevoli al grande capitale finanziario di tipo liberista, recessivo, sperequante, in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione». Questo potere di ricatto manifesta «l’illusorietà dei principi fondamentali della Costituzione italiana, alla luce del reale ordinamento e funzionamento gerarchico internazionale: niente governo del popolo (democrazia) ma dei capitali; niente sovranità nazionale; niente primato del lavoro; niente perseguimento dell’eguaglianza sostanziale». Ancora: «Niente equa e dignitosa retribuzione; niente subordinazione dell’impresa privata all’interesse collettivo; niente intervento pubblico keynesiano per uscire dalla depressione e dalla disoccupazione». E quindi «mancano i presupposti per la legittimazione del potere politico delle istituzioni».Queste sono le tematiche della post-democrazia, ampiamente analizzate e illuminate da giuristi come Luciano Barra Caracciolo, da valenti sociologi come Luciano Gallino. Secondo Della Luna, al filosofo Diego Fusaro, onnipresente sui media, sarebbe «riuscita l’unica impresa rivoluzionaria del dopoguerra, ossia sfondare la muraglia di censura culturale (costruita dalla falsa sinistra) portando davanti al naso del grande pubblico la spiegazione cristallina di che cosa è e che cosa fa il sistema liberal-finanziario». Fusaro avrebbe anche smascherato «l’ipocrisia delle forze presentate e presentantisi come di sinistra o progressiste, cioè in Italia soprattutto del Pd», traditrici del socialismo (cioè della difesa dei lavoratori contro lo sfruttamento) e al servizio dell’élite bancaria. Per contro, c’è chi guarda con sospetto a Fusaro: non sarà che il suo presenzialismo mediatico in fondo è comodo, al potere, perché appare stravagante e quasi cariturale, dunque innocuo? Ma a parte il giudizio su Fusaro (positivo, per Della Luna), l’autore di “Euroschiavi” e “Cimiteuro”, “Traditori al governo”, “Sbankitalia” e “I signori della catastrofe” punta il dito contro «livelli ancora più profondi» nella ricerca delle vere cause delle nostre sciagure socio-economiche.La moneta, per esempio: domina un monopolio «privato e irresponsabile della creazione dei mezzi monetari, della loro distribuzione, della fissazione del loro ‘costo’ (tasso di interesse)». E questo monopolio abusivo grava sulla politica e sulla società, soprattutto in relazione precisi fattori. Primo: quella imposta «è una moneta indebitante, che dà luogo a un indebitamento pubblico e privato che, per ragioni matematiche, non può essere estinto e continua a crescere, anche perché il reddito da creazione monetaria non viene contabilizzato e sfugge così alla tassazione». Secondo punto: questo tipo di moneta, nel lungo termine, «grazie all’indebitamento inarrestabile sta portando tutto e tutti, come debitori insolventi, nel dominio dei monopolisti monetari, azzerando la dimensione pubblica della politica e dello Stato». E infine: scontiamo «i falsi dogmi» con cui questi monopolisti «nascondono o legittimano» il loro potere abusivo, dogmi come «quello della scarsità e costosità della moneta». Pura invenzione: la moneta è illimitata, e la sua emissione è ormai a costo zero. «Portare tali temi nel pubblico dibattito non è fattibile – scrive Della Luna – perché la gente non li capirebbe, ma soprattutto perché renderebbero manifesta l’impotenza della politica bassa, palese, e dello stesso Stato».Un dibattito del genere, oltretutto, demolirebbe «la fede popolare (e il consenso) verso la falsa narrazione economica che legittima tutte le scelte di fondo finalizzate agli interessi dell’oligarchia che le formula a suo beneficio». Della Luna ha espresso lo stesso concetto nel saggio “Oligarchia per popoli superflui”: «Le masse, come strumenti di produzione di potere e ricchezza per le oligarchie, ormai sono divenute superflui (quindi impotenti poiché prive di potere negoziale, ma anche ridondanti, eliminabili) per effetto della concentrazione globale del potere e della smaterializzazione-automazione dei processi produttivi e bellici». E ora la possibilità tecnologica di gestirli in modo zootecnico, ossia non più semplicemente attraverso leve economiche e psicologiche «ma entrando nei loro corpi, nel loro Dna, e modificandoli biologicamente e geneticamente, soprattutto attraverso una manipolazione attuata per via legislativa (somministrazione forzata a generazioni di bambini di sostanze dagli effetti non chiari e non garantiti), avvia