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Magaldi: che delusione, l’esperienza gialloverde sta fallendo
«Diciamocelo: l’esperienza gialloverde sta fallendo. Lega e 5 Stelle rischiano grosso, di fronte alla cocente delusione degli elettori che avevano creduto nella loro scommessa». Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), che svela la natura supermassonica del vero potere, che in Europa si nasconde dietro la tecnocrazia di Bruxelles e le cancellerie che contano, Berlino e Parigi in primis. Spettacolo penoso, la retromarcia tattica del governo Conte di fronte alle minacce dell’euro-establishment, «come se il problema fosse davvero il deficit al 2,4%», che ora peraltro il governo si sta preparando a “sacrificare”. Linea perdente, dice Magaldi: guai, a cedere al ricatto. Perché siamo di fronte a una colossale farsa: tutti sanno benissimo che Bruxelles non ha affatto a cuore il benessere del sistema-Italia. L’unico vero obiettivo dei nostri censori – Moscovici e Juncker, Macron e Merkel – è stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di rovesciare il paradigma neoliberista dell’austerity, propagandato e difeso “militarmente” a colpi di spread. Sul piano contabile non può far paura a nessuno, l’esiguo incremento del deficit inizialmente previsto dal Def per il 2019. Lo sanno Di Maio e Salvini, ma lo sanno anche i signori di Bruxelles. A inquietare gli oligarchi, semmai, è la bandiera della ribellione, sventolata dall’Italia per qualche settimana.L’orgogliosa rivendicazione post-keynesiana del governo Conte, sottolineata dal richiamo al New Deal rooseveltiano da parte di Paolo Savona, poteva innescare un benefico contagio europeo, basato sulla richiesta di sovranità democratica. Se invece ora l’Italia fa retromarcia e dice “abbiamo scherzato”, per Lega e 5 Stelle può essere l’inizio della fine, sostiene Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Una riflessione a tutto campo, quella del presidente del metapartitico Movimento Roosevelt, nato per rigenerare la politica italiana scuotendola dal torpore conformistico dell’equivoca Seconda Repubblica, durante la quale la finta alternanza dei partiti al potere – centrodestra e centrosinistra – ha costretto l’Italia a imboccare la via del declino, tra delocalizzazioni e privatizzazioni improntate alla “teologia” neoliberale che demonizza la spesa pubblica al solo scopo di trasferire potere e ricchezza ai grandi oligopoli privati. Magaldi è stato uno sponsor del governo Conte, che ha lungamente supportato e incoraggiato – a patto però che rompesse l’incantesimo che vieta all’Italia di riappropriarsi della sua sovranità, a cominciare da quella monetaria.L’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, invoca il ricorso a una moneta parallela. Proprio la gestione dell’euro – monopolizzata dal cartello finanziario che detiene il controllo della Bce – è uno dei punti strategici su cui farà leva il “partito che serve all’Italia”, cantiere politico roosveltiano che il prossimo 22 dicembre a Roma comincerà a costruire un’agenda concreta. Le delusione di fronte al cedimento all’Ue non impedisce a Magaldi di continuare a considerare Lega e 5 Stelle gli unici interlocutori potenzialmente credibili: certo, se si alza bandiera bianca sul deficit 2019, la partita è destinata a slittare al 2020, dopo le europee, traguardo al quale il governo intende presentarsi senza avere sulle spalle il peso dell’eventuale procedura d’infrazione per eccesso di debito. Ma così, obietta Magaldi, non si può sperare di andare lontano. Per un motivo essenziale: è perdente, sempre e comunque, piegarsi a un ricatto. E quello degli oligarchi Ue è un ricatto ipocrita, travestito da economicismo: il rigore viene spacciato per strada maestra, quando gli stessi ideologi dell’austerity sanno perfettamente che il taglio della spesa produce solo recessione e disoccupazione.La stessa manovra gialloverde non è certo impeccabile, annota Magaldi: non c’è ancora la più pallida idea di come applicare l’eventuale reddito di cittadinanza sbandierato da Di Maio, mentre – sul fronte leghista – siamo lontani anni luce dal decisivo sgravio fiscale promesso alle elezioni. «E’ di quello che hanno bisogno come il pane gli ambienti imprenditoriali che avevano sostenuto Salvini: cosa importa, alle aziende, del “decreto sicurezza” appena approvato? Oltretutto, quel decreto – davvero pessimo – potrebbe anche configurare pesanti e inaccettabili limitazioni alle libertà personali». Neppure nella versione con il deficit al 2,4%, insiste Magaldi, la manovra mostrava sufficienti investimenti nei settori in grado di rilanciare l’economia: un impegno troppo esiguo, non certo adeguato a garantire quel “moltiplicatore economico” di cui il paese ha bisogno. Premessa: «Aumentare il deficit è doveroso, per rimettere in moto l’economia, purché però si investa nei settori che garantiscano la crescita dell’occupazione». Si corre il rischio di fare «la stessa figura di Tsipras, che ha tradito i greci per piegarsi all’Ue». Altro paragone increscioso, quello con Matteo Renzi: «Era andato a Bruxelles facendo il fanfarone, annunciando svolte epocali per uscire dall’austerity di Monti e Letta, ma poi ha ceduto su tutta la linea».Tsipras e Renzi sappiamo che fine hanno fatto. A Salvini e Di Maio, un analogo scivolone costerebbe l’osso del collo. Anche perché ormai l’opinione pubblica italiana ha preso le misure, ai padreterni di Bruxelles: oggi, a Mario Monti ed Elsa Fornero l’italiano medio non stenderebbe più il tappeto rosso. S’è messo in moto qualcosa di profondo, nel paese, anche grazie alla politica pre-elettorale della Lega e dei 5 Stelle, carica di aspettative. Ora, come dire, sarebbe folle rimangiarsi la parola data. Guai ad arretrare, di fronte alle minacce dei burattini di quella che resta una cupola finanziaria supermassonica, la stessa che ha insediato all’Eliseo il micro-oligarca Macron, contro il quale oggi la Francia stessa si sta sonoramente ribellando. E l’Italia che fa, resta a guardare? Si lascia intimidire da uno spaventapasseri come Juncker dopo aver promesso cataclismi epocali? Grave errore, sottolinea Magaldi, aver usato toni irridenti con l’Ue, se poi ci si prepara a genuflettersi a Bruexelles come Renzi e Gentiloni. Meglio un dialogo franco e leale, giusto per dire: cari amici, che ne direste di farla davvero, l’Europa?Sottinteso: questo obbrobrio di Ue va cestinato, perché ha disastrato l’economia del continente seminando crisi su crisi. Da dove ripartire? Ovvio, dall’inizio: la parola chiave è antica, si chiama “democrazia”. E in questa pseudo-Europa, purtroppo, oggi è sinonimo di “rivoluzione”. Magaldi preferisce il termine “radicalismo”, ma il senso è quello: radere al suolo l’impalcatura (marcia dalle fondamenta) dell’attuale Disunione Europea, dove la Germania – come segnala l’imprenditore Fabio Zoffi – bacchetta l’Italia per il suo 130% di debito, mentre quello di Berlino (occulto) veleggia verso il 300% del Pil. Negli ultimi anni, a scuotere l’opinione pubblica hanno provveduto celebri “whistleblower” come Julian Assange (Wikileaks) e Edward Snowden (la disinvoltura della Nsa nella gestione dei Big Data, in termini di spionaggio di massa). Dal canto suo Magaldi – altro “insider”, se vogliamo, ma proveniente dal mondo delle Ur-Lodges – ha scoperchiato il vaso di Pandora delle quasi onnipotenti superlogge sovranazionali. Obiettivo: consentire al pubblico di aprire gli occhi, imparando a riconoscere la vera identità dei tanti oligarchi che si spacciano per guide illuminate.L’Ue? Un loro prodotto. Movente: confiscare diritti, sovranità e democrazia, per organizzare il più grande trasferimento di ricchezza della storia, dal basso verso l’alto. Narrazione mainstream: è giusto tagliare lo Stato. Risultato scontato: sofferenze sociali. Parla da solo il caso italiano: 25 anni di decandenza ininterrotta, presentata come fisiologica. Una farsa colossale, abilmente inscenata da partiti “comprati” e disinformatori di corte. Poi è arrivato l’inciampo elettorale dei gialloverdi. E ora che fanno, tornano a casa con la coda tra le gambe? Sappiano, ribadisce Magadi, che non possono farlo: l’Italia non li perdonerebbe. Perché la vera sfida è solo all’inizio. E tutti i falsi dogmi del dominio – rigore, austerity, pareggio di bilancio – saranno spazzati via, il giorno che l’Europa nascerà davvero, con la sua Costituzione democratica e il suo governo federale, finalmente eletto dagli europarlamentari votati dai cittadini europei. Utopia? Non per Gioele Magaldi, intenzionato a incalzare «gli amici gialloverdi» senza fare sconti a nessuno, avendo chiaro «quello che serve davvero all’Italia». Non la diplomazia, con Bruxelles, ma il confronto (durissimo) che in tanti avevano sperato potesse essere inaugrato proprio da Salvini e Di Maio.«Diciamocelo: l’esperienza gialloverde sta fallendo. Lega e 5 Stelle rischiano grosso, di fronte alla cocente delusione degli elettori che avevano creduto nella loro scommessa». Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), che svela la natura supermassonica del vero potere, che in Europa si nasconde dietro la tecnocrazia di Bruxelles e le cancellerie che contano, Berlino e Parigi in primis. Spettacolo penoso, la retromarcia tattica del governo Conte di fronte alle minacce dell’euro-establishment, «come se il problema fosse davvero il deficit al 2,4%», che ora peraltro il governo si sta preparando a “sacrificare”. Linea perdente, dice Magaldi: guai, a cedere al ricatto. Perché siamo di fronte a una colossale farsa: tutti sanno benissimo che Bruxelles non ha affatto a cuore il benessere del sistema-Italia. L’unico vero obiettivo dei nostri censori – Moscovici e Juncker, Macron e Merkel – è stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di rovesciare il paradigma neoliberista dell’austerity, propagandato e difeso “militarmente” a colpi di spread. Sul piano contabile non può far paura a nessuno, l’esiguo incremento del deficit inizialmente previsto dal Def per il 2019. Lo sanno Di Maio e Salvini, ma lo sanno anche i signori di Bruxelles. A inquietare gli oligarchi, semmai, è la bandiera della ribellione, sventolata dall’Italia per qualche settimana.
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La lotteria dell’universo e i numeri sbagliati del pianeta
La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.Il messia. Alla mia destra, aveva detto, e alla mia sinistra. Sedevano a tavola, semplicemente. Avevano sprecato un sacco di tempo in chiacchiere inconcludenti, e lo sapevano. Con colpevole ritardo, dopo inenarrabili vicissitudini dai risvolti turpemente malavitosi, si erano infine rimessi al nuovo sire, l’inviato dall’alto. Familiarmente, tra loro, lo chiamavano messia, essendo certi che avrebbe fatto miracoli e rimesso le cose al loro posto, ma non osavano consentirsi confidenze di sorta: ne avevano un timoroso rispetto. Quell’uomo incuteva soggezione, designato com’era dal massimo potere superiore. Non restava che ascoltarlo, in composto silenzio, assecondandolo in tutto e sopportandone la postura da tartufo. La sua grottesca affettazione si trasformava inevitabilmente, per i servi, in squisita eleganza. Gareggiavano, i sudditi, in arte adulatoria. Stili retorici differenti, a tratti, permettevano ancora di distinguere i servitori seduti a destra da quelli accomodati a sinistra.Tungsteno. L’isoletta era prospera e felice, o almeno così piaceva ripetere al governatore, sempre un po’ duro d’orecchi con chi osava avanzare pretese impudenti, specie in materia di politica economica, magari predicando la necessità di sani investimenti in campo agricolo. Il popolo si sentì magnificare le virtù del nuovo super-caccia al tungsteno, ideale per la difesa aerea. Ma noi non abbiamo nemici, protestarono. Errore: potremmo sempre scoprirne. Il dibattito si trascinò per mesi. I contadini volevano reti irrigue, agronomi, serre sperimentali, esperti universitari in grado di rimediare alle periodiche siccità. Una mattina il cielo si annuvolò e i coloni esultarono. Pioverà, concluse il governatore, firmando un pezzo di carta che indebitava l’isola per trent’anni, giusto il prezzo di un’intera squadriglia di super-caccia al tungsteno.Stiamo pensando. Stiamo pensando alla situazione nella sua inevitabile complessità, alle sue cause, alle incidenze coincidenti ma nient’affatto scontate. Stiamo pensando a come affrontare una volta per tutte la grana del famosissimo debito pubblico, voi capite, il debito pubblico che è come la mafia, la camorra, l’evasione fiscale, l’Ebola, gli striscioni razzisti negli stadi, la rissa sui dividendi della grande fabbrica scappata oltremare, l’abrogazione di tutto l’abrogabile. Perché abbiamo perso? Stiamo pensando a come non perdere sempre, a come non farvi perdere sempre. Stiamo pensando, compagni. E, in confidenza, di tutte queste problematiche così immense, così universali, così globalmente complicate, be’, diciamocelo: non ne veniamo mai a capo. Il fatto è che non capiamo, compagni. Non capiamo mai niente. Ma, questa è la novità, ci siamo finalmente ragionando su. Stiamo pensando. Una friggitoria di meningi – non lo sentite, l’odore?Unni. Scrosciarono elezioni, ma il personale di controllo era scadente e il grande mago cominciò a preoccuparsi, dato che i replicanti selezionati non erano esattamente del modello previsto. Lo confermavano a reti unificate gli strilli dei telegiornali, allarmati anche loro dall’invasione degli Unni. Non si capiva quanto fossero sinceri i loro slogan, quanto pericolosi. Provò il dominus ad armeggiare con i soliti tasti, deformando gli indici borsistici, ma non era più nemmeno certo che il trucco funzionasse per l’eternità. Vide un codazzo di Bentley avvicinarsi alla reggia e si sentì come Stalin accerchiato dai suoi fidi, nei giorni in cui i carri di Hitler minacciavano Mosca. Ripensò ai tempi d’oro, quando gli asini volavano e persino gli arcangeli facevano la fila, senza protestare, per l’ultimissimo iPhone.(Estratto da “La lotteria dell’universo”, di Giorgio Cattaneo. “Siamo in guerra, anche se non si sentono spari. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo: e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie. Fotogrammi: 144 pillole narrative descrivono quello che ha l’aria di essere l’inesorabile disfacimento di una civiltà”. Il libro: Giorgio Cattaneo, “La lotteria dell’universo”, Youcanprint, 148 pagine, 12 euro).La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.
