Archivio del Tag ‘calcio’
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Magaldi: siamo in guerra, siate eroi o finirete come Renzi
Oggi, dalle parti del governo, ci si può ancora godere qualche buon sondaggio: qualunque manovra, ancorché modesta, è pur sempre meglio dell’esercizio provvisorio. Ma fra sei mesi o un anno, la gente guarderà le proprie scarpe. E se saranno rotte com’erano un anno fa o due anni fa, prima che arrivasse il governo gialloverde, quelle scarpe se le toglierà e inizierà a tirarle, insieme ai pomodori, addosso ai presunti eroi del cambiamento. Quindi attenzione, cari amici gialloverdi del governo Conte: o si fa sul serio, a partire dal 2019, oppure farete – purtroppo – la fine che hanno fatto i vostri predecessori, cioè tutti quelli che di cambiamento hanno solo e sempre parlato. I governi dell’ultimo quarto di secolo hanno governato secondo i dettami di oligarchie massoniche neo-aristocratiche: si sono appecoronati, lasciandosi comprare un tanto al chilo, e hanno eseguito copioni scritti per loro da altri. Adesso il governo gialloverde ha al suo interno anche dei massoni sedicenti progressisti, e all’esecutivo – dal mondo massonico progressista – arriva il seguente messaggio: abbiate il coraggio di essere degli eroi, anche perché ci guadagnereste pure in termini elettorali e di durata, sul palcoscenico politico.Non sappiamo se questi suggerimenti saranno accolti. Certo, qualcuno potrebbe dire che il governo si è barcamenato, tra suggerimenti di segno opposto. In una prospettiva di autentico cambiamento, Paolo Savona al Senato ha evocato l’esigenza di un nuovo corso rooseveltiano, recependo appieno la narrativa politico-economica proposta dal mondo massonico progressista. Purtroppo però la manovra varata non si traduce in massicci piani di rilancio delle infrasttrutture, dell’occupazione, della sicurezza idrogeologica. Si resta invece in balia di una sorta di timore reverenziale verso la minaccia di tirate d’orecchie da parte dell’Europa. E così, per evitare la procedura d’infrazione, si assottiglia il già magro piano di misure volte ad abbandonare il paradigma del rigore e dell’austerità. Sembra che il governo Conte, schiacciato tra istanze opposte e contrarie – quelle dei massoni progressisti e quelle dei massoni neo-aristocratici – cerchi di barcamentarsi. Però questa cosa non funziona: barcamenarsi significa, alla fine, dar ragione ai massoni neo-aristocratici, che (attraverso i propri maggiordomi e camerieri) occupano indebitamente le istituzioni dell’attuale Disunione Europea. Opporsi a questi signori, invece, significa andare verso una vera Europa, e impegnarsi – come Italia – a costruirla, questa vera Europa, da protagonisti.La manovra del governo Conte è molto al di sotto delle aspettative, ma molti esponenti dell’area gialloverde annunciano di volerla migliorare nel 2019. A noi del Movimento Roosevelt farebbe piacere vedere un’evoluzione del governo Conte, più in linea con quelle che erano le attese. Della Seconda Repubblica diamo un giudizio storico, di fallimento complessivo. La Terza Repubblica comincerà solo col ritorno allo spirito originario della Costituzione, eliminando le cattive modifiche introdotte e vivificando le parti della Carta non adeguatamente declinate (e magari introducendo anche qualche perfezionamento). Avremo una Terza Repubblica quando al governo ci sarà qualcuno che lancerà finalmente un paradigma alternativo a quello neoliberista, egemone da troppi decenni, e quando – da parte dei governanti – ci sarà un atteggiamento consapevole della grandezza dell’Italia, potenziale ma anche attuale. L’Italia è un grande paese, che vive rappresentato al di sotto delle sue possibilità. L’Italia potrebbe recitare un ruolo leader nel Mediterraneo, in Africa e nel Medio Oriente. E potrebbe recitare un ruolo importante nel continente europeo, per costruire un’Europa veramente forte, democratica e popolare – ma non lo fa. L’Italia potrebbe essere anche un ponte tra Oriente e Occidente: lo è stata storicamente, ma riesce a esserlo solo a intermittenza, senza lungimiranza e senza valorizzare queste sue attitudini.In una Terza Repubblica, avremmo discorsi dei presidenti della Repubblica meno fasulli, meno retorici, meno gonfi di fumo e poveri di arrosto. Avremmo discorsi in cui il capo dello Stato si farebbe carico di interpretare le esigenze della nazione, parlando una lingua riconoscibile dai cittadini, senza menare il can per l’aia ingannando la platea. Mattarella dovrebbe fare autocritica, anzitutto, per come ha gestito il suo rapporto con la formazione del governo Conte e per come ha mortificato ingiustamente una fugura come quella di Paolo Savona impedendo che accedesse al ministero dell’economia. Mattarella ha presentato se stesso come il garante di un atteggiamento appecoronato, del sistema-Italia, verso diktat che non sono europei, non sono europeisti: sono solo il frutto contingente di una pessima ideologia, quella neoliberista, che ha corrotto qualunque sogno di integrazione politica europea. Mattarella si è fatto ragioniere occhiuto, e ha partecipato allo spavento per i risparmi degli italiani – messi in discussione da cosa? Se fosse stato un vero europeista, semmai, il presidente della Repubblica si sarebbe dovuto adoperare per promuovere l’eliminazione del problema dello spread alla radice, puntando a un’integrazione dei buoni del Tesoro (eurobond). Avrebbe dovuto, semmai, chiedere un surplus di democrazia nelle istituzioni europee.Queste cose Mattarella non le fa, ma non le ha fatte nessun suo predecessore. Non solo: Mattarella e i costituzionalisti del Qurinale non hanno detto una parola su quei profili dubbi del “decreto sicurezza” di Salvini. Invece partecipano, Mattarella e altri, al fiume di delegittimazione di Salvini sul piano di presunte xenofobie – che non ci sono mai state: la Lega ha eletto il primo parlamentare di colore in Italia. In questo triste crepuscolo di Forza Italia, del Pd e di altri partiti ormai in putrefazione, tutti epigoni di quella che è stata la Seconda Repubblica, la credibilità è davvero ai minini termini. Lo confermano i sondaggi: magari aumentano i cittadini disillusi dal troppo poco che ha fatto il governo, ma non cresce certo il consenso delle forze che vi si oppongono. La situazione è tale, che un capo dello Stato serio dovrebbe dire, oggi, agli italiani: scusatemi, perché forse ho attentato alla Costituzione quando (per un mio pregiudizio politico e ideologico) ho impedito che diventasse ministro dell’economia un galantuomo come Paolo Savona. Scusatemi, dovrebbe dire Mattarella, perché non ho fatto i giusti rilievi costituzionali (e non ho rimandato quindi alle Camere) il “decreto sicurezza” di Salvini, che forse contiene elementi illiberali – e lo dico io, che difendo Salvini da ogni attacco strumentale, e credo ancora che Salvini possa maturare politicamente, con tutta la Lega, verso una cifra politica adeguata alle sfide del XXI Secolo.Il vero punto è questo: Salvini è stato più muscolare degli altri, ma solo a parole. Il governo Conte, la Lega e i 5 Stelle vanno spronati a fare di più e di meglio. Questa manovra è riuscita male, così come l’atteggiamento con l’Europa. Si vuol dire che ogni tanto bisogna anche saper ripiegare e essere diplomatici? Va bene, staremo a vedere. Ma attenzione ai cortigiani, che oggi sono adulatori anche di Salvini: ricordo la fine che ha fatto Renzi, che era corteggiato e adulato, osannato e presentato nei sondaggi come l’uomo dell’anno (e degli anni). Ecco un’altra cosa che il presidente della Repubblica dovrebbe dire: italiani, cessate di essere servili e cortigiani. Cessate di essere stupidamente tifosi, com’è accaduto negli ultimi raccapriccianti episodi attorno al mondo calcistico: se proprio uno deve avere il coraggio di andare incontro alla morte, lo faccia per degli ideali importanti, non per una sciarpa e il tifo per una squadretta di calcio – con tutto il rispetto per la grande passione sportiva italiana. Italiani, siate seri: così dovrebbe dire un presidente della Repubblica autentico (lo disse Garibaldi in una delle sue avventure eroiche, e l’ultima stagione eroica dell’Italia è stata proprio il Risorgimento, pur tra mille retoriche).Insomma, il presidente della Repubblica dovrebbe dire: forse ho sbagliato, in questi anni, ma vi prometto che d’ora in avanti il mio ruolo di garante delle istituzioni sarà quello, anche in sede europea e mediterranea, di chi si adopera per favorire un reale Piano Marshall per l’Africa e un ruolo importante dell’Italia nel Mediterraneo. Tanto più che Mattarella proviene da quella sinistra democristiana che aveva in Aldo Moro un grandissimo esponente e un uomo di Stato che – fino a che non l’hanno ammazzato – aveva sicuramente gestito da par suo, insieme ad altri, un ruolo importante del nostro paese in varie questioni mediorientali e internazionali. Mattarella dovrebbe dire: mi adopererò perché l’Europa sia vera, democratica, popolare, con istituzioni non post-democratiche, non oligarchiche, non tecnocratiche. Questo dovrebbe dire: mi adopererò perché in Italia tornino la giustizia e la mobilità sociale, perché si vada verso il diritto al lavoro inserito nella Costituzione, cosicché il dibattito non sia più arenato tra reddito di cittadinanza (farlocco) o redditi integrativi di incerta applicazione. Questo dovrebbe dire: mi adopererò, come presidente della Repubblica, per far fare un salto di qualità a questa nazione.Noto peraltro che le persone sono più attente, alla questione della “res publica”: ne parlano di più, sono più smaliziate. Anche tra le persone semplici le antenne sono ben ritte. Quindi bisogna essere ottimisti, per il 2019 e per gli anni che verranno, perché forse l’Italia potrà davvero riannodare i fili della sua storia, e gli italiani potranno forse tornare a vivere qualche stagione eroica, com’è accaduto in secoli passati. Il governo Conte? Se sceglie la via del barcamenarsi farà la fine di Matteo Renzi, un grande “barcamenatore”: faceva la voce grossa e parlava di rinnovamento ma non rinnovava niente; stava lì a tenere buoni tutti, lanciando speranze poi tutte disattese. I rappresentanti del governo Conte sanno bene cosa dicono gli uni e gli altri, i progressisti e i neo-aristocratici, ma la scelta di barcamenarsi non è possibile. Questa è una guerra: lo dico con mitezza, perché è una guerra che si può combattere pacificamente e democraticamente. Ma è una guerra, nella quale si scontrano due visioni diverse della società. Una è una visione democratica e progressista, imperniata sulla giustizia, sulla mobilità sociale e sulle prosperità diffusa. L’altra visione è invece imperniata sulla post-democrazia, cioè su una neo-aristocrazia (che va a braccetto, sul piano economico, con quella ideologia neoliberista che ha ammorbato l’orbe planetario negli ultimi decenni). Per il bene di tutti, l’Italia deve tornare a recitare un ruolo importante. E faccio questa previsione: il 2019 vedrà un’accelerazione di parecchi processi.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming su YouTube “Gioele Magaldi Racconta” del 31 dicembre 2018. Autore del bestseller “Massoni”, nonché esponente del circuito massonico progressista internazionale, Magaldi annuncia per il 2019 un’intensa offensiva mediatica da parte del Movimento Roosevelt, di cui è presidente, e parallelamente prevede un’incisiva attività politica da parte del costruendo “Partito che serve all’Italia”, i cui attivisti torneranno a riunirsi a Roma il 10 febbraio, dopo l’assemblea prenatalizia alla quale hanno partecipato, a vario titolo, personalità come quelle di Nino Galloni, Claudio Quaranta, Antonio Maria Rinaldi e Ilaria Bifarini).Oggi, dalle parti del governo, ci si può ancora godere qualche buon sondaggio: qualunque manovra, ancorché modesta, è pur sempre meglio dell’esercizio provvisorio. Ma fra sei mesi o un anno, la gente guarderà le proprie scarpe. E se saranno rotte com’erano un anno fa o due anni fa, prima che arrivasse il governo gialloverde, quelle scarpe se le toglierà e inizierà a tirarle, insieme ai pomodori, addosso ai presunti eroi del cambiamento. Quindi attenzione, cari amici gialloverdi del governo Conte: o si fa sul serio, a partire dal 2019, oppure farete – purtroppo – la fine che hanno fatto i vostri predecessori, cioè tutti quelli che di cambiamento hanno solo e sempre parlato. I governi dell’ultimo quarto di secolo hanno governato secondo i dettami di oligarchie massoniche neo-aristocratiche: si sono appecoronati, lasciandosi comprare un tanto al chilo, e hanno eseguito copioni scritti per loro da altri. Adesso il governo gialloverde ha al suo interno anche dei massoni sedicenti progressisti, e all’esecutivo – dal mondo massonico progressista – arriva il seguente messaggio: abbiate il coraggio di essere degli eroi, anche perché ci guadagnereste pure in termini elettorali e di durata, sul palcoscenico politico.
