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Le 10 bufale sulla Torino-Lione, il Tav più inutile del mondo
Un sindacalista, un magistrato, un docente universitario. Ci si mettono in tre, a spiegare – ancora una volta – che la maledizione chiamata Tav Torino-Lione è assolutamente evitabile, per il bene di tutti, e senza alcuna conseguenza. O meglio: l’inutile traforo su cui si litiga da decenni, senza che ancora ne sia stato scavato nemmeno un centimetro, né Italia né in Francia, è bene che venga rottamato tra i progetti che raccontano la follia di epoche lontane. Dato che la disinformazione impera a reti unificate, specie dopo la ridicola manifestazione delle “madamine” torinesi (non una parola per spiegare la necessità della grande opera), a fornire ragguagli inoppugnabili provvedono Paolo Mattone dei Cobas, il giudice Livio Pepino (già consigliere della Cassazione) e il professor Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino. Su “Volere la Luna”, smontano tutte le dicerie su cui si basa la leggenda (miliardaria) dell’ipotetica alta velocità Italia-Francia: voci e superstizioni che la stampa non si premura mai di verificare, facendo semplicemente da grancassa al declinante establishment italo-piemontese. «La prosecuzione del progetto non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono. Perché, dunque, continuare?».Il “contratto di governo” tra Movimento 5 Stelle e Lega prevede, con riguardo alla nuova linea ferroviaria Torino-Lione, «l’impegno a ridiscutere integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia». Tanto è bastato, sostengono i tre, a produrre un duplice effetto: da un lato si è finalmente aperto un dibattito sulla effettiva utilità dell’opera, «fino a ieri esorcizzato dalla rappresentazione del movimento No Tav, complice la Procura della Repubblica di Torino, come un insieme di trogloditi e di terroristi». Dall’altro, l’atteggiamento razionale del governo «ha mandato in fibrillazione i promotori (pubblici e privati) dell’opera, l’establishment affaristico, finanziario e politico che la sostiene e i grandi media che ne sono espressione (“Stampa” e “Repubblica” in testa) che, non paghi di ripetere luoghi comuni ultraventennali sulla necessità dell’opera per evitare l’isolamento del Piemonte dall’Europa (sic!), hanno cominciato ad evocare fantasiose penali in caso di recesso dell’Italia». In attesa delle indicazioni della commissione preposta all’analisi costi-benefici e delle conseguenti decisioni politiche, è dunque utile fare il punto sulla situazione, partendo dall’esame delle affermazioni più diffuse circa l’utilità della Torino-Lione, il cui impatto sarebbe di per sé devastante: vent’anni di cantieri, urbanistica sconvolta, montagne piene di amianto e uranio, rischi idrogeologici catastrofici.Primo assunto “teologico” del Tav in valle di Susa, rilanciato da Sergio Chiamparino: «La nuova linea ha una valenza strategica e unirà l’Europa da est a ovest». Il governatore del Piemonte evoca un collegamento tra l’Atlantico e il Pacifico, «senza considerare che la stazione atlantica è scomparsa nel 2012 con la rinuncia del Portogallo, e che dalla prevista stazione finale di Kiev mancano, per arrivare a Vladivostok e al Pacifico, oltre 7.000 chilometri». Una prospettiva «priva di ogni riscontro reale, posto che una linea ferroviaria ad alta capacità-velocità non è prevista in modo compiuto neppure in Lombardia e Veneto». Peggio: il tratto sloveno non esiste nemmeno sulla carta, mentre in Ungheria e Ucraina nessuno sa che cosa sia il Corridoio 5, come inizialmente si chiamava la linea. «Al netto di bufale interessate e di anacronistici sogni di grandeur – scrivono Mattone, Pepino e Tartaglia – la verità non è quella di una nuova “via della seta” ma, assai più prosaicamente, del solo collegamento ferroviario tra Torino e Lione (235 chilometri, comprensivi di un tunnel di 57 chilometri)», già coperto dall’attuale linea valsusina Torino-Modane «ripetutamente ammodernata e utilizzata per un sesto delle sue potenzialità».Seconda bufala: «La nuova linea creerà nuovi orizzonti di traffico». Non è così, spiegano i tre analisti. Il trasporto merci su rotaia attraverso il Fréjus (di passeggeri non si parla più da vent’anni) è in caduta libera dal 1997, e da allora si è ridotto del 71%. Lo ammette persino l’Osservatorio istituito presso la Presidenza del Consiglio, riconoscendo che «molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, sono state smentite dai fatti». Nello stesso periodo, i traffici nella direzione Italia-Svizzera hanno continuato a crescere: del 43% nel periodo 1997-2007, quando pure le linee ferroviarie italo-svizzere, con pendenze analoghe, passavano attraverso tunnel ad altitudine simile a quella del Fréjus: il tunnel del Lötschberg, lungo 14,6 chilometri a 1400 metri di quota, e quello storico del San Gottardo, lungo 15 chilometri a 1151 metri di quota, in uso fino al 2016. Parallelamente, il volume del traffico complessivo attraverso la frontiera italo-francese (compreso quello su strada) è diminuito del 17,7%. Ciò dimostra che le ragioni della caduta di traffico sono strutturali e non hanno nulla a che vedere con le caratteristiche tecniche della linea ferroviaria, il cui ammodernamento non attira di per sé solo nuovo traffico. Lungo la direttrice transalpina est-ovest è in atto da tempo una tendenza al calo del flusso di merci, mentre lungo l’asse italo-svizzero e quello italo-austriaco il traffico ha continuato a crescere, anche se dopo il 2010 ha rallentato.Una interpretazione ragionevole? «Le direttrici nord-sud collegano il cuore dell’Europa con i porti della sponda nord del Mediterraneo e da lì con l’estremo oriente». I mercati della Cina e del Sud-Est Asiatico? «Sono lontani dalla saturazione e per di più quel sistema produttivo è in grado di fornire merci di rimpiazzo delle nostre a prezzi nettamente più bassi». Viceversa, l’asse est-ovest collega mercati intereuropei fra loro simili e in condizioni di saturazione materiale. In altre parole: non ci sono più merci da far circolare. Niente, comunque, che richieda nuovi canali di comunicazione: quelli attuali sono semi-deserti. Già questo smentisce il terzo assunto “teologico” del fronte pro-Tav, secondo cui «il collegamento ferroviario Italia-Francia deve essere ammodernato perché obsoleto e fuori mercato a causa di limiti strutturali inemendabili». Precisa, anche qui, la replica di Mattone, Pepino e Tartaglia: «Dopo la favola dell’imminente saturazione della linea storica, sostenuta contro ogni evidenza per vent’anni, i proponenti dell’opera e i loro sponsor politici si attestano ora su presunte esigenze dettate dalla modernità, che imporrebbe di «trasformare – con il tunnel transfrontaliero di 57 chilometri – l’attuale tratta di valico in una linea di pianura, così permettendo l’attraversamento di treni merci aventi masse di carico pari a quasi il triplo di quelle consentite dal Fréjus».La debolezza della tesi è di tutta evidenza: «Se infatti il traffico è in costante diminuzione e agevolmente assorbito dalla linea storica con le pendenze che la caratterizzano (e che per di più – come si è visto – non sono state di ostacolo all’aumento del traffico ferroviario tra Italia e Svizzera) a che serve un intervento modificativo che comporta rischi ambientali enormi e una spesa di miliardi?». A giustificarlo, secondo i tre analisti, c’è soltanto «una cultura sviluppista senza limiti, sempre più anacronistica». Quarta diceria: «I costi dell’opera sono assai più ridotti di quanto si dica, ammontando per l’Italia a soli 2, massimo 3 miliardi di euro». Per Mattone, Pepino e Tartaglia «siamo di fronte a una sorta di “gioco delle tre carte”, assai poco rispettoso della verità e dell’intelligenza degli italiani (e dei francesi)». Il costo dell’intera opera, infatti, è stato determinato dalla Corte dei Conti francese nel 2012 – senza successivi aggiornamenti o rettifiche – in 26 miliardi di euro, di cui 8,6 miliardi destinati alla tratta transnazionale, per la quale è previsto un finanziamento europeo pari, nella ipotesi più favorevole, al 40% del valore (3,32 miliardi di euro).I dati diffusi dai fautori dell’opera riguardano invece la sola tratta internazionale, che – data la scelta del governo italiano di proceder per fasi (il cosiddetto “progetto low cost”) – dovrebbe essere costruita per prima, anche a prescindere dalla prevedibile dilatazione dei costi: il 28 febbraio 2018, il Cipe ha portato a 6,3 miliardi di euro il «costo complessivo di competenza italiana per la sezione transfrontaliera», indicato poco più di due anni prima in 2,56 miliardi). In altre parole, siamo di fronte a un puro artificio contabile, visto che l’ulteriore spesa «non viene affatto annullata, ma semplicemente differita». Ovvero: si parla solo di quei “2-3 miliardi” (già diventati 6,3) senza più citare gli altri 20-25 miliardi quantificati dalla magistratura contabile francese. Ma non è tutto. I supporter del Tav provano anche a tingersi di verde: «Il potenziamento del trasporto su rotaia – dicono – è finalmente una scelta di tutela dell’ambiente». Giusto, se si intendesse: abbandoniamo le autostrade e trasferiamo i Tir sulla rete ferroviaria esistente (la stessa Torino-Modane in valle di Susa supporterebbe perfettamente i treni con a bordo i camion, se solo esistessero). Qui invece si prevede «la costruzione ex novo di un’opera ciclopica», con un impatto notoriamente insostenibile sul piano ambientale.Mattone, Pepino e Taraglia citano «gli effetti dello scavo di un tunnel di 57 chilometri in una montagna a forte presenza di amianto e uranio con un cantiere ventennale che produrrà un inquinamento certo, a fronte di un recupero successivo del tutto incerto», senza contare gli ingenti consumi energetici per il sistema di raffreddamento del tunnel, la cui temperatura interna sarà superiore ai 50 gradi. E’ dipo ecologista (ma altrettanto infondato) anche il “sesto comandamento” della Torino-Lione: «Con il Tav diminuiranno, comunque, i Tir sull’autostrada e il connesso inquinamento». Anche questa, replicano i tre analisti, è una pura petizione di principio, con la quale si dà per certo lo spontaneo abbandono dell’autostrada da parte dei Tir e il loro passaggio alla ferrovia – tutto da dimostrare, e legato a variabili future e incerte (costi, e non solo). Ma c’è di più. Se davvero si volesse trasferire il traffico dalla gomma alla rotaia, basterebbe imporre – come in Svizzera – pedaggi salatissimi agli autotreni. In Italia si procede al contrario: incentivi per il carburante e pedaggi autostradali in favore dei camionisti. «Passare dagli incentivi alle penalizzazioni sarebbe certo una sfida complessa». La follia italiana dei pro-Tav? «Millantare aspirazioni ecologiste mentre si praticano politiche contrarie».Settima bufala: «La realizzazione della Torino-Lione è una straordinaria occasione di crescita occupazionale che sarebbe assurdo accantonare, soprattutto in epoca di crisi economica». L’affermazione, dicono Mattone, Pepino e Tartaglia, «è un caso scolastico di mezza verità trasformata in colossale inganno». Che la costruzione di un’opera (anche dannosa) produca posti di lavoro, è incontestabile. Ma il punto è un altro: posto che serva, quest’opera, quanto lavoro genera, rispetto ad altri possibili investimenti? Servono calcoli precisi, soprattutto in una situazione come questa, in cui non ci sono risorse per tutto e un investimento ne esclude altri. «Orbene, l’esperienza dimostra in modo inoppugnabile che un piano di messa in sicurezza del territorio è molto più utile (superfluo ricordarlo nell’Italia dei crolli, delle frane e delle esondazioni) e assai più efficace in termini di creazione di posti di lavoro di qualunque infrastruttura ciclopica». Le grandi opere, infatti, sono «investimenti ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di mano d’opera (con pochi posti di lavoro per miliardo investito e per un tempo limitato), mentre gli interventi diffusi di riqualificazione del territorio e di aumento dell’efficienza energetica producono un’alta intensità di manodopera a fronte di una relativamente bassa intensità di capitale (con creazione di più posti di lavoro per miliardo investito e per durata indeterminata)». La Torino-Lione, quindi, «è tutt’altro che l’affare evocato dai proponenti e dai loro sponsor politici».Ottava leggenda: «Trent’anni fa si sarebbe potuto discutere, ma oggi i lavori sono ormai in uno stato di avanzata realizzazione e non si può tornare indietro». Affermazione priva di ogni consistenza: «Del tunnel transfrontaliero, infatti, non è stato a tutt’oggi scavato neppure un centimetro». Sono state realizzate solo opere preparatorie, tra cui lo scavo in territorio francese di 5 chilometri di tunnel geognostico «impropriamente spacciato, in decine di filmati e interviste a tecnici e politici, per l’inizio del traforo ferroviario». Le piccole opere propedeutiche si sono già mangiate un miliardo e mezzo di euro, ma ciò rende solo più urgente una decisione, che deve intervenire prima dell’inizio dei lavori per la realizzazione del tunnel di base e i cui termini sono drammaticamente semplici: a fronte di un’opera dannosa per gli equilibri ambientali e per le finanze pubbliche (come dimostrato dalle analisi di costi e benefici effettuate da studiosi accreditati come il francese Prud’Homme e gli italiani Debernardi e Ponti), conviene di più contenere i danni – mettendo una croce sul miliardo e mezzo colpevolmente speso sino ad oggi – o continuare in uno spreco di miliardi?L’ultima nata delle motivazioni pro-Tav è la sicurezza: «Per mettere in sicurezza il tunnel storico del Fréjus serviranno a breve da 1,4 a 1,7 miliardi di euro: meglio, anche sul piano economico, costruirne uno nuovo». Ovvero: «Il tunnel esistente dovrebbe essere adeguato a caro prezzo in quanto a canna singola e doppio binario e senza vie di fuga intermedie; non ne vale la pena e tanto vale abbandonarlo per sostituirlo con il nuovo super-tunnel di base». Se le motivazioni fossero quelle addotte, un intervento ben più urgente ‒ a cui destinare le scarse risorse disponibili (e del quale, curiosamente, nessuno parla) – dovrebbe essere effettuato sulla linea ad alta velocità Bologna-Firenze, con quasi 74 chilometri di gallerie (la più lunga, quella di Vaglia, di 18,713 chilometri, cinque in più del Fréjus) tutte a canna singola e doppio binario, senza tunnel di soccorso, con un traffico molto più intenso che al Fréjus e in buona parte ad alta velocità. Né va dimenticato che nella galleria del Fréjus sono stati effettuati lavori di adeguamento tra il 2003 e il 2011 spendendo qualche centinaio di milioni di euro: per la parte francese, «l’intervento è stato effettuato al risparmio e in difformità da quanto correttamente (una volta tanto) fatto nella parte italiana». Ai francesi, «che già hanno provveduto ad addossare all’Italia (col consenso di un nostro distratto Parlamento) una parte dell’eventuale costo del nuovo tunnel di base decisamente sbilanciata a loro favore», occorrerebbe chieder conto delle carenze del tunnel “storico” dovute al loro modo di lavorare.In conclusione: qualcuno è in grado di spiegare perché mai bruciare 20-30 miliardi nell’inceneritore della Torino-Lione? Per non pagare le salatissime penali previste in caso di rinuncia, ripetono i pro-Tav, che parlano di sanzioni «fino a un ammontare di due miliardi e 500 milioni». Qui, protestano Mattone, Pepino e Tartaglia, «siamo di fronte a una bufala allo stato puro: non esiste, infatti, alcun