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Inaudito Salvini: colpa dei “verdi” la catastrofe-alluvione
Alberi piegati e spazzati via. Interi versanti stravolti. Anche da smottamenti e frane. Corsi d’acqua, ingrossati da piogge torrenziali ma anche da detriti e tronchi. Tanti, tantissimi, al punto di avere l’impressione che si tratti di distese, in movimento. Strade interrotte, abitazioni danneggiate fino a comprometterne l’agibilità. Collegamenti impossibili, da giorni. Acquedotti disintegrati. Quasi un cataclisma. Come un inferno. Nel quale le persone, quelle di ogni luogo, cercano di mettere un po’ d’ordine. Mentre l’aria odora di resina e di pioggia. Ben oltre di un milione di metri cubi di foreste abbattute, in Trentino, in Alto Adige e in Veneto. «È il giorno dei morti, degli alberi morti. Sgomentano le fotografie che mostrano l’immane cimitero di guerra di uno tra i nostri più preziosi patrimoni naturali», ha scritto il 2 novembre Isabella Bossi Fedrigotti sul “Corriere della Sera”. Insomma, «è cambiato per sempre il profilo delle Dolomiti, nostra straordinaria riserva di ossigeno, pregiatissimo magazzino-vita che non sarà possibile ripristinare chissà per quanto». Chiaro? «Per sempre». Lassù, sulle montagne nelle quali d’estate si va in vacanza a passeggiare oppure d’inverno a sciare, nulla sarà più come prima. Come è stato fino al disastro.«La situazione è pesante, apocalittica, strade devastate, tralicci piegati come fuscelli», ha detto il direttore del dipartimento della Protezione Civile nazionale Angelo Borrelli al termine del sopralluogo sulle zone più colpite dal maltempo. Il presidente del Veneto, Zaia, parla di «almeno 1 miliardo di euro di danni» in tutta la regione e il sottosegretario Giancarlo Giorgetti annuncia di aver deciso di destinare 1 milione di euro al recupero dei boschi dell’Altopiano di Asiago, devastati dal maltempo. Il vicepremier Luigi Di Maio ha annunciato che sarà dichiarato lo stato di emergenza per tutte le regioni colpite e Matteo Salvini, dopo aver sorvolato in elicottero le zone sconvolte dagli eventi, è arrivato all’aeroporto di Belluno dove è stata istituita una sala operativa dalla Prefettura. Chi si sarebbe aspettato, almeno in questa occasione, che Salvini, rispettando il ruolo istituzionale, avesse parlato con toni pacati, sarà rimasto deluso. Chi immaginava che il ministro degli interni e vicepresidente del Consiglio dei ministri avrebbe rinunciato al suo naturale desiderio di protagonismo, di fronte al cataclisma, si sarà sorpreso, forse.«Troppi anni di incuria e malinteso ambientalismo da salotto che non ti fanno toccare l’albero nell’alveo ecco che l’alberello ti presenta il conto», ha detto Salvini. Certo ha dichiarato anche che «il bosco vive e deve essere curato e il greto del torrente dragato», aggiungendo che «la tutela della montagna dovrebbe essere affidata alle comunità locali». Certo, ha anticipato che «in settimana ci sarà un Consiglio dei ministri per questi eventi». Innegabile. Ma quel riferimento al “malinteso ambientalismo da salotto” e ai guasti che avrebbe comportato sommerge tutto il resto. Detto e fatto. Vanifica le altre parole e i prossimi impegni. Quindi l’ecatombe di Trentino, Alto Adige e Veneto è la conseguenza dei comitati ambientalisti che da anni si battono perché proprio quelle aree non siano spazi nei quali gli affari prevalgano sulla natura? Non siano zone nelle quali gli interessi di pochi vedano il sacrificio di beni comuni? Quindi per Salvini le contrarietà avanzate da tante associazioni, a partire dalla sezione di Belluno di Italia Nostra, sono corresponsabili di quel che sta accadendo? Quindi il disastro “è colpa” anche della battaglia contro il prolungamento della A27 lungo la direttrice Cadore-Comelico?Quindi il disastro è imputabile anche alla scelta di plaudire alla decisione, seguendo peraltro la normativa europea a tutela delle acque, di dire basta ai finanziamenti al mini-idroelettrico che distrugge gli ultimi torrenti naturali e produce poca energia? Quindi il disastro va ascritto alla decisione di schierarsi avverso la candidatura di Cortina come sede delle Olimpiadi invernali del 2016? Molti quesiti, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri. Molte le domande che il sasso lanciato da Salvini con le sue dichiarazioni, suggerisce. Quel che sembra indubitabile, fra molte incertezze, è che il “malinteso ambientalismo da salotto” evocato dal ministro degli interni e vicepresidente del Consiglio, può anche suonare come una offesa. Per gli abitanti dell’Agordino, quelli del Feltrino, del Comelico e dell’Ampezzo. Per quelli di Pieve di Livinallogo del Col di Lana. Persone che hanno conosciuto la guerra, della quale rimangono ancora le trincee sulla montagna. Lavoratori che preferiscono le azioni alle parole. Soprattutto quando inappropriate. Lì sulle montagne i tweet non contano. Lassù ci si aspetta aiuto, ma si esige rispetto.(Manlio Lilli, “Maltempo, le parole di Salvini sono un’offesa per chi si batte per l’ambiente”, dal blog di Lilli sul “Fatto Quotidiano” del 4 novembre 2018).Alberi piegati e spazzati via. Interi versanti stravolti. Anche da smottamenti e frane. Corsi d’acqua, ingrossati da piogge torrenziali ma anche da detriti e tronchi. Tanti, tantissimi, al punto di avere l’impressione che si tratti di distese, in movimento. Strade interrotte, abitazioni danneggiate fino a comprometterne l’agibilità. Collegamenti impossibili, da giorni. Acquedotti disintegrati. Quasi un cataclisma. Come un inferno. Nel quale le persone, quelle di ogni luogo, cercano di mettere un po’ d’ordine. Mentre l’aria odora di resina e di pioggia. Ben oltre di un milione di metri cubi di foreste abbattute, in Trentino, in Alto Adige e in Veneto. «È il giorno dei morti, degli alberi morti. Sgomentano le fotografie che mostrano l’immane cimitero di guerra di uno tra i nostri più preziosi patrimoni naturali», ha scritto il 2 novembre Isabella Bossi Fedrigotti sul “Corriere della Sera”. Insomma, «è cambiato per sempre il profilo delle Dolomiti, nostra straordinaria riserva di ossigeno, pregiatissimo magazzino-vita che non sarà possibile ripristinare chissà per quanto». Chiaro? «Per sempre». Lassù, sulle montagne nelle quali d’estate si va in vacanza a passeggiare oppure d’inverno a sciare, nulla sarà più come prima. Come è stato fino al disastro.
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I barbari alle porte: anche Salvini tra gli ideologi pro-Tav
Hanno alzato bandiera bianca sui vaccini e poi sul gasdotto Tap nel Salento, deludendo i propri elettori a cui avevano promesso barricate. Per questo, i 5 Stelle ora sembrano intenzionati a “sacrificare” la grande opera più controversa della storia al pari del Ponte sullo Stretto: la linea Tav Torino-Lione, massimo emblema del lato oscuro del potere, quello che tratta i cittadini come sudditi. Faraonico, devastante e costosissimo, ma soprattutto scandalosamente inutile: il tracciato Tav transalpino, che trasformerebbe la valle di Susa in una wasteland inabitabile, resta un mistero della fede. In vent’anni, nessun governo è mai riuscito a dimostrarne l’utilità. Proprio questo aspetto rende la Torino-Lione un totem metafisico, il “Dio lo vuole” dei nuovi crociati, spesso mercenari, arruolati dall’imperativo teologico dello sviluppismo affaristico all’italiana. Tra i suoi hoolingan figurano gli immancabili Pd e Forza Italia, cui si aggiunge il disinvolto Salvini che, di fronte all’immane cataclisma del Brasile, con l’eroe nazionale Lula escluso dalle elezioni per via giudiziaria, non trova di meglio che cinguettare “finalmente la sinistra ha perso anche in Brasile”, reclamando lo scalpo dell’ex terrorista Cesare Battisti. E mentre festeggia la vittoria dell’ultraliberista e militarista Jair Bolsonaro, la Lega si prepara allo scontro con i 5 Stelle, aggrappati al “no alla Tav” fatto votare solennemente dalla città di Torino.I media alzano il volume, di fronte allo sconcertante evento simbolico consumatosi nel capoluogo subalpino guidato da Chiara Appendino: raccontano che il Piemonte, come nelle fiabe, sprofonderà nell’abisso. Non uno, tanto per cambiare, che sappia davvero descriverlo, l’abisso. «La Tav è un’opera strategica», piange il capogruppo leghista a Torino, Fabrizio Ricca. «Non vogliamo correre il rischio di vedere il nostro territorio tagliato fuori dalle tratte commerciali europee proprio ora che ne avrebbe più bisogno». La Torino-Lione strategica? Secondo l’autorità svizzeria incaricata dall’Ue di monitorare i trasporti alpini, al contrario, la linea sarebbe un’opera-spazzatura: la ferrovia attuale Torino-Modane potrebbe aumentare del 900% il traffico, se solo esistessero queste famose merci tra trasportare. Sa di cosa parla, Luigi Ricca? E soprattutto: perché anche lui, come i suoi autorevoli colleghi e predecessori del Pd e di Forza Italia, non si premura di spiegare in che modo, la rinuncia alla linea-doppione, taglierebbe fuori il Piemonte dal mondo civile? «C’è un blocco ideologico», protesta l’ideologo degli industriali piemontesi, Dario Gallina: «Il Piemonte muore, se non si fa questa opera». Mille e non più mille: sta arrivando l’Armageddon, scatenato dall’ex steward dello stadio napoletano Luigi Di Maio.Di ideologia parla un altro eminente ideologo piemontese, il presidente della Camera di Commercio torinese Vincenzo Ilotte, insieme ai portavoce degli artigiani e dei sindacati. «È disarmante – singhiozzano – avere interlocutori che antepongono l’ideologia all’interesse del territorio». Che brutta, ideologia altrui. Che orrore. «Non vogliamo tornare al medioevo», chiosa il medievalista Claudio Chiarle, della Fim-Cisl. Giorgio Marsiaj, industriale dell’Amma, è altrettanto categoricamente millenaristico: parla di «decisione gravissima» che rischia di essere «letale» per Torino e di far sprofondare la città «in un burrone». Non uno degli ipotetici “vedovi” della Torino-Lione, neppure stavolta, si perita di dare spiegazioni, citare numeri, esibire proiezioni – salvo, naturalmente, tentare di liquidare come “ideologica” la posizione NoTav che oggi i 5 Stelle sembrano sposare. La Torino-Lione resta un banco di prova, innanzitutto, per la democrazia italiana: si vorrebbe finanziare una maxi-opera miliardaria ad altissimo impatto, fortemente contestata (e “smontata”, dati alla mano dagli oppositori) senza la minima preoccupazione di illustrare almeno, alla popolazione, la sua eventuale utilità. Senza spiegazioni, il Tav valsusino resta un capolavoro ideologico neoliberista nel senso tharchriano: There Is No Alternative, prendere o lasciare. Alla faccia del mitico populismo sovranista del signor Salvini.Hanno alzato bandiera bianca sui vaccini e poi sul gasdotto Tap nel Salento, deludendo i propri elettori a cui avevano promesso barricate. Per questo, i 5 Stelle ora sembrano intenzionati a “sacrificare” la grande opera più controversa della storia al pari del Ponte sullo Stretto: la linea Tav Torino-Lione, massimo emblema del lato oscuro del potere, quello che tratta i cittadini come sudditi. Faraonico, devastante e costosissimo, ma soprattutto scandalosamente inutile: il tracciato Tav transalpino, che trasformerebbe la valle di Susa in una wasteland inabitabile, resta un mistero della fede. In vent’anni, nessun governo è mai riuscito a dimostrarne l’utilità. Proprio questo aspetto rende la Torino-Lione un totem metafisico, il “Dio lo vuole” dei nuovi crociati, spesso mercenari, arruolati dall’imperativo teologico dello sviluppismo affaristico all’italiana. Tra i suoi hoolingan figurano gli immancabili Pd e Forza Italia, cui si aggiunge il disinvolto Salvini che, di fronte all’immane cataclisma del Brasile, con l’eroe nazionale Lula escluso dalle elezioni per via giudiziaria, non trova di meglio che cinguettare “finalmente la sinistra ha perso anche in Brasile”, reclamando lo scalpo dell’ex terrorista Cesare Battisti. E mentre festeggia la vittoria dell’ultraliberista e militarista Jair Bolsonaro, la Lega si prepara allo scontro con i 5 Stelle, aggrappati al “no alla Tav” fatto votare solennemente dalla città di Torino.