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La lotteria dell’universo e i numeri sbagliati del pianeta
La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.Il messia. Alla mia destra, aveva detto, e alla mia sinistra. Sedevano a tavola, semplicemente. Avevano sprecato un sacco di tempo in chiacchiere inconcludenti, e lo sapevano. Con colpevole ritardo, dopo inenarrabili vicissitudini dai risvolti turpemente malavitosi, si erano infine rimessi al nuovo sire, l’inviato dall’alto. Familiarmente, tra loro, lo chiamavano messia, essendo certi che avrebbe fatto miracoli e rimesso le cose al loro posto, ma non osavano consentirsi confidenze di sorta: ne avevano un timoroso rispetto. Quell’uomo incuteva soggezione, designato com’era dal massimo potere superiore. Non restava che ascoltarlo, in composto silenzio, assecondandolo in tutto e sopportandone la postura da tartufo. La sua grottesca affettazione si trasformava inevitabilmente, per i servi, in squisita eleganza. Gareggiavano, i sudditi, in arte adulatoria. Stili retorici differenti, a tratti, permettevano ancora di distinguere i servitori seduti a destra da quelli accomodati a sinistra.Tungsteno. L’isoletta era prospera e felice, o almeno così piaceva ripetere al governatore, sempre un po’ duro d’orecchi con chi osava avanzare pretese impudenti, specie in materia di politica economica, magari predicando la necessità di sani investimenti in campo agricolo. Il popolo si sentì magnificare le virtù del nuovo super-caccia al tungsteno, ideale per la difesa aerea. Ma noi non abbiamo nemici, protestarono. Errore: potremmo sempre scoprirne. Il dibattito si trascinò per mesi. I contadini volevano reti irrigue, agronomi, serre sperimentali, esperti universitari in grado di rimediare alle periodiche siccità. Una mattina il cielo si annuvolò e i coloni esultarono. Pioverà, concluse il governatore, firmando un pezzo di carta che indebitava l’isola per trent’anni, giusto il prezzo di un’intera squadriglia di super-caccia al tungsteno.Stiamo pensando. Stiamo pensando alla situazione nella sua inevitabile complessità, alle sue cause, alle incidenze coincidenti ma nient’affatto scontate. Stiamo pensando a come affrontare una volta per tutte la grana del famosissimo debito pubblico, voi capite, il debito pubblico che è come la mafia, la camorra, l’evasione fiscale, l’Ebola, gli striscioni razzisti negli stadi, la rissa sui dividendi della grande fabbrica scappata oltremare, l’abrogazione di tutto l’abrogabile. Perché abbiamo perso? Stiamo pensando a come non perdere sempre, a come non farvi perdere sempre. Stiamo pensando, compagni. E, in confidenza, di tutte queste problematiche così immense, così universali, così globalmente complicate, be’, diciamocelo: non ne veniamo mai a capo. Il fatto è che non capiamo, compagni. Non capiamo mai niente. Ma, questa è la novità, ci siamo finalmente ragionando su. Stiamo pensando. Una friggitoria di meningi – non lo sentite, l’odore?Unni. Scrosciarono elezioni, ma il personale di controllo era scadente e il grande mago cominciò a preoccuparsi, dato che i replicanti selezionati non erano esattamente del modello previsto. Lo confermavano a reti unificate gli strilli dei telegiornali, allarmati anche loro dall’invasione degli Unni. Non si capiva quanto fossero sinceri i loro slogan, quanto pericolosi. Provò il dominus ad armeggiare con i soliti tasti, deformando gli indici borsistici, ma non era più nemmeno certo che il trucco funzionasse per l’eternità. Vide un codazzo di Bentley avvicinarsi alla reggia e si sentì come Stalin accerchiato dai suoi fidi, nei giorni in cui i carri di Hitler minacciavano Mosca. Ripensò ai tempi d’oro, quando gli asini volavano e persino gli arcangeli facevano la fila, senza protestare, per l’ultimissimo iPhone.(Estratto da “La lotteria dell’universo”, di Giorgio Cattaneo. “Siamo in guerra, anche se non si sentono spari. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo: e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie. Fotogrammi: 144 pillole narrative descrivono quello che ha l’aria di essere l’inesorabile disfacimento di una civiltà”. Il libro: Giorgio Cattaneo, “La lotteria dell’universo”, Youcanprint, 148 pagine, 12 euro).La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.
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Magaldi: la montagna gialloverde ha partorito un topolino
Diciamola tutta: alla fine, la montagna gialloverde «ha partorito il classico topolino». Dove lo vedete, il sacrosanto taglio delle tasse promesso dalla Lega in campagna elettorale? E qualcuno sa che fine ha fatto, esattamente, il mitico reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia dei 5 Stelle per sostenere le fasce sociali più in affanno? Sembra arrivata l’ora del disincanto, per Gioele Magaldi, tenace difensore d’ufficio del governo Conte, pur privato di un uomo come Paolo Savona al dicastero dell’economia. E se si passa per la capitale, si scopre che il disincanto è letteralmente esploso, ma non da oggi: «E’ insensato che si festeggi Virginia Raggi per aver evitato una condanna penale, peraltro solo in primo grado, quando la giunta capitolina non ha mai neppure cominciato a occuparsi seriamente di Roma». La sindachessa pentastellata «ha disatteso tutte le aspettative di chi l’aveva votata, sperando in un cambio radicale nella governance della città». Ma poi, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, scopri che – sul fronte opposto – il rimedio è peggiore del male. Vedasi il referendum (abortito) sull’Atac, promosso dai radicali: ancora una volta, si è tentato un assalto neoliberista per privatizzare un servizio pubblico, magnificando le immaginarie virtù del privato. «Come se non esistesse l’esempio dell’Atm di Milano, municipalizzata, indicata anche all’estero come modello perfetto di trasporto pubblico efficiente».Questa è l’Italia dell’autunno 2018, sintetizza Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: da un lato il “governo del cambiamento” riesce a cambiare ben poco, e dall’altro gli oppositori (partiti-zombie, media mainstream e vecchio establishment) continuano, in modo piuttosto penoso, a demonizzare Di Maio e in particolare Salvini, presentato come una specie di orco, un vero e proprio mostro di cinismo, a causa della sua politica muscolare nei confronti dell’immigrazione incontrollata. Bei sepolcri imbiancati, i detrattori di Salvini, «di manica larga con i migranti, ma pidocchiosi con gli italiani». Tradotto: «Va benissimo aiutare chi sbarca da paesi disastrosamente poveri, a patto però che non si lasci indietro quella fetta di popolazione italiana che fatica ad arrivare alla fine del mese». L’ideale? «Più soldi per tutti, in una sana prospettiva “rooseveltiana”, cioè post-keynesiana. Ma certo, bisogna espandere il deficit. E la cosa non piace, agli avversari del governo, sempre allineati ai diktat della sedicente Europa».Calcisticamente: il possesso palla è ancora al governo, ma tiri in porta non se ne vedono. E se i gialloverdi non entusiasmano, nella metà capo opposta è buio pesto. Zero idee, nessuna alternativa all’euro-catechismo della crisi. Che fare? Tanto per cominciare, investire con più coraggio su un sistema-paese che ha un disperato bisogno di interventi pubblici strategici, in ogni settore, incluso quello delle infrastrutture. I migranti? «Ottimo il Salvini che accusa l’Ue di scaricare il problema solo sull’Italia, peccato che poi i nostri partner continuino a far finta di niente». E a Salvini si può rimproverare qualcosa? «Certo: la mancanza, finora, di una “pars construens”. Va bene ripetere “aiutiamoli a casa loro”, gli africani, ma poi bisogna cominciare a farlo per davvero. Tanto più che una sorta di Piano Marshall per l’Africa darebbe un ruolo importante, all’Italia, anche in termini di leadership euro-mediterranea». L’immobilismo non aiuta. E anzi fa montare polemiche che poi sfociano anche nel complottismo di chi vede, nell’esodo incoraggiato da Soros, l’attuazione del meticciato forzoso vagheggiato dal massone reazionario Richard Coudenhove-Kalergi, precursore del dominio delle élite poi sfociato in questa Disunione Europea, «concepita come Sacro Romano Impero affidato alla manovalanza neo-feudale dei tecnocrati».Fantasmi a parte, Magaldi si richiama a un sano realismo: «L’accoglienza incontrollata di immigrati può mettere in difficoltà i lavoratori italiani, è ovvio. Quello che non è accettabile – dice – è che non si vogliano trovare soluzioni eque, in un mondo che non è mai stato così ricco». Insiste: «La fiaba della penuria è un’invenzione del neoliberismo: virtualmente, nella storia del pianeta, non c’è mai stata tanta disponibilità di risorse, grazie alle tecnologie di cui disponiamo. Ed è inammissibile – sottolinea il presidente del Movimento Roosevelt – che queste risorse vengano concentrate in poche mani, le stesse che poi ci raccontano la favola della scarsità, che serve per declinare le politiche artificiose dell’austerity». C’è un’intera narrazione, da smantellare. Ed è un lavoro che richiede lucidità, determinazione e una buona dose di fegato, assai più di quello finora dimostrato dal governo gialloverde con il suo “rivoluzionario” deficit al 2,4%, ben al di sotto del già inaccettabile tetto del 3% stabilito da Maastricht esclusivamente sulla base della fandonia neoliberista. Roma caput mundi, comunque, almeno a titolo di esempio negativo: fischiare la Raggi per l’ipotetico reato di falso, anziché per il fallimento politico della sua giunta, è come insultare Salvini per la guerra alle Ong anziché pretendere che il governo, finalmente, mandi a stendere con ben altro piglio il rigore Ue, in nome della sovranità democratica cui l’Italia ha diritto.Diciamola tutta: alla fine, la montagna gialloverde «ha partorito il classico topolino». Dove lo vedete, il sacrosanto taglio delle tasse promesso dalla Lega in campagna elettorale? E qualcuno sa che fine abbia fatto, esattamente, il mitico reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia dei 5 Stelle per sostenere le fasce sociali più in affanno? Sembra arrivata l’ora del disincanto, per Gioele Magaldi, tenace difensore d’ufficio del governo Conte, pur privato di un uomo come Paolo Savona al dicastero dell’economia. E se si passa per la capitale, si scopre che il disincanto è letteralmente esploso, ma non da oggi: «E’ insensato che si festeggi Virginia Raggi per aver evitato una condanna penale, peraltro solo in primo grado, quando la giunta capitolina non ha mai neppure cominciato a occuparsi seriamente di Roma». La sindachessa pentastellata «ha disatteso tutte le aspettative di chi l’aveva votata, sperando in un cambio radicale nella governance della città». Ma poi, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, scopri che – sul fronte opposto – il rimedio è peggiore del male. Vedasi il referendum (abortito) sull’Atac, promosso dai radicali: ancora una volta, si è tentato un assalto neoliberista per privatizzare un servizio pubblico, magnificando le immaginarie virtù del privato. «Come se non esistesse l’esempio dell’Atm di Milano, municipalizzata, indicata anche all’estero come modello perfetto di trasporto pubblico efficiente».