documento europeo sottoscritto dall’Italia che preveda penali o risarcimenti di qualsivoglia tipo in caso di ritiro dal progetto». Gli accordi bilaterali tra Francia e Italia «non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, compensazioni per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio». In caso di appalti aggiudicati, il nostro codice civile prevede che, ove il soggetto appaltante decida di annullarli, le imprese danneggiate hanno diritto a un risarcimento comprensivo della perdita subita e del mancato guadagno che ne sia conseguenza immediata (per un ammontare che, di regola, non supera il 10% del valore dell’appalto). Ma finora non è stato aggiudicato (e nemmeno bandito) nessun appalto, per il tunnel di base. Il Grant Agreement del 25 novembre 2015, sottoscritto da Italia, Francia e Unione Europea, dispone che «nessuna delle parti ha diritto di chiedere un risarcimento in seguito alla risoluzione ad opera di un’altra parte», prevedendo sanzioni amministrative e pecuniarie nel solo caso in cui il beneficiario di un contributo abbia commesso irregolarità o frodi. I finanziamenti europei sono erogati solo in base all’avanzamento dei lavori, quindi la rinuncia non comporta alcun dovere di restituzione dei contributi (mai ricevuti). Dati incontrovertibili: una panoramica decisamente vertiginosa. E’ possibile parlare di una grande opera per vent’anni, esasperando la popolazione, senza mai degnarsi di elargire uno straccio di verità?Un sindacalista, un magistrato, un docente universitario. Ci si mettono in tre, a spiegare – ancora una volta – che la maledizione chiamata Tav Torino-Lione è assolutamente evitabile, per il bene di tutti, e senza alcuna conseguenza. O meglio: l’inutile traforo su cui si litiga da decenni, senza che ancora ne sia stato scavato nemmeno un centimetro, né Italia né in Francia, è bene che venga rottamato tra i progetti che raccontano la follia di epoche lontane. Dato che la disinformazione impera a reti unificate, specie dopo la ridicola manifestazione delle “madamine” torinesi (non una parola per spiegare la necessità della grande opera), a fornire ragguagli inoppugnabili provvedono Paolo Mattone dei Cobas, il giudice Livio Pepino (già consigliere della Cassazione) e il professor Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino. Su “Volere la Luna”, smontano tutte le dicerie su cui si basa la leggenda (miliardaria) dell’ipotetica alta velocità Italia-Francia: voci e superstizioni che la stampa non si premura mai di verificare, facendo semplicemente da grancassa al declinante establishment italo-piemontese. «La prosecuzione del progetto non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono. Perché, dunque, continuare?».
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Galloni: come sopravvivere se lo spread sale a quota 400
Ieri l’asta dei Btp è stata molto fiacca. Dicono i giornali perché lo spread è salito a quota oltre 330; insomma, se ci si aspetta che lo spread salga ancora (magari in funzione della procedura contro l’Italia preannunciata per il 22 novembre), gli investitori aspettano a comperare titoli a più lungo termine. Se è così – e, soprattutto gli investitori (grandi banche dealer) sono costrette a comperare titoli per l’immensa disponibilità liquida loro fornita dalle banche centrali che poi obbligano a depositi presso di esse con tassi negativi – perché non offrire bonds a breve e risparmiare sui tassi? Non si sa. Giornali, televisioni, politici e accademici dicono che l’aumento dello spread determina un impoverimento dei possessori di titoli: se anche io li voglio vendere anticipatamente, so che il prezzo cala, quindi, che li venderò (sempre che decida di rientrare in possesso della liquidità prima della scadenza) ad un valore più basso; ma, se me li tengo fino a scadenza, avrò il reddito pattuito e, infine, il rimborso del capitale originario.Casomai, se l’attesa di aumento dei rendimenti dei titoli futuri supera la svalutazione di quelli vecchi di cui si chiede il rimborso anticipato, allora sarà conveniente chiedere quest’ultimo e aspettare il momento buono per investire sul nuovo primario. Di qui due deduzioni: 1) agli speculatori serve che l’aumento delle spread sia seguito da un aumento dei tassi sulle nuove emissioni e, quindi, possono operare in tal senso (come è già accaduto qualche anno fa coi titoli greci); 2) bisogna offrire nuovi titoli a rendimenti e scadenze più corte.A quota 400 tutti – compreso il ministro dell’economia – pensano che il sistema non regga: certo questo sistema che, però, lo si dice da una vita, è intrinsecamente sballato. Occorrono, invece, quattro cose: 1) ridurre i tempi delle scadenze delle nuove emissioni per guadagnare dai tassi più bassi che la speculazione accetta in attesa delle nuove emissioni a lungo termine coi tassi più alti (e che determineranno tra non tantissimo tempo la crisi delle borse ed il rafforzamento dei ribassisti); 2) consentire agli Stati di immettere moneta non a debito a sola circolazione nazionale per finanziare attività nell’ambiente e l’occupazione soprattutto giovanile; 4) non interrompere il quantitative easing della Bce sul mercato secondario; 4) istituire un’agenzia di rating titolata a dare giudizi su basi serie e trasparenti.(Nino Galloni, “Come sopravvivere a quota 400”, da “Scenari Economici” del 20 novembre 2018).Ieri l’asta dei Btp è stata molto fiacca. Dicono i giornali perché lo spread è salito a quota oltre 330; insomma, se ci si aspetta che lo spread salga ancora (magari in funzione della procedura contro l’Italia preannunciata per il 22 novembre), gli investitori aspettano a comperare titoli a più lungo termine. Se è così – e, soprattutto gli investitori (grandi banche dealer) sono costrette a comperare titoli per l’immensa disponibilità liquida loro fornita dalle banche centrali che poi obbligano a depositi presso di esse con tassi negativi – perché non offrire bonds a breve e risparmiare sui tassi? Non si sa. Giornali, televisioni, politici e accademici dicono che l’aumento dello spread determina un impoverimento dei possessori di titoli: se anche io li voglio vendere anticipatamente, so che il prezzo cala, quindi, che li venderò (sempre che decida di rientrare in possesso della liquidità prima della scadenza) ad un valore più basso; ma, se me li tengo fino a scadenza, avrò il reddito pattuito e, infine, il rimborso del capitale originario.
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Latouche: consumatori perfetti, cioè infelici. Serviamo così
L’espressione “decrescita felice” suscita ancora oggi molta perplessità. E’ un equivoco tutto italiano. Io non ho mai usato questa espressione. La decrescita ha un significato preciso e parte dall’assunto che noi viviamo in un mondo finito e con risorse finite. La seconda legge della termodinamica ci dice che se bruciamo 10 litri di benzina essa “non si distrugge”, ma non la possiamo nemmeno più riutilizzare come forma di energia. Come forma di energia la benzina se n’è andata per sempre. E la benzina, che è un derivato del petrolio, è un combustibile limitato, cioè finito. Queste sono cose che capirebbe anche un bambino, ma gli economisti no, si rifiutano di includere nell’economia questo aspetto determinante per il nostro futuro. Pertanto, io ritengo che siamo giunti ad un punto cruciale, che impone il non-sviluppo. Purtroppo la stragrande maggioranza dei mass media e delle persone è indotta a pensare il contrario, e cioè che sia necessario produrre sempre di più. Per farlo, tuttavia, è necessario che le persone siano infelici. Le persone felici, infatti, non hanno interesse a consumare, nel senso che consumano solo ciò che è strettamente necessario, e non acquistano cose per noia e frustrazione, come accade oggi. Ma il mercato è proprio di questa frustrazione che ha bisogno, se vuole crescere.Dunque, io vedo la felicità come una cosa lontana dalla crescita e, sotto molti punti di vista, in antitesi allo sviluppo. Più cresciamo senza che ce ne sia bisogno, più siamo infelici. Il concetto di felicità inteso come accumulo e consumo, comunque, è piuttosto recente, e risale agli ultimi tre secoli, che non a caso sono i secoli dell’industrializzazione. Prima, il concetto di beatitudine prevaleva su quello di felicità che, per certi punti di vista, nemmeno esisteva. Quando le risorse erano scarse, la frugalità era un valore. Ora che le risorse sono ritenute abbondanti il consumo, invece, è diventato il valore per eccellenza. Io propongo di tornare ad un modello frugale, è vero, ma non può essere questa una mera nostalgia per una mitica età bucolica. Al tempo stesso, però, è molto stupido e bugiardo ritenere che non ci sia mai stata nella storia dell’umanità un’era della frugalità conforme alla natura umana, ai suoi ritmi e ai suoi bisogni. Anzi! Per centinaia di migliaia di anni, cioè per la maggior parte del tempo della nostra storia, l’uomo è stato cacciatore-raccoglitore, e lavorava 2-3 ore al giorno. Il resto del tempo si interessava alle relazioni sociali e al gioco.Dunque, noi oggi lavoriamo quasi il triplo dei nostri predecessori per motivi legati alla crescita fine a se stessa, ma non perché ciò sia necessario alla nostra sopravvivenza, e tanto meno per la nostra felicità. Se la produzione agricola diminuisce secondo un modello di decrescita, com’è possibile mantenere alti standard di quantità e qualità alimentare? L’agricoltura è stata industrializzata a partire dal Settecento. Prima della rivoluzione agricola e industriale c’erano dei terreni comuni, cioè terreni di tutti, dove si pascolava il bestiame (openfield). Poi, in Inghilterra sono arrivate le recinzioni (enclosures) che hanno responsabilizzato i coltivatori, hanno aumentato la superficie coltivabile e implementato l’ambizione del proprietario della terra. Ciò ha determinato una grave crisi per quel modello contadino, basato sull’economia di villaggio, il dono e la solidarietà. Si può recuperare qualcosa del modello “openfiled” senza però gettare vie le conquiste fatte in questi secoli in termini di progresso? Ci sono molte proposte, ma la più credibile e percorribile è quella dell’agricoltura biologica, perchè riduce al minimo gli sprechi e consente anche di salvare i beni comuni dalla privatizzazione.Per beni comuni intendo realtà materiali come ovviamente l’aria e l’acqua, ma anche beni non legati alla natura, come i trasporti, l’istruzione e la salute. La decrescita prende atto che lo sviluppo per lo sviluppo non ha senso. Lo sviluppo ha senso solo se soddisfa determinati bisogni, altrimenti diventa una religione: la religione dell’economia. Se guardo alla mia personale biografia devo ammettere che anch’io ero caduto nell’errore di pensare che la crescita produttiva fosse sempre e comunque positiva. Ho lavorato in Africa, ad esempio, e anche da quell’esperienza mi sono reso conto che nel tentativo di industrializzare l’Africa stavamo facendo lo stesso errore fatto in Unione Sovietica, che infatti si è rivelato un errore grave perché quel tipo di comunismo ha cercato di combattere il capitalismo sul suo stesso terreno, e cioè quello della produttività fine a se stessa. Tra le dottrine economiche elaborate negli ultimi secoli, marxismo e Keynes rappresentano senza dubbio alternative che mi piacciono, se non altro perché mirano a risolvere la disoccupazione, che è l’arma attraverso la quale il capitale alimenta se stesso producendo precarietà, e dunque ricatto (e il consumismo, che come detto si basa sull’infelicità e l’insoddisfazione).Detto questo, tuttavia, è più corretto pensare alla decrescita più come ad una “mentalità”, ad un salto culturale, che non come ad un’alternativa qualsiasi al modo di produzione. Il pensiero liberale si è imposto come cambio di paradigma ed è basato su un’autoregolazione del mercato che esiste solo nella fantasia, come quella di una “mano” che non si vede. Concetti come “decrescita” e “frugalità” hanno a che fare con il concetto di limite, un concetto che aveva un grande valore nell’antica Grecia e che oggi è stato sostituito dal suo opposto: l’illimitato. Per recuperare il limite come valore è necessario tornare alle poleis greche, cioè al comunitarismo? Io sono un fiero avversario dell’universalismo, cioè di quella ideologia secondo la quale ci sono valori assoluti determinatisi in Occidente ed esportabili in tutto il mondo. Pertanto, credo che le comunità locali siano una valida risposta alla globalizzazione del mercato, che è la nuova veste assunta dall’imperialismo, seppur più subdola e pericolosa di altre ideologie del passato.La Terra è un pianeta con un ecosistema finito, ma l’universo ci vene raccontato come infinito, o perlomeno in espansione. Si può sostenere che il concetto di limite sia dato da limiti umani che verranno a breve superati, oppure anche l’universo ha dei limiti? La fisica non sostiene affatto che l’universo sia infinito, ma a prescindere da questo non è stato ancora detto come trasportare gli esseri umani, probabilmente tutti, e cioè 7 miliardi, nel pianeta vivibile più vicino. Secondo alcuni, il pianeta vivibile più vicino si trova a decenni di anni luce dalla Terra, e non è nemmeno sicuro che sia idoneo alla nostra sopravvivenza. Inoltre, nessuno è ancora in grado di dirci con quale tipologia di carburante si potrà inaugurare una simile Arca della salvezza. L’ipotesi transumanista non è percorribile al momento e, direi, non è nemmeno auspicabile. Qual è lo stato dell’arte del progetto sulla decrescita? Ad alti livelli il dibattito – anche in Francia – è zero, nel senso che non se ne parla e non se ne vuol parlare tra istituzioni e politici, e stessa cosa dicasi per il mondo accademico. Diverso il discorso per l’ambito culturale, tra le associazioni e tra le persone comuni. Temo però che a prescindere dal dibattito, il collasso del sistema sia dietro l’angolo e che quindi poi il cestino, a cose fatte, ci farà esclamare: “Troppo tardi, coglioni!”.(Serge Latouche, dichiarazioni rilasciate in una recente conferenza a Sernaglia della Battaglia, Treviso, moderata e condotta da Massimo Bordin, che ha riportato il testo integrale della conversazione del suo blog, “Micidial”, il 9 novembre 2018).L’espressione “decrescita felice” suscita ancora oggi molta perplessità. E’ un equivoco tutto italiano. Io non ho mai usato questa espressione. La decrescita ha un significato preciso e parte dall’assunto che noi viviamo in un mondo finito e con risorse finite. La seconda legge della termodinamica ci dice che se bruciamo 10 litri di benzina essa “non si distrugge”, ma non la possiamo nemmeno più riutilizzare come forma di energia. Come forma di energia la benzina se n’è andata per sempre. E la benzina, che è un derivato del petrolio, è un combustibile limitato, cioè finito. Queste sono cose che capirebbe anche un bambino, ma gli economisti no, si rifiutano di includere nell’economia questo aspetto determinante per il nostro futuro. Pertanto, io ritengo che siamo giunti ad un punto cruciale, che impone il non-sviluppo. Purtroppo la stragrande maggioranza dei mass media e delle persone è indotta a pensare il contrario, e cioè che sia necessario produrre sempre di più. Per farlo, tuttavia, è necessario che le persone siano infelici. Le persone felici, infatti, non hanno interesse a consumare, nel senso che consumano solo ciò che è strettamente necessario, e non acquistano cose per noia e frustrazione, come accade oggi. Ma il mercato è proprio di questa frustrazione che ha bisogno, se vuole crescere.
