Archivio del Tag ‘carcere’
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Carpeoro: Palme fu ucciso perché voleva abolire la povertà
Il 28 febbraio del 1986 io ero in piazza Duomo 19 a Milano, nell’ufficio di Bettino Craxi, quando arrivò la notizia dell’uccisione di Palme. Non ero da solo. C’era la deliziosa Alma Cappiello, avvocato e parlamentare socialista. C’era Luciano Belipaci, che era il presidente del Circolo Rosselli (da cui quel giorno nacque il Circolo Olof Palme). C’era Enzo Saponara, che era il segretario dei giovani socialisti. C’erano tante persone. Noi lo sapevamo bene, chi era Olof Palme, ma in Italia non è che lo sapessero benissimo. Era il leader dei socialisti europei, e non perché qualcuno l’avesse eletto. Ci sono due modi di essere leader: per autorità e per autorevolezza. Tanti preferiscono il primo, pochi arrivano al secondo. Tutti i socialisti d’Europa pendevano dalle labbra di Olof Palme, perché aveva realizzato la rivoluzione copernicana del socialismo. Aveva scritto, detto e insegnato – in tutte le salse – che il socialismo doveva superare Marx e il classismo. Il socialismo si era sclerotizzato nella cosiddetta lotta di classe. Anzi: aveva figliato il comunismo, sulla base della lotta di classe. Immaginava le classi come le placche dell’arteriosclerosi nel sangue di una persona invecchiata precocemente. Una situazione sclerotica, schematica, intoccabile, con classi sociali ciascuna con le sue colpe e le sue caratteristiche, mentre una sola aveva dei meriti.Si immaginava una nobiltà anti-rivoluzionaria e una borghesia rivoluzionaria solo nel Settecento, mentre l’unico vero corpo rivoluzionario era il proletariato. Questa è una teoria esoterica: si sfiorava la religione. Olof Palme non accettò questa teoria. Rifiutò il concetto di classe. Disse: se proprio vogliamo enfatizzare la parola classe, possiamo dire che una classe (che cambia, di tempo in tempo) è la categoria di persone che ha gli stessi bisogni, le stesse necessità – non gli stessi interessi. Perché, secondo lui, un socialista non doveva occuparsi degli interessi, ma delle necessità. Questa era la sua visione, condivisibile o meno. Ma è una visione veramente rivoluzionaria, perché scardinava la base del marxismo – una base esoterica, ideologica, mistica. La scardinava: la toglieva dai cardini e lasciava la porta aperta. Quando Claudio Martelli iniziò a utilizzare il termine “area laica e socialista”, lo fece perché quel termine l’aveva inventato Olof Palme. E lo aveva anticipato in un pranzo, in occasione di un convegno in Germania, nel quale aveva detto: noi dobbiamo creare l’area laica e socialista. Significava allargare il concetto di socialismo: non nei confronti di tutte le speculazioni classiste e pseudo-rivoluzionarie che lo avevano quasi completamente ammorbato, nonostante il distacco dal comunismo. Significava che la vera mediazione doveva avvenire nei confronti della cultura illuministica. Cioè: il socialismo si doveva riconciliare con l’umanesimo illuminista.In Italia, umanesimo illuminista voleva dire per esempio repubblicani, liberali, radicali, reduci del Partito d’Azione: tutti eredi, come i socialisti, della Rivoluzione Francese. Pochi anni dopo la Rivoluzione, infatti, a Parigi c’erano i socialisti: c’era Saint-Simon, c’era Proudhon, c’era Blanqui, c’era Blanc (il cosiddetto socialismo utopistico). Sapete, quando uno ti vuole delegittimare – senza offrire argomentazioni – ti dice che sei un utopista. Ma è una cosa bellissima, l’utopia: è un non-luogo (“ou-topos”). Significa che tutto quello che avviene in un non-luogo è utopistico; ma non significa che non esista, e non significa neanche che non possa essere degno di attenzione. Il problema è che Palme l’aveva fatta, questa rivoluzione – era colpevole di farla fatta – e in un contesto che non era molto favorevole (quello di adesso lo è ancora meno, perlatro), dove comunque gli altri leader socialisti europei erano in difficoltà. Craxi cominciava a perdere la salute, e il diabete galoppante gli provocava anche scatti caratteriali imprevedibili; Mitterrand era in pieno bonapartismo, per cui non è che fosse proprio affidabile; e Schmidt è la persona più piatta che si sia conosciuta nella storia del socialismo europeo. Capirete che non erano proprio passeggiate di salute. Eppure, Palme era stato capace di gettare le basi del socialismo europeo.Tanto era stato fondamentale, Palme, per il socialismo europeo, che poco prima di venir ucciso era candidato – dato per vincente – a diventare segretario generale dell’Onu. Poteva essere un modo comodo per toglierlo dalla guida del governo svedese, e per allontanarlo dalla gestazione di questa Europa che abbiamo visto nascere? Per come uno conosce Olof Palme, in realtà, l’elezione alle Nazioni Unite poteva essere un’arma a doppio taglio. Rimane il fatto che questo personaggio, che nel 1968 era a Praga a manifestare contro i carri armati sovietici, che nei primi anni ‘70 promosse una mozione dell’Onu contro la guerra in Vietnam, e che nel 1974 andò in Sudafrica a manifestare per la scarcerazione di Nelson Mandela, non si era fatto molti amici: era stato capace di contestare chiunque. Ma aveva un solo riferimento: la vera guida di Olof Palme era la libertà, intesa nell’accezione iniziatica del termine. Libertà non è fare ciò che che vuoi, è sapere quello che si vuole. La libertà è, prima di tutto, una consapevolezza della nostra mente: è uno stato mentale, la libertà, prima di essere uno stato fisico. Io ho fatto l’avvocato: in galera ho conosciuto persone libere, e ho conosciuto persone che erano “in galera” da libere. Perché prima di essere una condizione sociale, politica, giudiziaria – la libertà è uno stato mentale. Io ho conosciuto menti sempre libere, dovunque fossero, qualunque cosa facessero, così come ho conosciuto menti prigioniere (dovunque fossero, e qualunque cosa facessero).Olof Palme era una mente libera, e questa sua mente libera gli ha fatto superare il socialismo adottando un economista – Rudolf Meidner – che è l’uomo che ha inventato il cosiddetto “progetto economico svedese”. Un progetto rivoluzionario: realizzato con la creazione di fondi di comproprietà delle aziende a favore dei sindacati (in quota, certo: non si mise a nazionalizzare); con la previsione di un tipo di contribuzione assistenziale, previdenziale e sanitaria rivoluzionaria. E’ vero, all’epoca usò una leva fiscale piuttosto consistente, ma non so se oggi farebbe la stessa cosa, perché già nel suo secondo mandato attenuò il prelievo fiscale. Evidentemente, si regolò sul contesto economico contingente. Ma la sua regola ispirativa era questa: la politica e lo Stato devono rispondere alle necessità dei cittadini, e il compito di una forza politica è quello di stabilire quali sono le priorità, rispetto a queste necessità. Due elementi fondamentali, dei quali nessun altro politico, all’epoca sua, tenne conto. Dopo Palme ci ritrovammo Blair, Hollande. Pensate che, attualmente, nel direttivo del Partito Socialista Europeo il nostro rappresentante è la Mogherini. Lei fa l’anestesista: nel senso che tu non senti nulla (né dolore, ma neanche piacere).La chiamo “eutanasia del socialismo”: il socialismo si è ucciso da solo, dopo la morte di Palme, perché è mancato un tipo di guida a dei personaggi che non erano in grado di fare, da soli, la “nuova era” socialista. Nemmeno Craxi lo era: grande politico e grande statista, ma non era Palme. Così il socialismo si è suicidato. In che modo? Ha svenduto il suo marchio, senza chiedere garanzie sui contenuti – così come si svende tutto, nel sistema di potere contemporaneo. Il potere oggi si impossessa di marchi, cancella quello che c’è sotto (e quello che c’è stato prima) e poi lo utilizza. E’ successo parzialmente anche con la massoneria, con le religioni. Sapete, una cosa illuminante su cui farsi domande è questa: perché non c’è nessuna religione che dichiari che la povertà è illegittima? Tutte le religioni chiedono di aiutare i poveri. La povertà la danno come inevitabile, inesorabile. Era anche uno degli argomenti di Palme, impegnato in quel suo assistenzialismo così avanzato. Queste cosiddette dottrine spirituali ci vengono a dire: aiutate i poveri. Non ci dicono: facciamo in modo che non esistano più, i poveri. Vi siete mai chiesti perché?(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate al convegno “Nel segno di Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara, contro la crisi della democrazia”, promosso il 3 maggio 2019 a Milano dal Movimento Roosevelt. A margine dei lavori, Carpeoro – avvocato e saggista, a lungo collaboratore di Craxi – ha aggiunto che Palme fu ucciso da agenti di un servizio segreto, probabilmente bulgaro, su ordine della P2 di Gelli, per conto della massoneria reazionaria internazionale. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016 per Revoluzione, Carporo ricorda che – alla vigilia del premier socialdemocratico scandinavo – Licio Gelli telegrafò al senatore statunitense Philip Guarino il seguente messaggio: “La palma svedese sta per cadere”. Carpeoro spiega che Guarino era il braccio destro di Michael Ledeen, influente storico e politologo statunitense di origine ebraica, membro del B’nai B’rith – esclusiva massoneria del Mossad – nonché del Jewish Institute. Sempre secondo Carpeoro, dopo aver danneggiato lo stesso Craxi (provocando la crisi di Sigonella, traducendo in modo fuorviante le parole di Reagan durante una conversazione telefonica tra il presidente Usa e il premier italiano), Ledeen avrebbe “sovragestito” Antonio Di Pietro, quindi Matteo Renzi e contemporanamente Luigi Di Maio).Il 28 febbraio del 1986 io ero in piazza Duomo 19 a Milano, nell’ufficio di Bettino Craxi, quando arrivò la notizia dell’uccisione di Palme. Non ero da solo. C’era la deliziosa Alma Cappiello, avvocato e parlamentare socialista. C’era Luciano Belipaci, che era il presidente del Circolo Rosselli (da cui quel giorno nacque il Circolo Olof Palme). C’era Enzo Saponara, che era il segretario dei giovani socialisti. C’erano tante persone. Noi lo sapevamo bene, chi era Olof Palme, ma in Italia non è che lo sapessero benissimo. Era il leader dei socialisti europei, e non perché qualcuno l’avesse eletto. Ci sono due modi di essere leader: per autorità e per autorevolezza. Tanti preferiscono il primo, pochi arrivano al secondo. Tutti i socialisti d’Europa pendevano dalle labbra di Olof Palme, perché aveva realizzato la rivoluzione copernicana del socialismo. Aveva scritto, detto e insegnato – in tutte le salse – che il socialismo doveva superare Marx e il classismo. Il socialismo si era sclerotizzato nella cosiddetta lotta di classe. Anzi: aveva figliato il comunismo, sulla base della lotta di classe. Immaginava le classi come le placche dell’arteriosclerosi nel sangue di una persona invecchiata precocemente. Una situazione sclerotica, schematica, intoccabile, con classi sociali ciascuna con le sue colpe e le sue caratteristiche, mentre una sola aveva dei meriti.