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Moncalvo: Agnelli segreti, il potere Usa dietro a Marchionne
Chiedetevi chi mise Sergio Marchionne alla guida della Fiat, e capirete anche perché – alla morte di Gianni Agnelli, nel 2003 – la figlia Margherita fu clamorosamente estromessa dal futuro della famiglia, cioè dal controllo della impalpabile ma potentissima società “Dicembre”, vera e propria cassaforte e cabina di regia dell’Avvocato. E’ la tesi che propone Gigi Moncalvo, autore del dirompente saggio “Agnelli segreti”, misteriosamente sparito dalle librerie ma acquistabile online attraverso il sito dello stesso Moncalvo, giornalista di lungo corso. In un intervento-fiume alla trasmissione web-radio “Forme d’onda”, Moncalvo sintetizza: il potere finanziario globalizzatore si è sostanzialmente “ripreso” la holding torinese, imponendo le sue decisioni (Marchionne, John Elkann) dopo che i nomi più celebri della finanza planetaria – Rothschild, Rockefeller – avevano “soccorso” l’allora giovane Agnelli, erede del complesso industriale torinese che si era immensamente arricchito soprattutto con la guerra fascista. Armi e mezzi, treni e camion, motori: forniture pagate in lingotti d’oro. Poi, i bombardamenti alleati e la ricostruzione degli stabilimenti, con il Piano Marshall. Da allora, “l’amico americano” non mollò più la Fiat. E alla morte del carismatico Avvocato fece emergere in modo evidente le sue scelte: Marchionne e la Chrysler, al culmine di una internazionalizzazione già avanzatissima, con la sede fiscale in Gran Bretagna e il lavoro sostanzialmente portato via dall’Italia.Autore di una minuziosa ricostruzione, basata essenzialmente sulle carte processuali prodotte dalla clamosa “guerra familiare” aperta da Margherita Agnelli per difendersi da quello che lei considera “il golpe del 2003”, Moncalvo ha riempito di voluminosi dossier un intero appartamento. Un lavoro di scavo giornalistico, il suo, magistralmente riproposto – a puntate – anche nelle trasmissioni “Reteconomy”, diffuse su YouTube. Focus: la controversia giudiziaria (non ancora esaurita, ma silenziata dai media) sulla vastissima eredità di Gianni Agnelli, in gran parte costituita da beni collocati all’estero: «Dal testamento emerse un ammontare che si aggirava sui 300 milioni di euro, inferiore a quelli di Pavarotti e Lucio Dalla, mentre oggi la vedova dell’Avvocato, Marella Caracciolo, è accreditata di una fortuna pari ad almeno 20 miliardi di euro, forse in parte custoditi in un bunker super-blindato all’aeroporto di Ginevra». Singolare, rileva Moncalvo, che tanto denaro sia stato parcheggiato all’estero, da un uomo a capo di un’azienda così pesantemente foraggiata dallo Stato italiano: straniera, oggi, anche la domiciliazione fiscale dell’ex Fiat, senza calcolare i conti (personali) nei vari paradisi fiscali del pianeta.Proprio la ricostruzione della reale entità patrimoniale del padre, ricorda Moncalvo, è stata il punto di partenza della clamorosa azione legale condotta da Margherita Agnelli, ex moglie di Alain Elkann e madre di Lapo e John, vistasi improvvisamente isolata: all’apertura del testamento, Margherita Agnelli scoprì che sua madre Marella e suo figlio John si erano accordati con i due plenipotenziari dell’anziano “monarca”, vale a dire Gianluigi Gabetti (amministratore dei beni di famiglia) e Franzo Grande Stevens, divenuto l’avvocato più importante, nella vita di Gianni Agnelli, dopo la perdita dello storico legale Vittorio Chiusano. L’intento di Margherita, spiega Moncalvo, era quello di riunire la famiglia – lei, la madre e il figlio – nella piena condivisione paritetica della “Dicembre”, vero e proprio forziere dell’impero Fiat, pur essendo una “società semplice” (senza neppure l’obbligo di presentare bilanci). Ma nello stesso giorno della lettura testamentaria, continua Moncalvo, Margherita Agnelli ebbe la più amara delle sorprese: sua madre Marella cedette gran parte delle sue quote della “Dicembre” all’allora giovanissimo nipote John, che a quel punto divenne formalmente l’unico vero padrone dei destini della “royal family”, senza però che vi fosse traccia di un’investitura (scritta) da parte del nonno. Come se, appunto, l’operazione fosse stata il frutto di una occhiuta regia esterna, affidata all’abilissima “manovalanza” di Gabetti e Grande Stevens.Il primo a protestare per lo strano ingresso nel board Fiat dell’imberbe John Elkann era stato Edoardo Agnelli, che nella “Dicembre” non aveva mai neppure voluto mettere piede. Poco prima di essere ritrovato senza vita ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona, il figlio “ribelle” dell’Avvocato confidò al “Manifesto” che trovava inappropriata la nomina del 21enne John nel Cda della Fiat, a pochi giorni dalla morte del cugino “Giovannino” (Giovanni Alberto) Agnelli, figlio di Umberto, lanciatissimo nella carriera aziendale ma stroncato da un tumore a soli 33 anni. John Elkann, ricorda Moncalvo, in fondo deve la sua attuale posizione a una serie terribile di decessi: il nonno Gianni, lo zio Umberto, il cugino Giovannino e, ovviamente, lo stesso Edoardo, sulla cui fine – l’ipotetico volo dal viadotto di Fossano – le prime ombre furono sollevate dal regime iraniano, secondo cui il figlio dell’Avvocato sarebbe stato “suicidato dai sionisti”. Evidente l’allusione (velenosa) ad Alain Elkann, il padre di John, ebreo osservante. Secondo lo studioso italiano Gianfranco Carpeoro, Alain Elkann sarebbe un autorevole esponente nel B’nai B’rith, esclusiva massoneria ebraica strettamente controllata dal Mossad, mentre lo sfortunato Edoardo Agnelli, fratello di Margherita, aveva aderito all’Islam e addirittura al Sufismo. Una celebre foto lo ritrare in preghiera a Teheran, di fronte all’ayatollah Alì Khamenei.Nella visione di Moncalvo (autore non solo di “Agnelli segreti”, ma anche de “I lupi e gli agnelli”) la tragica fine di Edoardo è ben presente, ma il giornalista evita accuratamente qualsiasi tentazione complottistica. Moncalvo preferisce stare ai fatti: e le carte (specie quelle prodotte da Margherita Agnelli) raccontano di una sostanziale svolta, nel management e nella proprietà dell’impero ex-Fiat, che appare imposta da lontano, come se i veri dominus del destino del gruppo non risiederesso più a Torino. Un “trasloco” reso lampante dall’avvento di Marchionne, ma in realtà risalente – nelle intenzioni – a un passato assai meno recente. Ai microfoni di “Forme d’onda”, Moncalvo parla addirittura del primissimo dopoguerra, quando l’allora giovane “vitellone” Gianni Agnelli, rinomato playboy, «viveva in una sfarzosa villa in Costa Azzurra, disertata però dal bel mondo dell’epoca, che non perdonava al rampollo torinese la fortuna del nonno, costruita con le commesse militari del fascismo». Tutto cambiò, dice Moncalvo, quando Gianni Agnelli incontrò «la donna più importante della sua vita: Pamela Churchill Harriman», nuora dello statista britannico. «Da quel momento, la nuova fidanzata gli aprì porte prima impensabili: le grandi banche d’affari americane, i Rothschild, i Rockefeller. Potenze finanziarie, coinvolte nel Piano Marshall che poi avviò la “resurrezione” della Fiat devastata dalle bombe alleate».Del resto, è noto che lo stesso Gianni Agnelli scrisse la prefazione (nell’edizione italiana) dello storico saggio “La crisi della democrazia”, vero e proprio manifesto del pensiero unico neoliberista, commissionato da quella Commissione Trilaterale di cui lo stesso Avvocato era membro, accanto a personaggi come Henry Kissinger e David Rockefeller. Moncalvo invita a far luce sull’insieme, collegando i fili su cui il giornalismo nostrano sorvola regolarmente. Per poi scoprire, magari, che alla morte dell’Avvocato quel super-potere si è semplicemente ripreso il pieno controllo dell’impero torinese, a lungo affidato alla sapiente guida politica del principe degli industriali italiani. Un monarca intoccabile, ricorda Moncalvo: avvicinandosi la tempesta di Tangentopoli, Gianni Agnelli ottenne l’immunità parlamentare da Francesco Cossiga, che lo nominò senatore a vita, mentre l’avvocato Chiusano “blindò” la Fiat dall’insidioso attacco di Mani Pulite, che aveva già portato all’arresto del numero tre del gruppo, Francesco Paolo Mattioli, la mente finanziaria della holding torinese.Riuscirono a fare della Fiat un’eccezione, dice Moncalvo: grazie al magistrale Chiusano, si stabilì che il tribunale competente non sarebbe stato quello dell’area dove erano stati contestati i reati (Milano) ma quello di Torino, sede dell’azienda. «Un po’ come se la Juventus giocasse sempre e solo in casa». E a proposito di Juve: «Mai, con l’Avvocato in vita, si sarebbe potuta contestare legalmente la gestione Moggi, togliendo scudetti alla squadra fino a retrocederla in Serie B». Moncalvo spiega così sua la passione per il giallo-Agnelli: «La dirompente azione legale di Margherita ha permesso di svolgere finalmente un’attività giornalistica, attorno alla famiglia più potente d’Italia, sempre protetta dalla micidiale autocensura degli stessi giornalisti, e non solo». Pensate, aggiunge, che il film-capolavoro “Il silenzio degli innocenti”, con Anthony Hopkins e Jodie Foster, uscì in tutto il mondo con il titolo originale, “The silence of the lambs”, cioè quello del romanzo di Thomas Harris, da cui era tratto. Solo in Italia, «senza alcun riguardo per l’opera di Harris», al “silenzio degli agnelli” si preferì quello, molto meno rischioso, degli “innocenti”.