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Della Luna: finanziare a deficit 20 anni di futuro, o è la fine
Dove porta la legge finanziaria sovranista? Per i prossimi 25 anni la produttività (efficienza produttiva) italiana è prevista in costante declino; il che implica il passaggio dell’Italia al Terzo Mondo (molto prima di 25 anni), perché l’Italia continuerà a perdere competitività, quindi a dover ridurre i salari e le prestazioni sociali per compensare tale perdita, non potendo lasciar svalutare la sua moneta dato che l’euro blocca l’aggiustamento fisiologico dei cambi. Continueranno il calo della domanda interna, la crescita delle insolvenze, il calo e/o lo scadimento dell’occupazione, la fuga di aziende, capitali e cervelli, il take-over da parte dei capitali stranieri. Per uscire da questa linea di declino, l’Italia dovrebbe fare investimenti infrastrutturali di lungo termine, cioè almeno ventennali, e idonei a far risalire la produttività: ricerca, tecnologie, ammodernamento, formazione del personale, infrastrutture, sistemazione idrogeologica. Ma per fare tali investimenti si dovrebbe vincere la resistenza e i vincoli europei, che sono stati formulati proprio per mantenere l’Italia (e gli altri paesi poco efficienti) in uno stato di crisi e involuzione controllate permanenti, onde poterne rastrellare fino al fondo le risorse finanziarie, aziendali, professionali per trasferirle in Germania e Francia (questo è il piano della cosiddetta integrazione europea).E bisognerebbe vincerli non solo per il prossimo anno né per un anno alla volta né per tre alla volta, bensì per un programma di almeno vent’anni, concordato e accettato con Bruxelles. Con un programma ventennale di investimenti, gli imprenditori privati, potendo contare su lunghi e grossi appalti pubblici, investiranno i loro soldi in attrezzature e assunzioni, facendo partire un grande circolo virtuoso ed espansivo anche di domanda interna. Il permesso per finanziare un tale piano è alquanto difficile da conseguire, perché gli interessi e il piano europeisti sono nel senso che l’Italia debba continuare il suo declino e la cessione di aziende, capitali, professionisti ai paesi egemoni; e i garanti interni di questo piano europeista – Quirinale, magistrati interventisti (anche nella Corte Costituzionale), apparati ministeriali, mass media – sono già stati mobilitati, e dovranno organizzare qualcosa per fermare l’attuale governo tra qui e le elezioni europee, cioè prima che i partiti sovranisti possano vincere. Per fermare un governo sostenuto dal 62% degli italiani, e con moltissimi osservatori già contro-mobilitati per denunciare ogni tentativo di nuovo golpe ordito sia dall’interno che dall’estero. Una bella partita.Ma quand’anche si riesca a varare un programma ventennale di investimenti, vuoi attraverso una vittoria sovranista alle imminenti elezioni europee, vuoi attraverso una modificazione negoziata dei trattati, vuoi attraverso l’uscita dall’euro e il recupero della sovranità monetaria che consenta una spesa pubblica mediante un’emissione di debito protetto dalla garanzia di acquisto da parte della banca centrale italiana, resterà da vedere se il sistema-paese Italia sia o non sia capace di fare tali investimenti in modo efficace, ossia tale da aumentare adeguatamente la produttività, anziché ancora una volta all’italiana, peggiorando le cose. L’esperienza ormai settantennale con investimenti di analogo scopo nel Mezzogiorno è in senso negativo, così come l’esperienza della ricostruzione dopo i recenti terremoti, nonostante tutte le promesse e garanzie di stretta sorveglianza: gli investimenti sono stati inefficaci perché mal progettati, eseguiti disorganicamente, diretti principalmente da scopi clientelari e con metodi criminali.Anche coloro che promettevano che “l’Europa” e l’euro, con le loro regole, avrebbero risanato il sistema-paese Italia, liberandolo dai suoi vizi storici e rendendolo efficiente attraverso vincoli e pressioni dall’esterno, sono stati smentiti: dapprima, l’introduzione dell’euro, con la possibilità per il settore pubblico di finanziarsi a tassi bassi, ha aumentato la spesa clientelare e parassitaria, quindi l’indebitamento pubblico; con la crisi del 2007-2008, essendo venuti meno gli spazi e i fondi per progetti di crescita e prospettandosi invece un lungo, indefinito declino, politici e amministratori si sono ancor più dedicati alla lotta per spartirsi le decrescenti risorse e alla collaborazione con le operazioni di rastrellamento suddette, senza interesse per l’efficacia della spesa stessa. E’ da questa condizione che deve cercare di ripartire l’attuale governo. Se il sistema-paese Italia ancora una volta risulterà incapace di investire produttivamente le risorse di cui dispone, sarà giustificato il piano Funk, ossia il suddetto piano “europeista” di trasferimento forzato delle medesime risorse da essa ai paesi che le sanno mettere a frutto, come unico piano atto a costruire un’Europa unitaria e ben funzionante, sia pur col sacrificio dei popoli inferiori in quanto ad efficienza.Questo ovviamente vale su scala macro, mentre su scala individuale, coen soluzione al problema-Italia, si confermerebbe l’indicazione dell’emigrazione di chiunque abbia capacità e risorse valorizzabili all’estero. Qualora si arrivi alla rottura con la Bce, raccomando al governo di considerare quanto segue per il nuovo assetto monetario da dare al paese. Dato che la sua inefficienza è dovuta a ragioni storiche inveterate e consolidate di clientelismo, nepotismo, parassitismo, inseriti nei meccanismi di consenso politico, e che tali cause sono eliminabili solo nelle fantasie degli imbonitori, dei velleitari e degli utopisti, l’Italia avrebbe bisogno, per vivere al meglio secondo le sue reali possibilità e con i suoi difetti: di uscire dall’euro ritornando alla sovranità monetaria; di ritornare al libero aggiustamento dei cambi (ossia alla svalutazione competitiva); di dotarsi di una banca centrale com’era prima del 1981, che assicuri l’acquisto del debito pubblico e bassi tassi di interesse, così che lo Stato possa immettere soldi (con gli investimenti a deficit) nell’economia reale anziché toglierli (con gli avanzi primari): infatti l’Italia, come ogni motore vecchio, per funzionare e non grippare ha bisogno di abbondante olio perché ne brucia molto.(Marco Della Luna, “Deficit di bilancio e deficit di efficienza”, dal blog di Della Luna del 30 settembre 2018).Dove porta la legge finanziaria sovranista? Per i prossimi 25 anni la produttività (efficienza produttiva) italiana è prevista in costante declino; il che implica il passaggio dell’Italia al Terzo Mondo (molto prima di 25 anni), perché l’Italia continuerà a perdere competitività, quindi a dover ridurre i salari e le prestazioni sociali per compensare tale perdita, non potendo lasciar svalutare la sua moneta dato che l’euro blocca l’aggiustamento fisiologico dei cambi. Continueranno il calo della domanda interna, la crescita delle insolvenze, il calo e/o lo scadimento dell’occupazione, la fuga di aziende, capitali e cervelli, il take-over da parte dei capitali stranieri. Per uscire da questa linea di declino, l’Italia dovrebbe fare investimenti infrastrutturali di lungo termine, cioè almeno ventennali, e idonei a far risalire la produttività: ricerca, tecnologie, ammodernamento, formazione del personale, infrastrutture, sistemazione idrogeologica. Ma per fare tali investimenti si dovrebbe vincere la resistenza e i vincoli europei, che sono stati formulati proprio per mantenere l’Italia (e gli altri paesi poco efficienti) in uno stato di crisi e involuzione controllate permanenti, onde poterne rastrellare fino al fondo le risorse finanziarie, aziendali, professionali per trasferirle in Germania e Francia (questo è il piano della cosiddetta integrazione europea).