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Akakor, Amazzonia: l’impero segreto dei Figli delle Stelle
Nel 13.000 avanti Cristo, «brillanti navi dorate» raggiunsero le foreste lussureggianti del Sudamerica. Ne scesero «maestosi stranieri con la carnagione bianca, il volto contornato dalla barba, folta chioma nera con riflessi blu». Avevano anche «sei dita alle mani e ai piedi», proprio come i Nephilim (giganti) di cui parla la Bibbia, il cui ultimo discendente, Golia, secondo il racconto biblico fu abbattuto dal mitico Davide. I personaggi comparsi in Amazzonia «dissero di provenire da Schwerta, una costellazione lontanissima con innumerevoli pianeti, che incrocia la Terra ogni 6.000 anni». Sconosciuta la tecnologia in loro possesso: «Pietre “magiche” per guardare ovunque nel mondo, arnesi che scagliano fulmini e incidono le rocce, la capacità di aprire il corpo dei malati senza toccarlo». Fiabe? Chissà. In ogni caso, si tratta di storie pericolose: spesso sono costate la vita ai ricercatori che tentarono di approfondirle, capirle, svelarle (compreso un vescovo cattolico, monsignor Giocondo Grotti). E’ un vero e proprio cimitero – sconosciuto ai più – quello dei “cercatori” dell’altro Eldorado, l’ipotetica civiltà dei Figli delle Stelle che, in Amazzonia, avrebbero fondato imponenti città-Stato (sotterrannee) tra piramidi sepolte nella giungla, rivelando all’umanità la sua vera origine. Prima vittima di questa leggendaria scoperta: un giornalista tedesco, Karl Brugger, stabilitosi nel dopoguerra a Manaus.La sua avventura inizia nel 1972, nell’ex capitale del caucciù alla confluenza tra l’Amazonas e il Rio Negro. Dopo tante esplorazioni tra gli indios, Brugger fa l’incontro che gli cambierà la vita: entra in contatto con Tatunca Nara, che si considera l’ultimo capo degli Ugha Mongulala, misteriosa Tribù degli Alleati Eletti. Da lui proviene un racconto straordinario, tratto direttamente dai “libri sacri” che costituiscono la cronistoria di un regno scomparso, Akakor. La “Cronaca di Akakor” racconta Dino Vitagliano sul blog “Acam”, ripreso da “La Crepa nel Muro”, si compone di vari testi: “Il Libro del Giaguaro”, “Il Libro dell’Aquila”, “Il Libro della Formica” e “Il Libro del Serpente d’Acqua”. C’è scritto che gli Alleati Eletti, provenienti dal cielo, «con infinito amore donarono agli indios il lume della civiltà e gettarono le basi di un impero vastissimo». Il reame comprendeva «Akakor, l’imprendibile fortezza di pietra nella vallata sui monti al confine tra Perù e Brasile», ma anche «Akanis in Messico e Akahim in Venezuela», senza contare «le grandiose città di Humbaya e Patite in Bolivia, Cadira, Emin sul Grande Fiume e maestosi luoghi sacri: Salazare, Tiahuanaco e Manoa sull’altopiano a sud». L’antropologo Samir Osmanagich, scopritore delle Piramidi di Visoko in Bosnia datate 28.000 anni, avverte: l’Amazzonia e l’America Centrale ospitano migliaia di antichissime piramidi, sepolte dalla vegetazione: costruite da chi?La disposizione delle piramidi, incluse quelle egizie – aggiunge Osmanagich – riproduce sempre il sistema stellare di qualche precisa costellazione. E’ il caso delle 13 “città invisibili” di Akakor, costruite nel sottosuolo per sfuggire alla vista degli intrusi: «La loro pianta riproduce fedelmente Schwerta, la dimora cosmica degli Antichi Padri». Secondo il racconto della “Cronaca di Akakor”, di sapore mitologico, «una luce innaturale» illumina le città dall’interno, mentre un ingegnoso complesso di canalizzazioni assicura l’afflusso di aria e acqua anche in profondità. Nella narrazione poi compaiono numeri precisi, per raccontare l’improvvisa scomparsa dei “padri celesti”: «Il potente dominio, che contava sotto di sé 362 milioni di individui, durò 3.000 anni». Poi, nell’Ora Zero – identificata nel 10.481 avanti Cristo – gli Antichi Padri «ripresero la via del cielo», sia pure «con la promessa di ritornare». Un viavai astronautico, che ricorda quello che Mauro Biglino ricava direttamente dalla rilettura letterale, in ebraico, dell’Antico Testamento (solitamente tradotto con un’infedeltà clamorosa, capace di trasformare in “gloria” l’inesplicabile “Khavod” con cui, si legge, l’Eohim chiamato Yahvè era solito volare, come su un’astronave capace di varcare le “porte del cielo” che conducono “le olàm”, nello spazio sconosciuto).La partenza dei Figli delle Stelle dall’Amazzonia, prosegue la sintesi offerta da Vitagliano, fu decisamente traumatica: «La Terra parve piangere la loro scomparsa e, 13 anni dopo, un’immane catastrofe si abbattè sul pianeta e sconvolse il suo aspetto, seminando ovunque morte e desolazione». Sapevano, gli “dei” precipitosamente partiti, che cosa sarebbe successo al nostro pianeta? Al che, gli uomini «persero la fede» in quelli che avevano cominciato a considerare “dèi”. La società umana degenerò, e gli individui presero a commettere «azioni crudeli», pessima abitudine protrattasi «nei millenni a venire». Ma non è tutto: «Seguì un seconda catastrofe: una stella gigantesca dalla coda rossa impattò la Terra, provocando un immane diluvio», altro “topos” narrativo citato in tutte le letterature antiche. Secondo le parole di quelli che, nel frattempo, erano diventati sacerdoti, «quando la disperazione avesse raggiunto il culmine, i Primi Maestri sarebbero tornati». Circa 6.000 anni dopo, infatti – nel 3.166 avanti Cristo – ricomparvero le “navi d’oro”. Un nuovo ciclo di regalità “illuminata”: «Lhasa, il Sublime, regnò ad Akakor». E attenzione: «Suo fratello Samon volò sul Nilo per fondare un secondo impero». In più, il nuovo potere egizio «approdava regolarmente in terra sudamericana», sempre «a bordo di immense navi».A che punto era, nel resto del mondo, la civiltà umana attorno al 3000 avanti Cristo? A Creta stava per nascere la cultura minoica, sulla sponda orientale del Mediterraneo sorgeva il villaggio da cui sarebbe nata Troia, mentre sul Nilo regnava la primissima dinastia di faraoni. Più avanzata la civiltà dei Sumeri in Mesopotamia, con importanti città come Ur e Uruk, mentre in Siria si stagliavano le mura di Aleppo. Grandi movimenti da oriente verso occidente: la Cina già molto sviluppata, i contatti con l’Iran, i primi stanziamenti indoeuropei in Ucraina e l’agricoltura che si affaccia sul Baltico, mentre in Inghilterra sorgono le prime tracce di Stonehenge. Legami con l’Amazzonia? Reperti di varia natura scoperti dagli archeologi confermano la presenza egiziana in Sudamerica, come la Roccia delle Scritture che l’antropologo statunitense George Hunt Williamson rinvenne sulle Ande nel 1957, istoriata da geroglifici simili a quelli egizi, venerata dai nativi e collegata alla discesa di antenati spaziali che dimoravano nel “Gran Paititi”. Fili non proprio invisibili, che collegano continenti lontani, fino al mitico impero delle Amazzoni.«Il principe di Akakor – prosegue la “Cronaca” del regno amazzonico – governò con saggezza riorganizzando l’impero distrutto ed eresse nuove città come Manu, Samoa e Kin in Bolivia, e Machu Picchu in Perù. Trecento anni rimase sulla Terra, finchè un giorno si diresse sulla Montagna della Luna, sopra le Ande, e disparve nel cielo in un fuoco». Partenza che riecheggia quella di Quetzalcoatl, misterioso personaggio messicano poi venerato come “divinità”. Millenni di guerre contro le tribù nemiche – aggiunge Vitagliano – videro Akakor cadere e risorgere più volte, stringendo anche alleanze con «stirpi straniere giunte da lontano». Attenzione: le tradizioni degli Ugha Mongulala parlano di «popolazioni bianche, come i Goti che visitarono le loro terre». Nientemeno: sarebbero gli antenati degli stessi Goti che, con Alarico, avrebbero tentato di ripristinare la perduta “regalità iniziatica” resuscitando quel che restava dell’Impero Romano.Ancora una volta, sottolineano i blog “Acam” e “La Crepa nel Muro”, questa citazione si rivela una notevole conferma delle antiche cronache medievali, nelle quali «navi vichinghe partite all’esplorazione di mondi lontani, dopo un naufragio, approdarono sulle coste del Sudamerica». Nella Sierra di Yvytyruzu, in Paraguay, l’archeologo franco-argentino Jacques de Mahieu negli anni ‘70 scoprì un masso istoriato di caratteri runici e disegni dei Drakkar, le navi nordiche, con anche un uomo barbuto protetto da un’armatura. «Le attuali popolazioni di quei territori possiedono la pelle bianca, un torace sviluppato e la barba». Ma un evento ancor più strano, «preconizzato nelle antiche scritture degli Antenati Divini», è l’arrivo ad Akakor di 2.000 soldati tedeschi: militari del Terzo Reich, che aiutarono gli indios ad armarsi contro i “barbari bianchi” (ma senza successo, perché la Germania stava ormai perdendo la Seconda Guerra Mondiale). «I nativi ricordano lo stemma cucito sulla giacche delle truppe, identico ai covoni di grano in foggia di svastica, che rotolavano dalle colline durante cerimonie sacre nel solstizio d’estate».Lo stesso Hitler era ossessionato a tal punto dalle tradizioni esoteriche da abbracciare le idee della società segreta Thule, che prendeva il nome di un vasto territorio esteso dal Mar del Gobi al Polo Nord, abitato dalla “civiltà degli Iperborei”, considerata custode di antiche conoscenze perdute. L’esistenza di una “razza antichissima” che viveva in cavità sotterranee in Amazzonia stimolò la sua curiosità, spingendo il capo del nazismo a inviare numerose spedizioni in tutto il globo per accertare la veridicità dei suoi studi occulti. In questo caso il contingente tedesco “atteso” dagli indios salpò da Marsiglia, a bordo di un sommergibile, per una missione segretissima: tentare di prendere contatto con la mitica Tribù degli Alleati Eletti, quella che – decenni dopo – Karl Brugger avrebbe intercettato, incontrando Tatunca Nara (cioè la fonte principale della leggendaria “Cronaca di Akakor”). Sempre secondo Dino Vitagliano, non fu casuale la scelta, da parte dei nazisti, di partire dal porto mediterraneo: «Un resoconto di viaggio del navigatore greco Pitea di Massalia, nel IV sec a.C., il “De Oceano”, narra la partenza da Massalia, l’antica Marsiglia, per giungere alla mitica Thule ubicata nei ghiacci remoti nel lontano Nord. Molto probabilmente la città francese custodisce segreti esoterici noti ai nazisti da lungo tempo».Sempre secondo la “Cronaca”, il Tempio del Sole di Akakor, vigilato da guardie armate, custodisce mappe segrete, vergate dagli Antichi Padri: mostrano il cosmo com’era millenni prima, con altre Lune, un’isola perduta ad Ovest e una terra in mezzo all’Oceano, «inghiottite dai flutti nel corso di un’epica battaglia stellare», combattuta tra due progenie di “dèi”, le cui conseguenze «investirono persino i pianeti Marte e Venere». A un certo punto, in questa favolosa cosmogonia, compare l’umanità: «I Signori del Cielo portarono l’uomo da un pianeta all’altro, fino a giungere sulla Terra». Già l’austriaco Hanns Hoerbiger, teorico nazista, aveva postulato l’esistenza di varie Lune nelle ère perdute della Terra. Poi c’è un’allusione diretta ai Vimana, le “astronavi” dei Deva (i paleo-astronauti indiani di cui si parla nei Veda, poi trasformati in “divinità” con la nascita dell’Induismo): le mappe di Akakor, citate da Brugger, si ricollegano alla carta astronomica del 4.000 avanti Cristo, appartenuta al compianto ricercatore britannico David Davenport sulle rotte dei Vimana verso il nostro pianeta, provenienti da sistemi stellari lontanissimi. Amazzonia, India, Palestina: è come se venisse raccontata sempre la stessa storia, sia pure in lingue diverse. Qualcuno sarebbe giunto sulla Terra dallo spazio profondo, dando origine all’uomo.Nella foresta pluviale amazzonica, questa “conoscenza” sarebbe stata preservata secondo precise modalità: «Fedeli ai desideri dei Primi Maestri, i sacerdoti raccolsero tutto il sapere e la storia della Tribù Eletta in libri custoditi in una sala scolpita nella roccia all’interno delle dimore sotterranee. Nello stesso luogo gli enigmatici disegni dei Padri Divini sono incisi in verde e azzurro su di un materiale sconosciuto. Disegni che né l’acqua né il fuoco riescono a distruggere». Sempre nel Tempio del Sole, «nei sotterranei giacciono anche armi simili a quelle dei tedeschi appartenute agli “dèi”, l’astronave di Lhasa, un cilindro di metallo ignoto che volava senz’ali, e un veicolo anfibio che attraversava le montagne». Tatunca Nara raccontò a Karl Brugger di aver visto con i suoi occhi «una sala rischiarata da una luminosità azzurrina che mostrava in animazione sospesa quattro persone, tra cui una donna, con sei dita alle mani e ai piedi, entro contenitori di cristallo pieni di liquido». Fervida fantasia fantascientifica – decisamente fuori luogo, in un indio amazzonico degli anni ‘70 – o testimonianza semplicemente sconcertante, così come l’intera storia del regno sotterraneo di Akakor fondato dai Padri Celesti?Il ricercatore italiano Antonio Filangieri verificò le credenziali di Karl Brugger tramite il fratello, Benno, incontrato a Monaco. Benno Brugger rivelò a Filangieri che, dopo l’improvvisa morte di Karl, «colpito in circostanze misteriose da una pallottola nel 1984», il consolato tedesco aveva perquisito l’appartamento di Karl a Rio de Janeiro, confiscando tutta la documentazione relativa alla spedizione di Akakor. «In seguito, le casse con gli incartamenti furono oggetto di diversi tentativi di furto». Di punto in bianco, il console tedesco di Rio venne trasferito in Costa d’Avorio, con i documenti al seguito. Parte del materiale, infine, scomparve non appena giunse in Germania, dov’era arrivato su richiesta di Benno Brugger. Ma non tutto era perduto: «Quando Tatunca Nara avviò delle trattative con alti ufficiali bianchi per fermare lo sterminio indiscriminato degli indios, che prosegue tuttora indisturbato da parte delle autorità, ebbe modo di affidare alcuni scritti degli “dèi” a un vescovo cattolico». Si tratta di monsignor Giocondo Grotti. Dopo aver spedito i documenti in Vaticano, il prelato morì in uno strano incidente aereo, il 28 settembre 1971, durante il decollo dalla pista amazzonica di Sena Madureira, nello Stato dell’Acre, alla frontiera