(Sono due i saggi di Moncalvo sulla famiglia Agnelli, stranamente irreperibili in libreria ma comodamente acquistabili sul sito dell’autore. Il primo: Gigi Moncalvo, “Agnelli segreti”, sottotitolo “Peccati, passioni e verità nascoste dell’ultima ‘famiglia reale’ italiana”, 522 pagine, 20 euro. Contenuto: “Processi di cui nessuno parla, testamenti ’segreti’, amori clandestini, morti sospette, eredità contese, prestanome all’estero, evasioni fiscali: a undici anni dalla morte dell’Avvocato, finalmente senza censure la saga familiare più avvincente d’Italia”. Il secondo: Gigi Moncalvo, “I lupi e gli agnelli”, sottotitolo “Ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia”, 476 pagine, 20 euro. Contenuto: “Mi hanno rubato i figli per farne degli eredi Agnelli”. Il racconto delle verità, dei retroscena, delle ‘trappole’, dei documenti inediti che hanno fatto da contorno alla guerra dichiarata da Margherita alla sua famiglia. E viceversa…).Chiedetevi chi mise Sergio Marchionne alla guida della Fiat, e capirete anche perché – alla morte di Gianni Agnelli, nel 2003 – la figlia Margherita fu clamorosamente estromessa dal futuro della famiglia, cioè dal controllo della impalpabile ma potentissima società “Dicembre”, vera e propria cassaforte e cabina di regia dell’Avvocato. E’ la tesi che propone Gigi Moncalvo, autore del dirompente saggio “Agnelli segreti”, misteriosamente sparito dalle librerie ma acquistabile online attraverso il sito dello stesso Moncalvo, giornalista di lungo corso. In un intervento-fiume alla trasmissione web-radio “Forme d’onda”, Moncalvo sintetizza: il potere finanziario globalizzatore si è sostanzialmente “ripreso” la holding torinese, imponendo le sue decisioni (Marchionne, John Elkann) dopo che i nomi più celebri della finanza planetaria – Rothschild, Rockefeller – avevano “soccorso” l’allora giovane Agnelli, erede del complesso industriale torinese che si era immensamente arricchito soprattutto con la guerra fascista. Armi e mezzi, treni e camion, motori: forniture pagate in lingotti d’oro. Poi, i bombardamenti alleati e la ricostruzione degli stabilimenti, con il Piano Marshall. Da allora, “l’amico americano” non mollò più la Fiat. E alla morte del carismatico Avvocato fece emergere in modo evidente le sue scelte: Marchionne e la Chrysler, al culmine di una internazionalizzazione già avanzatissima, con la sede fiscale in Gran Bretagna e il lavoro sostanzialmente portato via dall’Italia.
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Orrore indicibile: la polizia ritrova 123 bambini scomparsi
Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquitenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».I piccoli appena ritrovati a Detroit? «Destinati ad essere impiegati nel mercato del sesso, ma anche degli organi e dei riti satanici». Se da noi scompaiono ogni anno senza essere ritrovati centinaia di minori, in altri paesi europei la situazione è ancora peggiore: solo in Francia, quest’anno, i bambini spariti sono 1.238. Che fine fanno? Sul blog “Petali di Loto”, Franceschetti – avvocato, indagatore dei misteri italiani come quello del Mostro di Firenze – punta il dito contro il satanismo e le potentissime organizzazioni pedofile: nel mondo di calcola che ogni anno scompaiano circa 100.000 bambini. Un caso particolarmente doloroso riguarda i bambini figli di extracomunitari non registrati ufficialmente, e quelli che vengono “comprati” già da prima della nascita: «Si paga una coppia in difficoltà affinché faccia nascere un bambino e lo consegni all’organizzazione che lo richiede; è il modo più sicuro; non lascia alcuna traccia del delitto commesso e il bimbo scompare nel nulla e mai comparirà neanche nelle statistiche». Il loro destino? «Molti finiscono nel traffico di organi». Alcuni vengono utilizzati per i “giochi di morte” filmati negli abominevoli “snuff movies”, altri ancora diventeranno super-soldati, psicologicamente “riprogrammati”.Ma il posto d’onore, nella strage silenziosa dei piccoli, è occupato proprio dalle reti pedofile: «Sono organizzate a livello internazionale e coperte da capi di Stato», sostiene Franceschetti: in alcuni casi, a tirare le fila di questa realtà sono proprio i soggetti istituzionali che dovrebbero invece tutelare la sicurezza dei bambini. Franceschetti allude a magistrati, autorità di polizia, funzionari dell’Onu. «Molte delle organizzazioni antipedofilia e dei centri che accolgono i bambini abbandonati, poi, non sono altro che trappole ben congegnate per accalappiare i malcapitati che cercano aiuto». Le prove? «Ce ne sono a bizzeffe, ma il quadro – sostiene Franceschetti – va ricostruito come un immenso puzzle». Fece epoca il caso del serial killer belga Marc Dutroux, ribattezzato “il mostro di Marcinelle”. Una storia dell’orrore, rievocata nel libro “Tutti manipolati”, pubblicato da “Stampa Alternativa” e scritto da un coraggioso gendarme belga, Marc Toussaint, che aveva partecipato alle indagini per poi esserne estromesso perché “troppo ligio al dovere”. Tentarono anche di farlo fuori, provocandogli un incidente in moto. Il libro, documentato e basato sugli atti dell’inchiesta, racconta di come nel caso Dutroux furono coinvolti cardinali, ministri, e addirittura il Re del Belgio, Alberto II.Nel 1996 scomparve una bambina belga, Laetitia. Le indagini individuarono il rapitore: Dutroux. Il pedofilo aveva ucciso almeno sei bambine, ma ci vollero otto anni prima di giungere al processo. Nel frattempo, due bambine erano state rinchiuse in casa Dutroux, «ma i depistaggi della gendarmeria e della magistratura fecero sì che le bambine non venissero trovate durante le perquisizioni». La scoperta avvenne fuori tempo massimo: le piccole erano già morte. L’inchiesta, ricorda Franceschetti, portò ad individuare come mandanti personaggi di altissimo livello, che arrivavano fino al coinvolgimento personale del sovrano belga. L’organizzazione era dedita a “snuff movies” e ad attività come «il gioco del gatto e del topo, che a quanto pare è una costante di queste organizzazioni». Ma giornalisti e inquirenti che seguivano il caso persero la vita: «Incidenti e suicidi, ovviamente». E così, «tutto venne messo a tacere dalla magistratura e dalla gendermeria».Dall’Europa agli Usa: un ex agente segreto ha salvato dagli abusi e dal controllo mentale una delle vittime di queste organizzazioni, Cathy O’Brien. Dopo essere sfuggiti più volte alla morte, lo 007 e la ragazza sono riusciti a scrivere due libri: “Accesso negato alla verità” (Macro edizioni) e “Trance-formation of America”. In quest’ultimo, spiega Franceschetti, si narra di come l’organizzazione che abusava la donna facesse capo addirittura al presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. «Si narra dei legami di Bush e Clinton con i signori della droga, si narra dei legami con le organizzazioni pedofile e con quelle sataniche». In particolare si evidenziano i legami di Bush e Clinton con il “Tempio di Seth”, che è «la più potente organizzazione satanista ramificata a livello internazionale». La fondò Michael Aquino, un ex ufficiale dell’esercito statunitense molto amico di Bush. «Stupri, omicidi, pedofilia, droga, satanismo… tutto narrato nero su bianco, con nomi e cognomi».Stati Uniti, Europa e anche Africa: tempo fa, aggiunge Franceschetti, in Ciad vennero arrestate per pedofilia e commercio di esseri umani alcune persone – appartenenenti all’organizzazione “L’Arca di Zoe” – che stavano portando in Francia 103 bambini. «Che fine dovessero fare quei bambini non si sa», ma l’allora presidente Sarkozy andò personalmente a trattare la liberazione degli arrestati per riportarli in patria. Gli operatori fermati avevano dichiarato che i bambini erano orfani provenienti dal Darfur. «Poi si è scoperto che erano figli di famiglie del Ciad, e i genitori erano ancora viventi». Da notare che “L’Arca di Zoe” «era sotto inchiesta anche in Francia, sospettata di trafficare in bambini per scopi tutt’altro che leciti». Non che da noi non esistano, retroscena analoghi: anzi, «in Italia inchieste così eclatanti non sono neanche mai iniziate». O meglio: quelle avviate «non sono state divulgate», sostiene Franceschetti: «Nel 2006 venne arrestato un avvocato romano, Alberto Gallo, per pedofilia. I giornali riporteranno la notizia come se si trattasse di un pedofilo isolato, ma in realtà faceva parte di un’organizzazione internazionale». Lo stesso Dutroux, in Belgio, era solo una pedina di queste potenti reti senza frontiere.Nel suo romanzo “La Loggia degli Innocenti”, il commisario Michele Giuttari – fermato a un passo dall’aver risolto il giallo del Mostro di Firenze – descrive un’organizzazione pedofila che fa capo al procuratore fiorentino, a cui (nella fiction) dà un nome non casuale: Alberto Gallo. «In altre parole, Giuttari lega chiaramente l’ex procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna alla rete pedofila che era sotto inchiesta in quel periodo». E il nome della “loggia” allude chiaramente all’Ospedale degli Innocenti, «storico palazzo fiorentino dove da secoli è ospitato un centro che tutela i minori abbandonati». Un puzzle infinito, che coinvolgerebbe capi di Stato e ministri, teste coronate, ma anche «militari, magistratura e forze dell’ordine», senza contare i cardinali che negli Usa sono oggi al centro di un clamoroso scandalo, con migliaia di minori abusati. Il guaio, dice Franceschetti, è che il fenomeno “pedofilia internazionale” (con la variante del satanismo) è costantemente negato da quelli che sono «i massimi garanti del sistema in cui viviamo», alcuni dei quali poi finiscono in televisione, consultati come “esperti”. Franceschetti ricorda le parole che gli rivolse il figlio di un boss della ’ndrangheta: «Da noi c’è più legalità e giustizia. In Calabria e in Sicilia i bambini non si toccano; da voi al Nord, invece sì».Quella che può sembrare una follia oggi può assumere un terribile significato. La gente comune, dice Franceschetti, non si stupisce più di tanto se scopre che i vertici della politica hanno contatti organici con la mafia, ma non potrebbe tollerare lo spettacolo dell’altro orrore – quello perpetrato ai danni dei minori scomparsi. «Siamo disposti ad accettare che si scatenino guerre da milioni di morti in Iraq, Afghanistan, in Africa. In fondo, quelli sono negri. Che ce ne importa? Basta che non ci tolgano la partita di calcio della domenica. Ma probabilmente – aggiunge Franceschetti – se si venisse a sapere la verità sui bambini scomparsi, nessuno potrebbe reggere ad un simile shock. E allora sì, forse qualcuno comincerebbe a capire che il mondo in cui viviamo non funziona esattamente come i giornali e i mass media in genere ce lo descrivono». Ecco perché, probabilmente, quella realtà resta avvolta in tanta, misteriosa segretezza. E se la polizia ritrova 123 bambini in un colpo solo, i media archiviano la notizia “en passant”, senza scavare per capire cosa si nasconde dietro quell’enormità.Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquirenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».