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Grazie all’imbroglio del debito, vogliono portarci via tutto
Siamo nei guai, da quando «abbiamo consegnato direttamente ai mercati finanziari la possibilità di creare nuova moneta». A chi conveniva? A loro, l’élite finanziaria speculativa. Si sono fatti le leggi che volevano. E oggi l’establishment ci racconta che il deficit è una tragedia, e che i “mercati” sono i nostri unici, veri padroni. Lo ammette persino il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Siamo caduti in un colossale imbroglio, avverte l’ex manager Bnl Guido Grossi, intervistato da “Tiscali”. La buona notizia è che possiamo uscirne: primo passo, rimettere in debito in mani italiane, riattivando i Bot a breve scadenza su misura per i cittadini: «Bastano 200 miliardi per far svanire l’incubo dello spread. E l’Italia è ricchissima: 4.200 miliardi di risparmi, più 5.000 miliardi di patrimonio immobiliare». Si può allonatarsi anche rapidamente, dalle secche artificiose del rigore, a una condizione: che si sappia chi ci ha inguaiati, come funziona la trappola del debito “privatizzato” e a cosa serve. Ad accumulare soldi? Sbagliato: il vero obiettivo è fare incetta di beni pubblici, dopo averne fatto crollare il prezzo attraverso crisi pilotate.La storia della nostra “prigionia” è lunga è dolorosa, riassume Grossi. Pietra miliare, il Trattato di Maastricht: l’Ue non può prestare soldi agli Stati né ad altri enti pubblici diversi dalle banche. «Perché? Non c’è alcun ragionevole motivo». Non esiste ragione, spiega Grossi, per cui la politica debba rinunciare al controllo della moneta. «Noi viviamo nell’economia dello scambio, visto che nessuno è in grado di prodursi tutto quello di cui ha bisogno, e per scambiarsi le cose serve la moneta. Questa deve circolare, passare di mano in mano, e quando ce n’è poca nel sistema bisogna immetterla». E dal 1971, finito il “gold standard”, è diventato chiaro che creare moneta è qualcosa che si può fare senza costi. «L’importante è che ce ne sia la giusta quantità e che, soprattutto, vada a finire nelle tasche giuste. Ma lo Stato ha rinunciato al potere di emetterla, questo è il primo punto». Il secondo? Il sistema finanziario si è trasformato: prima, il cittadino portava i risparmi in banca, e la banca li investiva nell’economia reale e creava lavoro. Oppure il cittadino prestava quei risparmi allo Stato, sotto forma di Bot e Cct, perché era un modo per metterli al sicuro.«Lo Stato usava quei risparmi per fare spesa pubblica: in sostanza, rimetteva quei soldi nelle tasche dei cittadini che spendono e nelle casse delle imprese che investono». La moneta circolava, aggiunge Grossi, perché «c’era un controllo pubblico», sia nella sua creazione, sia nella sua circolazione. Ormai «la moneta si crea dal nulla». Dunque, «sarebbe meglio riportarla sotto il controllo pubblico». La questione è che circola molto male, la moneta, «perché il sistema finanziario è diventato privato». E non solo: «Ha smesso di fare il suo mestiere: non prende il risparmio privato per indirizzarlo sulle imprese che investono o nelle famiglie che devono comprare casa». Il grosso «finisce sui mercati finanziari». E se tutti vogliono comprare i titoli di Stato il loro prezzo sale. Peraltro, «se il mercato compra titoli e le banche centrali continuano a comprarne con le operazioni di “quantitative easing”, e comprano pure titoli di aziende private, in quelle operazioni non fanno altro che sostenere il prezzo della bolla speculativa. Ci dicono che lo fanno per far salire l’inflazione e far entrare soldi alle imprese ma questi soldi vanno direttamente sui mercati finanziari».Fino agli anni ‘90, prosegue Grossi, si finanziavano ancora investimenti e imprese. Ora invece «la gran parte viene destinata a circolare attraverso lo scambio di titoli, di derivati sempre più complessi e sempre più oscuri». Così, la finanza decide tutto: «Una grande banca d’affari può chiamare una impresa, ottenere la sua collocazione in Borsa, studiarla, preparare il report per presentarla ai mercati, finire col conoscerla meglio di quanto non riesca a fare l’impresa stessa. Può farle avere i soldi dei mercati perché conosce tutti i fondi di investimento, anzi ha i suoi fondi di investimento. Ha la sua ricerca che può distribuire a tutti gli enti istituzionali in giro per il mondo, può fabbricare i derivati sui titoli e sui prestiti, negoziarli, fare tutto per operare sui mercati finanziari». Ed è chiaro che, con tali informazioni, la banca può sapere molto prima di altri quando il prezzo può salire e quando può scendere. «Possono fare qualsiasi cosa, far arricchire chi vogliono». L’obiettivo finale? «Non è continuare ad accumulare moneta, ma comprare beni reali», spiega Grossi. «E come si fa a comprare a basso costo cose reali? Scatenando crisi economiche».La Grecia insegna: con la scusa del debito, società e banche tedesche si sono prese anche gli aeroporti. Chi ha impedito alla Grecia di difendersi? L’Unione Europea, con i suoi vincoli: proibendo allo Stato di creare moneta, e perfino di farsela prestare per fare spesa pubblica in investimenti. Ovvio che il mondo finanziario sia intimamente legato alle multinazionali. E paesi come la Germania e gli Usa, dove c’è un grosso nucleo di grandi aziende internazionalizzate, traggono enormi dei benefici da questo sistema: a monte, riescono a ottenere regole su misura per il proprio business. «Anche in Italia ce le avevamo, le grandi aziende: le partecipazioni statali». Certo, ricorda Grossi, ci hanno raccontato che erano “carrozzoni” spreca-soldi. «In realtà facevano invidia agli Usa, alla Gran Bretagna, alla Francia e alla Germania». Così è arrivata la mannaia Ue: «Il Trattato di Maastricht ci ha poi imposto il vincolo assurdo del rapporto del 60% tra debito e Pil (e deficit non superiore al 3% del Pil)». E’ avvenuto «in un particolare momento, in cui noi eravamo a 100 e gli altri a 60». Obiettivo: frenare l’Italia, barando.«Così abbiamo dovuto svendere le partecipazioni statali, perché l’unico modo per entrare era vendere il patrimonio pubblico». La situazione, osserva Grossi, è precipitata con il divorzio fra Tesoro e Bankitalia, quando la banca centrale ha smesso di finanziare il governo a costo zero, “regalando” il debito (interessi) alla finanza privata. E ora siamo al pareggio di bilancio, varato da Monti: «Quando l’economia è ferma e c’è troppa disoccupazione, lo Stato ha il dovere di intervenire». C’è scritto nella Costituzione, ricorda Grossi: «Lo Stato ha il dovere di fare quanto necessario per metterci in grado di avere una esistenza libera e dignitosa, di contribuire al progresso materiale e spirituale della nazione. E ciò lo possiamo realizzare solo lavorando. Se c’è disoccupazione, crisi economica, le famiglie non spendono e le imprese non investono, allora o interviene qualcuno dall’esterno o la crisi rimane e continua ad avvitarsi su se stessa». A questo punto come fa, uno Stato, a continuare a perseguire politiche “costituzionali”, cioè keynesiane, di sviluppo e occupazione?«Tolto il potere di chiedere a Bankitalia di finanziare il deficit, aggiunto il vincolo di pareggio di bilancio, lo Stato in pratica non può più intervenire nell’economia». Attenzione: «Quando lo Stato poteva creare moneta, il debito pubblico materialmente finiva per non essere un problema». Controllando la leva monetaria, lo Stato non poteva mai ritrovarsi senza soldi. Gli stessi titoli di Stato, aggiunge Grossi, non servivano certo a incamerare denaro: al contrario, erano soldi che lo Stato lasciava ai cittadini, «per impiegare tranquillamente i loro risparmi nella maniera meno rischiosa e più sicura possibile». Se invece viene tolta la sovranità monetaria, sottolinea Grossi, allora il rischio comincia a nascere: «Lo Stato, per ripagare i titoli, è obbligato o a prendere con le tasse i soldi dalle tasche di alcuni cittadini per ripagare chi ha i titoli, o a farseli prestare. Per vendere i titoli di Stato, poi, il tesoro si serve degli operatori specialistici, che sono Goldman Sachs, Jp Morgan, Morgan Stanley e così via. Anziché rivolgersi ai suoi cittadini che non sanno dove mettere i risparmi, si rivolge alle banche private che fanno aumentare i costi dello Stato».Solo una parte del debito italiano, comunque, è in mano a stranieri: 700 miliardi, su 2.341. Ma questo non cambia la situazione, «perché la maggior parte dei titoli è controllata da questo sistema finanziario». In pratica, «gli investitori ci prestano i soldi alle loro condizioni, e noi abbiamo il rischio spread. Un rischio che arriva dai mercati: non sta scritto in nessuna norma che dobbiamo averlo. E’ stata una scelta tecnico-amministrativa che non ci è mai stata raccontata. Di questa scelta – dice Grossi – dobbiamo liberarci». Mettendo il debito pubblico in mano agli investitori internazionali stranieri e non avendo possibilità di stampare moneta, aggiunge Grossi, lo Stato è costretto a farsi prestare i soldi da altri per pagare quegli investitori. «Ho rinunciato a farmi prestare anche i soldi dai cittadini, e dunque mi sono messo un cappio al collo. Voglio finanziare cose indispensabili per il paese? Sale lo spread, le agenzie di rating abbassano la qualifica dei nostri titoli e possono determinare eventi rischiosissimi e catastrofici. Se viene abbassato il rating molti investitori possono essere spinti a vendere i nostri titoli. E se tutti vendono, si svende».Alla fine può arrivare il default, scattare il meccanismo “salva-Stati” come in Grecia. «Cioè: arrivano, ci prestano i soldi e in cambio ci impongono le tasse, ci dicono cosa privatizzare, cosa vendere, cosa tagliare e chi licenziare, ci piaccia o no. Per questo bisogna rimettere ordine nella nostra ricchezza e modificare il meccanismo uscendo dal cappio». Lo Stato, spiega Grossi, oggi paga inoltre tassi d’interesse altissimi perché si rivolge ai mercati finanziari esteri. «Negli anni ’80 avevamo tassi nominali molto alti, pagavamo anche il 10,15 o 20%. Oggi invece paghiamo dall’1 al 3%». Sembra che ci abbiamo guadagnato, e invece ci abbiamo perso: quello che conta, infatti, è il tasso nominale meno il tasso d’inflazione. «Se ho un debito di 100, se in un anno pago il 10% ma l’inflazione sta al 15%, a fine anno non ho pagato 10, ho risparmiato 5. Perché il peso del mio debito è sceso del 5%. Questo indipendentemente dal livello dei tassi nominali».I problemi sono iniziati smettendo di chiedere i soldi ai risparmiatori italiani, «che si accontentano di un tasso al di sotto dell’inflazione perché vogliono semplicemente difendere il valore del capitale». Tradotto: se io perdo l’1% cento (inflazione) ma nessuno mi tocca il capitale, non mi preoccupo. «Se invece compro un prodotto di investimento in banca e nel momento stesso in cui lo prendo già mi hanno tolto il 4 o 5% (anni addietro addirittura il 10%) allora sì che corro dei rischi e devo preoccuparmi. E quando lo Stato sceglie di farsi prestare i soldi non più dai propri cittadini, che si accontentano di un piccolo tasso di interesse in cambio della sicurezza, e comincia a rivolgersi agli investitori istituzionali che per natura fanno gli speculatori, è per forza costretto a pagare di più». A loro sta bene rischiare un po’ di capitale, a differenza del cittadino risparmiatore, ma vogliono essere pagati molto di più in cambio del rischio. «Ed ecco che i tassi reali sono diventati positivi».Oggi in Italia c’è l’inflazione all’1,50. Il Btp trentennale rende il 3,55%, quindi lo stato paga il 2% reale. «Sembra una cifra bassa ma è altissima, perché basta che passi il tempo e il debito cresce a dismisura. E’ esattamente quanto è successo, anche se ci raccontano che abbiamo sperperato i soldi». Insiste Grossi: «Lo spreco vero sono i 10 milioni di italiani che potrebbero lavorare e non facciamo lavorare», proprio perché il “cappio” di questo debito – gonfiato dalla speculazione – ci lascia in bolletta, mentre l’Ue ci impedisce di fare deficit per investire sul lavoro. Risultato: grazie alle politiche “lacrime e sangue”, ai tagli e all’austerity, in questi ultimi anni il debito pubblico (che si diceva di voler tagliare) è continuato a salire. «Sale il debito, sale la povertà, sale la disoccupazione. E’ evidente che la direzione presa era completamente sbagliata». Il timido Def “gialloverde”, con quel 2,4% di deficit, è primo segnale di una possibile inversione di tendenza, finalmente: il deficit generarerà un aumento del Pil, dei consumi, dell’occupazione.Siamo nei guai, da quando «abbiamo consegnato direttamente ai mercati finanziari la possibilità di creare nuova moneta». A chi conveniva? A loro, l’élite finanziaria speculativa. Si sono fatti le leggi che volevano. E oggi l’establishment ci racconta che il deficit è una tragedia, e che i “mercati” sono i nostri unici, veri padroni. Lo ammette persino il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Siamo caduti in un colossale imbroglio, avverte l’ex manager Bnl Guido Grossi, intervistato da “Tiscali”. La buona notizia è che possiamo uscirne: primo passo, rimettere in debito in mani italiane, riattivando i Bot a breve scadenza su misura per i cittadini: «Bastano 200 miliardi per far svanire l’incubo dello spread. E l’Italia è ricchissima: 4.200 miliardi di risparmi, più 5.000 miliardi di patrimonio immobiliare». Ci si può allontanare anche rapidamente, dalle secche artificiose del rigore, a una condizione: che si sappia chi ci ha inguaiati, come funziona la trappola del debito “privatizzato” e a cosa serve. Ad accumulare soldi? Sbagliato: il vero obiettivo è fare incetta di beni pubblici, dopo averne fatto crollare il prezzo attraverso crisi pilotate.