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In manette la libertà: chi ha brindato all’arresto di Assange
È stato interessante nei giorni scorsi osservare la composita compagnia che ha esultato per l’arresto a Londra di Julian Assange: alcuni dei suoi corifei erano prevedibili ma altri onestamente meno. Tra i primi, diversi capi di Stato e di governo, qualche potente delle varie forze armate e dei servizi di intelligence, taluni rauchi esponenti di destra che non hanno mai nutrito una smisurata idea di libertà. Tra i secondi – quelli che hanno fatto la ola più a sorpresa – si sono distinti diversi esponenti della sinistra “progressista”, che fino a pochi anni fa simpatizzavano per WikiLeaks, ma adesso l’hanno in uggia, vedremo poi il perché. Accanto a questi, fra gli esultatori imprevisti, si sono esibiti anche non pochi giornalisti di discreta fama, per i quali invece la ragione dell’astio è più psicoanalitica: invidia del collega che ha realizzato scoop storici e mondiali, gioia per la restaurazione di antiche gerarchie professionali che il boom di WikiLeaks aveva ribaltato (Assange a marcire in galera è un bel Congresso di Vienna), soddisfazione intestinale nel vedere al gabbio chi ha fatto del giornalismo uno strumento di rivelazione di segreti dei potenti – mettendo in gioco la propria vita – anziché di accomodamento delle proprie chiappe accanto ai potenti medesimi.Di questi ultimi – le grandi firme che oggi si fregano le mani – si dovrebbero occupare appunto i rispettivi strizzacervelli: se arrivati oltre i sessant’anni non riescono a far pace con il loro ego e i loro compromessi di vita, è solo un problema loro. Più interessante invece la svolta della sinistra “progressista” (o presunta tale). Che aveva coccolato Assange per anni (in particolare quando WikiLeaks aveva rivelato le stragi di civili in Afghanistan compiute al tempo di George W. Bush) ma lo ha drasticamente mollato dopo il Russiagate. E, per quanto riguarda l’Italia, dopo che lo sventurato ha ricevuto nella sua tana-prigione dentro l’ambasciata ecuadoregna una delegazione di parlamentari grillini (Di Battista compreso, stiamo parlando di qualche anno fa) manifestando la sua simpatia e il suo appoggio per il Movimento 5 Stelle. A seguito di questi due eventi, adesso Assange è diventato “l’amico di Trump”, il “complice dei sovranisti” o (ad andar bene) “il controverso hacker”.Ora, a questa ipocrita svolta anti Assange di buona parte dei “progressisti” italiani va risposto con la forza dei fatti e dell’onestà intellettuale: 1. L’appoggio al Movimento 5 Stelle non è un’argomentazione contro Assange e ancor meno contro WikiLeaks. Probabilmente Assange (peraltro poco interessato alla politica italiana) al tempo ha visto nel M5S un partito vicino alla sua idea di trasparenza e di uso della Rete a questo scopo. In ogni caso, non è in base a uno statement su un partito italiano che possiamo giudicare quanto sta avvenendo attorno a lui. Sarebbe ridicolo, oltre che sommamente provinciale. 2. Julian Assange non è in alcun modo indagato nell’inchiesta Russiagate. Non c’è alcun capo di imputazione nei suoi confronti. E la stessa inchiesta sul Russiagate nel suo complesso ha dimostrato che i “progressisti” su questa vicenda si devono mettere un po’ l’anima in pace: se Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti è per un complesso di macrocause economiche, politiche, sociali e culturali (tra cui gli stessi errori storici della sinistra fattasi establishment), non per un complotto degli hacker russi spalleggiati da Assange.3. Solo un cieco felice di esserlo – quindi molto affezionato ai suoi pregiudizi – oggi non vede il motivo sostanziale per cui da anni è perseguitato Assange, con le accuse formali più diverse: per aver dato fastidio (e che fastidio!) ai potentati dell’economia (non dimentichiamo che centinaia dei primi leaks erano su banche e industriali), della diplomazia, dei servizi, dei militari e della politica. Su tutti costoro Assange e il suo sito avevano rivelato solo e sempre verità. Ma verità che non dovevano essere dette. Assange aveva realizzato nei fatti il famoso motto di Horacio Verbitsky, spesso citato ma raramente implementato: «Giornalismo è pubblicare qualcosa che qualcuno non vorrebbe venisse pubblicato; tutto il resto è propaganda». Questo non è stato perdonato ad Assange, per questo ora Assange è in carcere, dopo aver passato sette anni chiuso in venti metri quadri dentro un’ambasciata.Ma, detto tutto questo, non c’è alcun bisogno di apprezzare Assange per difenderlo. Non c’è alcun bisogno di considerarlo un “eroe” (categoria a cui è sempre meglio non appartenere), né un “paladino della libertà” e neppure un “giornalista senza paura”. Anzi, oggi si può e si deve difendere Assange anche se ci sta antipatico, anche se ne siamo distanti politicamente, perfino se lo consideriamo (pur senza prove) un “hacker al servizio di Putin”. Lo dobbiamo difendere perché non è in gioco lui, ma il principio del giornalismo che ha il diritto (se non il dovere) di pubblicare notizie vere e verificate proteggendo la propria fonte e indipendentemente dalla propria fonte. È, questo, un principio base della libertà di stampa, della sua forza storica, della sua funzione di controllo in una società aperta. È questo principio ad essere stato messo in manette l’altro giorno in una strada del centro di Londra, non l’uomo stanco con la barba bianca che in quel momento lo impersonava. Voi state con questo principio o con quelle manette?(Alessandro Gilioli, Assange e le manette alla libertà di stampa”, da “Micromega” del 15 aprile 2019).È stato interessante nei giorni scorsi osservare la composita compagnia che ha esultato per l’arresto a Londra di Julian Assange: alcuni dei suoi corifei erano prevedibili ma altri onestamente meno. Tra i primi, diversi capi di Stato e di governo, qualche potente delle varie forze armate e dei servizi di intelligence, taluni rauchi esponenti di destra che non hanno mai nutrito una smisurata idea di libertà. Tra i secondi – quelli che hanno fatto la ola più a sorpresa – si sono distinti diversi esponenti della sinistra “progressista”, che fino a pochi anni fa simpatizzavano per WikiLeaks, ma adesso l’hanno in uggia, vedremo poi il perché. Accanto a questi, fra gli esultatori imprevisti, si sono esibiti anche non pochi giornalisti di discreta fama, per i quali invece la ragione dell’astio è più psicoanalitica: invidia del collega che ha realizzato scoop storici e mondiali, gioia per la restaurazione di antiche gerarchie professionali che il boom di WikiLeaks aveva ribaltato (Assange a marcire in galera è un bel Congresso di Vienna), soddisfazione intestinale nel vedere al gabbio chi ha fatto del giornalismo uno strumento di rivelazione di segreti dei potenti – mettendo in gioco la propria vita – anziché di accomodamento delle proprie chiappe accanto ai potenti medesimi.
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La droga gestita della Cia, uno strumento di politica globale
Sulla scia della Seconda Guerra mondiale, le élite politiche statunitensi e britanniche si ritrovarono ad affrontare la minaccia del socialismo su scala globale. Nonostante le incombenti perplessità circa il futuro, decisero di reagire mobilitando risorse – pubbliche e nascoste – al fine di implementare un programma di “Roll Back” atto a invertire l’avanzata comunista mondiale. Un vero e proprio blocco sulla strada della mobilitazione anti-comunista era rappresentato dal fatto che la maggior parte della popolazione statunitense era diffidente verso un progetto di politica estera di così ampia portata. Per lo statunitense medio il mondo era rappresentato unicamente dall’America del Nord e l’interesse per la politica estera era minimo. A causa di questo radicato isolazionismo, negli Stati Uniti, agli esordi della Guerra Fredda, spese governative ingenti nella politica estera erano fuori questione. Inoltre la Cia, principale fonte economica nel reame della politica estera americana, rappresentava, per la maggioranza degli americani nell’epoca post-bellica, un’agenzia come un’altra, mentre in realtà questa stava diventando un protagonista chiave. Pur perseguendo l’impegno di portare a termine massicce operazioni mondiali, la Cia chiese alla Casa Bianca una licenza per inserirsi in fonti di finanziamento alternativi.La droga figurava come il business più remunerativo tra quelli più noti. La natura criminale del business dettava quindi le regole del gioco. Mentre alcuni dei guadagni erano effettivamente utilizzati a supporto di operazioni sotto copertura, altri erano deviati verso l’arricchimento personale di agenti e dirigenti dell’agenzia, oppure rimanevano nelle mani di gruppi finanziari con potere di lobby nell’amministrazione statunitense. Di conseguenza, la complicità nel business della droga iniziò a diffondersi verso il livello più alto dell’establishment nordamericano… Il primo caso rappresentante le connessioni tra la Cia e il business della droga risalgono al 1947, anno in cui Washington, preoccupata dell’ascesa del movimento comunista nella Francia post-bellica, si associò con la nota e spietata mafia corsa nella lotta contro la sinistra. Dal momento che il denaro non poteva essere riversato nella sgradevole alleanza attraverso canali ufficiali, una grossa fabbrica di eroina venne istituita a Marsiglia con l’assistenza della Cia, che alimentava l’affare. L’iniziativa imprenditoriale impiegava abitanti del posto, mentre la Cia organizzava il ciclo degli approvvigionamenti, ed il terrore fisico e psicologico contro i comunisti in Francia alfine impedì loro di raggiungere il potere.Successivamente lo schema adottato è stato replicato nel mondo. All’inizio degli anni ’50 la Cia dirigeva un network di fabbriche di eroina nel Sud Est Asiatico e con parte dei guadagni sosteneva Chiang Kai-shek, che combatteva contro la Cina comunista. La Cia iniziò quindi a patrocinare il regime militare in Laos, rafforzando i propri legami nella regione del Triangolo d’Oro comprendente Laos, Thailandia e Birmania, paesi che hanno contribuito per il 70% della fornitura globale di oppio. La maggior parte della merce era diretta a Marsiglia e in Sicilia per il trattamento effettuato dalle fabbriche gestite dalla mafia corsa e siciliana. In Sicilia, l’associazione criminale che gestiva diverse fabbriche di droga era stata fondata da Lucky Luciano, un gangster americano nato in Italia e rideportatovi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le informazioni non classificate non lasciano alcun dubbio circa il lavoro che Luciano svolgeva per l’intelligence americana. L’uomo è stato, senza grosse motivazioni, rilasciato dalla prigione americana nel 1946 prima di aver scontato la sua condanna; l’associazione criminale italiana che operava sotto il controllo statunitense condivideva i guadagni con i patroni americani, i quali utilizzavano il denaro per portare avanti una guerra segreta contro il partito comunista italiano.La Cia continuò a prelevare denaro dal Triangolo d’Oro durante la Guerra del Vietnam. La droga proveniente da questa regione veniva trafficata illegalmente negli Stati Uniti e distribuita a basi militari americane all’estero. Ne deriva che molti dei veterani della Guerra del Vietnam sono rimasti segnati non solo dalla guerra, ma anche dall’uso di narcotici. Le attività legate al traffico della droga portate avanti dalla Cia dovevano rimanere segrete, ma evitare di venire a conoscenza di azioni così gravi era difficile. Uno scandalo enorme scoppiò infatti negli anni ’80 coinvolgendo la banca Nugan Hand di Sydney, con filiali registrate alle isole Cayman, e il precedente direttore della Cia William Colby avente funzione di consigliere legale. La Cia ha utilizzato la suddetta banca per operazioni di riciclaggio di denaro sporco nella gestione dei proventi derivanti dal traffico di droga e armi in Indocina. La geografia dei traffici di droga appoggiati dalla Cia si ampliò costantemente. Negli anni ’80, lo scambio “armi per droga” è stato replicato per finanziare i Contras del Nicaragua; ma dopo essere stato scoperto, il Comitato delle relazioni estere del Senato americano ha dovuto aprire un’inchiesta. Una frase del rapporto del Senato sul famoso accadimento affermava: «I decisori statunitensi non erano immuni all’idea che i soldi della droga fossero una soluzione ideale al problema del finanziamento del Contras».Questa dichiarazione, in linea generale, potrebbe dimostrare che le attività della Cia erano strettamente collegate alla politica estera americana. Il business della Cia nel narcotraffico si è diffuso senza precedenti quando gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica entrarono indirettamente in conflitto in Afghanistan. La comunità dell’intelligence americana finanziò generosamente i Mujahiddin, in parte con i soldi derivanti dal narcotraffico. Gli aerei statunitensi che consegnavano armi alla nazione rientravano carichi di eroina. Secondo giudizi indipendenti, all’epoca, circa il 50% del consumo di eroina negli Stati Uniti proveniva dall’Afghanistan. “La mafia, la Cia e George Bush” di Pete Brewton (New York: S.P.I. Books, 1992) offre una serie di dati concreti che provano i legami esistenti tra il direttore della Cia e il presidente americano Bush e la mafia. Lo stesso presidente, in certe fasi della sua carriera, combinò la propria funzione pubblica con la politica e il business della droga. L’establishment americano ha concluso che la droga, oltre ad essere stata impiegata per circostanze politiche, potrebbe tornare utile nel raggiungimento di obiettivi geopolitici di lungo termine.Quando Paul Brenner divenne capo di Baghdad con un’autorità che nemmeno Saddam Hussein si sognava, non fece alcun tentativo per innalzare una barriera contro l’ondata del narcotraffico che travolse l’Iraq. Inoltre è importate notare che il business della droga, durante il governo di Saddam, era un problema inesistente nel paese. «Questa è la panacea di ogni rivolta. Drogateli, rendeteli dipendenti come pesci affamati. In seguito, dopo aver preso il controllo della loro radio e televisione, storditeli con la propaganda». Baghdad, la città che non aveva mai visto l’eroina fino a marzo del 2003, ora è sommersa di stupefacenti, inclusa l’eroina. Secondo un rapporto pubblicato dal giornale “The Indipendent” di Londra, i cittadini di Baghdad si lamentavano che la droga, come l’eroina e la cocaina, erano smerciate per le strade delle metropoli irachene. «Alcune relazioni suggeriscono che il traffico di droga e armi era sostenuto dalla Cia, al fine di finanziare le sue operazioni segrete internazionali», scrive Brenda Stardom. Nel suo rapporto, un abitante di Baghdad spiegava: «Saresti stato impiccato, per il traffico di droga. Ma ora si può ottenere eroina, cocaina, qualsiasi cosa». I civili tossicodipendenti non hanno nessuna volontà di resistere, mentre la trionfante Washington, che ottenne le risorse del paese, è incurante del fatto che questa gente è condannata all’estinzione.L’operazione anti-terroristica lanciata immediatamente dopo il dramma dell’11 Settembre è giunta a conclusione in Afghanistan 11 anni dopo. Washington tratta la questione come un successo, ma evitare l’opinione pubblica genera gravi effetti collaterali. L’Afghanistan è stato abbandonato in uno stato di distruzione, con interi villaggi annientati, migliaia di persone decedute, prigionieri, campi di concentramento e rifugiati in tutto il paese. Sconfiggere il business della droga era l’obiettivo più pubblicizzato dell’intera “guerra al terrore” americana, ma il risultato e gli obiettivi della campagna erano completamente diversi. Nelle mani della coalizione occidentale, l’Afghanistan si è trasformato nel principale produttore mondiale di droga. Gli Usa e il business della droga si sono intrecciati sin dalla fine del secondo conflitto mondiale. Per Washington, la droga è stata a lungo un elemento strutturale della politica estera, oltre all’enorme mercato nero mondiale che alimenta l’economia “legittima” dell’Occidente… Un dollaro destinato al commercio della droga rende fino a 12.000 dollari, nella migliore delle ipotesi. Il costo dell’eroina afghana aumenta nettamente man mano che ci si sposta a nord del paese – in Pakistan ammonta a circa 650 dollari al chilo, 1.200 in Kyrgyzstan, raggiungendo i 70 dollari al grammo nella città di Mosca. Un chilo di eroina equivale a 200.000 dosi, e una dipendenza disperata inizia dopo 3 o 4 dosi.Il capitale “legittimo” sarebbe temporaneamente insostenibile senza il trascinante mercato nero globale. Entrambi i componenti dell’economia mondiale sono incentrati sugli Stati Uniti. Washington è consapevole che la produzione di droga può essere messa in atto solo dopo aver soddisfatto il requisito principale, cioè che gli utili finali non creino un effetto a cascata sul produttore. Diversamente, il mercato nero si sgretolerebbe all’istante. La mafia che gestisce il traffico di droga “in linea” riesce ad ottenere il 90% dei ricavi dall’eroina. Accanto ad altri soggetti coinvolti nel traffico, coloro che lavorano la