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Ci sfruttiamo l’un l’altro: questa civiltà è destinata a crollare
La nostra civiltà scomparirà. Come l’impero egiziano, con le sue monumentali piramidi, i suoi faraoni, il suo commercio, la sua cultura, la sua religione millenaria.Come l’impero babilonese con le sue imponenti ziqqurat, i suoi re, le sue tradizioni, le sue biblioteche e il suo commercio. Come l’impero fenicio, le sue invenzioni, la sua arte raffinata, le sue filosofie. Insomma, la nostra civiltà scomparirà. Anzi sta già scomparendo. Perché le civiltà sono come gli organismi: nascono, si sviluppano, decadono e muoiono. E poi perché le nazioni, le civiltà, le culture sono in realtà delle invenzioni. Invenzioni per cui la gente uccide, sogna, si dispera, combatte, ma pure sempre invenzioni. E sono irrazionali. Un po’ come il tifo calcistico: non c’è un motivo razionale per tifare Inter, Milan, Roma, Lazio, Juve… Eppure si è disposti a menare, a litigare, a spendere molti soldi, perfino a uccidere (o vi siete già dimenticati di Genny ‘a Carogna?). I confini tra Italia e Francia sono invenzioni. I confini tra Belgio e Germania sono invenzioni. I confini tra Usa e Canada sono invenzioni. I confini tra qualsiasi nazione e qualsiasi altra nazione sono invenzioni. Lo si vede con chiarezza guardando la cartina geografica dell’Africa: linee tirate giù con il righello. Non si presero neppure la briga di seguire il profilo idrogeologico.Oggi chi nasce a Roma è italiano. Fino a qualche decennio fa era cittadino vaticano. Oggi chi nasce in Corsica è francese. Prima era piemontese. Prima ancora era fenicio… I confini sono un’invenzione. E noi uccidiamo per quell’invenzione. Uccidiamo per la Patria. Uccidiamo per la Religione. Uccidiamo per l’Ideologia. La nostra civiltà – intendo la civiltà a livello mondiale, la civiltà umana – è al collasso. Perché ci sono dei circuiti perversi che accettiamo passivamente, dandoli per scontati, senza rifletterci. Pensateci: gente che si vende, tradisce, si abbrutisce, uccide per delle entità irreali. I numeri della Borsa – i milioni di miliardi che si muovono nei “mercati” ogni giorno – non corrispondono a niente. Il denaro stesso – che un tempo era il corrispettivo delle riserve auree – non corrisponde più a niente. Ma già l’oro in sé non corrispondeva a niente di veramente prezioso. Cos’è l’oro? Si mangia? Si beve? Ci si ripara? Gli Aztechi e i Maya pensavano che gli spagnoli se ne nutrissero, non capivano tanta avidità per un metallo.Pensateci: per questa concezione perversa dell’economia ci ritroviamo con vaste aree del globo terrestre ricchissime di tutto ciò che è prezioso (acqua, terreno, colture, clima, minerali…) che sono in miseria. E ci sono invece posti in mezzo al deserto, dove non cresce nulla e si vive a stento, in cui costruiscono piste da sci tra la sabbia, in cui fontane d’acqua dolce zampillano in ogni angolo e in cui la gente muore per il colesterolo alto. Vi sembra normale, questo? Pensateci: intere classi sociali, anche in Italia, si fanno a guerra per i pochi beni a disposizione. «Non c’è lavoro per tutti», si dice. «Non ci sono risorse per tutti», si dice. «È una guerra tra poveri», si dice. Ogni giorno i bar, le pasticcerie, i supermercati, le pizzerie, i ristoranti buttano via tonnellate di cibo. Ogni giorno. Tonnellate di cibo ogni giorno. Non ci sono risorse per tutti? Ogni stagione vengono lasciati marcire o schiacciati con i trattori tonnellate di pomodori, arance, zucchine, mele… Ettolitri di latte versato nel terreno. Non ci sono risorse per tutti? È una guerra tra poveri? Ma siamo davvero così poveri? Pensateci: non c’è lavoro per tutti. No. Siamo nel 2016.Un tempo per coltivare un campo che rendeva 100 dci volevano 20 persone. Oggi bastano 3 persone e un trattore. E il campo rende 300, grazie alle biotecnologie. Ci sono 19 persone di troppo. Certo, alcuni di quei contadini di troppo andranno a costruire i trattori. Ma sono comunque troppi. Ma il punto non è questo. Il punto è che il salario per il lavoro è un’invenzione. Se fossimo davvero nel 2016 e se fossimo davvero avanzati come civiltà, non ci sarebbe una cosa come “il salario”. Le ore di lavoro non sarebbero per la sopravvivenza – quella dovrebbe essere garantita dal fatto che sei un essere umano e hai diritto di vivere. Le ore di lavoro sarebbero il tuo contributo alla comunità nella quale sei nato. Perché lavorare non è una condanna ma un’opportunità di senso, di crescita personale, di identità. È diventato una schiavitù perché l’attuale lavoro è un ricatto e le condizioni di lavoro sono spesso da schiavitù. Lavoreremmo tutti, 4-5 ore al giorno. E il resto del tempo? Lo vivremmo. Lo passeremmo a coltivare le amicizie, a occuparci degli affetti, all’arte, alla crescita personale, al progresso della civiltà.Lo scriveva già quasi un secolo fa Bertrand Russell. Ma questo presupporrebbe, oltre a un radicale cambiamento di prospettiva, un controllo delle nascite. Le società animali lo fanno in modo naturale: dove c’è abbondanza di risorse si moltiplicano, dove c’è scarsità di risorse diminuiscono. Anche gli esseri umani lo fanno in modo naturale: dove le risorse sono distribuite e c’è un buon livello di benessere le comunità umane hanno meno figli. O meglio, fanno il numero di bambini proporzionato alle risorse. Nei paesi in cui l’aspettativa di vita è scarsa si fanno molti più figli perché il “gene egoista” cerca di sopravvivere dandosi più chance. Come le tartarughine: sono tantissime ma solo poche testuggini raggiungono il mare e sopravvivono. Per questo fanno tante uova. Il controllo delle nascite (come il controllo della sessualità, dell’alimentazione, etc.) negli uomini è regolato non dall’istinto ma dalla cultura. Infatti tutte le religioni controllano sessualità, cibo e desideri. E tutte le “culture” hanno norme su cosa è giusto o sbagliato in campo di sessualità, cibo e desideri.Il collasso della civiltà quindi non è solo una questione di “corsi e ricorsi storici” ma una questione di cultura. Ma secondo voi la nostra cultura ha fatto molti progressi? Sì, non c’è più la schiavitù. E le baraccopoli di braccianti africani in Puglia che raccolgono le tue cicorie bio? Non c’è più la schiavitù. E i capannoni alla periferia di Prato e di Roma in cui donne incinte e bambini cinesi cuciono la maglietta che indossi? Non c’è più la schiavitù. E i contratti precari con cui i lavoratori di oggi vengono tenuti sotto ricatto? Non c’è più la schiavitù. E le migliaia di ragazze deportate sulle nostre strade costrette a farsi violentare ogni giorno per qualche decina di euro “di divertimento”? Guardando la civiltà ateniese del III secolo ac, siete proprio sicuri che la nostra cultura ha fatto così tanti progressi? Guardando le comunità di nativi americani, siete proprio sicuri che la nostra cultura ha fatto molti progressi?(Chistian Giordano, “Il collasso della civiltà”, dal blog di Giordano del 14 luglio 2016).La nostra civiltà scomparirà. Come l’impero egiziano, con le sue monumentali piramidi, i suoi faraoni, il suo commercio, la sua cultura, la sua religione millenaria. Come l’impero babilonese con le sue imponenti ziqqurat, i suoi re, le sue tradizioni, le sue biblioteche e il suo commercio. Come l’impero fenicio, le sue invenzioni, la sua arte raffinata, le sue filosofie. Insomma, la nostra civiltà scomparirà. Anzi sta già scomparendo. Perché le civiltà sono come gli organismi: nascono, si sviluppano, decadono e muoiono. E poi perché le nazioni, le civiltà, le culture sono in realtà delle invenzioni. Invenzioni per cui la gente uccide, sogna, si dispera, combatte, ma pure sempre invenzioni. E sono irrazionali. Un po’ come il tifo calcistico: non c’è un motivo razionale per tifare Inter, Milan, Roma, Lazio, Juve… Eppure si è disposti a menare, a litigare, a spendere molti soldi, perfino a uccidere (o vi siete già dimenticati di Genny ‘a Carogna?). I confini tra Italia e Francia sono invenzioni. I confini tra Belgio e Germania sono invenzioni. I confini tra Usa e Canada sono invenzioni. I confini tra qualsiasi nazione e qualsiasi altra nazione sono invenzioni. Lo si vede con chiarezza guardando la cartina geografica dell’Africa: linee tirate giù con il righello. Non si presero neppure la briga di seguire il profilo idrogeologico.