la decostruzione ontologica dell’essere umano, della specie homo, e la sua completa riduzione a strumento, merce, cosa illimitatamente formattabile, disponibile, fungibile». “Tecnoschiavi”, appunto: e senza scampo, almeno secondo Della Luna.Mentre gli animi si infuocano sulle manovre politiche in corso per il nuovo governo, definito da alcuni “dei cialtroni voltagabbana al servizio dello straniero”, Marco Della Luna passa oltre: «Rispetto alla politica alta e segreta, che pianifica e decide a porte chiuse, tacendo gli obiettivi che persegue, tutta quest’altra politica bassa, palese, narrata e recitata al grande pubblico, consiste solo di riflessi, conseguenze e di atti esecutivi della politica vera, con minimi margini di libertà». La politica visibile, in altre parole, conta pochissimo: «I politici bassi, dediti a tatticismi, spartizioni e obiettivi ristretti, presentano questi come se fossero fondamentali e decisivi, così come i loro programmi elettorali e i loro provvedimenti esecutivi o legislativi, ma non lo sono». Ultimamente, il bipolarismo popolo-élite ha sostituito quello precedente, tra destra e sinistra. «Ma lo hanno presentato in modo illusorio, come cioè se tale struttura fosse un’anomalia correggibile, e non una costante universale ineluttabile, connaturata all’organizzarsi stesso della società». La politica palese, riflessa nel teatrino dei media mainstream, «dibatte di millesimi in più o in meno che si possono fare di deficit sul Pil», grazie a cui «ricollocare altri millesimi tra sanità, pensioni, investimenti, sgravi o aggravi fiscali per lavoratori o imprese». Briciole, in realtà.
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Sisci: prima la Brexit, il nostro futuro si deciderà a Londra
Il vero destino dell’Italia si deciderà a Londra, quando si capirà se funzionerà o meno la Hard Brexit di Boris Johnson, che intanto ha chiuso il Parlamento britannico per cinque settimane. Prima di allora, sostiene il sinologo Francesco Sisci, sarà arduo leggere il futuro politico italiano: Usa, Europa e Cina vogliono prima sapere come si metteranno le cose, tra il Regno Unito e Bruxelles. Finora, se si eccettuano le interferenze di Macron e le voci di un allentamento europeo dei vincoli di bilancio, l’impatto della politica estera sulla crisi italiana si è limitata al tweet di Donald Trump a sostegno di Giuseppe Conte, mentre Steve Bannon si è affrettato a dire che Trump non appoggerà mai il governo M5S-Pd. In realtà, sostiene Sisci, intervistato da Marco Tedesco sul “Sussidiario”, l’Italia è la variabile di una partita molto più grande, che riguarda i rapporti tra Stati Uniti ed Europa. E a decidere il risultato saranno le sorti della Brexit, dice Sisci, editorialista di “Asia Times”. Da qui dunque occorre partire. Il “no deal”, l’uscita della Gran Bretagna senza nessun accordo con l’Ue, «significa che la Hard Brexit può effettivamente essere il tentativo di una minoranza di imporre le proprie convinzioni alla maggioranza». Non a caso, è eplosa la protesta degli inglesi per la chiusura delle Camere.Comunque, spiega Sisci, alla Brexit si è arrivati per errore: David Cameron voleva solo rinegoziare, con Bruxelles, per trasformare il Regno Unito in un ponte europeo tra Usa e Cina. E come sappiamo, non ci è riuscito. La minaccia della Brexit, ricorda l’analista, è stata un’idea di Cameron per strappare più concessioni dall’Ue nel 2016. «Il piano di Cameron non era quello di uscire dall’Ue, ma di mostrare la consistenza, che si supponeva ingente ma non maggioritaria, dei pro-Brexit. Il referendum sarebbe fallito con un piccolo margine, e questo avrebbe dato a Cameron la possibilità di negoziare con Bruxelles da una posizione rafforzata». Un azzardo pericoloso, come si è visto. Ma perché rischiare? Qual era l’obiettivo? «Dietro c’era un altro piano, ammirevole per la sua ambizione e visione: trasformare la Gran Bretagna nel prossimo crocevia di scambi tra Stati Uniti, Ue e Cina. Per realizzarlo – spiega Sisci – Cameron aveva bisogno di ottenere più diritti speciali dall’Ue. Il Regno Unito avrebbe fatto da facilitatore su ogni lato del triangolo». Invece, il referendum del 23 giugno 2016 ha cambiato tutto.