brasiliana con il Perù. Disgustato dai “barbari” bianchi, Tatunca Nara si dichiara orgoglioso delle sue origini: «Noi siamo uomini liberi, del Sole e della Luce. Non vogliamo gravare il nostro cuore del peso della loro fede errata e bugiarda».Con pazienza, conclude Vitagliano, il vecchio Tatunca Nara attende il ritorno degli “dèi”. O forse le “divinità”, tuttora nascoste negli impenetrabili recessi di Akakor, «attendono con pazienza che gli uomini tornino a loro stessi». In ogni caso, aggiunge il ricercatore su “Acam”, il Terzo Reich non fu il solo a interessarsi al mitico regno amazzonico. L’antica civiltà scomparsa, le cui colossali rovine sarebbero sepolte sotto le foreste del Sudamerica, è stato il sogno di numerosi avventurieri nel corso delle varie epoche. Già nel 1530 l’ufficiale di Pizarro, Francisco Orellana, favoleggiava di un reame pieno d’oro tra il Rio delle Amazzoni e il fiume Orinoco. La Chiesa ne sa qualcosa: «I gesuiti sono in possesso di antichi scritti di viaggio relativi a un’antica popolazione che dimora in una città maestosa nella giungla brasiliana». Un gruppo di sette uomini, guidato dal geografo americano Hamilton Rice, nel 1925 si spinse nella Sierra Parima, tra Venezuela e Brasile, alla scoperta di Ma-Noa, la capitale del leggendario El Dorado. Curiosamente, annota Vitagliano, il nome ricorda Manu, una delle 13 città costruite da Lhasa, detto il Sublime, che avrebbe regnato su Akakor 3.000 anni prima di Cristo.La documentazione più importante riguardo l’esistenza di scomparse civilizzazioni antecedenti a quelle conosciute – aggiunge sempre Vitagliano – proviene del colonnello britannico Percy Harrison Fawcett, cartografo della National Geographic Society. «In Sudamerica si dedicò alla consultazione del Manoscritto dei Bandeirantes, della prima metà del 1700», ora custodito al Museo dell’Indio a Rio de Janeiro. Il testo descrive l’esplorazione delle foreste amazzoniche da parte di un gruppo di venti uomini, e la loro clamorosa scoperta: una metropoli di pietra, ormai deserta, protetta da mura ciclopiche. Organizzata una spedizione del 1925 in Mato Grosso, Fawcett «si inoltrò con il figlio Jack lungo il Rio Araguaia, entrando in contatto con varie tribù di indios che conservavano nelle loro tradizioni il ricordo di una provenienza stellare». Proprio quando sembrava aver raggiunto «le vestigia di remote città illuminate da luci fredde», il cartografo inglese «scomparve misteriosamente, in estate, nell’alto Rio Xingu». Nel 1946 è la volta del connazionale Leonard Clark, che in un resoconto di viaggio (“I fiumi scendevano a Oriente”, edito nel 2000 da Tea), narra il ritrovamento di sei delle sette città dell’El Dorado nelle Ande Peruviane.Undici anni dopo, stimolato dai racconti del colonnello Fawcett, Antonio Filangieri ricalcò lo stesso itinerario e constatatò che molti luoghi collimavano. «Partì per un secondo viaggio, in modo da verificarne le scoperte archeologiche e raccogliere informazioni sulla sua scomparsa». Viaggio da cui però dovette desistere, come egli stesso riferisce, «per drammatici eventi sopraggiunti». Poco dopo, nel 1975, l’archeologo brasiliano Roldao Pires Brandao individuò una montagna tra il Brasile e il Venezuela, il Pico De La Neblina, attorno a cui – quattro anni dopo – scoprì tre piramidi di 150 metri, accanto a un complesso urbano nascosto dalla foresta. Ma la ricerca non è finita, aggiunge Vitagliano: ai giorni nostri, il ricercatore Marco Zagni si è assunto il compito di svelare l’esistenza di scomparse civiltà pre-incaiche. Zagni ha organizzato una spedizione in Perù, nelle zone di Pantiacolla, del fiume Pini Pini e di Pusharo, basandosi sulle testimonianze di una spedizione francese smarritasi nel 1979: in quella regione esisterebbero «indios di due metri», che vivono in mezzo a «strane formazioni piramidali, fotografate dal satellite LandSat», in un’area attraversata da una fitta rete di cavità sotterraneee, chiamate Soccabones. Ultime tracce del mitico Akakor?Anche gli archeologi, conclude Vitagliano, ormai sono propensi a riconoscere che – tra il 6.000 e il 4.000 avanti Cristo – sia fiorita una civiltà amazzonica, quella dei Mogulalas, formata da numerose città-Stato. Un dominio estremamente vasto, che si estendeva dal Venezuela alle Ande Peruviane. «Una conferma esoterica giunge anche dal libro di Leo e Viola Goldman, “I Misteri del Tempio” (Edizioni Synthesis, 1998)», che descrive «il cammino iniziatico di una donna nella città nascosta di Ibez, all’interno della montagna sacra del Roncador in Mato Grosso». Una montagna popolata da Maestri Divini che, «scampati alla distruzione di Atlantide con i Vimana», cioè le loro potenti astronavi, crearono le civiltà degli Inca, dei Maya e degli Atzechi. Una storia affascinante, ma costellata da troppe strane morti: non porta fortuna, a quanto pare, inoltrarsi in Amazzonia alla ricerca degli Splendenti, i Padri Celesti come Lhasa il Sublime. Chi erano, dunque, gli esseri “superiori” che, secondo Tatunca Nara (e il suo interlocutore tedesco, Karl Brugger, ucciso misteriosamente) avrebbero addirittura “importato” la vita sul pianeta Terra, trasportandola sin qui da pianeti sconosciuti, fino a dare origine alla stessa presenza dell’uomo?Nel 13.000 avanti Cristo, «brillanti navi dorate» raggiunsero le foreste lussureggianti del Sudamerica. Ne scesero «maestosi stranieri con la carnagione bianca, il volto contornato dalla barba, folta chioma nera con riflessi blu». Avevano anche «sei dita alle mani e ai piedi», proprio come i Nephilim (giganti) di cui parla la Bibbia, il cui ultimo discendente, Golia, secondo il racconto biblico fu abbattuto dal mitico Davide. I personaggi comparsi in Amazzonia «dissero di provenire da Schwerta, una costellazione lontanissima con innumerevoli pianeti, che incrocia la Terra ogni 6.000 anni». Sconosciuta la tecnologia in loro possesso: «Pietre “magiche” per guardare ovunque nel mondo, arnesi che scagliano fulmini e incidono le rocce, la capacità di aprire il corpo dei malati senza toccarlo». Fiabe? Chissà. In ogni caso, si tratta di storie pericolose: spesso sono costate la vita ai ricercatori che tentarono di approfondirle, capirle, svelarle (compreso un vescovo cattolico, monsignor Giocondo Grotti). E’ un vero e proprio cimitero – sconosciuto ai più – quello dei “cercatori” dell’altro Eldorado, l’ipotetica civiltà dei Figli delle Stelle che, in Amazzonia, avrebbero fondato imponenti città-Stato (sotterrannee) tra piramidi sepolte nella giungla, rivelando all’umanità la sua vera origine. Prima vittima di questa leggendaria scoperta: un giornalista tedesco, Karl Brugger, stabilitosi nel dopoguerra a Manaus.
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Antiche civiltà pre-umane sulla Terra. La scienza: possibile
Sebbene a prima vista la mia disciplina, la paleontologia dei vertebrati, possa apparire totalmente fuori tema per un Carnevale collegato ad un progetto come quello Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), esistono delle intriganti similitudini tra questi due ambiti di ricerca, la cui esplorazione e comparazione può portare spunti e punti di vista alternativi, potenzialmente fecondi. L’osservazione dello spazio è accomunata all’indagine paleontologica dal fatto che la distanza sia una misura del tempo. Così come i segnali elettromagnetici provenienti dal cosmo sono tanto più antichi quanto più distante è la loro sorgente, così in paleontologia la posizione di un fossile indica un’età più antica tanto più il fossile è posto in profondità nella serie stratigrafica. L’interconnessione tra posizione nello spazio e distanza nel tempo dei fenomeni osservati dalle due discipline rende quindi la mente del paleontologo e quella dell’astronomo ugualmente predisposte a pensare in modo “quadrimensionale”, a concepire spazio e tempo non come variabili indipendenti, ma come manifestazioni di un unico fenomeno. Il progetto Seti è rivolto alle immensità extraterrestri alla ricerca di segnali, tracce che, per quanto flebili, siano evidenza di forme di vita intelligenti. In questo, il progetto Seti è convergente all’attività del paleontologo, che sonda le profondità geologiche alla ricerca di evidenze, per quanto flebili e frammentarie possano essere, della vita del remoto passato.Evoluzione dell’intelligenza nel Tempo Profondo, un analogo dello Spazio Profondo? Alla luce di queste convergenze interdisciplinari, non così scontate o banali come forse potrebbero apparire al profano, mi propongo di offire il mio punto di vista paleontologico come “analogo” a quello del ricercatore coinvolto nel progetto Seti. Parto da una provocazione. In base alle formulazioni più pessimiste della equazione di Drake, esiste solo un pianeta nel quale forme di vita intelligenti sono comparse, la Terra. Nei fatti, esso è finora il solo dal quale abbiamo evidenze di vita, di qualunque forma o complessità. Nonostante esso sia l’unico (e quindi migliore) caso noto, noi non abbiamo una stima precisa di quante volte, in quante forme ed in quali contesti, la vita intelligente sia comparsa sulla Terra. Noi conosciamo un singolo caso di specie intelligente (intesa qui come autocosciente, dotata di linguaggio articolato, pensiero simbolico e tecnologia trasmessa culturalmente) comparsa sulla Terra, Homo Sapiens. Ma fu il solo episodio? Questo unico caso è, purtroppo, il peggiore esempio possibile dal quale tentare di ricavare qualche principio generale sulle proprietà e i fattori che concorrono alla comparsa dell’intelligenza su un pianeta, dato che il soggetto osservante e l’oggetto osservato si fondono in un’unica creatura che, come nel peggiore incubo scaturito dalle peggiori aberrazioni del Principio di Indeterminazione, distorce in modo imprevedibile la nostra percezione del fenomeno.L’esempio più lampante di quanto la nostra autoreferenziale percezione della condizione umana abbia influenzato e distorto il modo di valutare criticamente il fenomeno dell’evoluzione dell’intelligenza in un pianeta è dato proprio dalla quasi totale mancanza di ipotesi o modelli che abbiano anche solo abozzato una possibile evoluzione di altri, dell’intelligenza non-umana, sulla Terra. A parte rari casi, che menzionerò sotto, quasi nessuno si è mai posto la domanda se l’intelligenza (capace di produrre linguaggio simbolico, cultura, tecnologia) sia mai comparsa qui, sulla Terra, prima di Homo Sapiens. Lo sciovinismo antropocentrico è talmente viscerale in Homo Sapiens, che egli non ha (quasi) mai ipotizzato che questo pianeta, sul quale arroga ed esercita un indiscusso diritto di proprietà, possa aver ospitato prima di lui altre intelligenze, altre civiltà, altre forme di vita capaci di produrre qualcosa di analogo a ciò che il progetto Seti sta cercando nello spazio esterno.Eppure, la vita, intesa come aggregati complessi di molecole organiche autoreplicanti e capaci di svolgere attività metabolica, esiste sulla Terra da almeno 3 miliardi e mezzo di anni (35.000 volte la durata dell’intera specie umana e oltre 3 milioni di volte la durata dell’intera civiltà post-paleolitica), mentre la vita pluricellulare dotata di sistema nervoso esiste da almeno 600 milioni di anni (6.000 volte la durata dell’intera specie umana): possibile che l’evoluzione dell’intelligenza sia un evento così altamente improbabile, contingente e accessorio da essersi verificata solamente in noi? Quanto è realistico abbandondare il nostro sciovinistico dogma dell’unicità dell’intelligenza umana sulla Terra, e ipotizzare che anche altre specie, non-umane, abbiano raggiunto quello stadio evolutivo qui, sul “nostro” pianeta? Questa domanda è, nella scala del Tempo Profondo, il tempo nel quale operano i paleontologi, l’equivalente della domanda alla base del Seti, sebbene nel secondo caso sia applicata allo Spazio Profondo.Estendiamo la provocazione, e chiediamoci se sulla Terra siano esistite altre forme di vita intelligente, forse persino civiltà avanzate, nel vastissimo passato remoto precedente la comparsa della nostra specie. Per meglio comprendere se questa domanda sia lecita oppure una fantasia gratuita, confrontate la durata dell’attuale civiltà tecnologica umana post-neolitica, circa 6.000 anni, con i 600 milioni di anni di esistenza della vita complessa (un misero centomillesimo) e provate a stimare quanto di tutto ciò che Homo Sapiens ha prodotto sarà ancora “evidente” sulla superficie terrestre tra 100 milioni di anni – nell’ipotesi che la nostra specie si estingua oggi. In pochi decenni, tutti i satelliti artificiali umani in orbita ricadrebbero verso terra, disintegrandosi nell’atmosfera. In pochi secoli, tutto ciò che fu creato dall’uomo e che esiste sulla superficie terrestre sarebbe ricoperto dal rapido ritorno della vegetazione selvatica in quei luoghi che l’uomo aveva trasformato in città, strade, aree coltivate. La capacità delle radici in crescita delle piante di disgregare anche la roccia, figurarsi materiali come asfalto o cemento, non dà molte speranze di persistenza a buona parte dei nostri manufatti, apparentemente molto tenaci, di restare intatti dopo che le piante si fossero riprese possesso delle terre emerse.Nel giro di alcuni millenni, al più qualche milione di anni, l’erosione, gli agenti atmosferici, le future fasi glaciali, il sollevamento dei mari, la deriva dei continenti, il sollevamento di nuove catene montuose, tutto ciò distruggerebbe qualsiasi struttura superficiale (manufatti, strade, edifici, porti) non ancora distrutta dall’espansione della vegetazione. Buona parte dei monili di materiale resistente alla corrosione sarebbe dilavato dalle acque, trasportato in mare dai fiumi, dalle alluvioni e dalla lenta subsidenza dei suoli, e nel giro di qualche milione di anni si accumularebbe sul fondo dei mari, formando una stratificazione che, progressivamente sepolta sotto strati successivi, e compattata dalla loro pressione, si trasformerebbe in roccia. Nei successivi milioni di anni, il ritorno totale della Natura come unica signora della Terra cancellerebbe la quasi totalità delle prove della nostra passata esistenza. Forse