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Benetton-Spagna grazie ai nostri pedaggi, regalo di D’Alema
«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).Gli imprenditori trevigiani erano partiti molti anni fa con l’abbigliamento a buon mercato, ricorda Fabio Pavesi sul “Fatto Quotidiano”, ma hanno scoperto ben presto che i soldi – quelli veri e tanti – si fanno con i business monopolistici: «Quelli regolati da tariffe e dove la concorrenza sui prezzi, che ha morso sempre di più il tessile-abbigliamento, è del tutto inesistente». Oggi il marchio Benetton è in crisi profonda, mentre i business delle infrastrutture (autostrade e aeroporti, fino alla ristorazione con Autogrill) in cui la famiglia di Ponzano Veneto ha pensato bene di investire alla grande, sfavillano di luce propria. Atlantia, la capofila del gruppo nel settore delle autostrade, ha trovato l’accordo con la Acs di Florentino Perez (patron del Real Madrid) e la sua controllata tedesca Hochtief per “papparsi” la spagnola Abertis, su cui Atlantia aveva lanciato un’Opa da 16 miliardi. Il progetto: una holding in cui proprio Atlantia avrà il 50% del capitale, più un’azione. «Il gruppo dei Benetton entra così in Abertis dal piano superiore. Una mossa che la dice lunga sull’abilità della famiglia di Ponzano Veneto di giocarsi alla grande i suoi investimenti».Del resto, aggiunge Pavesi, il business delle autostrade è da sempre un investimento a prova di rischio, e molto remunerativo.Basta scorrere i numeri di Atlantia che possiede Autostrade per l’Italia, la rete da 3 mila chilometri (solo in Italia) oltre agli Aeroporti di Roma, cui si è aggiunto quello di Nizza, insieme ad altri piccoli scali. La holding infrastrutturale – posseduta al 30% da Edizione, la cassaforte dei Benetton – sforna ogni anno numeri in costante crescita. Nel 2017, Atlantia ha visto i ricavi salire e lambire i 6 miliardi, contro i 5,4 di solo un anno prima. «La crisi economica in Atlantia non si è mai vista. Nel 2010 il fatturato valeva poco meno di 4,5 miliardi. Eppure il traffico sulla rete autostradale negli anni bui era anche diminuito. A far salire in continuazione il fatturato c’è sempre la ciambella di salvataggio delle tariffe. Quelle non scendono mai – scrive il “Fatto” – nemmeno quando l’inflazione va a zero, come è accaduto». E’ il bengodi, per i gestori: lo Stato concede loro di rincarare i pedaggi per coprire gli investimenti. «Anche nel 2017 per Autostrade per l’Italia le tariffe hanno corso di più dell’incremento da volumi di traffico. Ed è proprio Autostrade per l’Italia l’asset più redditizio per l’intera Atlantia. La sola Autostrade ha fatto ricavi per 3,94 miliardi sui 6 miliardi di tutta Atlantia. Pagati costi operativi e del lavoro, Autostrade ha una redditività industriale stratosferica: su 3,94 miliardi di fatturato il margine operativo lordo è di ben 2,45 miliardi. Un livello del 62%. Livelli che pochi raggiungono».Dal 2012 al 2016, continua il “Fatto”, Atlantia ha girato dividendi per la bellezza di 1,5 miliardi. «Una vera “cash machine”, una macchina da soldi che spende sì in investimenti per la manutenzione e ha speso molto per la Variante di Valico, ma con una redditività così elevata si permette il lusso di portare a casa quasi un miliardo di utile netto su 6 miliardi di ricavi. Niente male, per la famiglia veneta, che ha capito già 20 anni fa che quel business era l’affare della vita». Basti pensare, come documenta Mediobanca, che a primavera del 2017 Atlantia ha ceduto due pacchetti del 5% di Autostrade con una plusvalenza di ben 732 milioni. «Ricchi, ricchissimi, un vero tesoro Autostrade/Atlantia per i Benetton». Le perdite del marchio dei maglioni? Fanno solo il solletico – conclude Pavesi – al gruppo che siede sul tesoro delle autostrade italiane, e domani anche di quelle spagnole. Il governo Conte ora annuncia una multa da 150 milioni per il crollo di Genova. Ma la revoca della storica concessione, si apprende, potrebbe costare al paese qualcosa come 20 miliardi. “E’ la privatizzazione, bellezza”. «Durante la grande svendita delle aziende di Stato, costruite con i soldi degli italiani – scrive “VoxNews” – solo comprando e rivendendo dall’Iri la catena Gs, Benetton ha messo a segno una plusvalenza da 4.500 miliardi di vecchie lire. E come nel caso Telecom, di fatto “regalata” all’amico Colaninno, nel 1999 è il governo di Massimo D’Alema a imporre all’Iri di privatizzare le autostrade».Per i Benetton, aggiunge il newsmagazine, si trattava di un grande affare da affiancare a quello di Autogrill, anch’essa acquistata tre anni prima sempre dall’Iri assieme alla catena della grande distribuzione. L’operazione finì nel mirino dell’Antitrust, che chiese ai Benetton di aprire le strade italiane anche ad altri concorrenti della ristorazione. Ma, secondo l’Agcom, il diktat dell’autorità guidata da Giuseppe Tesauro non venne osservato, e per questo nel 2004 i Benetton si beccarono una multa da quasi 16 milioni di euro. «Una puntura di spillo», rispetto alla voragine di miliardi nel frattempo incassati ogni anno. La tragedia di Genova è uno specchio: di neoliberismo privatizzatore si muore. Romperemo i vincoli di bilancio imposti dall’Ue, annuncia Salvini tra le macerie genovesi, pur di mettere in sicurezza la rete nazionale dei trasporti. Ecco il punto: scardinare la consegna del rigore e riconquistare quella sovranità finanziaria che, negli anni della crescita (attraverso il ricorso strategico al debito pubblico) aveva permesso di realizzarle, le infrastrutture che poi il centrosinistra ha svenduto. E’ solo l’inizio di un rivolgimento epocale inevitabile, drammaticamente urgente. D’Alema tace, mentre l’oscuro Orfini accusa Lega e 5 Stelle di ragliare a vanvera. Non una parola di autocritica, dall’ex sinistra che sta assistendo alla sua cancellazione, ingloriosa, dalla storia italiana.«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).
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Le verità di Marchionne, il silenzio della politica neoliberista
Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usa attraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potere d’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europa e in Italia.
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Boeri e la rivoluzione, la sinistra-chic che domina il popolo
Anni Settanta. Squilla il telefono nell’elegante casa di Renato e Cini Boeri. Il domestico solleva la cornetta, la pone con calma all’orecchio; sente gracchiare una voce: dall’altro capo del filo qualcuno reclama il giovane Tito. Il sottoposto di classe non si scompone; ne ha viste tante; solo dichiara: «Il signorino Tito non c’è, è fuori a fare la rivoluzione». Formidabili quegli anni!, sentenziò in un suo goffo libro Mario Capanna, già coordinatore di Democrazia Proletaria. Capanna fu uno dei volti belli della sinistra d’antan, assieme all’indimenticabile Lucio Magri, co-fondatore de “Il Manifesto”, atletico e abbronzato, amante di Marta Marzotto, conosciuta in casa di Eugenio Scalfari – la bella Marta, a sua volta amante di Renato Guttuso che la immortalò, gnuda, in numerosi, orridi, teloni a olio. Magri, intelligente e rigoroso, completamente disinteressato alla classe proletaria, di cui ignorava tutto, ma assai esigente in alcuni ambiti extraparlamentari: «Guai se per il gigot d’agneau non c’erano il purè di mele e la salsa di menta: non ci si poteva sedere a tavola. O se i chicchi di caviale non erano g-g-g … grossi grani grigi».Disinteressato agli ultimi? Ho sbagliato, lo riconosco; sono stato ingiusto. Mi correggo: egli, pensoso e infelicissimo, come dichiarò – a Magri morto – la Marzotto, era, invece, prepotentemente assorbito dalle superne cose de l’etternal gloria (della sinistra): tanto superne da situarlo stabilmente (e inevitabilmente) fuori delle pulsioni del proletariato. Un fenomeno che venne testimoniato plasticamente da una Tribuna Politica in cui il Nostro, quale esponente del Pdup (Partito di Unità Proletaria, appunto), rimase imparpagliato davanti alla domanda d’un giornalista che gli chiese conto del prezzo d’un litro di latte: i vani bofonchiamenti di risposta testimoniarono le sue esclusive, celesti, preoccupazioni. Così va il mondo; o meglio, così andava nel secolo ventesimo. Ma torniamo a Tito. Nipote di un deputato del Regno d’Italia (Giovanni Battista Boeri, Gran Maestro della Massoneria nella loggia Giuseppe Garibaldi, quindi fascista nel 1924, poi antifascista non si sa quando, e finalmente senatore, stavolta della Repubblica italiana), e figlio dell’architetta Cini Boeri (al secolo: Maria Cristina Damiani Dameno) e dell’illustre neurologo milanese Renato, già comandante di una banda partigiana assieme al fratello Enzo.I fratelli: Sandro (giornalista di “Panorama” e direttore di “Focus”, di largo successo) e Stefano (architetto e urbanista, di largo successo, e politico, di largo successo pure qui, e rivoluzionario, nel Movimento Studentesco del 1975, tanto rivoluzionario che fu rinviato a giudizio per la morte di Claudio Varalli, suo compagno di lotta, caduto durante l’aggressione «rapidissima, premeditata, violentissima» contro lo studente del Fuan Antonio Braggion; Braggion, vistosi perduto a fronte di trenta uomini, prima si rifugò nella propria auto, poi esplose tre colpi di pistola. Varalli rimase a terra; gli altri, fra cui Boeri, fuggirono. Fu istruito il processo. Ci si predispose alla sentenza esemplare fra notevoli strepiti di trombette. Il Caso, tuttavia, imperituro signore delle vicende umane, volle che intervenisse, in tal caso – un caso con la minuscola, però – il pietoso istituto giuridico della prescrizione; intervenne a lenire ferite morali e fisiche e umane e storiche come nardo di Betania: di tutti, di tutti! … non di Braggion, tuttavia, che si beccò dieci anni complessivi, poi ridotti a sei, per eccesso colposo di legittima difesa: un comportamento che, se non altro, gli salvò la pelle, a differenza di Sergio Ramelli, morto un mese prima, povero lui, col cranio spaccato dalle chiavi inglesi Hazet 36, dopo un’agonia terribile).Voi direte: ma dove vuole arrivare questo? A poche cose. La prima. Di questa gente, i vari Boeri Veltroni Fedeli Boldrini e gli altri pontieri della sinistra, occorre fidarsi come Don Vito Corleone si fidava di Hyman Roth: zero. Un consiglio che dispenso ai più saggi. Boeri e compagnia (e tutti coloro che vi cedono, compresi alcuni esponenti della destra) vanno sradicati dall’Italia. E non a parole. La seconda. Boeri è di sinistra e, quindi, quanto di più lontano dal socialismo possa esserci. La sinistra italiana promana delle rivoluzioni colorate del 1968 e dintorni, ordite proprio per depotenziare il socialismo assieme a correi circensi come Marco Pannella. Distinguere i due ambiti sociali, storici, psicologici, antropologici è essenziale. Esempio: il comunista vuole liberare l’uomo dall’ignoranza, la sinistra dal nozionismo. Risultato: mai visti tanti ignoranti. Il comunista vuole liberare