materia prima ricevono il 2% del guadagno, gli agricoltori di papavero il 6% e i commercianti di oppio il 2%. La produttività del mercato nero utilizza anche aree coltivate a prezzi marginali. Promuovere un conflitto armato nella zona agricola è il modo più semplice per attenuare i costi richiesti dagli agricoltori, considerando che le armi sono la merce con più alto valore equivalente. La formula è che più sanguinoso è il conflitto e più alti sono i ricavi dalle vendite di armi e droga. L’instabilità, associata al controllo del disordine, rappresenta il motore del mercato nero. I due fattori armonizzano la domanda e l’offerta, tuttavia per assottigliare i costi e non avere difficoltà occorre diffondere aspirazioni separatiste. Il comandante della situazione dovrebbe impegnarsi con gruppi etnici, clan o fazioni religiose piuttosto che con enti statali.L’Afghanistan ha distribuito un totale di circa 50 tonnellate di oppio durante la metà degli anni ’80, ma la cifra è balzata a 600 tonnellate entro il 1990, un anno dopo il ritiro dei sovietici. Dopo aver sequestrato il 90% del territorio afgano e preso controllo della coltivazione di papavero locale, i Talebani si sono scrollati di dosso la presa della Cia e del Dipartimento di Stato americano, causando la perdita della quota statunitense dei circa 130 miliardi di dollari di profitto che la mafia poteva ottenere se le forniture venivano incanalate con successo in Asia centrale. Riprendere il controllo della produzione di eroina dal potere dei Talebani era l’obiettivo fondamentale dietro la campagna statunitense in Afghanistan. Al momento la missione è compiuta, gran parte dell’eroina viene acquistata e trasmessa dalla Cia e dal Pentagono ad altri paesi. Dopo aver costruito le basi militari in Kyrgyzstan, Uzbekistan e Tagikistan e insediato il governo di Hamid Karzai, Washington ha aperto nuove rotte di approvvigionamento, eliminando i concorrenti e facendo sì che la capacità degli stabilimenti di trasformazione dell’oppio in eroina non siano mai privi di lavoro. Al momento, l’Afghanistan rappresenta il 75% del mercato globale di eroina, l’80% del mercato europeo e il 35% del mercato statunitense. Circa il 65% del rifornimento di droga dell’Afghanistan attraversa l’Asia centrale post-sovietica, e anche se questa disposizione sarà leggermente modificata, il traffico persisterà anche dopo il ritiro della coalizione occidentale dall’Afghanistan.L’alleanza criminale tra la Cia e i Talebani è un fatto noto e non svanirà. Attualmente, i gruppi criminali albanesi del Kosovo possiedono un ruolo di primo piano nel commercio internazionale della droga. L’indipendenza del Kosovo dalla Serbia ha permesso agli Stati Uniti di pianificare un nuovo punto di appoggio per il business della droga, con particolare riguardo all’Europa. Oltre un milione di albanesi risiedono in Europa occidentale e la maggior parte di loro sopravvive grazie a diversi affari illegali, soprattutto quello della droga. Senza dubbio, gli Stati Uniti hanno deliberatamente presentato all’Europa un problema che d’ora in poi aumenterà. Secondo l’agenzia anti-narcotici russa, circa 100.000 persone in tutto il mondo – più di quante uccise dall’esplosione nucleare che distrusse Hiroshima – muoiono ogni anno a causa degli stupefacenti provenienti dall’Afghanistan. In questo contesto, in Russia, il bilancio è di circa 30.000 vittime. L’agenzia russa sul controllo della droga afferma che la produttività è raddoppiata negli ultimi dieci anni e ad oggi il 90% delle dosi di droga consumate globalmente – un totale di 7 miliardi – rappresentano eroina. La tossicodipendenza sta invadendo l’odierna Russia e nel mix con l’abuso di alcool sta mettendo in pericolo l’esistenza stessa della nazione.La Russia è molto attiva nell’incoraggiare la lotta internazionale contro la droga – il ministro degli esteri Sergej Lavrov, per esempio, ha ricordato al forum anti-droga 2010 che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite osserva il problema della droga come una minaccia alla pace e alla sicurezza globale. Il suo punto di vista era che il mandato della coalizione in Afghanistan dovrebbe essere aggiornato per includere delle misure ben più robuste, incluso lo sradicamento dei campi di oppio e lo smantellamento delle fabbriche di droga. I passi per contrastare la produzione di stupefacenti in Afghanistan dovrebbero essere altrettanto decisi di quelli scattati in America Latina contro il traffico di cocaina, afferma Lavrov, sottolineando anche che un coordinamento in tempo reale tra la Russia e la Nato, lungo il confine con l’Afghanistan, potrebbe essere di grande aiuto. Mosca ha mandato per anni segnali in merito, ma l’atteggiamento della Nato sembra essere impassibile. Il capo dell’agenzia russa del controllo della droga Viktor Ivanov ha affermato nel 2010 che la Russia ha fornito delle informazioni riservate agli Stati Uniti e all’amministrazione afghana riguardo 175 stabilimenti di droga in Afghanistan, eppure nessuno di questi è stato smantellato. I fondi continuano quindi ad accumularsi sui conti bancari di coloro che gestiscono questi traffici ed è chiaro che questa condizione richiede un fronte anti-narcotico molto più ampio. Mosca perderà solo tempo e vedrà sempre più russi morire se attende una mossa dell’Occidente per sottoscrivere tali iniziative. È giunto il momento di adottare misure drastiche contro coloro che diffondono la morte confezionata in dosi.(“La droga, uno strumento di politica globale”, da “La Crepa nel Muro” del 9 aprile 2019).Sulla scia della Seconda Guerra mondiale, le élite politiche statunitensi e britanniche si ritrovarono ad affrontare la minaccia del socialismo su scala globale. Nonostante le incombenti perplessità circa il futuro, decisero di reagire mobilitando risorse – pubbliche e nascoste – al fine di implementare un programma di “Roll Back” atto a invertire l’avanzata comunista mondiale. Un vero e proprio blocco sulla strada della mobilitazione anti-comunista era rappresentato dal fatto che la maggior parte della popolazione statunitense era diffidente verso un progetto di politica estera di così ampia portata. Per lo statunitense medio il mondo era rappresentato unicamente dall’America del Nord e l’interesse per la politica estera era minimo. A causa di questo radicato isolazionismo, negli Stati Uniti, agli esordi della Guerra Fredda, spese governative ingenti nella politica estera erano fuori questione. Inoltre la Cia, principale fonte economica nel reame della politica estera americana, rappresentava, per la maggioranza degli americani nell’epoca post-bellica, un’agenzia come un’altra, mentre in realtà questa stava diventando un protagonista chiave. Pur perseguendo l’impegno di portare a termine massicce operazioni mondiali, la Cia chiese alla Casa Bianca una licenza per inserirsi in fonti di finanziamento alternativi.
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Vietato svelare la verità: con Assange muore il giornalismo
La data – 11 aprile 2019 – vivrà nell’infamia negli annali dei “valori” occidentali e della “libertà di espressione”. L’immagine è desolata. Un giornalista ed editore ammanettato è stato trascinato fuori con la forza dall’interno di un’ambasciata, mentre stringeva un libro di Gore Vidal sulla storia dello Stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il meccanismo è brutale. Il co-fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è stato arrestato perché gli Stati Uniti lo pretendevano dal governo britannico dei Tory, che per parte sua ha sostenuto di non aver fatto pressione sull’Ecuador per revocare l’asilo ad Assange. Gli Stati Uniti cancellano magicamente i problemi finanziari dell’Ecuador, ordinando al Fmi di rilasciare un provvidenziale prestito di 4,2 miliardi di dollari. Subito dopo, i diplomatici ecuadoriani “invitano” la polizia metropolitana di Londra a entrare nella loro ambasciata per arrestare il loro ospite di lungo termine. Andiamo al sodo. Julian Assange non è un cittadino statunitense, bensì australiano. WikiLeaks non è un’organizzazione di media basata negli Stati Uniti. Se il governo Usa dovesse ottenere che Assange sia estradato, processato e incarcerato, legittimerebbe il suo diritto di perseguire chiunque, comunque, ovunque, in qualsiasi momento. Chiamatelo l’Uccisione del Giornalismo.Il caso del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (Doj) contro Assange è fragile, nel migliore dei casi. Tutto ha a che fare essenzialmente con la pubblicazione di informazioni classificate nel 2010: 90mila file militari in Afghanistan, 400mila file sull’Iraq e 250mila cablogrammi diplomatici diffusi su gran parte del pianeta. Assange è accusato di aver aiutato Chelsea Manning, l’ex analista dell’intelligence statunitense, ad ottenere questi documenti. Ma la faccenda diventa più complicata. È anche presumibilmente colpevole di “incoraggiare” Manning a raccogliere più informazioni. Non c’è altro modo di interpretarla. Ciò equivale, senza più alcuna esclusione di colpi, alla criminalizzazione totale della pratica giornalistica. Per il momento, Assange è accusato di “cospirazione volta a commettere intrusioni informatiche”. L’accusa sostiene che Assange ha aiutato Manning a decifrare una password memorizzata sui computer del Pentagono collegati al Secret Internet Protocol Network (SiprNet). Nei registri delle chat del marzo 2010 ottenuti dal governo Usa, Manning parla con qualcuno chiamato alternativamente “Ox” e “associazione di stampa”. Il Doj è convinto che questo interlocutore sia Assange. Ma devono dimostrarlo definitivamente.Manning e questa persona, presumibilmente Assange, si sono impegnati in “discussioni”. «Durante uno scambio, Manning disse ad Assange che ‘dopo questo upload, è tutto quello che mi è rimasto’. Al che Assange rispose: ‘degli occhi curiosi non sono mai rimasti all’asciutto nel corso della mia esperienza’». Tutto questo non regge. I grandi media privati statunitensi pubblicano regolarmente fughe illegali di informazioni classificate. Manning offrì i documenti che aveva già scaricato sia al “New York Times” che al “Washington Post” – e fu respinto. Solo allora si avvicinò a Wikileaks. L’accusa secondo cui Assange abbia cercato di aiutare a decifrare la password di un computer è in giro dal 2010. Il Dipartimento di Giustizia sotto Obama ha rifiutato di avallarla, consapevole di ciò che significherebbe in termini di potenziale messa al bando del giornalismo investigativo. Non c’è da stupirsi che i media privati statunitensi, spogliati di uno scoop della massima importanza, abbiano successivamente iniziato a denunciare WikiLeaks come agente russo.Il grande Daniel “Pentagon Papers” Ellsberg aveva già avvertito nel 2017: «Obama ha aperto la campagna legale contro la stampa andando alle radici dei rapporti investigativi sulla sicurezza nazionale – le fonti – e Trump andrà dietro agli stessi raccoglitori/giardinieri (e i loro capi, gli editori). Per cambiare metafora, un’accusa ad Assange è il “primo uso” dell’opzione nucleare contro la protezione che il Primo Emendamento assicura alla stampa libera». Le attuali accuse del Dipartimento di Giustizia – essenzialmente il furto di una password del computer – sono appena l’inizio della valanga. Almeno per ora, la pubblicazione non è un crimine. Eppure, qualora sia estradato, Assange potrebbe essere accusato anche di ulteriori cospirazioni e persino della violazione della Legge sullo Spionaggio del 1917. Quantunque debba ancora chiedere il consenso di Londra per avanzare ulteriori accuse, al Dipartimento di Giustizia non mancano gli avvocati in grado di applicare sofismi per evocare un crimine dal nulla.Jennifer Robinson, l’abilissimo avvocato di Assange, ha giustamente sottolineato che il suo arresto è «un problema di libertà di parola» perché «riguarda i modi in cui i giornalisti possono comunicare con le loro fonti». L’inestimabile Ray McGovern, che conosce una o due cose sulla comunità di spionaggio degli Stati Uniti, ha evocato un requiem del quarto potere. Il contesto completo dell’arresto di Assange viene alla luce una volta esaminato che risulta conseguente al fatto che Chelsea Manning ha trascorso un mese in isolamento in una prigione della Virginia per aver rifiutato di denunciare Assange di fronte a un gran giurì. Non c’è dubbio che la tattica del Dipartimento di Giustizia sia quella di spezzare Manning con ogni mezzo disponibile. Ecco cosa dice la squadra legale di Manning: «L’atto d’accusa contro Julian Assange, dissigillato oggi, è stato ottenuto un anno prima che Chelsea comparisse davanti al Gran Giurì e si fosse rifiutato di rendere testimonianza. Il fatto che questa incriminazione sia esistita da oltre un anno sottolinea quanto la squadra legale di Chelsea e la stessa Chelsea hanno detto da quando è stata emessa una citazione per comparire di fronte ad un Gran Giurì federale nel distretto orientale della Virginia: che convincere Chelsea a testimoniare avrebbe duplicato le prove già in possesso del Gran Giurì e questo non era necessario affinché gli avvocati statunitensi ottenessero un’accusa contro Assange.»La palla è ora presso un tribunale del Regno Unito. Assange rimarrà indubbiamente in prigione per alcuni mesi per evitare la cauzione mentre procede l’estradizione secondo il dossier statunitense. Il Dipartimento di Giustizia ha verosimilmente discusso con Londra su come un giudice “adatto” possa fornire il risultato desiderato. Assange è un editore. Di suo non ha fatto trapelare assolutamente nulla. Anche il “New York Times” e il “Guardian” hanno pubblicato ciò che Manning aveva scoperto. “Collateral Murder”, tra le decine di migliaia di prove, dovrebbe essere sempre in prima linea nell’intera discussione: si tratta di crimini di guerra commessi in Afghanistan e in Iraq. Quindi non c’è da meravigliarsi che lo Stato Profondo americano non perdonerà mai Manning e Assange, benché il “New York Times”, in un altro lampante esempio di due pesi e due misure, potrebbe ottenere un lasciapassare. Il dramma alla fine avrà bisogno di essere chiuso nell’Eastern District della Virginia perché la sicurezza nazionale e l’apparato dell’intelligence hanno lavorato per anni a questa sceneggiatura, a tempo pieno.In qualità di direttore della Cia, Mike Pompeo è andato dritto al punto: «È tempo di chiamare Wikileaks per quello che è realmente: un servizio di intelligence ostile non statale spesso favorito da attori statali come la Russia». Quel che di fatto equivale a una dichiarazione di guerra sottolinea quanto in realtà sia pericoloso Wikileaks, per il solo fatto di aver praticato del giornalismo investigativo. Le attuali accuse del Dipartimento di Giustizia non hanno assolutamente nulla a che fare con l’ormai demistificato Russiagate. Ma aspettatevi che il successivo calcio politico sia roboante. Il campo di Trump al momento è diviso. Assange è sia un eroe pop che combatte contro la palude dello Stato Profondo, sia un umile scagnozzo del Cremlino. Allo stesso tempo, Joe Manchin, un senatore democratico del Sud, gioisce, stando agli atti, come un proprietario di una piantagione del diciannovesimo secolo, sul fatto che Assange sia ora “nostra proprietà”. La strategia democratica sarà quella di usare Assange per arrivare a Trump. E poi c’è l’Unione Europea, di cui alla fine la Gran Bretagna potrebbe non far parte, più tardi piuttosto che più presto. L’Unione Europea sarà molto vigile sul fatto che Assange venga estradato nell’“America di Trump”, poiché lo Stato Profondo si assicura che i giornalisti di tutto il mondo abbiano effettivamente il diritto: di rimanere sempre in silenzio.(Pepe Escobar, “Hai il diritto di rimanere sempre in silenzio”, da “Asia Times” del 13 aprile 2019; articolo tradotto da Costantino Ceoldo per “Megachip”).La data – 11 aprile 2019 – vivrà nell’infamia negli annali dei “valori” occidentali e della “libertà di espressione”. L’immagine è desolata. Un giornalista ed editore ammanettato è stato trascinato fuori con la forza dall’interno di un’ambasciata, mentre stringeva un libro di Gore Vidal sulla storia dello Stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il meccanismo è brutale. Il co-fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è stato arrestato perché gli Stati Uniti lo pretendevano dal governo britannico dei Tory, che per parte sua ha sostenuto di non aver fatto pressione sull’Ecuador per revocare l’asilo ad Assange. Gli Stati Uniti cancellano magicamente i problemi finanziari dell’Ecuador, ordinando al Fmi di rilasciare un provvidenziale prestito di 4,2 miliardi di dollari. Subito dopo, i diplomatici ecuadoriani “invitano” la polizia metropolitana di Londra a entrare nella loro ambasciata per arrestare il loro ospite di lungo termine. Andiamo al sodo. Julian Assange non è un cittadino statunitense, bensì australiano. WikiLeaks non è un’organizzazione di media basata negli Stati Uniti. Se il governo Usa dovesse ottenere che Assange sia estradato, processato e incarcerato, legittimerebbe il suo diritto di perseguire chiunque, comunque, ovunque, in qualsiasi momento. Chiamatelo l’Uccisione del Giornalismo.