qualcosa persisterebbe sepolta sotto i fondali oceanici, ma sarebbe condannata ad un lento dissolvimento, sotto le inesorabili pressioni prodotte dai movimenti della crosta terrestre. L’unica testimonianza della nostra esistenza, quindi, sarebbe quel sottile strato di carbonio e metalli pesanti, vestigio della nostra tecnologia, accumulatosi sul fondale oceanico ed eventualmente riemerso come parte marginale di qualche catena montuosa.Pertanto, se questo è l’inevitabile destino delle ultime tracce della civiltà umana, perché non dovrebbe essere già tutto avvenuto per una specie precedente la nostra, della quale, appunto, ogni traccia è andata distrutta al di fuori di qualche sottile strato sedimentario? Se l’intero ciclo dell’esistenza di una civiltà, la sua estinzione e la quasi totale distruzione naturale di ogni sua manifestazione scampata all’estinzione, si compie in qualche milione di anni, non esiste obiezione logica per cui il vastissimo passato geologico della Terra non possa contenere al suo interno dozzine di episodi come quello appena narrato. Ciò è coerente con la stima data dai paleontologi che solamente una frazione ridotta di tutte le specie comparse sulla Terra ha lasciato tracce fossili: se, come tutti concordano, le specie intelligenti sono una ridottissima frazione nel totale delle specie comparse, appare chiaro che è altamente improbabile che esse ricadano nella ridotta frazione che si manifesterà sotto forma di fossili. Improbabile, ma non impossibile.Pertanto, un possibile indizio dell’esistenza di una civiltà non-umana sulla Terra potrebbe essere un sottile strato la cui composizione chimica anomala (dovuta ad un eccesso di carbonio e metalli pesanti) potrebbe indicare l’accumulo dei residui di una qualche specie tecnologicamente avanzata. Lo scenario ipotetico che vi ho appena illustrato fu sviluppato, indipendentemente uno dall’altro, da due autori, John C. McLoughlin (1984) e Mike Magee (1993), come ipotesi fantascientifica per spiegare le anomalie geologiche e paleontologiche presenti nel famoso “limite K-T”, il livello geologico che segna la fine dell’era Mesozoica e la grande estinzione dei dinosauri: secondo questi autori, una specie intelligente di dinosauro, vissuta 65 milioni di anni fa, fu la causa della grande estinzione e della propria autodistruzione, secondo modalità e tempi non tanto diversi da quelli con cui oggi Homo Sapiens sta alterando, in modo forse irreparabile, la biosfera ed il clima.Aldilà della plausibilità di questo scenario, notare che sia io che i miei due predecessori siamo caduti, quasi incosciamente, nello sciovinismo autoreferenziale ed antropocentrico che avevo criticato all’inizio, proponendo un’ipotesi plasmata sulla nostra condizione umana. In realtà, non è detto che tutte le specie intelligenti siano portate a sviluppare la metallurgia, l’allevamento intensivo o un massiccio sfruttamento delle risorse naturali, come siamo soliti fare noi, e quindi potrebbero non lasciare una traccia stratigrafica così evidente della loro presenza sul pianeta del passato. In alternativa, come imposteremmo un “Seti”, qui inteso come “Search for Extinct Terrestrial Intelligence”, e che lezioni potrebbe darci in appoggio al suo più famoso fratello maggiore, rivolto allo spazio esterno? La prima domanda da porsi è se sia possibile ridurre la gamma dei candidati al ruolo di “extinct-terrestrials”: quali linee evolutive animali potrebbero essere le più plausibili candidate? L’osservazione delle specie viventi al giorno d’oggi, ci mostra almeno 3 linee evolutive che mostrano (almeno in forma incipiente) le potenzialità per evolvere un’intelligenza avanzata. Il primo passo sarebbe quindi di cercare tra i rappresentanti estinti di quelle linee evolutive dei potenziali candidati.(Andrea Cau, estratto da “Search for Extinct Terrestrial Intelligence”, intervento pubblicato il 15 agosto 2012 sul blog “Theropoda” a cura dello stesso Cau, paleontologo dei vertebrati).Sebbene a prima vista la mia disciplina, la paleontologia dei vertebrati, possa apparire totalmente fuori tema per un Carnevale collegato ad un progetto come quello Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), esistono delle intriganti similitudini tra questi due ambiti di ricerca, la cui esplorazione e comparazione può portare spunti e punti di vista alternativi, potenzialmente fecondi. L’osservazione dello spazio è accomunata all’indagine paleontologica dal fatto che la distanza sia una misura del tempo. Così come i segnali elettromagnetici provenienti dal cosmo sono tanto più antichi quanto più distante è la loro sorgente, così in paleontologia la posizione di un fossile indica un’età più antica tanto più il fossile è posto in profondità nella serie stratigrafica. L’interconnessione tra posizione nello spazio e distanza nel tempo dei fenomeni osservati dalle due discipline rende quindi la mente del paleontologo e quella dell’astronomo ugualmente predisposte a pensare in modo “quadrimensionale”, a concepire spazio e tempo non come variabili indipendenti, ma come manifestazioni di un unico fenomeno. Il progetto Seti è rivolto alle immensità extraterrestri alla ricerca di segnali, tracce che, per quanto flebili, siano evidenza di forme di vita intelligenti. In questo, il progetto Seti è convergente all’attività del paleontologo, che sonda le profondità geologiche alla ricerca di evidenze, per quanto flebili e frammentarie possano essere, della vita del remoto passato.
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L’oro dei Sumeri: Sudafrica, una metropoli di 200.000 anni
Heine aveva un vantaggio unico: essersi reso conto del numero e della portata di quelle strane fondazioni di pietra. Il loro significato non era mai stato colto? «Quando Johan per primo mi ha fatto conoscere le antiche rovine di pietra dell’Africa Australe, non avevo idea delle incredibili scoperte che ne sarebbero seguite, in breve tempo», racconta Tellinger. «Le fotografie, i manufatti e le prove che abbiamo accumulato puntano senza dubbio ad una civiltà perduta e sconosciuta, visto che precede tutte le altre – non di poche centinaia d’anni, o di qualche migliaio d’anni… ma di molte migliaia d’anni». Queste scoperte, continua Tellinger, «sono così impressionanti che non saranno facilmente digerite dall’opinione ufficiale, dagli storici e dagli archeologi, come abbiamo già sperimentato». Secondo il ricercatore, «è necessario un completo mutamento di paradigmi, nel nostro modo di vedere la nostra storia umana». Autore, scienziato ed esploratore sudafricano, protagonista di campagne d’opinione contro le banche, Tellinger ha fondato un suo partito politico, Ubuntu, che sostiene la fornitura gratuita delle risorse a tutta la società. Ha presentato la sua scoperta, ribattezzata “Calendario di Adamo”, come un sito di straordinaria importanza archeologica, essendo al centro di una rete di cerchi di pietre presenti in tutta l’Africa meridionale, che presumibilmente «ha incanalato l’energia, in tempi antichi».L’area è importantissima, per un aspetto che colpisce subito: l’oro. «Le migliaia di antiche miniere d’oro, scoperte nel corso degli ultimi 500 anni, indicano una civiltà scomparsa che ha vissuto e scavato per l’oro in questa parte del mondo per migliaia d’anni», dice Tellinger. «E se questa è in realtà la culla del genere umano, forse stiamo osservando le attività della più antica civiltà sulla Terra». Se si compie una “ricognizione aerea” con Google Earth (secondo le coordinate fornite da Dan Eden) il risultato è stupefacente. Prima domanda: l’oro ha giocato un certo ruolo sulla densità di popolazione che un tempo viveva qui? Il sito si trova a circa 150 miglia da un ottimo porto, il cui commercio marittimo potrebbe avere contribuito a sostenere una popolazione così importante. Ma stiamo parlando di quasi 200.000 anni fa. Tanta attenzione per le miniere d’oro – di cui non ci risulta cha nostra civiltà conoscesse, in tempi così remoti, le tecniche estrattive – ricorda alcuni racconti dei Sumeri: narrano che gli Anunnaki (i signori della Terra, l’equivalente degli Elohim biblici) inizialmente fossero costretti a lavorare duramente. Ed è noto che proprio l’oro, in astronautica, è apprezzato per le sue proprietà isolanti: proteggerebbe anche dalle radiazioni nucleari. I lavoratori Anunnaki, narrano i Sumeri, a un certo punto si ribellarono al lavoro schiavistico. Da lì nacque l’idea di “fabbricare” geneticamente una specie intelligente, quella degli “Adamu”, che lavorasse nelle miniere al posto degli “dei”.Le singole rovine scoperte in Sudafrica sono in gran parte costituite da cerchi di pietre, per lo più sepolti sotto la sabbia e visibili soltanto dal satellite o dall’aereo. Alcuni, scrive Eden, sono riaffiorati di recente, quando il cambiamento climatico ha soffiato via la sabbia, rivelando le mura e le fondamenta. «Anche se mi vedo come una persona di mente aperta – dice Tellinger – devo ammettere che mi ci è voluto oltre un anno, per digerire la scoperta e per capire che abbiamo realmente a che fare con le strutture più antiche mai costruite dall’uomo sulla Terra». Tanto stupore deriva da un pregiudizio: «Ci hanno insegnato che nulla di significativo è mai venuto dal Sud Africa: ci è stato sempre detto che le civiltà più potenti sono apparse in Sumeria, in Egitto e in altri luoghi». Quanto all’Africa, la storia ufficiale sostiene che, fino all’insediamento del popolo Bantu, proveniente da nord a partire dal 1300 (medioevo europeo), questa parte del mondo era piena soltanto di cacciatori-raccoglitori, e che i cosiddetti Boscimani non hanno fornito alcun contributo importante alla tecnologia o alla civiltà. Quando i primi esploratori incontrarono queste rovine sudafricane, scrive Eden, davano per scontato che fossero recinti per il bestiame realizzati da tribù nomadi come quelle dei Bantu, si spostarono verso sud e si stabilirono in quei terrtitori intorno al XIII secolo dopo Cristo.«Non si conoscevano le testimonianze storiche di nessuna civiltà precedente, più antica, in grado di costituire una comunità così densamente popolata». Tuttavia, aggiunge Eden, ben pochi sforzi sono stati fatti per indagare il gigantesco sito ora emerso: la collocazione storica delle rovine non era ancora nota. «Negli ultimi 20 anni, persone come Cyril Hromnik, Richard Wade, Johan Heine e una manciata d’altri hanno scoperto che queste strutture in pietra non sono ciò che sembrano essere. In realtà questi sono ora ritenuti i resti di antichi templi e osservatori astronomici di antiche civiltà perdute, che risalgono a molte migliaia di anni fa». Le immense rovine circolari sono distribuite su una vasta area. Possono solo essere veramente apprezzate soltanto dal cielo, dall’aereo o attraverso immagini satellitari. «Molte di loro sono quasi completamente erose o sono state coperte dai movimenti del suolo fatti per l’agricoltura lungo il tempo. Alcune sono sopravvissute abbastanza bene da rivelare le loro grandi dimensioni, con alcuni muri originali in piedi, sino a quasi 2 metri d’altezza e oltre un metro di larghezza». Guardando la “metropoli” intera, diventa evidente che si trattava d’una comunità ben progettata, sviluppata da una civiltà evoluta. E poi, appunto, l’oro: il numero di antiche miniere suggerisce la ragione per cui la comunità si trovasse proprio in quella regione.E’ possibile rilevare anche l’esistenza di tracciati “stradali”, lunghi anche 100 miglia, che collegavano la comunità e l’agricoltura a terrazzamenti molto simili a quelli trovati negli insediamenti Inca in Perù. Ma, si domanda Eden, tutto questo come potrebbe esser stato realizzato dagli esseri umani 200.000 anni fa? «Trovare i resti di una grande comunità, con ben 200.000 persone che vivevano e lavoravano insieme, è stata una scoperta importante in sé. Ma la datazione del sito ha costituito un problema. La patina pesante sulle pareti di roccia – scrive Eden, citando il lavoro degli archeologi – suggeriva che le strutture dovessero essere molto vecchie, ma la scienza della datazione tramite la patina è solo in fase di sviluppo ed è ancora controversa». La datazione col carbonio 14, che rileva sostanze organiche come il legno bruciato, è alterata dalla possibilità che i reperti «possano aver subito incendi recenti dell’erba circostante, che sono comuni nella zona». La svolta è arrivata inaspettatamente, come spiega lo stesso Tellinger: è l’astronomia a rivelare la datazione del complesso, che riproduce una configurazione stellare visibile dalla Terra soltanto 200.000 anni fa.Johan Heine, racconta Tellinger, scoprì il “Calendario Adam” nel 2003, quasi per caso. Andava a cercare uno dei suoi piloti che si era schiantato con l’aereo sul bordo dell’altopiano. Accanto al luogo dello schianto, Johan notò un gruppo molto strano di grosse pietre, sporgenti dal terreno. Mentre portava in salvo il pilota ferito, Johan si rese conto che i monoliti erano allineati ai punti cardinali della Terra – nord, sud, est e ovest. «C’erano almeno tre monoliti allineati verso il sorgere del sole, ma sul lato ovest dei monoliti allineati c’era un misterioso buco nella terra – mancava qualcosa». Dopo mesi di misurazioni, Johan concluse che le rocce erano perfettamente allineate con il sorgere e il tramonto del sole: solstizi ed equinozi. E il misterioso buco nel terreno? Un giorno, l’esperto locale di piste a cavallo, Christo, spiegò a Johan che c’era una pietra dalla strana forma, che era stata rimossa dal luogo qualche tempo prima, e collocata vicino all’ingresso della riserva naturale. Dopo una lunga ricerca, Johan trovò la pietra (antropomorfica, di forma umanoide). «Era intatta e con orgoglio recava una targa, attaccata ad essa. Era stata utilizzata dalla Fondazione Blue Swallow per commemorare l’apertura della riserva Blue Swallow nel 1994. L’ironia è che era stata rimossa dal sito antico più importante trovato fino ad oggi, e misteriosamente era ritornata alla riserva».I primi calcoli dell’età del Calendario di Adamo sono stati effettuati in base al sorgere di Orione, costellazione conosciuta per le sue tre stelle