l’uomo dalla povertà, la sinistra fa della povertà una bandiera fashion (e, infatti, mai visti tanti miserabili con l’iPhone come oggi). Il comunista crede nell’eguaglianza dei diritti materiali, la sinistra nell’espansione dei diritti civili (cioè a niente). Il comunista è fuori della Storia, ormai; la sinistra, invece, è la Storia.I festeggiamenti della Coppa del Mondo (e lo sport olimpico-ecumenico) sono di sinistra; il capitalismo angloamericano è di sinistra (ma questo è matto! per questo ci vuole la camicia di forza!); Giovanni Agnelli, chez Eugenio Scalfari, laico confessore con la ruga sulla fronte, fu di sinistra; Juncker è di sinistra, come la Merkel; Beyoncé è di sinistra, come i telefilm americani, Don Matteo e la Blackwater; Berlusconi è di sinistra; George W. Bush è di sinistra; il Vaticano è di sinistra; Equitalia è di sinistra; i Neo-Con americani sono di sinistra; la Fao, l’Unicef, l’euro, Draghi, la Banca Mondiale sono di sinistra; Luttwak e la Boldrini sono di sinistra; l’Oscar e il Premio Strega sono di sinistra, come gli sceicchi e Cristiano Ronaldo e la regina Elisabetta II; la tecnologia è di sinistra, come il botulino; il Live Aid è di sinistra così come i tagliagole di Palmira e il sessuomane Michel Houellebecq; anche la destra è di sinistra, come le parabole sinistre di Giorgia Meloni e Giuliano Ferrara ci testimoniano abitualmente.La sinistra è solo la nuova vaselina escogitata dal potere. Come possiamo far accettare a otto miliardi di belinoni una schiavitù dolce e una esistenza piatta, miserabile, stupida, idiota? Con lo stato di polizia, la guerra, la repressione? Macché, molto meglio “Imagine” (“Imagine there’s no countries / nothing to kill or die for / and no religion too / imagine all the people living life in peace…”). La sinistra è un modo di governo, un inganno al contrario, uno specchietto per allodole, un trucchetto per far scalciare le mandrie del cretinismo digitale (fascista! Comunista!). Il Potere è apolide, parassita, invasivo, piratesco. Prima o poi dovrete abbandonare le finte trincee ideologiche e grattarvi pure questa bella rogna, l’unica vera rogna da grattare oggi: un po’ più a destra, un po’ a sinistra, sotto l’ombelico e dietro la cucuzza, dove volete voi.(“Young Signorino”, da “Il Blog di Alceste” del 16 luglio 2018).Anni Settanta. Squilla il telefono nell’elegante casa di Renato e Cini Boeri. Il domestico solleva la cornetta, la pone con calma all’orecchio; sente gracchiare una voce: dall’altro capo del filo qualcuno reclama il giovane Tito. Il sottoposto di classe non si scompone; ne ha viste tante; solo dichiara: «Il signorino Tito non c’è, è fuori a fare la rivoluzione». Formidabili quegli anni!, sentenziò in un suo goffo libro Mario Capanna, già coordinatore di Democrazia Proletaria. Capanna fu uno dei volti belli della sinistra d’antan, assieme all’indimenticabile Lucio Magri, co-fondatore de “Il Manifesto”, atletico e abbronzato, amante di Marta Marzotto, conosciuta in casa di Eugenio Scalfari – la bella Marta, a sua volta amante di Renato Guttuso che la immortalò, gnuda, in numerosi, orridi, teloni a olio. Magri, intelligente e rigoroso, completamente disinteressato alla classe proletaria, di cui ignorava tutto, ma assai esigente in alcuni ambiti extraparlamentari: «Guai se per il gigot d’agneau non c’erano il purè di mele e la salsa di menta: non ci si poteva sedere a tavola. O se i chicchi di caviale non erano g-g-g … grossi grani grigi».
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Magaldi: ma non ha vinto Macron, e il mondo sta rinascendo
Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio di Mosca, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».“The times they are a-changing”, sostiene Magaldi nella sua narrazione a puntate, ogni lunedì ai microfoni di “Colors Radio”. Trump e Putin? Appunto: come ampiamente previsto dal presidente del Movimento Roosevelt, l’istrionico Maverick della Casa Bianca sta facendo piazza pulita degli antichi pregiudizi su cui si è fondato il “partito della guerra”, più mercenario che patriottico. Lo Zar del Cremlino? «Non privo di una sua grandezza», riconobbe Magaldi, quando Putin rifiutò di espellere diplomatici americani dopo la cacciata dei funzionari dell’ambasciata russa disposta da Obama. Tutto sta davvero cambiando, giorno per giorno: e infatti ad essere “en marche”, oggi, non è la Francia imbrigliata da Macron, ma l’Italia di Conte: «Il nostro paese – dice Magaldi – potrà tornare a rivestire il suo storico ruolo di “ponte”, con la Russia ma anche con l’Africa e il Medio Oriente: è tempo infatti che vengano archiviate le storiche clausole segrete, connesse a Yalta e ad altri trattati del dopoguerra, che limitavano la nostra libertà d’azione – trattati comunque aggirati, a suo tempo, dalla politica mediterranea dei Mattei e dei Moro».Lo ricorda Giovanni Fasanella in “Colonia Italia”: le superpotenze ci “affidarono” al controllo britannico, a limitare la nostra sovranità. Ora basta, però: «E’ è venuto il tempo di dare all’Italia piena indipendenza e autonomia politica, consentendole di recitare un ruolo di “cerniera di pace” e prima promotrice di un Piano Marshall per l’Africa», dice Magaldi, che – insieme a Patrizia Scanu, neo-segretaria del Movimento Roosevelt – ne riparlerà in autunno a Milano, in un evento dedicato anche all’eredità politica del leader sovranista africano Thomas Sankara. Grande la confusione, intanto, sotto le stelle: restano le sanzioni contro Mosca innescate dalla crisi ucraina, mentre l’Europa «non si capisce cosa voglia e non esiste come soggetto geopolitico». Iperboli: «Trump accusato in casa di “intelligenza col nemico russo” poi rimprovera la Merkel di eccessiva familiarità e connivenza con alcuni interessi russi». E non mancano intrecci personali: «Il “fratello” Putin e la “sorella” Merkel – ricorda Magaldi – furono iniziati già molti anni fa nella stessa Ur-Lodge», la Golden Eurasia. Massoni, appunto: il problema, insiste Magaldi, non è il grembiulino che indossano, ma l’orientamento politico che promuovono.L’ipocrita massonofobia di Di Maio, estesa alla Lega nel “contratto” di governo? I vertici “gialloverdi”, dice Magaldi, temono che i loro elettori (non informati sulla storia patria) scambino la massoneria per un’associazione a delinquere. Magaldi punta il dito contro Elio Lannutti, esponente 5 Stelle, «in passato protagonista di battaglie meritorie». Ora vorrebbe una legge che vietasse ai massoni l’accesso alle cariche statali, sbarrando loro le porte di polizia e magistratura: «Siamo alla follia liberticida, queste cose le hanno fatte i regimi comunisti e fascisti», protesta Magaldi. E attenzione: il tema massoneria (compresa l’avversione ai “grembiulini”) va maneggiato con cura: «Nel 1800 negli Usa sorse un Anti-Masonic Party fondato però da massoni: spesso le campagne antimassoniche, nella storia, sono state progettate da massoni di altro segno, per colpire circuiti massonici opposti ai loro». Non è il caso dell’Italia, dove secondo Magaldi si sconta una semplice ignoranza della materia: si confonde la libera muratoria democratica degli eredi di Garibaldi, Mazzini e Cavour con la P2 di Gelli, braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, di natura pericolosamente oligarchica e spesso eversiva. In massoneria, ricorda Magaldi, non possono entrare pregiudicati né possono restarvi soggetti che non rispettino la Costituzione e le leggi. «Aiuteremo gli amici “gialloverdi” a chiarirsi le idee, ma se il pregiudizio antimassonico perdurerà – avverte il gran maestro – faremo i nomi dei massoni progressisti, leghisti e penstastellati, che siedono nel governo Conte e nelle altre istituzioni».Comunque, a parte gli ultimi «untori del culturame antimassonico», nella narrazione magaldiana – massonico-progressista, avversa al lungo dominio della supermassoneria neo-aristocratica – all’indomani dei Mondiali di calcio (e del vertice di Helsinki) c’è posto solo per un cauto ma tenace ottimismo nella riscossa democratica di un mondo globalizzato in modo autoritario. Lo si può vedere, sostiene il presidente del Movimento Roosevelt, a partire dalla cruciale trincea italiana. Al netto delle pretattiche, dice Magaldi, vedrete che arriveranno cambiamenti sostanziali: «E’ vero, in molti sono allarmati perché il ministro Tria insiste troppo sul contenimento del debito pubblico, sul rigore dei conti e sulla rassicurazione dei mercati. Ma si tratta di non fare il gioco degli strumentalizzatori, che a suo tempo hanno infierito su Savona per cercare di impedire la nascita del governo “gialloverde”. Quando però arriveranno misure importanti – pronostica Magaldi – allora sarà chiaro quale paradigma economico si adotterà, rispetto all’Europa e alle voci di spesa. Il povero Tria? E’ stato chiamato per un ruolo in copione che è quello del rassicuratore, ma poi le decisioni non saranno nel senso della continuità. Tant’è che proprio alcune esternazioni di Savona fanno capire qual è la vera sceneggiatura», con un’Italia non più prona ai diktat di Bruxelles.Idem sul capitolo vaccini: non brilla per chiarezza, Giulia Grillo, che infatti non ha sconfessato la legge Lorenzin. «E’ però un passo avanti notevolissimo l’aver eliminato l’odiosa costrizione in stile Gestapo che privava i bambini non vaccinati del diritto all’istruzione». Insomma, si respira un’altra aria, pur in un terreno minato da troppi dogmi – che non la scienza non dovrebbero aver nulla a che fare. Può anche funzionare il concetto dell’immunità di gregge (più vaccinati, meno possibilità di contrarre malattie) ma occorrerebbe un’indagine scientifica molto seria su quanti e quali vaccini vadano somministrati, e se l’eccesso di vaccini non produca effetti controproducenti, come nel caso dei vaccini militari cui il Movimento Roosevelt ha dedicato un convegno a Torino con il vicepresidente della commissione difesa. Non possono mancare libertà e confronto critico, aggiunge Magaldi: «Bisogna denunciare ad alta voce, anzitutto sul piano metodologico, che in Italia – durante il clima plumbeo del governo Gentiloni – chiunque della comunuità scientifica osasse discutere l’idea che andassero propinati 12 vaccini veniva escluso, ghettizzato, calunniato e demonizzato (e parlo di medici anche di grande spessore). Chi osava contrapporsi a quel clima veniva emarginato, se non sanzionato. Sono cose da paese del quarto mondo».Libertà scientifica: chi sostiene la bontà dell’attuale sistema vaccinale, insiste Magaldi, abbia il coraggio e l’onestà di confrontarsi con chi è scettico. «E c’è un problema di mancata sperimentazione: di troppi vaccini non si conoscono gli effetti. Sono tanti gli interrogativi, e solo nell’orizzonte del dubbio (in cui dovrebbe essere connaturata la scienza) il problema si può risolvere». Invece, scontiamo «l’indottrinamento disdicevole da parte di divulgatori come Piero Angela, secondo cui la scienza non è democratica e ha sempre ragione». Per Magaldi, sono «vistosi casi di insipienza storica e ignoranza profonda sulla genesi del metodo scientifico, fondato proprio sul dubbio: la scienza moderna, da cui nasce la nostra tecnologia, è fondata sulla messa in discussione del principio di autorità – che appartiene invece al mondo pre-moderno». Una cosa è vera solo perché lo dicono i detentori di quel sapere? Concezione antica: «Nella comunità scientifica moderna ci devono essere posizioni dissonanti: nessuna ipotesi può essere vera a prescindere». Il nostro paese, aggiunge Magaldi, «è ostaggio anche di cattivi divulgatori di un’idea della scienza che è inconsistente e contraria ai principi della contemporaneità». Ma attenzione: neppure questo “muro” dogmatico resisterà per sempre. Verrà il giorno in cui avremo finalmente «un confronto pacato», che riconosca il ruolo storico di alcuni vaccini per la nostra salute ma, al tempo stesso, valuti – seriamente – l’opportunità e la sicurezza di altri vaccini, nient’affatto scontate.