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I 10 scandali rivelati da Assange su Bush, Obama e Hillary
Nei suoi quasi 15 anni di attività, Wikileaks ha diffuso oltre 10 milioni di documenti classificati. Tra questi, la maggior parte ha a che fare con piani segreti del governo degli Stati Uniti nei suoi programmi di intelligence, sicurezza e guerra. La fondazione guidata dal detenuto Julian Assange è stata l’avanguardia in termini di informazioni classificate per anni. Tanto che i suoi principali portavoce sono stati perseguitati da governi alleati con Washington come Svezia e Gran Bretagna. Assange stesso è stato rifugiato dal 2012 in una piccola stanza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, fino a quando il governo di Lenin Moreno ha smesso di concedergli questo status. 1. Gli archivi di Guantanamo. Nel 2007, hanno pubblicato migliaia di documenti sotto forma di manuali e informazioni sul carcere inaugurato dall’amministrazione Bush nel 2002 a Guantánamo Bay, a Cuba. Gli archivi sono pieni di dettagli sui prigionieri e sui metodi di tortura utilizzati quotidianamente contro di loro nell’ambito di un programma di procedure per il trattamento di persone sospettate di essere terroristi. La Croce Rossa ha confermato che non tutti i prigionieri di Guantanamo sono terroristi e le critiche al funzionamento di questa struttura sono aumentate nel corso degli anni.2. Notizie segrete sulle guerre all’Afghanistan e all’Iraq. War Diaries è stato lanciato nel 2010 con quasi 400 mila resoconti riguardanti la guerra in Iraq dal 2004 al 2009. Possiamo trovare tutto, dalle attrezzature militari utilizzate dall’esercito Usa in dettaglio, alle informazioni sugli obiettivi militari e civili uccisi, più abusi e torture di prigionieri di guerra nei rapporti. 3. Cablegate: una lente d’ingrandimento sulla diplomazia statunitense. Nel 2010, WikiLeaks ha lanciato milioni di cable diplomatici scritti tra il 1966 e il 2010 e pubblicati in diversi media internazionali che mostrano le opinioni dei capi della diplomazia di Washington (tra cui Henry Kissinger) e le istruzioni ai loro diplomatici per spiare politici stranieri, meglio noti come CableGate. I cable confermano la battuta: «Perché non ci sono golpe negli Stati Uniti? Perché non c’è un’ambasciata statunitense». 4. Collateral Murder. Gli archivi filtrati grazie a Chelsea Manning, nel 2010 WikiLeaks hanno portato alla luce un video dal titolo Collateral Murder che mostra come le forze armate statunitensi sparano dagli elicotteri Apache contro obiettivi civili a Baghdad (capitale dell’Iraq), tra cui un giornalista della Reuters, che cadono fulminati al suolo. La registrazione risale al 2007.5. I documenti di Stratfor. Tra il 2012 e il 2013, oltre 5 milioni di e-mail sono trapelate dall’intelligence statunitense Stratfor. I Global Intelligence Files hanno rilasciato numerosi documenti in cui abbiamo appreso alcuni dettagli della rete interna di sorveglianza di massa negli Stati Uniti con la Nsa come protagonista, nonché le operazioni segrete svolte da Washington in Siria, tutte tra il 2004 e il 2011, lasciando anche a nudo l’intimo legame che esiste tra l’intelligence americana e la comunità di sicurezza e alcune aziende che funzionano come carri armati e organizzazioni non governative al servizio delle loro élite. 6. Svelati Tpp, Ttip, Tisa. Dal 2013 al 2016, WikiLeaks ha pubblicato documenti successivi denunciando che il governo degli Stati Uniti stava segretamente negoziando accordi di libero scambio noti come Transpacific of Economic Cooperation (Tpp, il suo acronimo in inglese), Transatlantic Trade and Investment (Ttip, il suo acronimo in inglese) e l’Accordo sugli scambi di servizi (Tisa, il suo acronimo in inglese). Prima dell’ascesa di Donald Trump, Washington aveva come strategia un nuovo sistema economico e legale in cui persino i diritti civili sarebbero stati profondamente calpestati in quasi tutto il mondo, sulla base di quegli accordi che non furono mai annunciati fino a quando non ci furono i leak.7. Alcune corporation a nudo. Dalla sua fondazione nel 2006, WikiLeaks ha pubblicato diversi file declassificati di società multinazionali che contengono informazioni segrete, come le conseguenze della fuoriuscita tossica in Costa d’Avorio da parte della compagnia energetica Trafigura che ha colpito più di 100 mila persone; allo stesso tempo, è stato scoperto che i media britannici erano complici di ciò quando falsificavano gli eventi. Inoltre, le attività off-shore della banca svizzera Julius Bär Group e le connessioni con la Casa Bianca e il complesso industriale-militare della società giapponese Sony furono anch’esse soggette a fughe di notizie. Pertanto, la politica governativa, ma anche quella imprenditoriale, sono obiettivi della fondazione di Julian Assange. 8. Lo spionaggio globale come strumento geopolitico. Nel 2016, abbiamo appreso che l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (Nsa) ha intercettato i telefoni della cancelliera tedesca Angela Merkel e l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, rubato cables della diplomazia italiana per conoscere quanto detto dall’ex premier Silvio Berlusconi con il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu su Barack Obama, ha spiato le comunicazioni dei ministri dell’Unione Europea e del Giappone per apprendere in dettaglio i loro accordi per evitare «l’ingerenza degli Stati Uniti» nel loro relazioni internazionali, tutto con uno scopo: accumulare dati per utilizzarli a vantaggio dei loro interessi come potere geopolitico in tutto il mondo. Tutto questo e altro ancora puoi scrutarlo qui.9. La caduta di Hillary Clinton. Per tutto il 2016 sono state pubblicate circa 44.000 e-mail dal Comitato Nazionale del Partito Democratico, evidenziando la campagna di sabotaggio contro la candidatura di Bernie Sanders a favore di Hillary Clinton all’interno del partito. A loro volta, 30.000 di queste e-mail appartengono o sono state inviate a Clinton durante il suo mandato come Segretario di Stato, nell’era di Obama. Il suo ruolo nel golpe in Honduras nel 2009, gli affari corrotti della Fondazione Clinton ad Haiti, i suoi piani per intervenire segretamente nella guerra in Siria, i milioni di dollari che guadagna per dare lezioni a banche e compagnie americane, tutte queste informazioni hanno prodotto la caduta di Clinton durante la corsa contro Donald Trump per la Casa Bianca. Ancora molti analisti credono che il magnate sia stata l’opzione migliore. 10. La Cia cibernetica. Nel 2017 è stato pubblicato Vault 7, la più grande pubblicazione di documenti della Central Intelligence Agency (Cia, il suo acronimo in inglese) fino ad oggi. Potete leggere gli archivi di come la Cia possieda un immenso arsenale di computer hacking paragonabile a quello della Nsa. La cosa più importante è che gli appaltatori e i funzionari dell’agenzia hacker hanno estratto migliaia di strumenti per il loro lavoro come «malware, virus, trojan, attacchi zero-day, sistemi di controllo remoto del malware e documentazione associata». Tutti questi dati sono ora al servizio degli hacker, che potrebbero persino conoscere il tuo indirizzo Ip a causa della irresponsabilità della sicurezza della Cia.(“Le 10 rivelazioni di Assange che hanno cambiato il modo di vedere il potere”, da “L’Antidiplomatico” del 13 aprile 2019; il newsmagazine pubblica anche i link per approfondire ciascuno dei 10 argomenti citati).Nei suoi quasi 15 anni di attività, Wikileaks ha diffuso oltre 10 milioni di documenti classificati. Tra questi, la maggior parte ha a che fare con piani segreti del governo degli Stati Uniti nei suoi programmi di intelligence, sicurezza e guerra. La fondazione guidata dal detenuto Julian Assange è stata l’avanguardia in termini di informazioni classificate per anni. Tanto che i suoi principali portavoce sono stati perseguitati da governi alleati con Washington come Svezia e Gran Bretagna. Assange stesso è stato rifugiato dal 2012 in una piccola stanza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, fino a quando il governo di Lenin Moreno ha smesso di concedergli questo status. 1. Gli archivi di Guantanamo. Nel 2007, hanno pubblicato migliaia di documenti sotto forma di manuali e informazioni sul carcere inaugurato dall’amministrazione Bush nel 2002 a Guantánamo Bay, a Cuba. Gli archivi sono pieni di dettagli sui prigionieri e sui metodi di tortura utilizzati quotidianamente contro di loro nell’ambito di un programma di procedure per il trattamento di persone sospettate di essere terroristi. La Croce Rossa ha confermato che non tutti i prigionieri di Guantanamo sono terroristi e le critiche al funzionamento di questa struttura sono aumentate nel corso degli anni.
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Chi ha coperto Assange, e perché ha smesso di proteggerlo?
Quella di Julian Assange, fondatore di Wikileaks, è una vicenda interamente circondata di ambiguità: non credo che l’unica fonte di Assange sia stato quel povero soldatino che poi si è assunte tutte le responsabilità (Bradley Manning, oggi Chelsea Manning dopo il cambio di sesso: soldato che rivelò ad Assange le atrocità commesse dall’esercito Usa in Iraq, ndr). Non credo che Assange abbia potuto avere copertura per tutti questi anni solo perché era simpatico al leader dell’Ecuador, Rafael Correa. E’ tutto molto opaco, per cui: dare una medaglia o denigrare Assange è impossibile. Ci sono troppe cose non chiare, che non conosciamo. Assange ha avuto coperture importanti, quindi ha svolto collaborazioni importanti. Queste coperture sono venute meno, e non sappiamo né come le ha avute, né da chi, né perché sono venute meno. Per questo motivo, chiunque esprima un giudizio in questa situazione, secondo me, è una persona avventata.Diffondere notizie riservate e potenzialmente lesive della sicurezza nazionale in America è un reato, e anche in Italia. Non è vero che si possa pubblicare tutto. Poi le notizie, quando se ne entra in possesso in modo illecito, non possono essere pubblicate: se entro in possesso di notizie – anche vere – ma in modo illecito, e le pubblico, vado in galera. Esempio: è un reato se do una notizia che i terroristi possono utilizzare, o se scrivo che è stato creato un centro speciale e segreto presso il ministero della difesa. Se poi intercetti illegalmente Berlusconi e quindi pubblichi quello che hai registrato a casa sua, vai in galera anche per quello che hai pubblicato. Non me la sento di difendere Assange come un eroe dell’informazione. Assange ha acquisito notizie corrompendo un militare, perché di questo si tratta, e già lì siamo su un terreno minato. Per questo merita l’arresto? Ha corrotto un militare: e la corruzione è un reato, anche se il militare ha detto di avergli passato liberamente quelle notizie.Senza di lui, tante cose non le avremmo sapute? Ma non è che, per sapere delle cose, io devo per forza smontare lo Stato. E se vanno in galera anche persone comuni, non capisco perché non ci possano andare anche i giornalisti, se commettono reati. Per me Assange ha corrotto un militare, il che è molto grave. Massimo Mazzucco trova strano che Julian Assange, nonostante le sue vastissime fonti, non abbia mai detto niente a proposito dell’11 Settembre? E’ anomalo, dice Mazzucco, che da Wikileaks non sia mai uscita un’indiscrezione sull’attentato alle Torri Gemelle? Come dicevo, infatti, tutta la vicenda di Assange – umana, personale, professionale e quindi anche giudiziaria – è completamente nelle nebbie: per questo, ripeto, non me la sento di fare affermazioni nette.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube, il 13 aprile 2019. Analista e saggista con alle spalle decenni di attività come avvocato, Carpeoro – massone di alto grado, fuoriuscito dalla massoneria – è un esperto di analisi geopolitica: nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016 per i tipi di Revoluzione, accusa la componente massonica deviata dell’intelligence occidentale di aver “firmato” gli attentati degli anni scorsi, affidati in Europa a manovalanza jihadista targata Isis).Quella di Julian Assange, fondatore di Wikileaks, è una vicenda interamente circondata di ambiguità: non credo che l’unica fonte di Assange sia stato quel povero soldatino che poi si è assunte tutte le responsabilità (Bradley Manning, oggi Chelsea Manning dopo il cambio di sesso: soldato che rivelò ad Assange le atrocità commesse dall’esercito Usa in Iraq, ndr). Non credo che Assange abbia potuto avere copertura per tutti questi anni solo perché era simpatico al leader dell’Ecuador, Rafael Correa. E’ tutto molto opaco, per cui: dare una medaglia o denigrare Assange è impossibile. Ci sono troppe cose non chiare, che non conosciamo. Assange ha avuto coperture importanti, quindi ha svolto collaborazioni importanti. Queste coperture sono venute meno, e non sappiamo né come le ha avute, né da chi, né perché sono venute meno. Per questo motivo, chiunque esprima un giudizio in questa situazione, secondo me, è una persona avventata.