«Il piano è fallito miseramente, e non solo per il referendum. Un altro lato del triangolo è franato: i legami Usa-Cina stavano peggiorando. Nel 2016, l’America stava diventando molto nervosa con la Cina su questioni commerciali, ma anche strategiche e di diritti umani, e Donald Trump è arrivato al potere alla fine del 2016 giurando di rinegoziare il commercio con Pechino». Ma senza un risultato positivo sulla Brexit, riassume Tedesco sul “Sussidiario”, Londra non aveva più un ruolo speciale per discutere migliori accordi tra Cina, Ue e Stati Uniti. «L’ambizioso piano britannico aveva bisogno di rapporti scorrevoli su ogni lato dell’architettura di comunicazioni economico-commerciali tra Regno Unito, Ue, Stati Uniti e Cina», conferma Sisci. E quei rapporti «si erano ormai incrinati su più lati». Da quel momento in poi, continua l’analista, «la Gran Bretagna ha proseguito il suo progetto per uscire dall’Ue, ma senza un piano chiaro». E cioè: «Senza sapere molto bene cosa avrebbe ottenuto, lasciando l’Unione». Era tuttavia molto chiaro ciò che il Regno Unito, lasciando l’Ue, avrebbe perduto. E questo dilemma «ha provocato l’attuale, profonda spaccatura nella politica britannica».Molti parlamentari inglesi oggi «vorrebbero trovare un modo per uscire dal pasticcio, evitare la Brexit vera senza perdere troppo la faccia», aggiunge Sisci. «Johnson, evidentemente, lo percepisce e lo sa, e sente che l’unico modo per arrivare alla Brexit è aggirare il Parlamento». Ci riuscirà? «Non lo sappiamo. Ma questa decisione è un duro doppio colpo per l’architettura politica del Regno Unito e dell’Unione Europea». I due sistemi come accuseranno la botta? E cosa farà il resto del mondo? Finora è rimasto sconvolto davanti al duello commerciale tra Cina e Stati Uniti. In che modo il dramma britannico interferirà con esso? Alla luce di tiutto questo, continua Sisci, «si capisce bene perché gli Stati Uniti e l’Ue hanno visto con preoccupazione l’attuale crisi politica italiana, che stava conducendo il paese a caotiche elezioni anticipate: preferirebbero che l’Italia si stabilizzasse con una certa parvenza di governo, come lo è il nuovo governo di coalizione possibile tra M5S e Pd». Insomma, l’ultima cosa che gli Stati Uniti e l’Unione Europea volevano, mentre si trovavano di fronte al dramma britannico, era «impantanarsi in un incomprensibile complotto italiano con riverberi europei e globali», anche se Salvini rappresentava pur sempre, almeno virtualmente, una spina nel fianco del sistema di potere oligarchico che si ripara dietro l’Ue, imponendo il massimo rigore a paesi come l’Italia. E ora?«Sicuramente – ragiona Sisci – anche un euroscettico americano vede che la leadership franco-tedesca in Europa sarebbe rafforzata dall’uscita frenetica e indisciplinata della Gran Bretagna dall’Ue, e ciò rappresenterebbe un forte freno contro qualsiasi paese dell’Unione che aspettasse il momento giusto per lasciarla». In passato, gli Usa «sostenevano la Brexit per indebolire la Ue», e questo «è comprensibile», ma il caos britannico di questi giorni «nei fatti rafforza l’Unione», e ciò «pone gli Usa davanti a un bivio». Ovvero: «Se gli Stati Uniti guidassero una qualche forma di riconciliazione tra Regno Unito e Ue, Washington dimostrerebbe a Bruxelles che ancora una volta l’Unione Europea ha bisogno dell’America e che gli europei da soli non sanno badare a se stessi». Per Sisci, «potrebbe essere un’occasione d’oro per Trump di riscattare un importante punto d’appoggio politico in Europa». E se invece gli Stati Uniti sosterranno la Hard Brexit, che oggi forse è una posizione minoritaria nel Regno Unito? Una simile scelta «potrebbe minare ulteriormente il ruolo americano nel vecchio continente». E questo, avverte Sisci, «a sua volta potrebbe avere conseguenze enormi anche con la Cina, poiché Pechino potrebbe vedere una debolezza degli Stati Uniti in Europa e forse trarne vantaggio». Dopotutto, la “Belt and Road Initiative” termina in Europa.E in questo contesto terremotato, che potrebbe accrescere l’egemonia Usa sull’Europa, che fine farà l’Italia? «Con i suoi intrighi incomprensibili», il Belpaese «non deve rompere le scatole». E’ meglio che si rassegni a «fare la legge di bilancio». Poi «se ne riparla a fine anno o all’inizio del 2020, quando la questione Brexit si sarà chiarita». Il tweet di Trump come endorsement a Conte? «E’ chiaro che c’è un interesse americano e franco-tedesco a non avere i pasticci italiani fra i piedi», afferma Sisci, secondo cui non c’è un vero sostegno per Conte. Semmai c’è una debolezza di Salvini, «che non si è reso conto di come certe sue azioni e agende “sovraniste” andassero contro interessi molto generali, in Europa e oltre Atlantico». In questa fase, aggiunge l’analista, gli Stati Uniti e l’Ue vedono Pd e 5 Stelle come l’ultimo dei problemi: «In questo momento, il mondo non vuole dall’Italia controversie incomprensibili». Se però il Pd rappresenta il vecchio establishment europeista, anti-italiano e dunque “affidabile” per i dominatori di Bruxelles, la stampa internazionale appare molto confusa sui 5 Stelle: «È concorde solo nel vederne la debolezza intellettuale e progettuale». E comunque, attenzione: «Ricordiamoci che l’obiettivo era non avere elezioni e una crisi politica italiana in coincidenza con la Hard Brexit».Il vero destino dell’Italia si deciderà a Londra, quando si capirà se funzionerà o meno la Hard Brexit di Boris Johnson, che intanto ha chiuso il Parlamento britannico per cinque settimane. Prima di allora, sostiene il sinologo Francesco Sisci, sarà arduo leggere il futuro politico italiano: Usa, Europa e Cina vogliono prima sapere come si metteranno le cose, tra il Regno Unito e Bruxelles. Finora, se si eccettuano le interferenze di Macron e le voci di un allentamento europeo dei vincoli di bilancio, l’impatto della politica estera sulla crisi italiana si è limitata al tweet di Donald Trump a sostegno di Giuseppe Conte, mentre Steve Bannon si è affrettato a dire che Trump non appoggerà mai il governo M5S-Pd. In realtà, sostiene Sisci, intervistato da Marco Tedesco sul “Sussidiario”, l’Italia è la variabile di una partita molto più grande, che riguarda i rapporti tra Stati Uniti ed Europa. E a decidere il risultato saranno le sorti della Brexit, dice Sisci, editorialista di “Asia Times”. Da qui dunque occorre partire. Il “no deal”, l’uscita della Gran Bretagna senza nessun accordo con l’Ue, «significa che la Hard Brexit può effettivamente essere il tentativo di una minoranza di imporre le proprie convinzioni alla maggioranza». Non a caso, è esplosa la protesta degli inglesi per la chiusura delle Camere.
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Mangia: i veri padroni a cui risponde “l’avvocato del popolo”
La formazione di un governo è dipesa per 75 minuti dall’annuncio dell’esito di un sondaggio gestito da una società privata; il partito che per 18 mesi si è fatto paladino delle democrazia rappresentativa, e che in questi giorni ha ricordato a tutti le regole della democrazia parlamentare, voterà a breve la riduzione dei parlamentari; e ormai la Lega, pur di mettere in luce quel che è successo, cita Mortati e la presunzione di consonanza tra Parlamento e corpo elettorale. E’ roba che è morta e sepolta da quando Mattarella ha annunciato in televisione l’esistenza di una pregiudiziale europea, per cui non può fare il ministro chi, nella sua vita precedente, abbia mai criticato l’Unione Europea. Davvero ha ragione Mario Esposito a dire che ormai l’Ue fa parte della forma di governo italiana. È che se ne sono accorti in pochi, anche se è sotto gli occhi di tutti. Bisognerà, prima o poi, fare una riflessione sul ruolo della presidenza della Repubblica, e su cosa è diventata. La vera ragion d’essere di questo governo è anestetizzare per un po’ la situazione italiana, dopo le preoccupazioni che l’Italia aveva destato in una fase pessima per gli equilibri politici del continente. Altro che Iva da stornare e riduzione del cuneo fiscale da realizzare. Quella è roba, diciamo così, per il mercato elettorale interno.Finché si potrà, si cercherà di puntellare dall’esterno un governo che serve a tenere a bada una provincia dell’Impero dove covano germi di ribellione. E si sa che il partito delle molte Legion d’Onore – e cioè il Pd – è sempre disponibile per queste operazioni. Gli dà una mano il M5S, che adesso si è scoperto decisamente europeista, dopo aver consentito il nascere della Commissione von der Leyen. Chissà perché non hanno chiesto un parere a Rousseau anche su questo, visto che è stato il vero passaggio di rottura. D’altronde, Lega e 5 Stelle avevano già fatto una campagna elettorale ad insultarsi a vicenda mentre stavano al governo: era normale che questo dovesse avvenire. E non si è capito che Salvini le elezioni le aveva vinte in Italia, ma in Europa le aveva perse. E anche male. Era solo questione di tempo perché si spaccasse l’accordo. La durata di questo governo dipenderà dall’esterno, come è avvenuto per il precedente, che è caduto sulla politica