«L’affermazione della democrazia – ricorda Magaldi – è coeva dell’affermazione della scienza moderna: è essenziale la libertà nel valutare le opzioni terapeutiche». Vale per tutto: se si applica il “filtro” della democrazia anche al contesto scientifico, finiscono per crollare miti e verità di fede. Lo stesso principio funziona ovunque si guardi, persino nella polveriera del Medio Oriente: «Credo che verrà il tempo per una pacifica soluzione del conflitto israelo-palestinese», auspica Magaldi, osservando la scena con lucidità: «In fondo l’estremismo di Hamas e quello di Netanyahu si sostengono a vicenda, sono due facce della stessa medaglia: si reggono sull’ostilità reciproca e quindi hanno bisogno l’uno dell’altro. Non a caso ad essere assassinato fu Yitzhak Rabin, il massone progressista che voleva davvero la pace e quindi uno Stato palestinese». Se la ride, Magaldi, pendando agli amici che il 15 luglio davanti al televisore hanno trepidato per la Croazia per avversione nei confronti di Macron. Il capo dell’Eliseo? «Si è reso odioso: è un cicisbeo politico, continuatore delle politiche di Hollande e rappresentante di questo establishment puzzolente dell’attuale Disunione Europea. Con rara ipocrisia e faccia di bronzo ha detto parole inammissibili nei confronti del governo italiano e dell’Italia, nel corso di questa crisi sui migranti». Ma Macron non è la Francia, così come Bush non era l’America: «Guardiamo con amore a questi paesi – chiosa Magaldi – perché tantissimi francesi (come tantissimi statunitensi) insieme a noi cittadini del mondo – italiani, europei, cinesi, giapponesi – dovranno costruire un pianeta più equo, che abbia come faro la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: diritti non solo civili ma, finalmente, anche economici e sociali».Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio moscovita, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».
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La Terra ora ci presenta il conto di un mondo senza giustizia
Guardate che non basta, raddrizzare uno sviluppo – finora ingiusto – sostituendolo con il miraggio di una crescita economica globale finalmente equa. La voce “decrescita” (del Pil) risulta sempre sgradevole, dissonante, preoccupante: ma è purtroppo coerente con tutte le previsioni sistemiche dei climatologi, che danno alla Terra altri vent’anni, al massimo, prima del collasso ecologico che già sta avanzando in modo inquietante, con le temperature balneari registrare alle Svalbard e lo scioglimento inesorabile della calotta artica. Nel lontanissimo ‘700, il padre della fisica Isaac Newton predisse – in base a complessi calcoli – che le risorse terrestri si sarebbero esaurite entro il 2060: un pronostico, sottolinea il saggista Gianfranco Carpeoro – sinistramente coincidente con quello del governo Usa, secondo cui fra quarant’anni, di questo passo, arriveremo alla morte biologica degli oceani. Ragionamenti che possono apparire letterari e strampalati, semplici suggestioni millenaristiche calate in un mondo distratto dai mondiali di calcio o appassionato al derby Italia-Francia su Salvini, gli sbarchi selvaggi e l’opaco traffico malavitoso gestito dalle Ong. Vero, l’Europa ladrona nega all’Italia un’espansione vitale del deficit, mentre c’è chi muore in mare per un tozzo di pane. E se si tracolla tutti, sotto la furia di un pianeta stremato dai nostri abusi suicidi?
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Veneziani: vi presento l’altro Pertini, iracondo e stalinista
Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. A quarant’anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l’altro Pertini. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’“Avanti!” e all’epoca capogruppo socialista, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l’“Avanti!”: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.Da presidente della Repubblica il compagno Pertini concesse appena fu eletto, la grazia al boia di Porzus, l’ex partigiano comunista Mario Toffanin, detto “Giacca”, nonostante questi non si fosse mai pentito dei suoi crimini per i quali era stato condannato all’ergastolo. Toffanin fu responsabile del massacro di Porzus, febbraio 1945: a causa di una falsa accusa di spionaggio, furono fucilati ben 17 partigiani cattolici e socialisti (la “Brigata Osoppo”), da parte di partigiani comunisti (Gap). Tra loro fu trucidato il fratello di Pasolini, Guido. Dopo la grazia di Pertini a Toffanin lo Stato italiano concesse al criminale non pentito pure la pensione che godette per vent’anni, insieme ad altri 30mila sloveni e croati “premiati” dallo Stato italiano per le loro persecuzioni antitaliane. Pertini partecipò poi commosso al funerale del presidente jugoslavo Tito (1980), il primo responsabile delle foibe, baciando quella bandiera che destava terribili ricordi negli esuli istriani, giuliani e dalmati.Pertini fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre in molte vicende. Per esempio, quella della coppia di attori Valenti-Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all’Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch. L’accusa si dimostrò infondata al vaglio di prove e testimonianze; lo stesso Vero Marozin, capo della brigata partigiana che eseguì la loro condanna a morte, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, pagarono la loro vita tra lussi e cocaina ma non avevano responsabilità penali o politiche tali da giustificarne la fucilazione per collaborazionismo. Nelle dichiarazioni rese da Marozin in sede processuale Pertini fu indicato come colui che aveva dato l’ordine di ucciderli: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: “Fucilali, e non perdere tempo!”». Si veda al proposito “Odissea Partigiana” di Vero Marozin (1966) “Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Ascesa e caduta di due stelle del cinema” di Odoardo Reggiani (Spirali, 2001).«Pertini si era rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva elaborato durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. La casa milanese di Valenti e della Ferida venne svaligiata pochi giorni dopo la loro uccisione. Fu rubato un autentico tesoro (cani di razza inclusi) di cui si perse ogni traccia». È famoso l’episodio accaduto all’arcivescovado di Milano nel ’45, quando Pertini incrociò sulle scale Mussolini, reduce da un colloquio col cardinale Schuster. Pertini disse poi di non averlo riconosciuto, «altrimenti lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella». Poi aggiunse: «Come un cane tignoso». Pertini sosteneva la necessità di uccidere Mussolini, non arrestarlo: se si fosse salvato, disse, magari sarebbe stato eletto pure in Parlamento. Delle responsabilità di Pertini nella strage di via Rasella a Roma, ne scrisse William Maglietto in “Pertini sì, Pertini no” (Settimo Sigillo, 1990).Al Quirinale, al di là dell’immagine bonaria del presidente che tifa Nazionale, gioca a carte, va a Vermicino per Alfredino, il bambino caduto nel pozzo, si ricorda il suo carattere permaloso. Ad esempio quando cacciò il suo capo ufficio stampa, Antonio Ghirelli, valoroso giornalista e galantuomo socialista. O quando chiese di cacciare Massimo Fini dalla Rizzoli in seguito a un articolo su di lui che non gli era piaciuto. Così ne parlò lo stesso Fini: «Immediata rabbiosa telefonata al direttore della “Domenica del Corriere” Pierluigi Magnaschi, un gentleman dell’informazione, il quale ricoperto da una valanga di insulti cerca di barcamenarsi alludendo all’autonomia delle rubriche dei giornalisti, allo spirito un po’ da bastian contrario di Massimo Fini. Il “nostro” San Pertini gli latra minacciosamente: “Non credere di fare il furbo con me, imbecille! Chiamo il tuo padrone Agnelli e vediamo qui chi comanda!” E infatti il giorno dopo mi si presenta il responsabile editoriale della casa editrice Lamberto Sechi…». Lo stesso Pertini disse a Livio Zanetti in un libro-intervista: «Cercai inutilmente di far licenziare uno strano giornalista italoamericano». Nenni nei suoi diari considerava Pertini un violento iracondo.Quando l’Msi celebrò il suo congresso a Genova nel 1960, fu proprio Pertini ad accendere il fuoco della rivolta sanguinosa dei portuali della Cgil col discorso del “brichettu” (il cerino). E vennero i famigerati “ganci di Genova”, coi quali un governo democratico di centro-destra, a guida Tambroni, con l’appoggio esterno del Msi, fu abbattuto da un’insurrezione violenta nel nome dell’antifascismo. Proverbiale era la poi sua vanità. Ghirelli riferì uno sferzante giudizio di Saragat: «Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la televisione». E i suoi abiti firmati, le sue scarpe Gucci mentre predicava il socialismo e il pauperismo… Fiorirono poi tante maldicenze su di lui, capo partigiano e poi leader socialista, che vi risparmio; circolavano giudizi dell’Anpi, di Marco Ramperti… Francesco Damato ricordò: «Nel 1973 Pertini mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per far posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita». Poi fu proprio l’onda emotiva dell’assassinio Moro e l’asse Dc-Pci sulla non-trattativa che portò a eleggerlo due mesi dopo al Quirinale. Infine va ricordato il Pertini che agli operai di Marghera, nel pieno infuriare del terrorismo rosso con larghe scie di sangue, disse: «Sono stato un brigatista rosso anch’io», per poi negare che le Br fossero rosse, giudicandoli solo «briganti», così da recidere il filo rosso tra Br e partigiani. Il presidente di una repubblica flagellata in quegli anni dal terrorismo rosso, si definiva orgoglioso «un brigatista rosso».(Marcello Veneziani, “Il presidente impertinente”, da “Il Tempo” del 14 marzo 2018; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. A quarant’anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l’altro Pertini. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’“Avanti!” e all’epoca capogruppo socialista, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l’“Avanti!”: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.