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Vendetta: ora Assange potrà morire, estradato negli Usa
«Viviamo in un mondo capovolto: chi lavora per la libertà di parola e il libero giornalismo finisce in galera, chi si macchia di crimini di guerra resta a piede libero». Così lo sceneggiatore Paolo Mosca commenta, su Facebook, l’arresto a Londra di Julian Assange. Uno dei principali motivi per cui Assange è stato arrestato, scrive Mosca, dirigente del Movimento Roosevelt, è il video conosciuto come “Collateral murder”: elicotteri americani uccidono civili iracheni, a Baghdad, sparando nel mucchio. Nessuno di quegli assassini è stato condannato, aggiunge Mosca. In galera ci è finito solo Bradley Manning (oggi Chelsea Manning), cioè l’allora militare Usa che aveva poi inviato il video a Wikileaks, sottolinea Gianluca Ferrara sul “Fatto Quotidiano”, secondo cui «Assange andrebbe premiato, non arrestato». Se ora il governo italiano lo abbandonerà al suo destino, afferma il grillino Alessandro Di Battista, «non ci sarà differenza con gli scendiletto Usa che ci hanno governato negli ultimi trent’anni». Il solo a mobilitarsi per Assange, negli ultimi mesi, era stato Paolo Barnard, protagonista di un lunghissimo sit-it sotto le finestre del “prigioniero”, a Londra, durante le festività natalizie. Unica ammissione ottenuta da Barnard, quella di un giornalista del “Guardian”, Damien Gayle: «Sono stato in ansia a “twittarti”, ma dovevo farlo», gli scrisse Gayle, «perché la libertà di dissenso dovrebbe essere l’anima stessa del mio giornale. Spero non mi licenzino».Barnard era solo quanto Assange, davanti all’ambasciata ecuadoriana che da 7 anni ospitava il fondatore di Wikileaks, fermato con accuse pretestuose (ipotetico tentativo di stupro, in Svezia). Dapprima trattato come rifugiato politico dall’Ecuador di Rafael Correa, ultimamente era stato ridotto a ostaggio, nella sede diplomatica londinese del paese centramericano, nel frattempo “normalizzato” dal neo-presidente Lenin Moreno, riallineatosi agli Usa che ora pretendono l’estradizione di Assange. Su “Pandora Tv”, Giulietto Chiesa ha buon gioco nel ricordare che il “ribaltamento del mondo” cui allude Paolo Mosca si specchia ormai anche tra i “whistleblower”: un tempo erano i dissidenti dell’Urss a scappare in Occidente, mentre oggi l’eroe Edward Snowden vive a Mosca, protetto da Putin, dopo aver sollevato lo scandalo mondiale dello spionaggio di massa gestito dalla Nsa, mentre Assange finisce in carcere per aver messo in mostra la brutalità “imperiale” del potere militare americano e in particolare la spregiudicatezza criminale di Hillary Clinton. Pino Cabras, deputato pentastellato, sottolinea il coraggio del giornalista australiano: «Attraverso la sua azione ha svelato le condotte illegali o minacciose di organi istituzionali e potentissime lobby».Di fatto, Wikileaks «ha consentito alla democrazia contemporanea di superare i limiti e le chiusure del giornalismo tradizionale nonché le timidezze dei parlamenti nel correggere i comportamenti opachi di vari governi». Citando una presa di posizione dei 5 Stelle alla Camera, Cabras ricorda che Assange ha dato coraggio alla pratica del “whistleblowing” e dell’obiezione di coscienza fino a farla riconoscere nelle leggi e nei codici etici a tutti i livelli. «Come Movimento 5 Stelle – dicono i parlamentari grillini – abbiamo sentito sin dall’inizio dell’avventura di Wikileaks un interesse per una pratica che valorizzava il controllo dal basso e la democratizzazione dell’informazione nell’ambito di una rivoluzione tecnologica con un grande potenziale di liberazione per individui e popoli. Per questo motivo – aggiungono – riteniamo che debbano essere fatti tutti i possibili passi affinché a Julian Assange sia riconosciuto il valore e il rango politico del suo attivismo, da sempre minacciato con ogni mezzo, che sia salvaguardata la sua incolumità e che non ci siano forzature politiche nelle procedure a cui sarà sottoposto».La figura di Assange, ricorda Alfonso Bianchi sulla “Stampa”, è diventata sempre più quella di un perseguitato per la libertà di espressione. E in tanti, da semplici cittadini a personalità pubbliche, gli hanno espresso solidarietà al punto da candidarlo al Nobel per la Pace. Nel frattempo le accuse contro di lui in Svezia sono cominciate a cadere, prima nel 2015 quella per molestie sessuali e poi due anni dopo anche quella per stupro. Ma su Assange continuava a restare in vigore la richiesta d’arresto britannica per il fatto che si era rifiutato di consegnarsi spontaneamente. Assange ha sempre temuto di essere estradato negli Usa, dove ora Donald Trump lo accusa di aver pubblicato documenti riservati del governo, mettendo a rischio la sicurezza nazionale. Dopo il cambio di governo in Ecuador, la vita di Assange a Londra era diventata quella di un detenuto: fine dei contatti con l’esterno. Gli era stato anche interrotto il collegamento a Internet, con l’accusa di aver violato «un impegno scritto fatto al governo alla fine del 2017 di non rilasciare messaggi che avrebbero potuto interferire con altri Stati». A ottobre, ricorda sempre Bianchi sulla “Stampa”, il suo avvocato, Baltasar Garzon (cioè l’ex magistrato spagnolo anti-corruzione, già impegnato contro il dittatore cileno Pinochet) ha fatto causa al governo di Quito accusandolo di violare i «diritti e le libertà fondamentali» dell’uomo.Da allora le cose hanno continuato a precipitare fino all’ultimo colpo di scena: il ritiro dell’asilo politico, l’arresto e la conferma della richiesta di estradizione da parte degli Usa. «L’arresto di Julian Assange era prevedibile perché oramai tutte le voci fuori dal coro, tutti i personaggi che sfidano il pensiero unico sono inaccettabili e vanno eliminati», scrive Gianluca Ferrara sul “Fatto”. «A mio avviso – aggiunge – la “colpa” di Assange e della sua Wikileaks è quella di aver svelato quei poteri che proliferano dietro le quinte della politica estera e che puniscono chi si permette di rendere note le loro gesta. La “colpa” di Assange è quella di aver palesato ciò che si cela dietro la maschera che i mass media costruiscono». Ferrara rievoca la mattanza filmata da “Collateral murder” e resa pubblica il 12 luglio del 2007, con i due elicotteri Apache che sparano sui civili a Baghdad, accanendosi anche sui feriti, compresi i bambini. Tra le vittime della carneficina anche due cronisti della “Reuters”, Namir Noor Eldeen e Saeed Chmagh. Dall’elicottero, vedendo i corpi dilaniati, i militari statunitensi commentarono: «Guarda quei bastardi morti!».Come Manning e Snowden, dice Ferrara, uomini come Assange «ufficialmente possono aver violato delle leggi, ma hanno permesso di svelare nefandezze inquietanti». Assange andrebbe premiato, ribadisce Ferrara, «per il coraggio di aver denunciato quel Deep State, quel complesso di lobby che si celano dietro la facciata di Stati apparentemente democratici». Ora, Julian Assange – ospitato dall’ambascia dell’Ecuador dal 19 giugno 2012 – rischia il carcere duro e forse persino la vita, se venisse estradato negli Usa. Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, scriveva a gennaio Paolo Barnard, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, Assange, con le esplosive rivelazioni affidate a Wikilekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: dopo essere stato costretto a «morire giorno per giorno», trattato come un ospite sempre più sgradito, ora è finito in manette senza che nessuno sia riuscito a salvarlo, esattamente come previsto da Barnard.«Viviamo in un mondo capovolto: chi lavora per la libertà di parola e il libero giornalismo finisce in galera, chi si macchia di crimini di guerra resta a piede libero». Così lo sceneggiatore Paolo Mosca commenta, su Facebook, l’arresto a Londra di Julian Assange. Uno dei principali motivi per cui Assange è stato arrestato, scrive Mosca, dirigente del Movimento Roosevelt, è il video conosciuto come “Collateral murder”: elicotteri americani uccidono civili iracheni, a Baghdad, sparando nel mucchio. Nessuno di quegli assassini è stato condannato, aggiunge Mosca. In galera ci è finito solo Bradley Manning (oggi Chelsea Manning), cioè l’allora militare Usa che aveva poi inviato il video a Wikileaks, sottolinea Gianluca Ferrara sul “Fatto Quotidiano”, secondo cui «Assange andrebbe premiato, non arrestato». Se ora il governo italiano lo abbandonerà al suo destino, afferma il grillino Alessandro Di Battista, «non ci sarà differenza con gli scendiletto Usa che ci hanno governato negli ultimi trent’anni». Il solo a mobilitarsi per Assange, negli ultimi mesi, era stato Paolo Barnard, protagonista di un lunghissimo sit-it sotto le finestre del “prigioniero”, a Londra, durante le festività natalizie. Unica ammissione ottenuta da Barnard, quella di un giornalista del “Guardian”, Damien Gayle: «Sono stato in ansia a “twittarti”, ma dovevo farlo», gli scrisse Gayle, «perché la libertà di dissenso dovrebbe essere l’anima stessa del mio giornale. Spero non mi licenzino».