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Pansa: ho paura per l’Italia, golpe in arrivo o guerra civile
Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero: l’apocalisse: il gioverno gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».Ad accogliere le clamorose esternazioni di Pansa, oltre all’attonita Gruber, Antonio Padellaro del “Fatto” e Marco Damilano de “L’Espresso”, il quale ammette che «l’attuale classe dirigente sollecita le frange estremistiche». Padellaro getta acqua sul fuoco, citando Ennio Flaiano: le barricate, gli italiani le fanno “coi mobili degli altri”. «Siamo in Italia: tutte le tensioni che verifichiamo ogni giorno poi si stemperano sempre in qualcosa che assomiglia al melodramma. Non scordiamoci che abbiamo attraversato persino le Brigate Rosse. E a proposito di complotti, abbiamo avuto la P2. Ricordando il passato, forse il presente ci appare meno drammatico». Pansa non concorda: per lui, Padellaro e il Fatto non hanno «gli occhiali giusti per vedere quello che succede davvero». Le Br? Le avremo anche “attraversate”, ma intanto «hanno ammazzato il politico più importante d’Italia, Aldo Moro, dopo averlo tenuto prigioniero per settimane in un “carcere del popolo” che gli apparati dello Stato facevano finta di non trovare». Flaiano? «Bella battuta, la sua, ma da caffè di via Veneto». La verità non è quella, sostiene Pansa: «C’è un odio profondo, che in Italia cova in tutti i ceti, anche in quelli che non consideriamo mai e chiamiamo ceti popolari: pensionati, casalinghe disperate, giovani che non trovano lavoro».Catastrofe imminente? «Io non vedo attorno a me un clima da guerra civile», protesta la Gruber. «Non lo vedi – replica Pansa – perché sei ancora agganciata all’oggi. Anch’io, se sto agganciato all’oggi, non vedo un clima da guerra civile, perché gli italiani pensano alle vacanze, alle donne, al modo di non pagare le tasse. Vorrebbero lavorare poco e guadagnare molto. Questo è un paese che non ha più spina dorsale». L’anziano giornalista, oggi 83enne, vede un odio dilagante e pericolosissimo, alimentato – più che da questo o quel partito – «dallo stato di fatto delle cose». Ammette: «Da un po’ di anni non vado più a votare, perché so che il mio voto verrebbe comunque sprecato: tutti i partiti sono screditati, la casta politica fa schifo». Insiste, Pansa: «Il governo di Di Maio finisce male perché è composto di prepotenti come Salvini o incompetenti che distruggeranno tutto: o finiscono male da soli o li faranno finire male altri». Il futuro è nero, sostiene il giornalista: «Non sono troppo pessimista, ho sempre visto verificarsi delle storie che non immaginavo si sviluppassero in quel modo». E aggiunge: «Quando succederà, la signora Lilli Gruber dirà: quella sera, quel vecchiaccio pessimista del “Giampa” aveva ragione».Fa impressione, ascoltare Giampaolo Pansa nelle vesti di profeta di sventure. Come giornalista fece storia, fin dagli esordi di “Repubblica”: in un’intervista, Enrico Berlinguer consumò il celebre strappo da Mosca (meglio la Nato che il Patto di Varsavia). Nel suo impareggiabile “Bestiario”, rubrica settimanale di Pansa su “L’Espresso”, trovavano posto l’Elefante Rosso e la Balena Bianca, impietosi ritratti del Pci e della Dc, colonne portanti del potere della Prima Repubblica. Ironico e tagliente, irriverente e sempre indipendente, Pansa, fino a dare scandalo con il saggio “Il sangue dei vinti”, bestseller da un milione di copie, vero e proprio tsunami capace di demolire i tabù della Resistenza raccontando le efferate vendette partigiane dell’immediato dopoguerra. Oggi, il vecchio Pansa appare smarrito di fronte ai confusi albori dell’ipotetica Terza Repubblica. Si rivolge a Lilli Gruber in modo affabile: «Tu sei una donna intelligente, una giornalista esperta, hai fatto politica, sei stata pure parlamentare europea». Già, ma la Gruber è anche ospite fissa del Gruppo Bilderberg, dettaglio che Pansa non cita. Gli altri due giornalisti nello studio di “Otto e mezzo” il 18 settembre? Damilano, punta di lancia del gruppo “Espresso-Repubblica”, è impegnato nel cannoneggiamento quotidiano del governo gialloverde, bombardando Salvini con accuse di xenofobia, razzismo e fascismo. Padellaro e il “Fatto”? Più indulgenti con i 5 Stelle, ma rigorosamente allineati all’impostazione neoliberista della narrazione economica: i tagli alla spesa sono sacrosanti, dogmi di fede.Da anziano veggente, come in una tragedia greca, Pansa-Tiresia vede che l’Italia si sta frantumando, ma è come se non sapesse leggere le cause della catastrofe in atto: una rivolta politica generalizzata, classificata comodamente sotto il nome di “populismo”, ma in realtà innescata dall’inaudito sfascio sociale prodotto dall’economia privatizzata “a tradimento” negli anni ruggenti di Pansa e colleghi. Quanti di loro videro davvero quel che si stava preparando? Quanti, tra gli allora fan di Di Pietro e Mani Pulite, si accorsero del summit a bordo del Britannia per la svendita del paese al capitale finanziario globalizzato? In quanti si accorsero del disastroso effetto del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, che trasformò il debito pubblico in tragedia nazionale? Da eterno battitore libero, oggi Pansa scorge – con angoscia – i sintomi di un malessere che potrebbe anche degenerare in brutalità palese. Ma è come se non avesse ancora metabolizzato la gravità degli eventi maturati nella storia recente, con il “golpe delle élite” che ci ha precipitato nella post-democrazia (ben prima dell’avvento del governo Conte). Se non altro Pansa parla per sé e racconta quello che gli sembra di vedere. Non è impegnato nella fabbricazione quotidiana del consenso, come i propagandisti di “Repubblica” e come la stessa Gruber, che oltre che “donna intelligente” e “giornalista esperta” è anche, di fatto, contigua agli architetti occulti della post-democrazia, gli “sciacalli” che hanno progettato l’attuale sfacelo – che, come dice Pansa, potrebbe anche far saltare in aria il paese.Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero l’apocalisse: il governo gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».
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Tutti più poveri, grazie alle privatizzazioni imposte all’Italia
La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.L’ultima rilevazione Ocse ci informa che, mentre nel nostro paese la pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, paesi con una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – paese tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato – il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda prevalentemente individui con elevata scolarizzazione. In più, la convinzione che i dipendenti pubblici siano ben retribuiti e godano di eccesso di protezioni è palesemente smentita sul piano empirico. L’Istat registra un aumento della retribuzione oraria netta del 21% su base annua per i lavoratori del settore privato, a fronte di incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si calcola che la gran parte dei contratti a tempo determinato sono somministrati dalla pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti pubblici, in media, guadagnano meno dei loro colleghi del settore privato e sono più frequentemente assunti con contratti precari.Per quanto riguarda la produttività del lavoro nel settore pubblico, pure a fronte delle rilevanti difficoltà di misurazione, e pur volendo accettare la tesi che questa è più bassa rispetto al settore privato, occorre ricordare che l’operatore pubblico svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che William Baumol definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle quali (si pensi ai servizi alla persona) risulta impossibile generare avanzamento tecnico e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso, se anche si ritiene che il ‘merito’ del singolo lavoratore sia misurabile e che lo sia anche nei servizi nel settore pubblico, da ciò non si può immediatamente dedurre che questa conclusione discende dal basso rendimento degli occupati, potendo più realisticamente dipendere dalla bassa accumulazione di capitale. Si calcola anche che il tasso di assenteismo dei lavoratori del settore pubblico italiano è in linea con la media europea. I fautori delle privatizzazioni sostengono che l’operatore privato è sempre più efficiente dell’operatore pubblico. Lo Stato deve limitarsi a creare le condizioni necessarie affinché l’esercizio della libertà d’impresa avvenga nel rispetto delle norme e dei contratti vigenti.Nella fattispecie della società Autostrade, si propone (così Confindustria) l’istituzione di una commissione che esamini le concessioni e vigili sullo svolgimento del servizio. Non si ammette quello che si considera il ritorno ai “carrozzoni di Stato”. Per contro, i fautori delle nazionalizzazioni ritengono che possa essere solo lo Stato a svolgere funzioni di interesse generale e, nel caso della società Autostrade, propongono (in linea con il governo) la revoca della concessione. Quest’ultima posizione è condivisibile, se non altro per come è stato gestito il processo di privatizzazione in Italia, con una puntualizzazione, che riguarda la selezione dei nostri manager pubblici. Si tratta di una questione pressoché ignorata, ma rilevante. Su fonte ministero dell’economia e delle finanze, risulta che l’Italia ha pochi dirigenti pubblici, molto meno dei principali paesi europei. Risulta anche che sono mediamente più anziani. Soprattutto risulta assente una scuola di alta formazione, come esiste in altri paesi europei (si pensi al caso francese).Vi è di più. La lunga stagione delle privatizzazioni – durata almeno un ventennio in Italia, nella sostanziale assenza di voci critiche – coincise con la cosiddetta svolta neoliberista e con la convinzione che oltre a generare maggiore efficienza, la cessione di asset pubblici a privati fosse necessaria per aumentare il gettito fiscale e generare avanzi primari. Le privatizzazioni – intenzionalmente o meno – servivano anche ad accrescere le diseguaglianze distributive, sia per l’aumento delle tariffe, sia perché – e per conseguenza – l’accesso a servizi privati è più difficile per i percettori di redditi bassi. Si riteneva che l’aumento delle diseguaglianze fosse un motore di crescita attraverso i cosiddetti effetti di sgocciolamento: i ricchi, in quanto più produttivi (per ipotesi), contribuiscono maggiormente alla crescita economica, rendendo successivamente possibili misure di trasferimento a vantaggio dei più poveri. La redistribuzione a vantaggio dei più ricchi si è verificata, lo sgocciolamento no.La convinzione per la quale le privatizzazioni servono ad aumentare le entrate fiscali e a generare crescita è molto problematica e, nei fatti, sembra essere falsa. Ciò a ragione del fatto che, per definizione, esse implicano – come si è verificato in Italia – una riduzione delle dimensioni del settore pubblico. Come certificato dall’Inps, il primo effetto (ovvio e prevedibile) derivante dalla riduzione del numero di dipendenti pubblici è proprio la riduzione delle entrate fiscali. Il privato può più facilmente evadere o eludere. Il secondo (altrettanto prevedibile) risultato consiste nell’accentuazione della caduta della domanda interna, per il tramite dei minori consumi derivanti dalla decurtazione dei redditi nel pubblico impiego. Il terzo risultato è il peggioramento della qualità dei servizi offerti, come conseguenza (anch’essa ovvia) della riduzione del numero di occupati.(Guglielmo Forges Davanzati, “Alcuni effetti indesiderati delle privatizzazioni in Italia”, da “Megachip” del 21 agosto 2018).La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.
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Dignità o velleità: moneta di Stato per le riforme gialloverdi
Il Decreto Dignità, incontestabile come affermazione morale, incontra lo sfavore del mondo imprenditoriale e può avere effetti controproducenti sull’occupazione perché fa aumentare il costo del lavoro e i vincoli per gli investitori (ossia, per i capitalisti). Anche il reddito di cittadinanza, già ridotto da tempo a sussidio di disoccupazione, e assieme ad esso la Flat Tax, già spezzata in due aliquote, sembrano rinviati a quei soliti tempi migliori che non si sa quando arriveranno. Così i rivoluzionari progetti economici del nuovo governo minacciano di svaporare contro i vincoli della realtà esterna, e di tradursi in delusione e scontento. Quei progetti sono stati lanciati nella campagna elettorale senza fare i conti con l’oste, e ora possono diventare un boomerang. Vi è una via per evitare questo flop. Il primo passo è far capire alla gente che ciò impedisce la realizzazione di quei progetti, come pure di un ancora più importante piano di investimenti infrastrutturali per il rilancio della produttività e dell’occupazione, sono gli stessi principi imposti come cardini dell’attuale sistema economico-finanziario globale (prima ancora che europeardo).E’ a tali principi che devono essere rivolte, pertanto, la pubblica attenzione, la critica scientifica, la denuncia sociale ed etica, e l’azione politica riformatrice. Primo principio: la funzione, che è politica e sovrana, quindi pubblica, di creare la moneta, cioè il capitale finanziario, è esercitata da soggetti privati, come pure quella di collocarla e di stabilire rating, tassi etc., e ciò viene fatto secondo la loro privata convenienza di profitto, senza responsabilità verso l’interesse generale. Secondo principio: i capitali, le merci e le imprese si spostano più o meno liberamente intorno al mondo, perlopiù senza barriere daziarie o di contingentamento; questo pone i lavoratori dei paesi occidentali in concorrenza con quelli di paesi che applicano condizioni di sfruttamento radicale dei lavoratori anche in fatto di previdenza e di antiinfortunistica; contemporaneamente, l’immigrazione di massa li pone altresì in concorrenza con una mano d’opera pronta a svendersi nel loro stesso paese.Terza caratteristica: i paesi dell’area del dollaro e in ogni caso l’Italia sono sottoposti a un modello economico finanziarizzato, basato a) sulla rincorsa dell’attivo primario del bilancio pubblico, che si scarica sui contribuenti, sui servizi pubblici, sugli investimenti; b) sulla rincorsa dell’attivo della bilancia commerciale (sulla competizione nelle esportazioni), e insieme sulla difesa di un alto rapporto di cambio; e le due cose si scaricano sui salari, imponendone la riduzione per mantenere la competitività in ambito internazionale, con conseguente depressione della domanda interna; inoltre, realizzare avanzi primari significa che lo Stato toglie dall’economia più denaro di quanto ne immette, ossia che abbassa il livello di liquidità, quindi di solvibilità. Con queste premesse, è ovvio che non si possano fare i provvedimenti fiscali e gli investimenti necessari e utili, nel medio termine, per la crescita, perché i vincoli di bilancio e il rating (condizioni di finanziabilità dei governi, fissate sul brevissimo termine) non lo permettono.Ovvio è altresì che il capitale finanziario e gli imprenditori validi si dirigano verso imprese e paesi in cui la loro rimunerazione è maggiore perché sono i più efficienti nella produzione, oppure perché consentono uno sfruttamento più radicale dei lavoratori e la libera esternalizzazione sulla società e sull’ambiente delle componenti nocive del processo produttivo (infortuni, inquinamento…); sicché, se per legge lo Stato, in nome della dignità e della stabilità del lavoro, introduce vincoli o tutele che rendano meno interessante per il capitale investire in quelle industrie e in quel paese, il capitale defluirà da quelle Industrie da quel paese lasciando disoccupazione. Perciò se si vuole tutelare effettivamente sia la dignità del lavoro che i livelli occupazionali, che l’ambiente, è indispensabile cambiare i tre suddetti principi, incominciando con il recupero da parte degli Stati della sovranità monetaria per assicurare loro il rifornimento di moneta (la capacità di pagare sempre il proprio debito e di finanziare il proprio bilancio facendo gli investimenti necessari alla crescita e di pagare il debito pubblico), sottraendoli al ricatto monetario dei banchieri speculatori privati internazionali e ai golpe mediante spread.Bisognerà inoltre creare barriere protezionistiche contro la concorrenza sleale in modo che i lavoratori del proprio paese non si trovano esposti alla concorrenza di lavoratori sottoposti a condizioni schiavistiche in paesi in cui il capitale riesce a scaricare completamente sulla popolazione generale e sull’ambiente le proprie esternalità. In terzo luogo, bisognerà cambiare il modello generale dell’economia sopra descritto, mirato sui surplus commerciali, anche perché la rincorsa di tale surplus è in se stessa illogica dato che la somma dei saldi delle bilance commerciali è ovviamente zero. Come primo passo per recuperare la sovranità monetaria, e ridare liquidità al sistema. Qualora non si arrivi direttamente alla fine dell’Eurosistema o a una sua radicale e benefica riforma, suggerisco al governo l’introduzione di un mezzo monetario nazionale interno, una sorta di seconda moneta – ma non denominata come moneta – emesso magari da una rete di banche appositamente costituite, che lo creano prestandolo (come avviene con le normali banche di credito) ma lo accreditano non su un conto proprio, bensì su un conto dello Stato, e poi lo prendono a prestito dallo Stato a modico interesse per prestarlo ai clienti applicando un interesse maggiore.Quella sopra da me delineata è una campagna innanzitutto culturale, di informazione e comunicazione generale – e nella capacità di comunicazione abbiamo due eccellenze: una in Salvini e un’altra, in generale, nelle Stelle. In secondo luogo, deve diventare una campagna europea e possibilmente non solo europea, e a questo fine ben si presta l’iniziativa salviniana della Lega delle Leghe. Se non si riesce a informare-comunicare all’opinione pubblica e a internazionalizzare questa campagna, i suddetti progetti economici verranno soffocati e resi velleitari dalle stesse dimensioni della dottrina economica mainstream – e Mattarella, con Tria, traghetterà l’Italia attraverso una brevissima stagione “populista” per consegnarci nelle mani di Macron-Rothschild, di Soros e della Merkel o di chi per lei.(Marco Della Luna, “Dignità e velleità, come salvare le riforme politico-fiscali del governo”, dal blog di Della Luna del 6 luglio 2018).Il Decreto Dignità, incontestabile come affermazione morale, incontra lo sfavore del mondo imprenditoriale e può avere effetti controproducenti sull’occupazione perché fa aumentare il costo del lavoro e i vincoli per gli investitori (ossia, per i capitalisti). Anche il reddito di cittadinanza, già ridotto da tempo a sussidio di disoccupazione, e assieme ad esso la Flat Tax, già spezzata in due aliquote, sembrano rinviati a quei soliti tempi migliori che non si sa quando arriveranno. Così i rivoluzionari progetti economici del nuovo governo minacciano di svaporare contro i vincoli della realtà esterna, e di tradursi in delusione e scontento. Quei progetti sono stati lanciati nella campagna elettorale senza fare i conti con l’oste, e ora possono diventare un boomerang. Vi è una via per evitare questo flop. Il primo passo è far capire alla gente che ciò impedisce la realizzazione di quei progetti, come pure di un ancora più importante piano di investimenti infrastrutturali per il rilancio della produttività e dell’occupazione, sono gli stessi principi imposti come cardini dell’attuale sistema economico-finanziario globale (prima ancora che europeardo).