luminose che formano la “cintura” del mitico cacciatore della Beozia. La Terra oscilla sul suo asse, e quindi le stelle e le costellazioni cambiano il loro angolo di presentazione nel cielo notturno, in base alla congiuntura. Questa rotazione, denominata “precessione degli equinozi”, completa il suo ciclo ogni 26.000 anni, all’incirca. «Se possiamo stabilire quando le tre stelle della Cintura di Orione erano posizionate in orizzontale contro l’orizzonte, possiamo stimare il momento in cui le tre pietre del Calendario erano in linea con queste stelle visibili». Il primo calcolo approssimativo fu di almeno 25.000 anni. Ma le nuove misurazioni, più precise, tendevano ad aumentare l’età del ritrovamento. Il calcolo successivo è stato compiuto da un esperto archeo-astronomo, «che vuole rimanere anonimo per paura», temendo di essete deriso dalla comunità accademica. Il suo calcolo, spuega Eden, si è basato sul sorgere di Orione e ha suggerito un’età di almeno 75.000 anni. Ma il conteggio più recente e più preciso, eseguito soltanto nel giugno del 2009, suggerisce un’età di almeno 160.000 anni, sulla base del sorgere apparente di Orione all’orizzonte – ma anche dell’erosione delle pietre costituite da un particolare minerale, la dolerite, trovare sul sito. Alcuni frammenti dei “marcatori” di pietra sono stati sbriciolati dall’erosione naturale: ricomposti, rivelano l’assenza di circa 3 centimetri di roccia (tanto basta, per calcolare – mediante sottrazione – la loro presunta età originaria).Chi ha edificato la metropoli? E perché? Sembrerebbe che gli esseri umani abbiano sempre apprezzato l’oro. È anche menzionato nella Bibbia, che descrive i fiumi del Gan, il “paradiso terrestre” situato nella regione geografica di Eden, tra la Mesopotamia e il Mar Caspio: «Il nome del primo [fiume] è Pishon; scorre intorno a tutto il paese di Havilah, dove c’è l’oro», si legge in Genesi 2:11. Il Sudafrica è conosciuto come il più grande paese produttore di oro al mondo. L’epicentro estrattivo è il Witwatersrand, cioè la stessa regione dove l’antica metropoli si trova. Nelle vicinanze di Johannesburg c’è poi un luogo chiamato “Egoli”, che significa “la città d’oro”. Sembra molto probabile, quindi, che l’antica metropoli sorgesse a causa della sua vicinanza con l’offerta d’oro più grande del pianeta. Ma perché gli antichi lavoravano così alacremente nelle miniere d’oro? Il prezioso metallo non si può mangiare, è troppo tenero da utilizzare per la produzione di utensili e non ha alcuna utilità pratica, se non per ricavarne ornamenti, anche se la sua qualità estetica non è superiore a quella di altri metalli pregiati, come il rame o l’argento. Perché mai l’oro divenne così prezioso, dunque? Perché proprio l’oro diventò così importante per i primi Homo Sapiens?Per cercare la risposta, scrive Dan Eden, dobbiamo esaminare il periodo preistorico in questione: com’erano, gli esseri umani, 160.000 anni fa? Come fece, il Sapiens, a distinguersi dai suoi antenati ominidi assai meno evoluti, come l’Homo Habilis e l’Homo Erectus? Gli scienziati, scrive Eden, non hanno ancora capito perché apparve, improvvisamente, quel nuovo tipo umano. Non sanno in che modo quel cambiamento avvenne. Attualmente, infatti, siamo soltanto in grado di rintracciare i nostri geni risalendo fino ad un’unica donna, che paleontologi e genetisti chiamano Eva Mitocondriale. Quell’Eva primigenia, denominata “mt-Mrca”, è definita come il nostro antenato “matrilineare” più recente. Tramandato da madre a figlio, tutto il Dna mitocondriale (“mt-Dna”) in ogni persona vivente è derivato da quell’individuo di sesso femminile. L’Eva Mitocondriale è la controparte femminile di “Adamo Y-cromosomico”, l’antenato comune “patrilineare” più recente. Gli studiosi ritengono che la Eva Mitocondriale sia vissuta tra 150.000 a 250.000 anni fa, probabilmente in Africa Orientale, attorno alla Tanzania. Si ipotizza che vivesse in una popolazione di 4-5.000 esemplari, tutte femmine, in grado di produrre prole in un dato momento.«Se altre femmine avevano prole con cambiamenti evolutivi del loro Dna, non abbiamo alcuna registrazione della loro sopravvivenza», scrive Eden. «Sembra che siamo tutti discendenti di questa femmina umana». Lei, Eva Mitocondriale, sarebbe stata «pressoché contemporanea degli esseri umani i cui fossili sono stati rinvenuti in Etiopia, nei pressi del fiume Omo e di Hertho». Si pensa che l’Eva Mitocondriale sia vissuta «molto prima dell’emigrazione dall’Africa, che potrebbe essersi verificata tra 60.000 e 95.000 anni fa». La regione africana dove si può trovare il massimo livello di diversità mitocondriale, aggiunge Eden, è la stessa in cui gli antropologi ipotizzano che la divisione più antica della popolazione umana abbia iniziato a verificarsi. E l’antica metropoli sudafricana si trova proprio in quest’ultima regione, «che corrisponde anche al periodo stimato in cui le mutazioni genetiche improvvisamente accaddero», per dare origine al Sapiens. Coincidenze? La stessa storia dei Sumeri descrive l’antica metropoli e i suoi abitanti. «Sarò onesto con voi», premette Eden: «Questa parte successiva della storia è difficile da scrivere. È così sconvolgente che la persona media non ci vuole credere. Se siete come me, vi consiglio di fare la ricerca voi stessi, e di prendervi del tempo per permettere ai fatti di stabilirsi nella vostra mente».Riassume Eden: ci hanno spesso fatto credere che la nostra storia conosciuta cominci con gli egizi, le piramidi e i faraoni, le cui dinastie più antiche risalgono a poco più che 5.000 anni fa, precisamente nel 3.200 avanti Cristo. Ma la civiltà mesopotamica dei Sumeri, considerata la prima a costruire città, risale ad almeno mille anni prima. «Abbiamo tradotto molte delle loro tavolette, scritte in caratteri cuneiformi e in scritture precedenti, in modo da sapere parecchio sulla loro storia e sulle loro leggende». Viene da lì il primo sigillo che raffigura la narrazione del “Grande Diluvio”, che annienta l’umanità. Molte leggende sumere, riconosce Eden, sembrano aver ispirato la stessa Genesi, assai più recente. Come la Genesi, la narrazione sumerica contenuta nell’Atrahasis racconta la comparsa degli esseri umani moderni, originati «non da un “Dio d’amore”, ma da esseri provenienti da un altro pianeta, che avevano bisogno di “lavoratori schiavi”, per aiutarli a lavorare nelle miniere d’oro». Quel metallo, sempre secondo i Sumeri, era indispensabile per le «spedizioni extra-planetarie» di quei misteriosi signori, gli Anunnaki. La versione a noi nota dell’Atrahasis, aggiunge Eden, proviene da una stesura babilonese più recente, che risale al 1.700 avanti Cristo. La storia inizia presentando gli “dèi”, esseri provenienti da un pianeta chiamato Nibiru, che scavano fossati e miniere per l’oro, come fossero una squadra minatori. L’Homo Sapiens non esistevano ancora, la Terra era abitata soltanto da ominidi primitivi.Sempre secondo la narrazione babilonese ispirata all’originario racconto dei Sumeri, c’erano due gruppi distinti di “divinità”: i lavoratori e la classe dirigente, i comandanti. Gli “dèi lavoratori”, fabbricanti di infrastrutture e impianti minerari, dopo migliaia d’anni si ribellarono, data l’eccessiva mole di lavoro. «Gli dèi dovevano scavare i canali», scrive l’Atrahasis. «Dovevano tenere puliti i canali, le arterie vitali della terra». Addirittura, «gli dèi scavarono il letto del fiume Tigri, e poi hanno fatto quello dell’Eufrate». Dopo 3.600 anni di questo lavoro, gli “dèi” finalmente cominciarono a lamentarsi. Decisero di scendere in sciopero, bruciando i loro strumenti e circondando la “dimora” del dio principale, Enlil (il suo “tempio”). Il ministro di Enlil, Nusku, scosse Enlil dal letto e l’avvisò che la folla inferocita stava là fuori. Enlil ne rimase spaventato. Il suo volto è descritto «olivastro come una tamerice». Il ministrò Nusku consigliò Enlil di chiamare gli altri grandi “dèi”, soprattutto Anu (“dio” del cielo) ed Enki (il “dio” intelligente delle acque dolci). Anu consigliò ad Enlil di scoprire chi fosse il capo della ribellione. Spedirono Nusku in avanscoperta per chiedere alla folla delle “divinità” chi fosse il loro leader. E la folla rispose: «Ciascuno di noi dèi vi ha dichiarato guerra!».Constatato che il lavoro degli “dèi” di classe inferiore «era troppo difficile», i capi decisero di sacrificare uno dei ribelli per il bene di tutti: avrebbero preso un solo “dio”, l’avrebbero ucciso e ne avrebbero ricavato il genere umano, mescolando la carne e il sangue del “dio” con l’argilla. Scrive sempre l’Atrahasis nella versione babilonese: «Belit-ili, la dea del grembo materno, è presente». Il nome ricorda – in modo impressionante – quello di Lilith, mitica femmina e “madre primigenia” un tempo presente nella stessa Bibbia, e poi rimossa. «Lasciate che la dea del grembo materno crei la sua prole – aggiunge l’Atrahasis – e lasciate che l’uomo sopporti il carico degli dei!». Dopo che Enki li istruì sui rituali di purificazione per il primo, settimo e quindicesimo giorno d’ogni mese, gli “dèi” uccisero Geshtu-e, «un dio che aveva l’intelligenza» (il suo nome significa “orecchio” o “saggezza”) e, di fatto, “fabbricarono” l’attuale l’umanità impastando il suo sangue con della creta. Dopo che la “dea della nascita” ebbe mescolato l’argilla, tutti gli “dèi” si raccolsero intorno e, letteralmente, sputarono sul nascituro. Poi Enki e la “dea dell’utero” presero l’argilla e la portarono nella “stanza del destino”, dove si riunirono tutte le “dee del grembo materno”. Continua l’Atrahasis: «Egli [Enki] calpestò l’argilla in presenza di lei; lei continuava a recitare un incantesimo, perché Enki, soggiornando in sua presenza, l’aveva obbligata a recitarlo. Quando ebbe finito il suo incantesimo, estrasse quattordici pezzi d’argilla e mise sette pezzi a destra, sette a sinistra. Tra di essi depose un mattone di fango».La “creazione dell’uomo”, scrive Dan Eden, sembra dunque descritta come una specie di clonazione, che ricorda l’odierna fecondazione in vitro. «Il risultato fu un ibrido, o “umano evoluto”, con maggiore intelligenza, che potesse svolgere le funzioni fisiche degli “dèi lavoratori” e anche prendersi cura delle esigenze di tutti gli “dèi”». In altri testi, poi, ci viene detto che la “spedizione” nella regione mineraria fu originata dalla necessità di estrarre grandi quantità di oro, destinate ad essere spedite “fuori del pianeta”. Quella comunità stanziatasi in Sud Africa aveva un nome proprio: era chiamata Abzu. Visto che questi “eventi” sembrano coincidere con le date della Eva Mitocondriale, vale a dire dal 150.000 al 250.000 avanti Cristo, alcuni ricercatori – conclude Eden – sospettano che i “miti dell’origine” della tradizione sumera possano essere basati su precisi avvenimenti storici. Consonanze, analogie: «Secondo gli stessi testi, una volta conclusa la spedizione mineraria, fu deciso che la popolazione umana dovrebbe essere lasciata perire in un diluvio che era stato previsto dal astronomi degli “dèi”. A quanto pare, il passaggio ciclico del pianeta natale degli “dèi”, Nibiru, stava per portarlo abbastanza vicino all’orbita della Terra», e la gravità dell’evento astronomico «avrebbe provocato una risalita (marea) degli oceani», fino a inondare completamente la Terra, mettendo fine alla specie – ibrida – dell’Homo Sapiens, “fabbricato” con sangue “divino”, sputi e creta.Sempre secondo la narrazione mesopotamica, uno degli “dèi” sumeri aveva simpatia per un essere umano particolare, Zuisudra, e lo avvertì del pericolo imminente: gli consigliò di costruire una imbarcazione capace di cavalcare l’onda del diluvio. Questo, osserva Eden, divenne poi la base narrativa per la successiva storia del Noè biblico. Il cataclisma del diluvio fu un fatto veramente accaduto? «L’unica altra spiegazione è immaginare che le leggende sumere, che parlano della vita su altri pianeti e della clonazione umana, fossero straordinarie creazioni di fantascienza. Questo sarebbe di per sé sorprendente». Oggi però abbiamo la prova che la “mitica” città mineraria, Abzu, è reale. Sarebbe stata popolata dai Sapiens “fabbricati” dagli “dei” per rimpiazzarli nelle miniere d’oro. Dall’alto, scrutandola sorvolando il Sudafrica, appare come una megalopoli di dimensioni impressionanti. E secondo la datazione ricostruita dall’équipe archeologica di Tellinger, quella gigantesca “colonia” «esisteva nella stessa epoca dell’improvvisa evoluzione degli ominidi a Homo Sapiens». E’ sufficiente, quello che è stato scoperto? E’ abbastanza, conclude Eden, per darci da pensare un bel po’, su come e quando sia davvero comparso, l’uomo, sulla faccia della Terra.Sono sempre stati lì. Qualcuno li aveva già notati prima, ma nessuno riusciva a ricordare chi li avesse fatti, e perché? Fino a poco tempo fa, nessuno sapeva nemmeno quanti fossero. Ora sono dappertutto, a migliaia, a centinaia di migliaia. «E la storia che raccontano è la storia più importante dell’umanità, ma c’è chi potrebbe non essere pronto ad ascoltarla», scrive Dan Eden, presentando «qualcosa di straordinario» che è stato scoperto in una zona del Sudafrica, a circa 280 chilometri dalla costa, ad ovest del porto di Maputo (capitale del Mozambico). «Sono i resti d’una grande metropoli che misurava, secondo stime prudenti, circa 5.000 chilometri quadrati. Faceva parte di una comunità ancora più ampia, di circa 35.000 chilometri quadrati, che sembra essere stata costruita – siete pronti? – dal 160.000 al 200.000 avanti Cristo». Il perimetro della megalopoli, scrive Eden in un post ripreso da “La Crepa nel Muro”, si lo può intravedere attraverso Google Earth. La regione è remota, ma i “cerchi” presenti sul terreno non erano sfuggiti, in passato, agli agricoltori indigeni. «Nessuno però s’era mai preso la briga di informarsi su chi potrebbe averli fatti o quale età potessero avere». La situazione è cambiata quando se n’è occupato il ricercatore Michael Tellinger, in collaborazione con Johan Heine, un vigile del fuoco locale, nonché pilota, che – dal suo aereo – aveva osservato quelle rovine per anni, sorvolando la regione.