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Se la Cina ci ripensa: Via Polare della Seta, e addio Italia
E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.In un’analisi publicata sul suo blog, Barnard fa notare che il gigante logistico cinese Cccc (China Communications Construction Co.) esporrebbe gli scali italiani a pericoli considerevoli. Il primo: «Trieste e Genova possono trasformarsi in cloache d’inquinanti cinesi, avvelenando i cittadini e costringendo le amministrazioni a costi per danni di centinaia di milioni». Il secondo: «Gli investitori cinesi sono spietati: un solo sciopero di lavoratori portuali italiani, una sola vertenza ambientale italiana, e ci possono far causa per milioni o anche miliardi». Motivo: nel 1985, l’Italia ha firmato un trattato bilaterale con la Cina, ancora valido, dove il nostro paese s’impegna a rispettare la micidiale “Risoluzione delle dispute tra investitore e Stato” (Isds), dove «qualsiasi investitore cinese può far causa all’Italia se ritiene che le sue leggi gli danneggino il business, e i termini dei processi sono scandalosamente sbilanciati verso le mega-aziende». Poi c’è l’insidia degli eventuali lavoratori a contratto: non per forza italiani, magari cinesi. E nel caso, pesantemente sfruttati. Ma se i rischi connessi al lavoro riguardano le sole maestranze, l’inquinamento investirebbe le intere aree urbane.I quattro porti più inquinanti al mondo, avverte Barnard, sono ad alta intensità di navi cargo cinesi. «Singapore, Hong Kong, Tianjin e Port Klang. E’ un caso che nessuno di essi sia in Usa o in Europa?». Gli scali commerciali “vomitano” oltre 20 milioni di tonnellate all’anno di CO2, ossidi di azoto e di zolfo, metano e particolato Pm10. «E’ noto che i cargo di containers sputano veleni anche se fermi in porto, e si calcola che queste emissioni terribilmente nocive per gli abitanti delle città portuali si quadruplicheranno entro il 2050, secondo dati Unctad-Ocse del 2015». Emissioni, calcola Barnard, che in termini di danni collaterali (salute) costeranno 12 miliardi di euro all’anno, secondo le stime dell’Ocse sugli abitanti delle 50 principali città portuali (e questo già oggi, senza ancora la mega-espansione del traffico a Genova e Trieste). Nel porto greco del Pireo, ingigantito e gestito dal colosso cinese Cosco, gli operai hanno scioperato per ottenere almeno «il triste titolo di “lavoratori di mansioni usuranti e insalubri”». Qualcuno ci ha pensato, firmando il Memorandum Italia-Cina? Quanto al business, per Genova e Trieste «si parla più di un aumento di traffico di cargo che di partecipazioni societarie cinesi».Innanzitutto, continua Barnard, non è affatto chiaro chi pagherà per gli enormi ampliamenti strutturali dei due porti. La Cina? «Pechino ci presterà milioni, a patto che gli appalti vadano alle sue aziende? O ci presterà soldi e basta? O ce li metteremo noi? C’è caos, su questi punti». E poi: cosa significa mettere lavoratori sotto il controllo dei colossi cinesi? Gli esperti del Global Human Rights Lawyers (Ius Laboris, diritti del lavoro) scrivono quest’anno che «per gli Stati Uniti le scelte sono chiare in tema di Via della Seta: o si chiudono a riccio sul mercato interno con alto protezionismo, oppure accettano di abbassare il costo del lavoro e le protezioni sindacali dei propri lavoratori per competere coi cinesi». Chiaro il concetto? Washington ha già provato cosa significhi aprire ai colossi cinesi: a Saipan, territorio off-shore degli Stati Uniti, pochi anni fa gli americani concessero appalti a tre mega-aziende cinesi per la costruzione di un enorme sito turistico. Ebbene, il 91% dei posti di lavoro fu importato dalla Cina. Scaduti i visti, scrive Barnard, «i cinesi piuttosto che pagare di più per impiegare operai americani locali truffarono le autorità Usa importando lavoratori cinesi illegali con finti visti turistici». Li facevano lavorare 13 ore al giorno, con salari illegali negli Usa. «La sicurezza sul lavoro fu definita “atroce”, con montagne di feriti e persino di morti, come denunciato da Aaron Halegue della New York University Law School. Washington dovette intervenire, e fu una strage di cause e litigi, con una ridda di manager cinesi in galera».Stessa storia ad Atene, se non peggio: al Pireo, il colosso cinese Cosco s’è inventato «un sindacato cinese fittizio che vigilava su diritti fittizi», dopo aver preteso «la quasi totale esclusione del sindacato portuale ellenico». Anche in Grecia c’erano molti operai cinesi. Dopo le proteste furono rispediti a casa, «ma al loro posto non furono assunti i portuali greci, bensì operai a contratto dall’Est Europa». Così, Atene è rimasta senza lavoro. Nel 2014 i portuali greci organizzarono uno sciopero per denunciare l’alto tasso d’infortuni sul lavoro, sotto il management di Cosco. «Il premier Samaras gli mandò immediatamente la polizia in assetto antisommossa, e perché? Perché all’istante – scrive ancora Barnard – l’ambasciata cinese ad Atene aveva chiamato il governo, minacciando ritorsioni milionarie per danni al loro business secondo il sopraccitato infame sistema Isds». Conclusione: visto che le imponenti espansioni di Trieste e Genova coinvolgeranno manodopera cinese, il governo ha pensato a come affrontare l’eventuale ricatto, se Pechino dovesse imporre le sue maestranze, come condizione per onorare i suoi impegni finanziari? Sempre secondo Barnard, questi aspetti – piuttosto decisivi – non emergono mai, nelle dichiarazioni rilasciate dai presidenti delle autorità portuali Zeno D’Agostino (Trieste) e Paolo Signorini (Genova), nonché dal sottosegretario “gialloverde” Michele Geraci: cauti e garantisti sui media italiani, ma assai più filo-cinesi (business puro, senza tutele) se intervistati da giornali stranieri.Barnard sottolinea l’enorme asimmetria fra Italia e Cina: «L’economia cinese ha una potenza di fuoco da circa 14.000 miliardi di dollari; quella italiana è circa 1.900 miliardi di dollari, 7 volte di meno». Per i cinesi, investire in Italia per far profitti per appena 10 anni e poi tirarsi indietro, lasciando “arrugginire” le banchine di Genova e Trieste una volta spremuto il Belpaese, «è un rischio da spiccioli del caffè». Per noi, invece, sarebbe un disastro. «Ma attenti: le chance che questo accada si stanno materializzando già oggi», avverte Barnard, paventando la peggiore delle ipotesi: quella che vede la Cina in fuga dall’Italia, bypassando Suez e il Mediterraneo grazie alle due vere vie commerciali del futuro, l’Artico e l’Eurasia. Tutti oggi parlano della Via della Seta (marittima), ma Pechino sta già lavorando alla “Via Polare della Seta”. Ovvero: i ghiacci del Polo Nord si stanno sciogliendo a un ritmo vertiginoso, con estati a 30 gradi simili a quelle dell’Adriatico. Come i giganti occidentali dei cargo (ed esempio la Maersk), anche i cinesi stanno scommettendo sulle rotte marittime del Grande Nord liberato dai ghiacci.Per ora, riassume Barnard, i cargo seguono ancora la rotta del Sud, dalla Cina al Mediterraneo, attaverso Malesia, India, Golfo di Aden e Canale di Suez. Da qui l’interesse per Genova e Trieste. Tragitto: 13.000 miglia marittime. Ma se le navi fanno invece rotta verso Nord (Siberia, Russia, Norvegia), arrivano a Rotterdam dopo sole 8.000 miglia, tagliando i tempi di due settimane, con risparmi colossali. Ad oggi la direttrice artica è ancora poco battuta, ma la Copenhagen Business School – spiega Barnard – ha calcolato che, dati gli sforzi sia russi che cinesi, la Via Polare della Seta (già oggi percorribile anche d’inverno) diventerà frequentatissima in meno di 20 anni. Altro motivo per cui Pechino potrebbe preferirla: «La rotta tradizionale, a Sud, costringe i cinesi a passare per infinite “gogne” imposte dal dominio americano di ogni miglio di quella tratta, un fatto che strategicamente è intollerabile per la Cina». E non è tutto: a peggiorare le prospettive di Genova e Trieste c’è anche la rotta ferroviaria, sempre per le merci cinesi. Attraversa tutta l’Asia Centrale, la Turchia e i Balcani, arrivando in Europa occidentale attraverso la Grecia. «Anche su questa rotta il presidente Xi Jinping sta investendo cifre e soprattutto tecnologie forsennate, perché per questa via le merci arrivano da noi in meno di 14 giorni, un record».Le nuove tratte a scorrimento veloce «ridurranno i tempi ad addirittura 10 giorni», cioè record «imbattibili da qualsiasi rotta marittima». Questo poterebbe i costi ferroviari – oggi superiori a quelli marittimi – entro i limiti della convenienza. «E allora diventa fin banale arrivarci: noi italiani – conclude Barnard – adesso partiremo come pazzi a ingigantire Genova e Trieste, con investimenti “mega” che ancora nessuno sa da chi veramente saranno pagati. Stiamo facendo una scommessa senza precedenti, con pericoli ambientali e lavorativi alti o altissimi». Ma qualcuno, dalle parti di Di Maio, ha pensato a cosa potrebbe accadere fra una decina d’anni, con il boom della rotta marittima del Nord e l’esplosione ferroviaria eurasiatica? Il traffico verso l’Italia potrebbe crollare del 30%, con effetti devastanti sul nostro Pil entro il 2030. «Avete un’idea di che razza di voragine significherà, per le due città e per l’Italia che hanno investito e/o si sono indebitate?». Prima di firmare, il goveno ha affidato serie previsioni ai massimi esperti mondiali? «Bella roba, ritrovarci con Trieste e Genova fra pochi anni trasformate in ipertrofie di cemento e acciaio, inquinate come fogne, con disoccupazione, e ad arrugginirsi al sole. Debiti, buchi di bilancio, titoli da ripagare… Non sarebbe il primo, né l’ultimo, dei soliti dilettanteschi “Italian Jobs”».E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.
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Magaldi: Michael Jackson massone, ucciso per una canzone
«Se ci fossero ancora Roosevelt e Martin Luther King, queste cose non succederebbero». Chi l’ha detto? Michael Jackson, nientemeno. Anzi: lo ha cantato, nel brano “They don’t care about us” (non gliene frega niente, di noi). «Era il 1995, e probabilmente quei versi gli sono costati la vita», avverte Gioele Magaldi, esponente italiano del network massonico progressista internazionale nonché presidente del Movimento Roosevelt. “Testa scuoiata, testa morta: cibo per cani, tutti”. Noi e loro, l’élite. Osò ribellarsi, l’ex divo di plastica, intonando un martellante inno alla rivolta – memorabile il videoclip girato in una favela brasiliana, tra gli ultimi della terra, sotto l’occhiuta sorveglianza della polizia, presentata come il braccio armato degli oligarchi. Tema, l’ingiustizia sociale planetaria. Ovvia la citazione del reverendo King. Assai meno scontata – in bocca a “Jacko” – la seconda citazione: quella di Franklin Delano Roosevelt, il presidente del New Deal. Svelare l’arcano è meno difficile del previsto, se si tiene conto che l’autore di “Thriller” e “Billie Jean” faceva parte – addirittura dal 1975, pare – della massoneria di Prince Hall, la comunione iniziatica dei grandi artisti afroamericani, da James Brown a Ray Charles, incluso l’immenso Louis Armstrong.Sul tema è intervenuto anche Gianfranco Carperoro, “rooseveltiano” quanto Magaldi, per spiegare un paio di cose. La prima: Prince Hall fu la risposta massonica dei neri, esclusi dalla massoneria bianca americana. «E cosa potevano fare per esprimersi, i neri, nell’America segregazionista? Cantare, naturalmente: far parlare la loro musica». Seconda notizia: Jackson fu assassinato perché il potere aveva capito che l’ex Peter Pan del pop mondiale poteva diventare pericoloso, se avesse convertito i suoi milioni di fan alla causa sociale contro questa globalizzazione a senso unico, dei ricchi contro i poveri. Michael Jackson massone? Ebbene sì, rivelano Magaldi e Carpeoro: fu avvicinato dal grande produttore Quincy Jones. Motore culturale della black music, la leggendaria Motown Records di Detroit: la vera fonte della Prince Hall Freemansonry. «Difenderemo la sua memoria», avverte Magaldi, «di fronte a una denigrazione spregevole come quella del documentario “Leaving Neverland”, che Robert Redford ha purtroppo presentato al Sundance Festival». Il regista, Dan Reed, si concentra solo sui presunti abusi sessuali che Michael Jackson avrebbe perpetrato nei confronti di due bambini di 7 e 10 anni, oggi trentenni: Wade Robson e James Safechuck. Conferma Gabriele Antonucci, su “Panorama”: «Lascia davvero perplessi la scelta di intervistare solo i due protagonisti e i loro stretti familiari, con primi piani, lacrime di prammatica e musichette d’atmosfera».Il film, scrive Antonucci, «non offre quella pluralità di voci e quell’approfondimento che sono elementi indispensabili a ogni documentario degno di questo nome». Inoltre, aggiunge “Panorama”, «a fronte di accuse gravissime, appare davvero incredibile che il regista non si sia premurato di ascoltare o di riportare la versione dei fatti di uno dei rappresentanti legali o della fondazione che cura gli interessi di Jackson: il diritto alla difesa, in caso di accuse penalmente rilevanti, è costituzionalmente garantito in ogni Stato occidentale, in Usa come in Italia». Dal lungometraggio, di una durata parossistica (4 ore), «non sono emerse prove concrete che diano credibilità alle testimonianze», aggiunge Antonucci. C’è solo «uno sfilacciato taglia e cuci di immagini e dichiarazioni, il cui unico obiettivo è screditare Michael Jackson». Il regista Marcos Cabotà, presente alla “prima”, stronca il lavoro di Reed con queste parole: «Non riesco a credere a una sola parola delle due “vittime”. Cattiva recitazione. A volte, vergognosa. La regia e i testi sono addirittura peggio». Jackson uscì indenne dai processi per pedofilia: innocente, per la giustizia Usa. Ma i giornali ridussero l’happy end a poche righe: niente a che vedere con l’inferno di titoli a tutta pagina, “sparati” per dare risalto alle infamanti accuse.La prima piovve addosso all’eccentrico artista nel 1993, quando Evan Chandler, un ex dentista di Los Angeles (radiato dall’albo), raccontò che Jackson avrebbe abusato di suo figlio Jordan. Lo scandalo costò carissimo al cantante, impegnato in un tour planetario: anziché denunciarlo per tentata estorsione, “Jacko” sborsò a Chandler una cifra imprecisata, ma il suo sponsor – la Pepsi – rescisse il contratto. Poi l’accusa crollò: Evans, al telefono con l’avvocato, spiegò che voleva semplicemete vendicarsi: la sua ex moglie e Michael Jackson, che erano molto amici, si erano rifiutati di prestargli dei soldi. Non era finita: il piccolo Jordan denunciò suo padre per tentato omicidio. E nel 2009, cinque mesi dopo la morte di Jackson, Evan Chandler si uccise sparandosi alla testa, in una camera d’albergo. Ma i guai per il re del pop riesplosero nel 2003, quando Jackson fu addirittura arrestato per molestie ai danni del giovanissimo Gavin Anzo, malato di cancro e assistito dalla popstar. Nel 2005, però, Jackson fu assolto con formula piena (mai commesso reati), mentre la madre di Gavin fu condannata per frode fiscale. Ma intanto la demolizione pubblica era stata devastante: Michael Jackson era ridotto a un fantasma. E proprio mentre si stava finalmente riprendendo, con in programma il grande rientro sulle scene, a Londra, fu improvvisamente tolto di mezzo.Lo stesso Carpeoro mette in relazione il caso Jackson con l’ex produttore dei Beatles, il geniale Phil Spector. Fu lui, dice, a presentare a Michael Jackson il dottor Conrad Murray, cioè il medico poi condannato per avergli somministrato la dose letale di Propofol, il 25 giugno 2009, a tre settimane dai concerti di Londra. Murray era in contatto con Spector, assicura Carpeoro, e lo stesso Spector aveva inutilmente chiesto a “Jacko” che gli cedesse i diritti dei Beatles, che Michael aveva acquisito. Dopo una lunga lite proprio su quei diritti era stato ucciso John Lennon: l’assassino, Mark David Chapman, dichiarò di aver agito obbedendo “al demonio”. Satanismo? Sempre Carpeoro collega Spector anche alla morte di Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, uccisa alla vigilia della presentazione del film “Rosemary’s baby”. E’ la storia – terribile – di un bambino “consacrato a Satana”. «Il film – rivela Carpeoro – era la trasposizione dell’infanzia dello stesso Spector, figlio di genitori satanisti. Spector l’aveva confidata a Polanski, che però non avrebbe mai dovuto farne un film». Per l’omicidio di Sharon Tate finì all’ergastolo Charles Manson, anche lui in contatto con Spector: il produttore gli aveva promesso di farne una rockstar. Prima di morire, Manson chiese di incontrare Spector. Ma il produttore (a sua volta in carcere, per l’omicidio della sua compagna) si rifiutò di riceverlo.Michael Jackson era davvero diventato così ingombrante? Qualcuno decise di causarne addirittura la morte, dopo aver tentato di distruggerlo sul piano dell’immagine con accuse devastanti, poi rivelatesi infondate? Ne è convinto Gioele Magaldi, che avvisa: alla fine la verità verrà a galla, sul complotto di cui è rimasto vittima il “fratello” Michael Jackson. Movente: la paura che “Jacko” mettesse in piazza gli abusi dell’élite globalista. Una macchinazione di cui il documentario “Leaving Neverland” sembra l’ennesimo capitolo, postumo, per provare – ancora una volta – a spegnere la memoria dell’artista che 24 anni fa gettò il suo guanto di sfida al potere neoliberista, con quelle parole indimenticabili. “They don’t care about us”: viviamo in un mondo dominato da oligarchi; gente a cui non importa niente, di tutti noi. “E questo non succederebbe, se fossero vivi Roosevelt e Martin Luther King”. Magaldi l’ha precisato nel suo saggio “Massoni”: l’apostolo nero della lotta antisegregazionista, assassinato due mesi prima di Bob Kennedy, era un massone progressista esattamente come Roosevelt, di estrazione rosacrociana come il “Papa buono”, Giovanni XXIII. Ed è proprio allo spirito dei Rosa+Croce che Magaldi si ispira, anche in nome del “fratello” Michael, nel ribadire che il nostro mondo ha bisogno di una rivoluzione dell’uguaglianza fondata sui diritti, come quella invocata nel ‘600 negli storici appelli rosacrociani, da cui poi nacque il socialismo europeo. Prima o poi, verrano fuori anche i nomi di chi ha deciso che Michael Jackson dovesse morire, dopo aver citato Roosevelt e King?«Se ci fossero ancora Roosevelt e Martin Luther King, queste cose non succederebbero». Chi l’ha detto? Michael Jackson, nientemeno. Anzi: lo ha cantato, nel brano “They don’t care about us” (non gliene frega niente, di noi). «Era il 1995, e probabilmente quei versi gli sono costati la vita», avverte Gioele Magaldi, esponente italiano del network massonico progressista internazionale nonché presidente del Movimento Roosevelt. “Testa scuoiata, testa morta: cibo per cani, tutti”. Noi e loro, l’élite. Osò ribellarsi, l’ex divo di plastica, intonando un martellante inno alla rivolta – memorabile il videoclip girato in una favela brasiliana, tra gli ultimi della terra, sotto l’occhiuta sorveglianza della polizia, presentata come il braccio armato degli oligarchi. Tema, l’ingiustizia sociale planetaria. Ovvia la citazione del reverendo King. Assai meno scontata – in bocca a “Jacko” – la seconda citazione: quella di Franklin Delano Roosevelt, il presidente del New Deal. Svelare l’arcano è meno difficile del previsto, se si tiene conto che l’autore di “Thriller” e “Billie Jean” faceva parte – addirittura dal 1975, pare – della massoneria di Prince Hall, la comunione iniziatica dei grandi artisti afroamericani, da James Brown a Ray Charles, incluso l’immenso Louis Armstrong.