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Della Luna: ci tocca smascherare l’Ue e attaccare per primi
«Il governo Salvini-Di Maio rischia di essere mitragliato, se resta a metà del guado». Gli interessi economici che stanno dietro Ue e Bce – scrive Marco Della Luna – già si muovono per denigrare, delegittimare e sgambettare il nuovo governo, nato dalla resistenza al loro potere e alle loro pratiche. «Cercheranno di coglierlo in fallo, di tendergli agguati, di dividerlo comprandone parti, e di farlo cadere, così da completare la sottrazione dell’autonomia politica e delle risorse economiche delle nazioni, iniziando con quelle più vulnerabili e incravattabili, come l’Italia». Perciò questo governo «può vincere la partita solo se attaccherà per primo», ovvero: se, dopo la fase di insediamento, «metterà a nudo e delegittimerà quegli stessi interessi prima i essere fatto fuori da essi, rovesciando il loro tavolo». Quindi, secondo Della Luna, deve «smettere di fare l’europeista benpensante, sostituire i corpi estranei al suo interno e cantar chiara la verità a quella gente che dovrà sostenere il contrattacco dei “mercati” (della Bce, dell’Eurogruppo, del rating)». Il governo gialloverde «dovrà anche lavorare – assieme agli altri governi “populisti” e agli Usa – non a riformare un ordinamento eurocratico (Ue, euro) che non è riformabile perché è nato proprio per quello che sta facendo, e neppure a prepararsi per uscire da esso unilateralmente – cosa che sarebbe devastante – ma invece a farlo crollare così da liberarsene tutti, per ritrovare la libertà politica, il diritto dei cittadini a un voto effettivo, e usarla per costruire un’Europa diversa (se possibile), cioè per le nazioni e non per gli usurai e per gli autocrati irresponsabili».Secondo Della Luna, è necessario che il governo Conte si ritiri anche dal Trattato di Velsen, «per prevenire che, in caso di caduta del governo e di sommosse popolari più o meno spontanee, ci arrivi la polizia militare antisommossa Eurogendfor a reprimere e a instaurare la dittatura degli usurai stranieri». Se Lega e 5 Stelle indugeranno invece a metà del guado, senza spiegare chiaramente ciò che è l’Unione Europea, che interessi serve e che scopo ha, fingendo che essa sia rinegoziabile e riformabile, che possa diventare “democratica” anziché autocratica, allora – insiste Della Luna – quei medesimi interessi «li faranno fuori con attacchi mediatici, giudiziari e finanziari – come hanno fatto fuori tutti coloro che cercarono di portare avanti una politica di interesse nazionale italiano: Mattei, Moro, Craxi». La chance dei gialloverdi – ripete l’avvocato Della Luna, autore di saggi assai critici sull’euro-sistema – sta in questo: «Delegittimare, prima di essere delegittimati e poi rottamati». In sintesi: «Se continueranno a lungo a fare i moderati per farsi accettare, sono fritti. O attaccano l’Ue e l’euro, e fanno la storia; oppure si allineano per le poltrone». Scoprire i giochi – aggiunge Della Luna – significa iniziare a spiegare all’opinione pubblica quello a cui l’Europa è servita – ad esempio raccontando, come ha fatto D’Alema, che la Bce prestava i soldi allo 0,75% ai banchieri francesi e tedeschi, i quali a loro volta usavano quel denaro per comprare i titoli del debito pubblico greco che pagavano il 15% di interesse «e corrompevano i governanti greci affinché facessero debito pubblico anche per comprare prodotti tedeschi come le navi da guerra».La storia è tristemente nota: quando la Grecia non ce l’ha più fatta a pagare gli interessi usurari, «l’Unione Europea ha imposto all’Italia e ad altri paesi di prestare soldi alla Grecia a un tasso inferiore a quello a cui li prendevano prestito – non per aiutare la Grecia, ma per far realizzare ai predetti banchieri i loro incassi usurari, anziché arrestarli (modelli analoghi sono stati applicati a Spagna, Portogallo, Irlanda)». Questo, aggiunge Della Luna, è quello che ha fatto innanzitutto Monti, tassando i beni immobili e facendone crollare il valore di circa un terzo, cioè di circa 2.000 miliardi, «che sono stati distrutti come patrimonio nazionale; e per far questo egli era stato messo a Palazzo Chigi e nominato senatore a vita». Ergo, «bisogna far capire alla gente che l’Ue è una costruzione progettata e realizzata dagli usurai per realizzare una usura radicale fino al totale svuotamento dei risparmi e degli assets dei paesi sottomessi». Per questo, secondo l’avvocato, il potere di Bruxelles «non è riformabile». Negoziare? Serve solo a «far emergere più visibilmente la sua non-riformabilità». Discorsi ieri impossibili da proporre, ma oggi non più: «Credo che gli ultimi avvenimenti abbiano predisposto l’opinione pubblica a capire», sostiene Della Luna, citando il caso di Mattarella: bocciando l’euroscettico Savona sotto pressione dell’Ue e della Bce, il Quirinale «ha fatto percepire come, riforma dopo riforma, senza che fosse dichiarato, il paese è stato portato a una degradata condizione di dipendenza e sottomissione a interessi esterni, tale da impedirgli di uscire dalla rotta prestabilita e da vanificare quindi la volontà del suo elettorato».Giuseppe Conte è in precario equilibrio tra “rassicuratori” euro-allineati e fautori dello strappo con l’Ue? Finora non ha chiarito quali misure adotterà in concreto, qualora i partner europei egemoni rifiutassero di rinegoziare i trattati, a cominciare da quelli sull’euro e sui migranti. «Se si va a trattative senza prospettare contromisure in caso di indisponibilità della controparte, non si ottiene un fico secco», taglia corto Della Luna. «Lega e 5 Stelle non hanno per il momento spiegato agli italiani che la situazione di sudditanza e squilibrio a danno dell’Italia, che essi vogliono cambiare rinegoziando i trattati comunitari, non si è creata per errore o per accidente». E’ stata invece «creata deliberatamente e programmaticamente, da precisi interessi, secondo un itinerario prestabilito molto tempo fa». Sicché, per cambiare le regole serve una forza superiore a quella che sostiene gli interessi contrari all’Italia. Dov’è questa forza? «Può venire solo da un’operazione di smascheramento del progetto eurocratico, che si colleghi a una ribellione concertata col gruppo di Visegrad, con l’Austria, con gli Usa». Un’operazione «diretta ad abbattere l’Ue e l’euro», bonificando il sistema da «speculatori e nuovi kapò franco-tedeschi».Secondo Della Luna, la nuova maggioranza «sta lasciando inespressa, non comunicata e non proposta al dibattito pubblico, la dinamica di fondo, in cui si colloca anche l’insieme delle caratteristiche nocive della costruzione comunitaria». La coalizione gialloverde «non ha ancora detto alla gente che, semplicemente, le cose che non vanno bene non sono venute in essere perché le hanno volute i tedeschi oppure una lobby di banchieri internazionali oppure di tecnocrati a Bruxelles». Salvini e Di Maio non hanno ancora detto a chiare lettere che queste regole-capestro «servono e corrispondono all’interesse del capitale finanziario internazionale che guida i processi di riforma». Per massimizzare il proprio potere e per conformare il mondo e le società e ai propri interessi, il neoliberismo ha bisogno precisamente di questo, «ossia di creare una dipendenza unilaterale della politica, delle nazioni e delle singole persone (togliendo loro le scelte politiche e lasciando esistere un simulacro di democrazia solo finché rimane nei binari voluti dal capitale) dal cartello bancario privato che produce e concede moneta e credito». Risultato raggiunto «togliendo agli Stati la sovranità monetaria e sottoponendoli alla pressione irresistibile del rating del loro debito pubblico». La ricetta di Della Luna? Denunciare il mostro, e attaccare per primi.«Il governo Salvini-Di Maio rischia di essere mitragliato, se resta a metà del guado». Gli interessi economici che stanno dietro Ue e Bce – scrive Marco Della Luna – già si muovono per denigrare, delegittimare e sgambettare il nuovo governo, nato dalla resistenza al loro potere e alle loro pratiche. «Cercheranno di coglierlo in fallo, di tendergli agguati, di dividerlo comprandone parti, e di farlo cadere, così da completare la sottrazione dell’autonomia politica e delle risorse economiche delle nazioni, iniziando con quelle più vulnerabili e incravattabili, come l’Italia». Perciò questo governo «può vincere la partita solo se attaccherà per primo», ovvero: se, dopo la fase di insediamento, «metterà a nudo e delegittimerà quegli stessi interessi prima i essere fatto fuori da essi, rovesciando il loro tavolo». Quindi, secondo Della Luna, deve «smettere di fare l’europeista benpensante, sostituire i corpi estranei al suo interno e cantar chiara la verità a quella gente che dovrà sostenere il contrattacco dei “mercati” (della Bce, dell’Eurogruppo, del rating)». Il governo gialloverde «dovrà anche lavorare – assieme agli altri governi “populisti” e agli Usa – non a riformare un ordinamento eurocratico (Ue, euro) che non è riformabile perché è nato proprio per quello che sta facendo, e neppure a prepararsi per uscire da esso unilateralmente – cosa che sarebbe devastante – ma invece a farlo crollare così da liberarsene tutti, per ritrovare la libertà politica, il diritto dei cittadini a un voto effettivo, e usarla per costruire un’Europa diversa (se possibile), cioè per le nazioni e non per gli usurai e per gli autocrati irresponsabili».