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La Terra ora ci presenta il conto di un mondo senza giustizia
Guardate che non basta, raddrizzare uno sviluppo – finora ingiusto – sostituendolo con il miraggio di una crescita economica globale finalmente equa. La voce “decrescita” (del Pil) risulta sempre sgradevole, dissonante, preoccupante: ma è purtroppo coerente con tutte le previsioni sistemiche dei climatologi, che danno alla Terra altri vent’anni, al massimo, prima del collasso ecologico che già sta avanzando in modo inquietante, con le temperature balneari registrare alle Svalbard e lo scioglimento inesorabile della calotta artica. Nel lontanissimo ‘700, il padre della fisica Isaac Newton predisse – in base a complessi calcoli – che le risorse terrestri si sarebbero esaurite entro il 2060: un pronostico, sottolinea il saggista Gianfranco Carpeoro – sinistramente coincidente con quello del governo Usa, secondo cui fra quarant’anni, di questo passo, arriveremo alla morte biologica degli oceani. Ragionamenti che possono apparire letterari e strampalati, semplici suggestioni millenaristiche calate in un mondo distratto dai mondiali di calcio o appassionato al derby Italia-Francia su Salvini, gli sbarchi selvaggi e l’opaco traffico malavitoso gestito dalle Ong. Vero, l’Europa ladrona nega all’Italia un’espansione vitale del deficit, mentre c’è chi muore in mare per un tozzo di pane. E se si tracolla tutti, sotto la furia di un pianeta stremato dai nostri abusi suicidi?
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Scie in aumento, Mini: la guerra climatica ormai è realtà
La frequenza delle scie nei nostri cieli (scie di varie forme, dimensioni e colori) si è intensificata. Molti ormai le chiamano “scie chimiche”, ma l’ufficialità continua a negare la loro esistenza. Militari dell’aeronautica e grande stampa, servizi meteo, scienziati e ministri ripetono che si tratta di un fenomeno “normale”, giustificato dal traffico aereo intensificato. Non la pensa così il generale Fabio Mini, già a capo della missione Nato in Kosovo. Per l’alto ufficiale, il fenomeno è anomalo: durante la guerra in Kosovo – ricorda Mini – la manipolazione delle nubi aveva un’importanza strategica ed è stata attuata. «Si possono creare o dissolvere artificialmente e rappresentano uno strumento di guerra», riassume il sito “Ereticamente”, riportando recenti interviste rilasciare dal generale. «Si usano sostanze chimiche (sodio, bario, alluminio, polimeri) che vengono impiegate per le deviazioni delle onde elettromagnetiche». Fabio Mini esorta i cittadini a pretendere la verifica, l’ammissione da parte delle autorità, facendo pressioni per ottenere accertamenti e informazioni ufficiali rilasciate da autorità competenti e di responsabilità: sanità e difesa, aeronautica, ministero dell’agricoltura e della ricerca scientifica. Obiettivo: verificare l’esistenza di prove dettagliate e inconfutabili.«Riguardo alla questione della geoingegneria – avverte Dane Wigington sul sito “NoGeoingegneria” – le porte di tutti i rappresentanti del governo e di tutte le agenzie governative sono state sbarrate. I responsabili delle operazioni di irrorazione proteggono questi programmi negli ultimi decenni. Le agenzie governative che si occupano di qualità dell’aria e dell’acqua sono state strutturate in modo tale da mascherare la montagna di composti tossici originati dai programmi di modificazione climatica e meteorologica». Come Mini, anche Wigington esorta a «fornire dati credibili e inattaccabili per poi metterli nelle mani di autorità competenti e spingerle ad occuparsene attivamente». La lista di possibili interlocutori è infinita, aggiunge “Ereticamente”: «Si passa da chi si occupa di questioni ambientali, cibo biologico, malati di Alzheimer, autismo e Adhd a settori quali l’allevamento, la forestale, il giornalismo». In una recente intervista con Enzo Pennetta, lo stesso Mini ricorda che ormai «la guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento».Una caratteristica delle guerre moderne, aggiunge Mini, è anche la perdita di consapevolezza sulla verità: e in questo, la tecnologia sa fare miracoli. «Se tali armi sono state veramente impiegate, si tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle vittime». Secondo il professor Pennetta, il cinema americano prepara lo spettatore ad “abituarsi” alla guerra climatica, attraverso immagini più o meno subliminali, dal 1959. Oggi, il “Weather Channel” allarma sui disastri naturali milioni di spettatori su schermi flat e smartphone, come “previsto” (saputo in anticipo?) dalla propaganda militare di Disney nel 1959 con il film “Eyes in Outer Space”, prodotto in collaborazione col Pentagono. «Il film usa musica e animazioni per speculare sull’uso della tecnologia dei satelliti militari lanciati nello spazio, insieme ad una rete di difesa coordinata ed a certi strumenti per modificare il clima. Il controllo del clima, la guerra che minaccia l’ambiente, appunto. Quel film ritrae un ordine futuristico di satelliti e armi spaziali che fanno parte di un sistema di totale controllo climatico militare indirizzato dal presidente Kennedy. E’ stato previsto che satelliti in grado di tracciare il clima avrebbero permesso alle forze militari statunitensi di predire i modelli climatici per progettare attacchi coordinati contro fenomeni naturali nefasti anticipandoli di mesi».Il mondo attuale, che “copre” certi progetti di geoingegneria, armi chimiche, elettromagnetiche e spaziali – conclude “Eticamente”, citando Pennetta – è stato anticipato dal film di Walt Disney in stretta collaborazione con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Ci dà una prospettiva storica di come la propaganda statale venga usata per condizionare una deviazione culturale programmata in supporto all’uso della tecnologia militare come le armi usate contro il mondo naturale». Inutile stupirsi se le “scie chimiche” non trovano cittadinanza sui media, se non per il facile sarcasmo delle cosiddette “bufale”. «Siamo in piena guerra dell’informazione da cui, di riflesso, scaturiscono tutte le altre guerre», sintetizza “Ereticamente”. «Una guerra a colpi di mezze verità, bufale, bufale su verità, verità su bufale con tutti i vari incroci ed intrecci che ne derivano». Secondo il blog, «il diavolo si diverte da sempre a mischiare le carte in tavola con grandi verità condite da grandi porcate e grandi menzogne che, tra le righe, nascondono verità». Del gioco fa parte anche il fantastico “algoritmo anti-bufale” messo a punto da Google, «che in sostanza ci dice: le bufale le decido io, tutto il resto è la verità».In questo clima di guerra all’ultimo scoop e bombardamento mediatico propagandista, spunta un tema che sta a cuore a tutti, di cui ci si preoccupa o di cui si ride: «Le scie chimiche, il clima impazzito, la guerra climatica o ambientale innaffiata ogni giorno dalla guerra della disinformazione». Aggiunge “Ereticamente”: «Le scie chimiche associate al clima impazzito ed a fenomeni di manipolazione di disastri naturali come terremoti, tsunami, cataclismi e siccità non sono più materia di ‘bufale’». Una vera e propria guerra ambientale è già in atto, afferma il generale Mini: «E’ guerra climatica, clima modificato con agenti chimici». Il protocollo ha un nome evocativo: “Owning the Wheather”, possedere il clima. Dal 2007, il generale affronta la delicata questione delle armi di nuova generazione, destinate a provocare disastri solo apparentemente naturali. «Ha osservato che le scie chimiche che segnano i nostri cieli non sono affatto “di condensa”, chiarendo ogni dubbio in merito». Mini spiega che c’è qualcosa di più della classica disinformazione dei media: in ambito militare esiste una pratica chiamata “denial of service”, «in base alla quale non solo occorre negare l’evidenza, la verità e la realtà, ma bisogna negare anche l’informazione». E sottolinea: «Negare l’informazione è già, di per sé, un atto di guerra».Tradotto: «Le persone e interi paesi non devono essere informati», A volte, questa regola «porta a vere catastrofi, come nel caso dello tsunami in Indonesia», riassume “Ereticamente”, citando Mini: «Si poteva avvertire quella gente, ma si sono verificate interruzioni nella trasmissione delle informazioni per via di anelli mal funzionanti o volutamente non funzionanti che hanno impedito la comunicazione». Si torna al punto di partenza: la guerra dell’informazione a tutti i livelli. La nuova arma di distruzione di massa? E’ la “bomba climatica”: «Si sta lavorando a quest’arma di distruzione in segreto, per ottenere vantaggi inimmaginabili su scala mondiale», dichiara il generale. «Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi». Uno scenario orwelliano, purtroppo non fantapolitico. «E’ il risultato reale di certe progettazioni in materia di tecnologie militari che la gente non può e non deve conoscere», scrive “Ereticamente”. In campo militare non esiste una moralità che impedisca di varcare un certo limite. «Ciò che si può fare si fa», ammette il generale: per ottenere un vantaggio, si usano tecnologie «senza fare test sufficienti», pur di sperimentarne gli effetti direttamente sul campo.La capacità di condizionare l’ambiente sarebbe ormai una realtà, in ambito militare: potrebbe provocare tornado, terremoti, tsunami, uragani. «Si controlla il clima, lo spazio atmosferico, e si conducono operazioni belliche in sicurezza. S’irrorano le nubi con ioduro d’argento, polimeri e altre sostanze chimiche per spostarle o dissolverle», scrive “Ereticamente”. Il generale Mini racconta del “Progetto Seal” avviato con fondi americani e inglesi nel 1946 per indurre piccoli tsunami. Lo scienziato che conduceva gli esperimenti in Australia, Thomas Leech, si spaventò e bloccò il lavoro, ma sicuramente quegli esperimenti furono ripresi e perfezionati in seguito. Con un articolo pubblicato dalla rivista di geopolitica “Limes”, Mini ha divulgato il progetto dell’aeronautica militare statunitense risalente al 1995. Scie chimiche? Un reporter come Gianni Lannes sostiene che l’Italia si oppose a certi sorvoli già ai tempi di Pertini, per poi autorizzarli a partire dal 2001, in piena era Bush. In Sicilia la popolazione si è opposta alle maxi-antenne dell’installazione strategica Muos di Niscemi, collegata al sistema Haarp per il controllo militare mediante onde radio che “rimbalzerebbero” sulla ionosfera, utilizzando un “microfilm” in sospensione – diffuso dalle scie degli aerei? Tante ipotesi, ma nessuno ha ancora spiegato ufficialmente che cosa sono, quelle scie bianche che da meno di vent’anni “infestano” i nostri cieli.La frequenza delle scie nei nostri cieli (scie di varie forme, dimensioni e colori) si è intensificata. Molti ormai le chiamano “scie chimiche”, ma l’ufficialità continua a negare la loro esistenza. Militari dell’aeronautica e grande stampa, servizi meteo, scienziati e ministri ripetono che si tratta di un fenomeno “normale”, giustificato dal traffico aereo intensificato. Non la pensa così il generale Fabio Mini, già a capo della missione Nato in Kosovo. Per l’alto ufficiale, il fenomeno è anomalo: durante la guerra in Kosovo – ricorda Mini – la manipolazione delle nubi aveva un’importanza strategica ed è stata attuata. «Si possono creare o dissolvere artificialmente e rappresentano uno strumento di guerra», riassume il sito “Ereticamente”, riportando recenti interviste rilasciare dal generale. «Si usano sostanze chimiche (sodio, bario, alluminio, polimeri) che vengono impiegate per le deviazioni delle onde elettromagnetiche». Fabio Mini esorta i cittadini a pretendere la verifica, l’ammissione da parte delle autorità, facendo pressioni per ottenere accertamenti e informazioni ufficiali rilasciate da autorità competenti e di responsabilità: sanità e difesa, aeronautica, ministero dell’agricoltura e della ricerca scientifica. Obiettivo: verificare l’esistenza di prove dettagliate e inconfutabili.