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Ricatto: vogliono vaccinarci tutti. E’ una guerra, fermiamoli
Ho due cose da dirvi: la prima riguarda lo scenario. Ed è che la lotta contro l’obbligo vaccinale non è solo la lotta contro l’obbligo vaccinale. Ormai lo abbiamo messo tutti a fuoco: qui si parla della sovranità sul proprio corpo. Qualcuno vuole cancellarla di fatto, prima ancora che di legge. Io non ci sto. Il 28 dicembre il Consiglio Europeo ha approvato tra le raccomandazioni vaccinali quella di istituire un “passaporto vaccinale”. E questo aggredisce il diritto alla libertà di spostamento. Il piano nazionale vaccini presentato dalla ministra Grillo prevede l’esonero dai concorsi pubblici per chi non sia in regola con le vaccinazioni. E questo aggredisce il diritto al lavoro. Il Ddl 770 prevede l’allargamento delle esclusioni scolastiche ad ogni ordine e grado. E questo aggredisce il diritto all’istruzione. E ovviamente, l’obbligo vaccinale di per sé aggredisce l’inviolabilità del corpo. Se non assumiamo i farmaci che decidono loro, ci vogliono impedire di lasciare uno Stato, limitare le possibilità di lavorare, impedire di studiare e conseguire titoli di studio e fondamentalmente vogliono poter fare del nostro corpo quello che gli pare e piace anche contro la nostra stessa volontà.Questo rende chiaro che i vaccini, la salute pubblica, la scienza, in questa vicenda alla fine non c’entrano un cazzo. Sono un alibi, uno strumento con cui produrre un cambiamento percettivo di massa. Produrre a tavolino una popolazione che accetta, anzi festeggia, la demolizione controllata dei propri diritti, la cancellazione della propria sovranità. Sul proprio corpo, sulla propria famiglia, sul proprio Stato. Non so voi, io non ci sto. Io nel mio corpo ci vivo e nessuno, per nessun motivo, potrà mai decidere di farci cose senza il mio consapevole, libero e indipendente consenso. Quindi non mi basta che questo obbligo venga cancellato. Ogni trattamento sanitario obbligatorio deve essere dichiarato illegale. Le leggi devono venire cambiate. Il principio della sovranità deve venire ristabilito e garantito in modo chiaro e inequivocabile: sovranità dell’individuo sul proprio corpo e sulla propria mente, di cui è unico proprietario e responsabile; sovranità della famiglia, comunque essa venga intesa, sovranità prioritaria rispetto allo Stato nelle decisioni sui propri figli minorenni; sovranità dello Stato nelle proprie decisioni economiche, sociali, culturali, che devono rispecchiare la volontà del popolo, non quelle di arroganti élite sovranazionali che si credono una razza superiore.Questo deve essere l’obiettivo, chiaro e inequivocabile. Ogni altro obiettivo di minore ampiezza sarebbe comunque una finta vittoria: una concessione temporanea da parte di chi detiene il vero potere dentro cui viviamo oggi prigionieri, che un domani verrà ritirata. Non so voi, ma io non mi sono svegliato a metà: ho gli occhi bene aperti e non li chiuderò di nuovo. La seconda cosa che ho da dirvi riguarda il metodo. In questi due anni abbiamo protestato in ogni modo ragionevole, cercato ogni tipo di dialogo possibile, e non ha funzionato: perché, molto semplicemente, quando non ci hanno insultato, accusato di colpe odiose e immaginarie o preso in giro, ci hanno totalmente ignorato. Quindi è tempo che noi si prenda una decisione fondamentale: se vogliamo soltanto continuare a ribadire le nostre ragioni restando inascoltati, o se invece vogliamo tradurle in realtà. Credo che l’esperienza del governo in vigore lo abbia chiarito a tutti: non cambieranno nulla. Non importa cosa hanno promesso, non importa nemmeno cosa stanno ancora promettendo: non cambieranno nulla perché non vogliono cambiare nulla. Che costi troppo politicamente, che temano ritorsioni delle controparti o che si siano fatti conquistare da qualche lusinga non cambia un emerito cazzo: non cambieranno nulla.Se vogliamo che questo obbligo scompaia, non basta più chiederlo, e non basta nemmeno più pretenderlo: dobbiamo costringerli. Dobbiamo costringere lo Stato a cancellare questo abuso. E come li possiamo costringere? Con azioni: pratiche e concrete azioni di pressione. Facciamo parte del paese Italia. Bene, ci sono migliaia di modi in cui possiamo ostacolare il paese Italia. Possiamo boicottarne settori, piccoli e grandi, con azioni di gruppo mirate e specifiche. Possiamo infilare tanti di quei bastoni negli ingranaggi di questo paese da arrivare persino a bloccarlo del tutto. Ma se lo facciamo, smettiamo di essere un fenomeno da baraccone, dei rompiscatole folkloristici i cui voti cercare di fottersi con qualche promessina, o da prendere per il culo sui giornali di regime, e comunque di cui ignorare costantemente le richieste: diventiamo un pericolo concreto. E se diventiamo un pericolo concreto, ci combatteranno seriamente. Non come succede oggi.Oggi violano i nostri diritti, i diritti dei nostri figli, ma non ci stanno affatto combattendo; perché gli serviamo, dopotutto. Siamo gli untori contro cui motivare fanatismo. Ma se diventiamo una minaccia concreta al sistema, il sistema ci colpirà con tutta la sua forza. Saremo denunciati, anche con reati inventati su misura. Perseguiti, arrestati, condannati. Come lo sono stati tutti coloro che hanno combattuto per i loro diritti, per i diritti del loro popolo. Che fosse il diritto di voto delle donne o la fine dell’apartheid, la abolizione della schiavitù o la fine della discriminazione dell’orientamento sessuale, persone hanno combattuto, sono state perseguitate, imprigionate, persino torturate o uccise. Questa battaglia non ha nulla di differente: vuole cancellare delle imposizioni, sostenute da una struttura che è insieme economica, culturale e militare e che non ha la minima intenzione di riconoscere questi diritti – anzi, lavora attivamente per cancellarli definitivamente dalla storia. Quindi, se combattiamo davvero, queste cose succederanno anche ad alcuni tra noi.La cosa importante è capire, mettere bene a fuoco che non stiamo parlando di una passeggiata. Tutti vogliamo sentirci gli eroi dei film che abbiamo visto, impavidi e pronti a tutto contro i potenti cattivi. Ma qui, nel mondo reale, si pagano costi alti anche solo a provarci. Questo dobbiamo per prima cosa capire a fondo, per poi decidere se vogliamo farlo o meno. La domanda è: siete pronti a questo? Perché se preferite onestamente continuare a fare battaglia solo a parole, a livello di principi, per me va anche bene: basta esser chiari sul fatto che non cambieremo un cazzo, perlomeno non per i prossimi trecento anni. Se è così, diciamocelo chiaro e smettiamo di illuderci con speranze inutili. Io scriverò altri libri, pubblicherò post e articoli, voi farete un po’ quel che vi pare. I bambini continueranno a venire esclusi dagli asili, poi dalle scuole, poi dalle mense, e così gli adulti. Le nostre Sovranità continueranno a venire violate, compresse, cancellate. Oppure, raccogliamo il coraggio e combattiamo. Sapendo che pagheremo prezzi alti, che verremo colpiti duramente, personalmente. Che le nostre vite potrebbero venire stravolte, spezzate.Fatemelo dire chiaro: la battaglia sarà lunga, non durerà meno di un decennio. E lo sappiamo benissimo: i mezzi a disposizione del nemico sono enormi rispetto ai nostri. Eppure, possiamo vincere. Vi sembra impossibile? Beh, Gandhi ha combattuto contro un impero. Equipaggiato soltanto un paio di sandali ha fronteggiato un esercito. Ha chiesto, gentilmente, a quell’esercito di andarsene dalla sua terra, dal suo Stato. Ha insistito, ha promosso scioperi e sabotaggi, ci sono voluti oltre trent’anni costellati da centinaia di morti, migliaia di feriti e decine di migliaia di imprigionati. Ma alla fine ha vinto. Io di fare passerella a ribadire soltanto concetti teorici ne ho francamente avuto abbastanza. Se vogliamo iniziare a combattere davvero, ci sono. Voi, sul serio, ci siete? Pensateci e decidete, liberamente e responsabilmente.Io la mia decisione la ho presa: si chiama Rete Nazionale di Sostegno per la Libertà, in breve ReNaSoLi. Ne ho già parlato anche a Bologna il 23 settembre del 2018. Molto in breve, ha la finalità ideologica di ristabilire la piena sovranità, in ordine di importanza, dell’individuo, della famiglia e dello Stato. E si pone come obiettivi due finalità concrete: 1. avviare una rete di agevolazioni reciproche volontarie; 2. creare una struttura operativa di difesa e reazione. Dedicherò altri post a descriverne meglio sia l’impianto teorico che la struttura organizzativa; per ora posso dire che sta già sommando le forze di molte realtà e di molti individui. Il sito di riferimento, ancora assolutamente temporaneo, è http://www.renasoli.it. Io la mia decisione la ho presa. Adesso la scelta sta a voi.(Stefano Re, intervento pronunciato alla manifestazione contro l’obbligo vaccinale svoltasi a Torino il 23 marzo 2019, ripreso in video su YouTube e trascritto da “Luogo Comune”).Ho due cose da dirvi: la prima riguarda lo scenario. Ed è che la lotta contro l’obbligo vaccinale non è solo la lotta contro l’obbligo vaccinale. Ormai lo abbiamo messo tutti a fuoco: qui si parla della sovranità sul proprio corpo. Qualcuno vuole cancellarla di fatto, prima ancora che di legge. Io non ci sto. Il 28 dicembre il Consiglio Europeo ha approvato tra le raccomandazioni vaccinali quella di istituire un “passaporto vaccinale”. E questo aggredisce il diritto alla libertà di spostamento. Il piano nazionale vaccini presentato dalla ministra Grillo prevede l’esonero dai concorsi pubblici per chi non sia in regola con le vaccinazioni. E questo aggredisce il diritto al lavoro. Il Ddl 770 prevede l’allargamento delle esclusioni scolastiche ad ogni ordine e grado. E questo aggredisce il diritto all’istruzione. E ovviamente, l’obbligo vaccinale di per sé aggredisce l’inviolabilità del corpo. Se non assumiamo i farmaci che decidono loro, ci vogliono impedire di lasciare uno Stato, limitare le possibilità di lavorare, impedire di studiare e conseguire titoli di studio e fondamentalmente vogliono poter fare del nostro corpo quello che gli pare e piace anche contro la nostra stessa volontà.