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Pallante: come salvarci dalla catastrofe globale della crescita
Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.L’unica terapia? Fermare la crescita tumorale delle merci. Serve qualcosa di enorme, paragonabile alla Rivoluzione Industriale, ma di segno opposto. Valori da capovolgere: il “tanto-avere” è il grande nemico del “ben-essere”. Nel suo ultimo saggio, che definisce “un manifesto politico e culturale”, Pallante denuncia il capitalismo industriale degli ultimi 250 anni. Una forza tellurica eversiva, segnalata da Marx come pericolo: se prima il denaro era solo un mezzo per scambiare merci, è diventato l’unico fine dell’intero ciclo economico. E’ Keynes, nel 1931, il primo a parlare di “disoccupazione tecnologica”: scopriamo sempre nuovi sistemi per «risparmiare forza lavoro», senza riuscire a ricollocarla. Succede perché siamo avidi, dice Pallante: riducendo l’orario di lavoro, l’innovazione di processo non comprometterebbe l’occupazione. Al contrario: sarebbero le macchine a lavorare per noi. Il guaio? Il nostro obiettivo non è vivere bene, in armonia con gli altri e con il pianeta. Vogliamo solo avere tanti soldi, costi quel che costi. Alle conseguenze, semplicemente, non pensiamo: la guerra sociale, la predazione globale delle risorse, il collasso della biosfera. Il paziente è grave: consuma più di quanto la Terra possa dargli. Ogni anno la “deadline” si accorcia: prima del Duemila la linea rossa veniva superata a ottobre, poi a settembre. Ora siamo “in riserva”, ogni anno, già dal mese di luglio.Non ci vuole un indovino per intuire che di questo passo andremo a sbattere. L’emissione di anidride carbonica non smaltibile dalla fotosintesi vegetale è quasi raddoppiata, sugli oceani galleggiano “continenti” di plastica, il pesce s’è dimezzato, il clima terrestre sta per raggiungere i 2 gradi sopra la soglia di sicurezza. E non abbiamo ancora visto niente: si calcola che interi paesi, come il Bangladesh, saranno sommersi. Noi che facciamo? Niente. Anzi, peggio: acceleriamo la corsa verso lo schianto. La globalizzazione violenta del mercato, dice Pallante, riproduce su scala mondiale quanto avvenne con la Rivoluzione Industriale: masse ingenti di contadini e artigiani sradicate dai loro territori e trasformate in folle di profughi economici. Obiettivo: accrescere la platea dei consumatori di merci superflue. Esaurite le capacità dell’Occidente, si punta al resto del mondo. Interi continenti da depredare di materie prime a basso costo, attraverso guerre coloniali permanenti. Decine di paesi devastati, dai quali non resta che scappare. Il sistema li accoglie a braccia aperte, i migranti che ha messo in fuga: diventeranno nuovi consumatori e contribuenti, in termini di tasse e versamenti pensionistici, senza contare il loro sfruttamento schiavistico e il business criminale che specula sull’accoglienza, mortificando la solidarietà di migliaia di volontari.Proprio la mano tesa, offerta ai rifugiati, rivela che la vittoria del mostro (da noi stessi alimentato ogni giorno) non è ancora definitiva. Sopravvivono religioni, cresce a vista d’occhio la fame di spiritualità. In modo spesso confuso, si va in cerca di valori. «Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci e appiattito gli esseri umani sulla dimensione materialistica – scrive Pallante – la valorizzazione della dimensione spirituale è un atto di disobbedienza civile». Consente di recuperare la solidarierà «non solo tra gli esseri umani, ma tra tutti i viventi», e arricchisce la pulsione all’uguaglianza di un profilo anche esistenziale. Cosa manca? Una politica, capace di aggregare milioni di individui per invertire il corso degli eventi, scongiurando la catastrofe. Destra e sinistra? Un lungo equivoco. E’ lo stesso Hayek, nume tutelare dei criminali architetti dell’austerity europea, a chiarire che il liberalismo non è stato conservatore, ma rivoluzionario. La sinistra ha arrancato dietro al capitale, cercando solo di distribuirne i profitti in modo più largo. Ma, secondo Pallante, persino l’ossigeno del deficit teorizzato da Keynes è controproducente: siamo al punto in cui – come predetto dal Club di Roma, cioè dal Mit di Boston – ogni espansione dei consumi ci accorcerebbe ulteriormente la vita.Come se ne esce? In un solo modo: tagliando il Pil. Decrescita infelice? No: selettiva. Nel mirino, gli sprechi. Non la barzelletta delle auto blu, ma cifre spaventose, che valgono intere finanziarie: la sola riconversione ecologica degli edifici farebbe crollare di 2/3 la spesa energetica nazionale, creando un oceano di posti di lavoro (utili) e abbattendo in modo vertiginoso l’impatto ambientale. Nel gelido Nord Europa c’è chi vive in “case passive” tecnologicamente avanzate, senza riscaldamento convenzionale, a emissioni zero. Noi invece siamo ancora impelagati nelle guerre geopolitiche per i gasdotti, come se vivessimo all’inizio del ‘900. Le ultime elezioni italiane hanno rottamato la vecchia politica e in particolare la sinistra? Ovvio: proprio la sinistra ha abbandonato i territori che storicamente si era candidata a tutelare. In ordine sparso, si va organizzando localmente un arcipelago di comunità fondate sulle filiere corte, ancora senza rappresentanza istituzionale. Riuscirà a nascere un partito che punti alla sostenibilità dell’economia, anziché all’impossibile “sviluppo sostenibile”? Matematica: benché “sostenibile”, cioè con minor impatto immediato sull’ecosistema, qualsisasi “sviluppo” (crescita illimitata) diventa comunque insostenibile alla distanza, perché farà crescere consumi superflui e veleni.«E’ l’equivoco delle rinnovabili: sono meno impattanti oggi, ma quell’energia “verde” aggraverà il bilancio ecologico domani, se ci sarà ancora “sviluppo”». L’alternativa? Vivere benissimo e diventare tutti ricchissimi: non per forza di denaro, ma di beni (prodotti con “valore d’uso”, anziché merci “usa e getta”). Nel suo libro – densamente argomentato e documentato, numeri alla mano – Pallante ammette che il suo pensiero è necessariamente eretico, di fronte al non-pensiero del “mercato”. «La decrescita selettiva degli sprechi – insiste – è l’unica via d’uscita a una crisi che da troppo tempo genera problemi al sistema economico e sofferenze umane gravissime». Mentre la disoccupazione ci devasta, nessuno mette in cantiere le attività utili, quelle adatte ad affrontare la crisi sociale e l’emergenza ambientale. «Una società che non fa lavorare chi vorrebbe farlo e non commissiona i lavori più necessari, che ripagherebbero i loro costi con i risparmi che consentono di ottenere, è profondamente malata. E la sua malattia è causata dalla diffusione dell’idea assurda che lo scopo dell’economia sia la crescita del Pil. Prima ce ne liberiamo e meglio sarà».Inutile spiegarlo agli oligopolisti del denaro, i ras della finanza che stanno schiantando il pianeta alla velocità della luce. Dovranno essere i molti, non i pochi, a disertare dall’esercito del Pil, additando questo “sviluppo” come il vero nemico di un’umanità ancora intenzionata ad abitare la Terra. E’ in arrivo un cataclisma definitivo o sarà ancora possibile metter mano al nostro destino, fermando la corsa verso il baratro? Dipende da noi, secondo Pallante, che intanto propone di uscire dal grande imbroglio della fiction mainstream. Svegliarsi: rottamare il culto di vocaboli-totem come progresso, modernità e innovazione. Continuare a scambiarli per sinonimi di miglioramento, sostiene, significa restare prigionieri di un inganno saguinoso, ormai esiziale per le sorti della società e del pianeta. Tornare all’antico? Al contrario: «Occorre utilizzare l’enorme patrimonio scientifico e tecnologico delle società industriali», non più per incrementare la produttività e la produzione di merci, ma «per sviluppare le tecnologie che aumentano l’efficienza con cui le risorse della Terra vengono trasformate in beni». Raffinate tecnologie, che riducono gli sprechi, tagliano le emissioni e recuperano i rifiuti.Oggi, insiste Pallante, difendere la democrazia significa affrontare i problemi creati dalla gobalizzazione: «Occorre porre al centro della politica economica l’autosufficienza alimentare ed energetica». Filiere corte, dall’energia al cibo. Parola d’ordine: «Rilocalizzare tutte le attivitù produttive che rispondono ai bisogni fondamentali della vita e possono essere svolte più vantaggiosamente a livello nazionale che a livello globale». Settori d’impiego teoricamente infiniti: basterebbe «ristrutturare ecologicamente il patrimonio edilizio, rinaturalizzare il paesaggio, ripulire i fiumi, rifare le reti idriche che perdono mediamente il 65% dell’acqua». Solo così, conclude Pallante, si può rianimare l’economia creando lavoro “utile”, che risana l’ecosistema. Serve un nuovo umanesimo, un patto tra comunità consapevoli: «Occorre ridare slancio alla convinzione che il lavoro di ognuno può contribuire in maniera determinante al benessere di tutti», restituendo un futuro ai giovani e alle generazioni a venire. Utopia? Sì, necessaria e urgente. Non c’è più tempo per i sogni, serve una politica operativa basata su un paradigma opposto a quello della crescita, cieca e suicida. Anche perché l’alternativa è già scritta: siamo noi, il famoso tonno da tagliare con un grissino.(Il libro: Maurizio Pallante, “Sostenibilità equità solidarietà”, sottotitolo “Un manifesto politico e culturale”, Lindau, 185 pagine, 16 euro).Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.
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Della Luna: noi e il cantiere (zootecnico) del pensiero unico
Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.Il dissenso rispetto all’ortodossia, e la stessa libera indagine scientifica e storica di quelle credenze, scrive Della Luna nel suo blog, sono atteggiamenti inammissibili, «sanzionati con la delegittimazione morale, il boicottaggio della carriera, la discriminazione amministrativa, l’esclusione dei media, dall’insegnamento, dall’editoria, quando non anche da conseguenze penali». I dati di fatto smentiscono l’ortodossia? Non importa: «Vengono taciuti all’opinione pubblica, soprattutto nei campi chiave per l’orientamento del pensiero e della sensibilità collettivi, della concezione generale della realtà, del consenso politico, della legislazione e della giurisdizione». Anche la ricerca scientifica è «condizionata, limitata e incanalata attraverso il controllo finanziario della stampa specialistica, delle università, della ricerca, dell’editoria». Per Della Luna, avvocato e saggista, si è così ottenuta una sostanziale limitazione della libertà di ricerca, di insegnamento, di informazione pubblica – limitazione che, di fatto, «previene grande parte del possibile dissenso». Attenzione: «L’imposizione di un’ortodossia è incompatibile con la scienza, perché la scienza procede proprio per continua revisione, verificazione, falsificazione, ed è incompatibile con l’indiscutibilità». Dunque, l’ortodossia «serve a proteggere dal controllo scientifico le credenze che sostengono posizioni di privilegio e sfruttamento».E’ un sistema basato sul dominio, con i suoi guardiani: «Le posizioni politiche che mettono in luce e contestano il trend di progressivo trasferimento dei redditi e della ricchezza dai lavoratori alla finanza improduttiva – scrive Della Luna – sono tutte etichettate, dalla grande comunicazione, come populiste-estremiste, se non peggio», mentre sono definiti “di sinistra” partiti come il Pd in Italia, che «difendono la concentrazione dei redditi e del potere politico nelle mani dei grandi banchieri, quando non sono addirittura diretti da figli di banchieri molto discutibili o addirittura incriminati». Secondo Della Luna, «l’uomo non è una grande risorsa per i suoi ideali di giustizia, verità, libertà: pur di non guardare in faccia la realtà e non doversi addossare responsabilità, la maggior parte della gente adotta credenze assurde e rinuncia alla libertà, arrivando a pagare, a stordirsi, a compiere cose degradanti». C’è chi vorrebbe suscitare un movimento rivoluzionario e moralizzatore? Vorrebbe puntare sulla diffusione della conoscenza, illuminando decisivi aspetti della realtà? Tutte illusioni, sostiene il pessimista Della Luna.Siamo tornati all’antico potere sacerdotale, avverte il saggista: «I cleri di molte civiltà si arricchivano e acquisivano potere politico facendo credere al popolo che, per far sì che gli dèi mandassero la pioggia e proteggessero dalle pestilenze e dalle carestie, bisognasse fare grandi donazioni in sacrificio ai templi e obbedire ai grandi sacerdoti». Oggi, afferma Della Luna, svolge una funzione analoga «la credenza istituzionalizzata (cioè la religione) della scarsità della moneta e della indispensabilità per gli Stati di indebitarsi per finanziarsi». Nel saggio “Pensare altrimenti”, il filosofo Diego Fusaro scrive che il capitalismo finanziario, per realizzare il proprio sistema di profitto, ha necessità di farsi pensiero totalitario, unico, quindi di eliminare ogni identità umana differenziale e ogni valore diverso da quelli di scambio, così come ogni vincolo morale, comunitario, etnico, culturale e spirituale, insieme a ogni concezione alternativa dell’uomo e dell’ordinamento esistente, perché ostacolerebbero la “onnimercificazione” e la immediatezza del business.Il nuovo business, aggiunge Fusaro, vuole che ogni qualità sia riducibile a quantità, e che tutto e tutti siano costantemente disponibili on line per le operazioni di mercato (e di sorveglianza), in un processo di omogeneizzazione e riduzione del qualitativo al quantitativo che ammette solo i flussi di scambio, non i soggetti che se li scambiano. Questo produce un effetto ultimamente entropizzante e mortifero, cioè nullificante: «Illumina l’accostamento che Fusaro fa di questo processo all’avanzare del Nulla che divora il fantastico mondo del famoso film “La storia infinita”», annota Della Luna. Per compiere questa eliminazione, soprattutto nei cosiddetti “gloriosi 30” (i decenni della grande crescita e redistribuzione economica «apparentemente democratica»), il sistema ha sviluppato in modo pianificato «la demolizione della consapevolezza di classe attraverso il consumismo: col quale le classi subalterne hanno assimilato i valori di quelle dominanti e si sono moralmente neutralizzate nonché politicamente castrate».Al contempo, ha prodotto la relativizzazione e l’inversione dei valori e delle istituzioni tradizionali, «assieme a un complesso processo di censura e “tabuizzazione del dissenso”, del pensiero diverso (circa le cose che contano, soprattutto degli scopi dell’esistenza) e delle stesse parole che servono per esprimere la critica al capitalismo finanziario». Imperialismo, colonialismo, plutocrazia, conflitto servi-padroni: «Sono vocaboli fondamentali per rappresentarsi le operazioni e le realtà del nostro mondo», in cui le guerre di conquista per il petrolio e le altre risorse, e per l’imposizione del dollaro come moneta obbligata degli scambi di materie prime, «vengono legittimate come esportazione della democrazia, lotta al terrorismo e tutela dei diritti dell’uomo». Parole necessarie, continua Della Luna, e quindi «tolte dalla comunicazione per l’opinione pubblica, e sostituite con altre parole opportunamente scelte». E’ la “neolingua” orwelliana: invertire il significato delle parole, restringere il lessico per ridurre i concetti e produrre così il consenso al sistema. Lo si ottiene, oggi, con il lancio mirato di milioni di email e tweet, nonché «campagne di criminalizzazione, di allarmismo, di ottimismo» dirette a manipolare la mente e il comportamento collettivo, in ambito politico e finanziario.