estera. Kissinger vedeva nella dimensione imperiale la forma politica naturale per l’Europa. I fatti gli stanno dando ragione. Perché per un impero ad importare è il centro, mentre i confini sono secondari: possono espandersi o contrarsi, ma l’importante è che tenga il centro.Secondo me gli ideatori del format elettorale che va sotto il nome di 5 Stelle non si sono resi conto che l’“avvocato del popolo”, che era stato reclutato come un “professionista a contratto”, gli ha sfilato il giocattolo. E il momento in cui questo è avvenuto è stato al momento del voto sulla presidenza della Commissione Europea. È chiaro che i 5 Stelle cercavano una legittimazione a livello europeo dopo essere stati tenuti fuori da tutto fin dal loro ingresso a Strasburgo. E la loro occasione è stata quella di fornire 14 voti ad una Commissione che è entrata in carica per 9 voti. A quel punto la crisi d’agosto ha prodotto un’accelerazione. E Conte, che aveva già lavorato con un pezzo di governo che rispondeva al Quirinale per accreditarsi in Europa, si è trovato investito di un ruolo di statista che gli è stato concesso in tutta fretta per evitare i problemi che avrebbe potuto dare una crisi italiana in una fase in cui Brexit, recessione tedesca e guerra commerciale sono tutti punti interrogativi. Conte riceverà la fiducia da un gruppo parlamentare, il Pd, che non risponde alla sua segreteria, e da un altro gruppo parlamentare che fino a una settimana fa vedeva in Di Maio il leader politico e in Conte un mediatore tecnico.Il punto è che l’investitura rapidissima e simultanea, e su tutti i media mondiali, di Conte da parte di Merkel, Macron, Trump, Juncker, Bill Gates, Oettinger, Moscovici, Elvis Presley e Walt Disney pone un problema allo stesso Movimento. Adesso Conte a chi risponde?Bisogna domandarselo. Risponde al Pd, verso il quale ha rivolto in questi giorni parole di vecchio simpatizzante? Alla Casaleggio e Associati? A chi, con immenso candore, l’ha definito il “nuovo Tsipras” (Jean-Claude Juncker) ed eletto al ruolo di statista mondiale da “burattino” che era? O risponde fondamentalmente a se stesso, come ogni professionista che si rispetti? Se Di Maio fosse rientrato a Palazzo Chigi come vicepremier avrebbe avuto la possibilità di controllare il suo ex “professionista a contratto” e ritagliare un ruolo a quel che resta del Movimento. Se va a fare il ministro e basta, tutto si fa più confuso e provvisorio. Cosa direbbe, Kissinger, di questa situazione? Direbbe la verità. E cioè che in fondo Casaleggio, Conte e via dicendo sono dei parvenu dell’ordine mondiale. E che Conte sia stato, per il momento, cooptato per tenere buono un paese fastidioso, non vuol dire che lo sia anche il gruppo formatosi attorno alla Casaleggio e Associati, con i suoi progetti di democrazia cibernetica fatta in casa con il forno a legna.(Alessandro Mangia, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “I veri poteri a cui risponde l’avvocato del popolo”, pubblicato dal “Sussidiario” il 4 settembre 2019. Il professor Mangia è ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano).La formazione di un governo è dipesa per 75 minuti dall’annuncio dell’esito di un sondaggio gestito da una società privata; il partito che per 18 mesi si è fatto paladino delle democrazia rappresentativa, e che in questi giorni ha ricordato a tutti le regole della democrazia parlamentare, voterà a breve la riduzione dei parlamentari; e ormai la Lega, pur di mettere in luce quel che è successo, cita Mortati e la presunzione di consonanza tra Parlamento e corpo elettorale. E’ roba che è morta e sepolta da quando Mattarella ha annunciato in televisione l’esistenza di una pregiudiziale europea, per cui non può fare il ministro chi, nella sua vita precedente, abbia mai criticato l’Unione Europea. Davvero ha ragione Mario Esposito a dire che ormai l’Ue fa parte della forma di governo italiana. È che se ne sono accorti in pochi, anche se è sotto gli occhi di tutti. Bisognerà, prima o poi, fare una riflessione sul ruolo della presidenza della Repubblica, e su cosa è diventata. La vera ragion d’essere di questo governo è anestetizzare per un po’ la situazione italiana, dopo le preoccupazioni che l’Italia aveva destato in una fase pessima per gli equilibri politici del continente. Altro che Iva da stornare e riduzione del cuneo fiscale da realizzare. Quella è roba, diciamo così, per il mercato elettorale interno.