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Carpeoro: nelle mie logge non c’erano magistrati né politici
Anziché escludere i massoni dalla politica, non sarebbe meglio se fosse la massoneria stessa, a monte, a chiudere le porte a chi ha incarichi pubblici? Si eviterebbero tanti equivoci, incluse le tempeste giudiziarie come quella che sta travolgendo il mondo politico siciliano, con il recentissimo caso della loggia “coperta” di Castelvetrano. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, saggista e dirigente del Movimento Roosevelt. «In alcune regioni italiane – dice – la contiguità tra mafia e massoneria è particolarmente vistosa». Nel 2005 Carpeoro arrivò a sciogliere l’intera obbedienza di cui era “sovrano gran maestro” (storica espressione del Rito Scozzese italiano) dopo aver chiuso innanzitutto le logge siciliane e calabresi. «Della mia massoneria – dichiara in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – per mia esplicita disposizione non potevano essere ammessi nemmeno magistrati ed esponenti della forze dell’ordine», proprio per evitare che li si potesse accusare, un giorno, di essere tentati di favorire “confratelli” nei guai con la giustizia. «L’aiuto massonico deve avere carattere privato», sottolinea Carpeoro: «Se un “fratello” finisce in carcere, se necessario si deve sostenere finanziariamente la sua famiglia, ma certo non gli si può evitare la galera».Osservatore privilegiato della scena politica italiana, un tempo vicino a Bettino Craxi, Carpeoro è autore di saggi particolarmente scomodi: “Dalla massoneria al terrorismo”, edito nel 2016 da Revoluzione, imputa a settori dei servizi segreti Nato la “sovragestione” degli attentati condotti dall’Isis in Europa, rilevaldone la chiara matrice simbolica non islamica, ma templarista e massonica. Quanto alla massonofobia di facciata esibita in modo ipocrita dal Movimento 5 Stelle, Carpeoro conferma l’appartenenza massonica di Gianroberto Casaleggio, da poco segnalata dal presidente del Movimento Roosevelt, Gioele Magaldi. Su Casaleggio senior, Carpeoro aggiunge: «Era affiliato alla massoneria inglese, e anche a una Ur-Lodge attualmente di segno reazionario, anch’essa radicata nel mondo britannico». Come svelato da Magaldi nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014), le superlogge sovranazionali sono 36 organismi che reggono di fatto i destini mondo, al di sopra dei governi. Quello di Casaleggio era dunque un cenacolo oligarchico? «Sì, ma Casaleggio era un visionario, non un reazionario: e ogni visionario punta sempre al bene dell’umanità, non al suo male», fa notare Carpeoro, spesso critico con i grillini.Lo stesso Carpeoro ha spesso denunciato l’influenza del politologo statunitense Michael Ledeen su Luigi Di Maio: «E’ stato lui a organizzargli i tour alla vigilia dello scorso anno nei santuari supermassonici della finanza atlantica». Secondo Carpeoro, Ledeen – membro di spicco del potente Jewish Institute – è un tipico esponente della “sovragestione” della politica italiana: «Fu accanto a Craxi ma al tempo stesso anche a Di Pietro, poi a Renzi e contemporaneamente a Di Maio». Lobby ebraica? Supermassoneria reazionaria? Carpeoro diffida del complottismo, preferisce dosare rivelazioni precise e proporre analisi. La scorsa estate denunciò le manovre francesi per bloccare la nomina di Foa in Rai tramite Napolitano, Tajani e Berlusconi. Ora avverte: persa la partita contro Foa, sarebbe stato proprio il supermassone Jacques Attali, “padrino” di Macron, a premere (insieme al consueto Ledeen) perché il governo gialloverde cambiasse il vertice dei servizi segreti italiani, finora distinisi per essere riusciti a proteggere il nostro paese dal terrorismo.Dettagli che fanno pensare, specie se si alza il volume sull’infiltrazione della mafia nelle logge siciliane, ma si tace sul resto. Come dire: si strepita per piccole questioni locali, senza mai voler vedere le trame della vera massoneria di potere, quella sovranazionale. «Lo stesso dicasi per il caso Mps: il Montepaschi era una struttura interamente massonica, e il massone David Rossi – precipitato dalla finestra del suo ufficio, nel 2013 – è morto per aver scoperto una verità imbarazzante». E cioè che era stato Mario Draghi, allora governatore di Bankitalia, a manovrare perché la banca di Siena si esponesse a operazioni spericolate, eseguendo ordini di scuderia provenienti dal gotha della finanza massonica mondiale. Quanto alla massoneria nazionale italiana, Carpeoro ormai se ne tiene alla larga: reputa tramontata la sopravvivenza della sua eredità culturale, e sconsiglia chiunque dall’avvicinarsi alle logge, ormai – a suo dire – in completo declino. L’insidia della malavita? «Risolvibile anche quella, volendo – conclude l’avvocato – nella misura in cui sono risolvibili anche gli altri mali storici italiani». A patto che, ovviamente, si smetta di fingere di non vederli.Anziché escludere i massoni dalla politica, non sarebbe meglio se fosse la massoneria stessa, a monte, a chiudere le porte a chi ha incarichi pubblici? Si eviterebbero tanti equivoci, incluse le tempeste giudiziarie come quella che sta travolgendo il mondo politico siciliano, con il recentissimo caso della loggia “coperta” di Castelvetrano. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, saggista e dirigente del Movimento Roosevelt. «In alcune regioni italiane – dice – la contiguità tra mafia e massoneria è particolarmente vistosa». Nel 2005 Carpeoro arrivò a sciogliere l’intera obbedienza di cui era “sovrano gran maestro” (storica espressione del Rito Scozzese italiano) dopo aver chiuso innanzitutto le logge siciliane e calabresi. «Nella mia massoneria – dichiara in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – per mia esplicita disposizione non potevano essere ammessi nemmeno magistrati ed esponenti della forze dell’ordine», proprio per evitare che li si potesse accusare, un giorno, di essere tentati di favorire “confratelli” nei guai con la giustizia. «L’aiuto massonico deve avere carattere privato», sottolinea Carpeoro: «Se un “fratello” finisce in carcere, se necessario si deve sostenere finanziariamente la sua famiglia, ma certo non gli si può evitare la galera».
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Pietà per Michael Jackson, viveva come se fosse già morto
A dieci anni dalla morte di Michael Jackson, un film in uscita mette a soqquadro la memoria della pop star e getta lunghe ombre di pedofilia sulla sua controversa figura. Due ex-adolescenti lo accusano di abusi sessuali e il mondo nuovamente si divide tra i suoi perduranti fan e i suoi detrattori, i suoi famigliari e i suoi accusatori, mentre fioccano denunce e querele. Non entrerò nel merito della questione, ma mi soffermerò sul mito di questo cantante. Quando morì, nel 2009, Michael Jackson era già morto da tempo immemorabile e passava la sua vita di cadavere ad amministrare la sua sontuosa decomposizione, il suo mito e le sue apparizioni. Mandava videoclip dall’aldilà, a volte canzoni, spargeva aneddoti e immagini sconcertanti, in una danza scatenata, musicale e farmaceutica, sanitaria e giudiziaria, intorno alla sua bara. Studiava da morto da parecchi anni, annunciava tumori e paralisi, simulava morti e resurrezioni, e dissimulava le malattie troppo banali come la vitiligine, esibiva mutazioni raccapriccianti e malattie genetiche esclusive, come si addice agli dei; ma la sua divinità non sprigionava l’aura dell’immortalità, era una morte prolungata per ripararsi dalla vita, le sue offese e le sue invadenze.Non era mai capitato ma ci fu un mercato nero per procurarsi a caro prezzo un invito ai suoi funerali; e mai espressione come mercato nero fu più azzeccata per indicare un traffico di soldi illeciti intorno al funerale di un nero pentito. Funerali rinviati per gestire la gigantesca dimensione del cordoglio, a più di dieci giorni dalla morte. Fu un’icona e un prototipo di chi si rivolge alla tecnica e ai farmaci per manipolare la vita e risolvere i problemi che un tempo affidava alla religione, alla filosofia e al mito. Non esprimo giudizi morali di condanna per la sua vita né giudizi musicali di celebrazione davanti al suo corpo irriconoscibile, al suo naso ridotto ad una presa elettrica, alle sue labbra simili alla fessura di un bancomat, a un viso sfigurato che perde quel che Lévinas riteneva essere l’inalterabile specificità di una persona: il volto. Non aveva volto, Jackson. Quel che gli era rimasto addosso era una specie di mascherina estetico-funeraria, un incrocio tra il visage dall’estetista e la cera mortuaria da obitorio. Non voglio soffermarmi sulle accuse di pedofilia che lo hanno accompagnato anche in vita e tantomeno abbracciare gli alibi dei suoi fan che ebbe un’infanzia difficile e da ricco finanziò opere benefiche in favore dell’infanzia.Sbianchettandosi in quel modo orrendo tradì la sua identità e quella di tutti i neri della terra. Offese la negritudine. Quel suo essere un Ogm umano, geneticamente modificato per sfuggire alla sua identità, quel suo razzismo biologico, masochista, contro la sua origine, suscita un’infinita, irredimibile pietà. Quel suo stuprarsi la vita, resettare l’origine e la memoria, rivelava pena e strazio di vivere. E la sua immensa ricchezza, la sua straordinaria fama, non alleviavano quella pena, semmai la ingigantivano, la facevano più clamorosa e cosmica, fino a renderlo il testimonial planetario della condizione umana che volta le spalle al cielo e alla terra, cioè alla vita e all’immortalità, per vivere una gloriosa parodia di morte prolungata, uno spettacolo di agonia anestetizzata. Alla sua morte pensarono di asportargli il cervello per capire di che era morto. Ma al di là del referto medico, chi studia l’animo umano in rapporto alla vita e al suo svanire già lo sa. Jackson è morto di rifiuto della condizione umana e terrena, rifiuto della realtà, del mondo, orrore della vita e dei suoi limiti, ricusazione del fato.È martire della società postumana, transgenica e transumana, che si illude di sopravvivere alla vita rinunciando a viverla, che si sottrae agli urti, all’invecchiamento e alla realtà per preservarsi pura e incontaminata in una surreale esistenza asettica che coincide con un’eutanasia. Fuori dall’età che avanza, fuori dal mondo. Terrore di contatti con gli umani. Odori umani troppo umani, schifo per le cose e per i cibi, cordone sanitario per ripararsi dalla vita e da quella rude e primitiva verità che è la natura. Figli nati senza incontro carnale, senza eros; della vita resta solo un’icona incorporea. E per sottrarsi alle passioni umane, analgesici e anoressia. Jackson era la proiezione su maxischermo di una condizione mentale diffusa tra chi vuol modificare la sua vita e allontanarsi dalla natura, dalla finitudine, dal declino: tatuaggi e chirurgie, pillole e lifting, alcol e droga, diete e radicali modifiche del proprio look, perché si soffre la propria identità, voglia di autocrearsi e di sottrarsi al carcere del proprio corpo. Antiche eresie, religioni gnostiche degenerate, paradisi artificiali che somigliano all’inferno. La cura di sé sfocia nell’imbalsamazione già da vivo.Il suo simulacro è quella cassa a ossigeno scelta per la toilette funeraria. E la sua location più appropriata era quella sua villa che si chiamava non a caso Neverland e che, non a caso, non riescono a vendere. La terra che non c’è per una vita che non c’era. Neverlife. Il simbolo più efferato di questa condizione postumana è il suo stomaco: era vuoto di cibi e pieno di pillole e sostanze contro il dolore, contro la depressione, contro l’ansia, contro i contagi. Nel suo stomaco si raccoglieva come un’urna il male occidentale, i suoi fantasmi, la sua paura di invecchiare, di morire, di soffrire, di contagiarsi, di finire in solitudine e di restare incarcerati nei limiti della condizione umana. Un rifiuto del destino, un odio del fato, che è stato fatale. Neverlife è l’epitaffio più sensato per titolare la compilation della sua vita. Ha speso la vita a organizzare il suo funerale. Non infierite ora a dieci anni dalla morte riesumando la sua vera o presunta pedofilia. Abbiate pietà di quell’uomo che si inflisse già da morto la pena di una vita sontuosa in fuga da se stesso, dal mondo, dagli umani.(Marcello Veneziani, “Michael Jackson, il nero pentito”, da “La Verità” del 17 marzo 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).A dieci anni dalla morte di Michael Jackson, un film in uscita mette a soqquadro la memoria della pop star e getta lunghe ombre di pedofilia sulla sua controversa figura. Due ex-adolescenti lo accusano di abusi sessuali e il mondo nuovamente si divide tra i suoi perduranti fan e i suoi detrattori, i suoi famigliari e i suoi accusatori, mentre fioccano denunce e querele. Non entrerò nel merito della questione, ma mi soffermerò sul mito di questo cantante. Quando morì, nel 2009, Michael Jackson era già morto da tempo immemorabile e passava la sua vita di cadavere ad amministrare la sua sontuosa decomposizione, il suo mito e le sue apparizioni. Mandava videoclip dall’aldilà, a volte canzoni, spargeva aneddoti e immagini sconcertanti, in una danza scatenata, musicale e farmaceutica, sanitaria e giudiziaria, intorno alla sua bara. Studiava da morto da parecchi anni, annunciava tumori e paralisi, simulava morti e resurrezioni, e dissimulava le malattie troppo banali come la vitiligine, esibiva mutazioni raccapriccianti e malattie genetiche esclusive, come si addice agli dei; ma la sua divinità non sprigionava l’aura dell’immortalità, era una morte prolungata per ripararsi dalla vita, le sue offese e le sue invadenze.