«Con quest’arma ci si può liberare di intellettuali dissenzienti e delle loro idee o rivelazioni, come pure di concorrenti commerciali e politici, creando l’apparenza che la società stessa, democraticamente, li condanni o ne diffidi, mentre si tratta dell’attacco di un singolo soggetto, moltiplicato per milioni mediante strumenti tecnologici». Così per tutto. La ricerca scientifica? Vincolata ai finanziamenti del capitalismo privato e del settore militare. Conseguenze: «note e terribili, nei campi sanitario e alimentare». E l’ideologia gender, introdotta sin dal ‘96 anche attraverso l’Ue? «Persino dati di fatto biologici, come la dualità dei sessi, vengono negati e “tabuizzati” in quanto dati di natura, immodificabili, e convertiti in convenzioni-costruzioni volontarie, ossia in prodotti, così da creare il mercato dei trattamenti per sviluppare un gender», ovvero: «Trattamenti ormonali per sospendere la sessuazione nei fanciulli rinviandola a quando potranno scegliere se diventare maschi o femmine», e anche «condizionamenti psicologici per indurre identificazioni e prassi di “gender” divergenti dall’appartenenza sessuale biologica».La “destra del capitale” (come la chiama Fusaro), si serve di una censoria “sinistra del costume” (ottusa o mercenaria) che è stata allocata negli spazi e gli organi “culturali” (sovrastruttura) per oscurare, delegittimare, criminalizzare e attaccare, talvolta persino con la violenza fisica, i critici strutturali del modello capitalista, vantandosi “antifascista” «ma di fatto esercitando, in modo tipicamente fascista, la proscrizione e repressione dei critici del sistema, senza confronto nel merito ma semplicemente mediante accuse di immoralità, estremismo, populismo o irrazionalismo, nonché di fake news». Non sempre funziona: le elezioni del 4 marzo 2018 – aggiunge Della Luna – hanno dimostrato che larga parte dell’elettorato ha rigettato la propaganda istituzionale pro-immigrazione e pro-eurocrazia. Nei suoi saggi, l’autore demistifica soprattutto i dogmi fondanti del sistema capitalistico, della sua legittimazione giuridica e del consenso che lo sostiene: scarsità-costosità della moneta, efficienza-esistenza del libero mercato, “virtuosità” della spesa pubblica e della riduzione dei debiti nazionali (mediamente cresciuti, non calati, proprio per effetto del rigore fiscale Ue). «Ma siccome queste sono una credenza protetta, non possono essere messe a confronto col loro fallimento di fatto».In grande maggioranza, sostiene Fusaro citando Etienne de la Boétie, la popolazione tende ad adattarsi cognitivamente, moralmente ed emotivamente allo stato di fatto della realtà, ai rapporti di potere effettivi, «perché pensare l’ingiustizia del potere che si subisce rende il subirla più afflittivo e tormentoso, senza apportare vantaggi». In altre parole: meglio non guardarla in faccia, una realtà così orrenda. L’industria culturale del capitalismo finanziario aiuta, eccome, a non aprire gli occhi: agisce «analogamente ma assai più efficacemente di ogni altro totalitarismo precedente, teocratico, comunista o fascista che fosse». Ha costruito e imposto una sua ortodossia, ha fabbricato un consenso, una legittimazione democratico-giuridica. E ha ottenuto che il “logos” dissenziente, cioè la consapevolezza dell’ingiustizia (dell’illogicità e dell’infelicità provocata dal sistema in atto, e della progettabilità di sistemi diversi) possa circolare solo tra pochi intellettuali indipendenti, marginali al potere, senza poter alimentare un movimento politico consistente ed efficace. Quand’anche, aggiunge Della Luna, non si andrebbe oltre qualche piccolo attrito, «perché la capacità repressiva del sistema, col suo apparato mediatico-militare-istituzionale, è immensa».Del resto, «la quota di potere reale messa in gioco nelle votazioni popolari è minima». Chi vota, può decidere pochissime cose. Della Luna l’ha spiegato in saggi come “Oligarchia per popoli superflui” e “Oltre l’agonia”: il pensiero unico è pervasivo, fortissimo. «E’ di gran lunga più capace che ogni altro sistema di legare a sé le persone, le aziende, i governi», proprio perché «più di ogni altro sistema produce e distribuisce mezzi monetari», che sono «il motivatore universale», e lo fa «con operazioni contabili che indebitano verso di esso, con interesse composto, le persone, le aziende, i governi (denaro-debito)». E quindi, nel finanziare il corpo sociale – cioè nel dargli volta per volta il denaro di cui questo necessita per funzionare – al contempo lo indebita verso di sé, creandogli la necessità di prendere ulteriore denaro a prestito (il cosiddetto “debito infinito”, i cui leader sono i produttori della moneta, cioè i vertici del sistema finanziario). «E’ un fattore matematico ineliminabile. E questa dipendenza è divenuta non solo economica, nel tempo, ma anche politica». Il vertice finanziario emana le direttive e detta le leggi: è il fondamento del potere politico. L’attività strategica dei “produttori di denaro”, insiste Della Luna, rappresenta «il core business del settore bancario», che opprime le nazioni indebitate.«Siamo evidentemente in presenza di un piano politico di lungo termine, ovviamente non dichiarato e non proposto al pubblico dibattito né menzionato o menzionabile nei programmi elettorali dei partiti politici». Per Della Luna, è in corso da decenni «un piano di indebitamento progressivo a fine di potere politico e di esautorazione delle istituzioni pubbliche». Si basa sul fatto che gli utenti del credito (cittadini, aziende, amministratori, politici) si accontentano di risolvere il problema finanziario immediato ottenendo un nuovo finanziamento, senza considerare «l’effetto cumulativo macroeconomico del finanziarsi ripetutamente a credito nel lungo e lunghissimo periodo». Ed è proprio questo l’obiettivo dell’operazione. Il piano «viene nascosto, dai suoi stessi esecutori, dietro i precetti della lotta al debito pubblico, dell’avanzo primario e della “virtuosità” di bilancio – precetti la cui applicazione ha infatti aumentato l’indebitamento pubblico verso la comunità bancaria internazionale, come volevano i loro fautori». Indebitamento che, su scala mondiale, supera i 260.000 miliardi di dollari. In Europa, un muro insormontabile grazie alla moneta unica (Della Luna ne parla in “Cimiteuro”, “Euroschiavi”, “La moneta copernicana”).E’ il “social control”, sintetizza Della Luna, il vero obiettivo di fondo dell’oligarchia finanziaria globale. Il profitto monetario? «E’ solo uno strumento», benché formidabile e con volumi mostruosi. Invece, «gestire un mondo in preda a squilibri e conflitti crescenti è molto più impegnativo». Secondo l’analista, questo richiede il passaggio già in corso: «Dalla società finanziarizzata alla società amministrata zootecnicamente». E’ drastico, Della Luna: «All’atto pratico – scrive – lo spazio di libertà degli uomini è sempre stato proporzionale alla loro capacità fisica e mentale di conquistarselo e difenderlo, ossia di resistere alla tendenza a controllarli e sfruttarli da parte del potere costituito». La libertà individuale? Non è altro che «un rapporto tra la forza di controllo dall’alto e quella di resistenza ad essa dal basso». Oggi, conclude, la tecnologia sta moltiplicando la prima rispetto alla seconda. In ogni campo: dalla comunicazione all’elettronica, della biochimica alla manipolazione genetica per via farmacologica. Contiamo sempre meno, saremo sempre più in gabbia. Zootecnia, appunto: «Gli spazi di libertà vanno ad azzerarsi».Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.
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La Cina sa che persino la corruzione fa volare l’economia
La straordinaria crescita della Cina negli ultimi decenni ha generato due tipi di analisi. Una scuola di pensiero ritiene che la Cina sia una potenza economica in ascesa pronta a conquistare il mondo. L’altra, sostiene che l’economia cinese è diventata così distorta da essere destinata a crollare o, almeno, come ha suggerito un ex segretario del Tesoro degli Stati Uniti, “regredire fino a dimezzare”. Entrambe le opinioni sono sbagliate. Per prima cosa, la Cina non è mai stata un’economia normale. Ha registrato una media di tassi di crescita di quasi il 10% per quasi quattro decenni, un record; è la prima nazione in via di sviluppo a diventare una grande potenza. Quindi, perché non potrebbe continuare? Ciò che alcuni ritengono essere le debolezze dell’economia cinese sono state, in effetti, dei punti di forza. La crescita sbilanciata non prova affatto un rischio incombente, tanto quanto un segno di industrializzazione di successo. I livelli di indebitamento in frenata sono un indicatore di sviluppo finanziario piuttosto che una spesa dissoluta. Soprattutto, e curiosamente: la corruzione ha stimolato, non bloccato, la crescita. Almeno finora.La questione centrale non è se la Cina possa continuare a trasgredire o confondere le norme, semmai quanto gli è richiesto di farlo. E ciò, come sempre, dipende dal fatto che il governo cinese possa trovare un equilibrio tra l’intervento statale e le forze di mercato. Il potere autoritario centralizzato ha i suoi pregi, inclusa la capacità – per gli imprenditori che lo “subiscono” – di costringerli a correggere rapidamente la rotta. Ciò ha permesso ai leader cinesi di mettere l’economia su un binario di crescita più sostenibile negli ultimi anni. Il tasso di crescita del prodotto interno lordo è rimbalzato lo scorso anno. I salari sono aumentati. La recente abolizione dei limiti di mandato per i termini della carica di presidente e vicepresidente fornisce al presidente Xi Jinping più tempo e margine per promuovere la sua visione di una Cina prospera, moderna e potente, e con l’aiuto di consulenti fidati: il suo ex zar della corruzione, Wang Qishan, dovrebbe essere nominato vice-presidente e Liu He, vice-capo responsabile dell’economia.Gli scettici sul futuro della Cina di solito indicano il debito in crescita nel paese. In verità si tratta di un aumento abbastanza nella media: superiore a quello della maggior parte delle economie dei mercati emergenti, ma inferiore a quello della maggior parte dei paesi ad alto reddito. Onere al debito della Cina: nella media ma in decisa impennata… Il Fondo Monetario Internazionale ha messo in guardia sul fatto che altre economie che hanno registrato rapporti di indebitamento così rapidamente in aumento – il Brasile e la Corea del Sud qualche decennio fa, e diversi paesi europei più recentemente – alla fine hanno ceduto a una crisi finanziaria. Perché la Cina dovrebbe essere diversa? Una ragione è che non tutto il debito è stato creato uguale. Come alcuni ottimisti osservano, il debito della Cina è pubblico, non privato, il che significa che i rischi sono in gran parte sostenuti dallo Stato. Il prestito viene in gran parte dall’interno, piuttosto che dall’esterno. E nonostante l’aumento dei mutui, le famiglie cinesi hanno un peso del debito complessivo basso rispetto alle loro controparti in giro per il mondo. Nonostante tutta la sua crescita inebriante, il sistema finanziario cinese rimane relativamente semplice, senza l’incubo della cartolarizzazione esotica che ha fatto crollare l’economia americana un decennio fa.Anche il rapporto debito/Pil della Cina – che sembra così preoccupante – è spesso frainteso. Le banche cinesi non servono più solo gli attori statali; ora servono anche il settore privato, in particolare dopo la privatizzazione delle abitazioni di proprietà pubblica alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000 ed hanno creato un ampio mercato immobiliare commerciale. La rapida crescita del credito riflette in gran parte una crescita della finanza, piuttosto che una bolla immobiliare. Secondo i miei calcoli, i prezzi delle proprietà in Cina sono aumentati di sei volte dal 2004. Tuttavia, le transazioni immobiliari non sono incluse nelle valutazioni del prodotto interno lordo. Si dice che la corruzione impedisca la crescita inibendo gli investimenti. Non così in Cina, dove lo Stato controlla le maggiori risorse, come i terreni e l’energia, eppure genera rendimenti più bassi su tali attività di quanto non faccia il settore privato. Privatizzare quelle risorse è stato un inizio di vita sotto il comunismo, e così la corruzione è servita come opportunità di fare successo, consentendo a più attori privati di utilizzare risorse statali dopo aver stretto accordi con i funzionari. Poiché le pratiche di questi attori sono state redditizie, l’economia ne ha tratto beneficio in generale.Alcuni osservatori cinesi temono anche che la rapida crescita della Cina non possa essere sostenuta a meno che il consumo non sostituisca gli investimenti come principale motore dell’economia (il governo cinese sembra d’accordo, o almeno lo afferma.) Sottolineano che mentre gli investimenti rappresentano una quota insolitamente elevata del prodotto interno lordo, il consumo rappresenta una quota insolitamente bassa. Ma dire questo è fraintendere la natura della crescita squilibrata della Cina. La causa principale di questo squilibrio è l’urbanizzazione. Negli ultimi quattro decenni il rapporto di urbanizzazione della Cina è aumentato da meno del 20% a quasi il 60%. Nel processo, i lavoratori delle attività rurali ad alta intensità di lavoro sono passati a lavori industriali ad alta intensità di capitale nelle città. E così, una quota sempre maggiore del reddito nazionale è andata in investimenti. Ma anche i profitti delle imprese sono aumentati, portando a salari più alti, che hanno stimolato i consumi. Il consumo è cresciuto molto più velocemente in Cina che in qualsiasi altra grande economia.(Massimo Bordin, “La corruzione non ha fatto per niente male all’economia cinese”, dal blog “Micidial” del 14 marzo 2018).La straordinaria crescita della Cina negli ultimi decenni ha generato due tipi di analisi. Una scuola di pensiero ritiene che la Cina sia una potenza economica in ascesa pronta a conquistare il mondo. L’altra, sostiene che l’economia cinese è diventata così distorta da essere destinata a crollare o, almeno, come ha suggerito un ex segretario del Tesoro degli Stati Uniti, “regredire fino a dimezzare”. Entrambe le opinioni sono sbagliate. Per prima cosa, la Cina non è mai stata un’economia normale. Ha registrato una media di tassi di crescita di quasi il 10% per quasi quattro decenni, un record; è la prima nazione in via di sviluppo a diventare una grande potenza. Quindi, perché non potrebbe continuare? Ciò che alcuni ritengono essere le debolezze dell’economia cinese sono state, in effetti, dei punti di forza. La crescita sbilanciata non prova affatto un rischio incombente, tanto quanto un segno di industrializzazione di successo. I livelli di indebitamento in frenata sono un indicatore di sviluppo finanziario piuttosto che una spesa dissoluta. Soprattutto, e curiosamente: la corruzione ha stimolato, non bloccato, la crescita. Almeno finora.