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Pallante: come salvarci dalla catastrofe globale della crescita
Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.L’unica terapia? Fermare la crescita tumorale delle merci. Serve qualcosa di enorme, paragonabile alla Rivoluzione Industriale, ma di segno opposto. Valori da capovolgere: il “tanto-avere” è il grande nemico del “ben-essere”. Nel suo ultimo saggio, che definisce “un manifesto politico e culturale”, Pallante denuncia il capitalismo industriale degli ultimi 250 anni. Una forza tellurica eversiva, segnalata da Marx come pericolo: se prima il denaro era solo un mezzo per scambiare merci, è diventato l’unico fine dell’intero ciclo economico. E’ Keynes, nel 1931, il primo a parlare di “disoccupazione tecnologica”: scopriamo sempre nuovi sistemi per «risparmiare forza lavoro», senza riuscire a ricollocarla. Succede perché siamo avidi, dice Pallante: riducendo l’orario di lavoro, l’innovazione di processo non comprometterebbe l’occupazione. Al contrario: sarebbero le macchine a lavorare per noi. Il guaio? Il nostro obiettivo non è vivere bene, in armonia con gli altri e con il pianeta. Vogliamo solo avere tanti soldi, costi quel che costi. Alle conseguenze, semplicemente, non pensiamo: la guerra sociale, la predazione globale delle risorse, il collasso della biosfera. Il paziente è grave: consuma più di quanto la Terra possa dargli. Ogni anno la “deadline” si accorcia: prima del Duemila la linea rossa veniva superata a ottobre, poi a settembre. Ora siamo “in riserva”, ogni anno, già dal mese di luglio.Non ci vuole un indovino per intuire che di questo passo andremo a sbattere. L’emissione di anidride carbonica non smaltibile dalla fotosintesi vegetale è quasi raddoppiata, sugli oceani galleggiano “continenti” di plastica, il pesce s’è dimezzato, il clima terrestre sta per raggiungere i 2 gradi sopra la soglia di sicurezza. E non abbiamo ancora visto niente: si calcola che interi paesi, come il Bangladesh, saranno sommersi. Noi che facciamo? Niente. Anzi, peggio: acceleriamo la corsa verso lo schianto. La globalizzazione violenta del mercato, dice Pallante, riproduce su scala mondiale quanto avvenne con la Rivoluzione Industriale: masse ingenti di contadini e artigiani sradicate dai loro territori e trasformate in folle di profughi economici. Obiettivo: accrescere la platea dei consumatori di merci superflue. Esaurite le capacità dell’Occidente, si punta al resto del mondo. Interi continenti da depredare di materie prime a basso costo, attraverso guerre coloniali permanenti. Decine di paesi devastati, dai quali non resta che scappare. Il sistema li accoglie a braccia aperte, i migranti che ha messo in fuga: diventeranno nuovi consumatori e contribuenti, in termini di tasse e versamenti pensionistici, senza contare il loro sfruttamento schiavistico e il business criminale che specula sull’accoglienza, mortificando la solidarietà di migliaia di volontari.Proprio la mano tesa, offerta ai rifugiati, rivela che la vittoria del mostro (da noi stessi alimentato ogni giorno) non è ancora definitiva. Sopravvivono religioni, cresce a vista d’occhio la fame di spiritualità. In modo spesso confuso, si va in cerca di valori. «Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci e appiattito gli esseri umani sulla dimensione materialistica – scrive Pallante – la valorizzazione della dimensione spirituale è un atto di disobbedienza civile». Consente di recuperare la solidarierà «non solo tra gli esseri umani, ma tra tutti i viventi», e arricchisce la pulsione all’uguaglianza di un profilo anche esistenziale. Cosa manca? Una politica, capace di aggregare milioni di individui per invertire il corso degli eventi, scongiurando la catastrofe. Destra e sinistra? Un lungo equivoco. E’ lo stesso Hayek, nume tutelare dei criminali architetti dell’austerity europea, a chiarire che il liberalismo non è stato conservatore, ma rivoluzionario. La sinistra ha arrancato dietro al capitale, cercando solo di distribuirne i profitti in modo più largo. Ma, secondo Pallante, persino l’ossigeno del deficit teorizzato da Keynes è controproducente: siamo al punto in cui – come predetto dal Club di Roma, cioè dal Mit di Boston – ogni espansione dei consumi ci accorcerebbe ulteriormente la vita.Come se ne esce? In un solo modo: tagliando il Pil. Decrescita infelice? No: selettiva. Nel mirino, gli sprechi. Non la barzelletta delle auto blu, ma cifre spaventose, che valgono intere finanziarie: la sola riconversione ecologica degli edifici farebbe crollare di 2/3 la spesa energetica nazionale, creando un oceano di posti di lavoro (utili) e abbattendo in modo vertiginoso l’impatto ambientale. Nel gelido Nord Europa c’è chi vive in “case passive” tecnologicamente avanzate, senza riscaldamento convenzionale, a emissioni zero. Noi invece siamo ancora impelagati nelle guerre geopolitiche per i gasdotti, come se vivessimo all’inizio del ‘900. Le ultime elezioni italiane hanno rottamato la vecchia politica e in particolare la sinistra? Ovvio: proprio la sinistra ha abbandonato i territori che storicamente si era candidata a tutelare. In ordine sparso, si va organizzando localmente un arcipelago di comunità fondate sulle filiere corte, ancora senza rappresentanza istituzionale. Riuscirà a nascere un partito che punti alla sostenibilità dell’economia, anziché all’impossibile “sviluppo sostenibile”? Matematica: benché “sostenibile”, cioè con minor impatto immediato sull’ecosistema, qualsisasi “sviluppo” (crescita illimitata) diventa comunque insostenibile alla distanza, perché farà crescere consumi superflui e veleni.«E’ l’equivoco delle rinnovabili: sono meno impattanti oggi, ma quell’energia “verde” aggraverà il bilancio ecologico domani, se ci sarà ancora “sviluppo”». L’alternativa? Vivere benissimo e diventare tutti ricchissimi: non per forza di denaro, ma di beni (prodotti con “valore d’uso”, anziché merci “usa e getta”). Nel suo libro – densamente argomentato e documentato, numeri alla mano – Pallante ammette che il suo pensiero è necessariamente eretico, di fronte al non-pensiero del “mercato”. «La decrescita selettiva degli sprechi – insiste – è l’unica via d’uscita a una crisi che da troppo tempo genera problemi al sistema economico e sofferenze umane gravissime». Mentre la disoccupazione ci devasta, nessuno mette in cantiere le attività utili, quelle adatte ad affrontare la crisi sociale e l’emergenza ambientale. «Una società che non fa lavorare chi vorrebbe farlo e non commissiona i lavori più necessari, che ripagherebbero i loro costi con i risparmi che consentono di ottenere, è profondamente malata. E la sua malattia è causata dalla diffusione dell’idea assurda che lo scopo dell’economia sia la crescita del Pil. Prima ce ne liberiamo e meglio sarà».Inutile spiegarlo agli oligopolisti del denaro, i ras della finanza che stanno schiantando il pianeta alla velocità della luce. Dovranno essere i molti, non i pochi, a disertare dall’esercito del Pil, additando questo “sviluppo” come il vero nemico di un’umanità ancora intenzionata ad abitare la Terra. E’ in arrivo un cataclisma definitivo o sarà ancora possibile metter mano al nostro destino, fermando la corsa verso il baratro? Dipende da noi, secondo Pallante, che intanto propone di uscire dal grande imbroglio della fiction mainstream. Svegliarsi: rottamare il culto di vocaboli-totem come progresso, modernità e innovazione. Continuare a scambiarli per sinonimi di miglioramento, sostiene, significa restare prigionieri di un inganno saguinoso, ormai esiziale per le sorti della società e del pianeta. Tornare all’antico? Al contrario: «Occorre utilizzare l’enorme patrimonio scientifico e tecnologico delle società industriali», non più per incrementare la produttività e la produzione di merci, ma «per sviluppare le tecnologie che aumentano l’efficienza con cui le risorse della Terra vengono trasformate in beni». Raffinate tecnologie, che riducono gli sprechi, tagliano le emissioni e recuperano i rifiuti.Oggi, insiste Pallante, difendere la democrazia significa affrontare i problemi creati dalla gobalizzazione: «Occorre porre al centro della politica economica l’autosufficienza alimentare ed energetica». Filiere corte, dall’energia al cibo. Parola d’ordine: «Rilocalizzare tutte le attivitù produttive che rispondono ai bisogni fondamentali della vita e possono essere svolte più vantaggiosamente a livello nazionale che a livello globale». Settori d’impiego teoricamente infiniti: basterebbe «ristrutturare ecologicamente il patrimonio edilizio, rinaturalizzare il paesaggio, ripulire i fiumi, rifare le reti idriche che perdono mediamente il 65% dell’acqua». Solo così, conclude Pallante, si può rianimare l’economia creando lavoro “utile”, che risana l’ecosistema. Serve un nuovo umanesimo, un patto tra comunità consapevoli: «Occorre ridare slancio alla convinzione che il lavoro di ognuno può contribuire in maniera determinante al benessere di tutti», restituendo un futuro ai giovani e alle generazioni a venire. Utopia? Sì, necessaria e urgente. Non c’è più tempo per i sogni, serve una politica operativa basata su un paradigma opposto a quello della crescita, cieca e suicida. Anche perché l’alternativa è già scritta: siamo noi, il famoso tonno da tagliare con un grissino.(Il libro: Maurizio Pallante, “Sostenibilità equità solidarietà”, sottotitolo “Un manifesto politico e culturale”, Lindau, 185 pagine, 16 euro).Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.
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Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».
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Chi prende il comando, se il presidente americano muore
Cosa hanno in comune Andrew Cuomo e Dick Cheney, Ted Stevens ed Eric Holder, Bob Gates e Terrel Bell? Apparentemente nulla se non una profonda rivalità politica. Eppure tutti quanti rientrano in una categoria forse ai più sconosciuta, ma di importanza strategica per le dinamiche a stelle e strisce. Parliamo dei designated survivors, i sopravvissuti designati, detti anche i presidenti (mancati) per un giorno. Ossia, chi deve essere pronto a guidare il paese se tutti quelli che lo precedono nella linea di successione alla Casa Bianca vengono a mancare. Cosa accadrebbe infatti se si verificasse un cataclisma o un attentato nelle occasioni in cui il Commander in Chief e gli altri membri della linea di successione si trovano nel medesimo luogo, per esempio quando il Congresso è riunito in seduta comune? L’intera catena di comando americana verrebbe annientata, e il paese si troverebbe senza nessuna autorità riconosciuta. Per questo, dagli anni della guerra fredda, quando era forte il timore di un attacco nucleare, c’è la consuetudine di nominare i sopravvissuti designati, che vengono tenuti in un posto fisicamente lontano, sicuro e segreto, per mantenere ininterrotta la catena di comando in caso un evento catastrofico elimini tutti gli altri.La legge statunitense non prevede che altre persone oltre quelle della lista possano accedere al potere, e quindi nell’ipotesi di una catastrofe, deve esserci qualcuno che prenda in mano le redini della nazione. Quella dei sopravvissuti designati è una figura istituzionale negli Usa, che può essere rivestita solo da chi possiede i requisiti costituzionali per diventare presidente. Il prescelto entra in gioco in alcuni momenti particolarmente significativi dell’anno: per esempio, durante il discorso sullo Stato dell’Unione, il messaggio che l’inquilino della Casa Bianca legge annualmente alle Camere in seduta comune, e durante la cerimonia di insediamento del presidente. A levare i veli a questa categoria di politici è stata ancor prima delle cronache politiche delle cannoniere mediatiche Usa una serie televisiva americana chiamata appunto “Designated Survivor”, trasmessa dal 21 settembre 2016 dall’emittente “Abc”. Da poco è iniziata la seconda stagione, che va in onda anche in Italia su Netflix, dal 6 ottobre. La serie ha come protagonista Kiefer Sutherland nei panni di un membro di poco rilievo del gabinetto Usa, Tom Kirkman, segretario dello sviluppo urbano, che è stato scelto come sopravvissuto designato per il discorso sullo Stato dell’Unione.Kirkman sta seguendo l’appuntamento con la moglie Alex davanti al televisore, quando il Campidoglio viene fatto saltare in aria uccidendo il presidente, il vicepresidente e quasi tutti i membri del Congresso, dell’amministrazione e i giudici della Corte Suprema. E lui viene portato di fretta alla Casa Bianca per assumere le funzione di presidente. La consuetudine va avanti dal 1981, a partire dall’insediamento al 1600 di Pennsylvania Avenue di Ronald Reagan, 40esimo presidente degli Stati Uniti. Il primo sopravvissuto designato di cui si ha notizia è Terrel Bell, segretario dell’Istruzione, che il 18 febbraio fu tenuto in un luogo segreto durante il discorso presidenziale al Congresso in seduta comune. La maggior parte di loro sono sconosciuti ai più, ma scorrendo la lista si trova anche qualche nome noto, come l’attuale governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo, che il 19 gennaio del 1999, durante il discorso sullo Stato dell’Unione dell’allora presidente Bill Clinton, fu scelto come designated survivor. Il democratico a quell’epoca ricopriva il ruolo di segretario dello sviluppo urbano. Sebbene nella realtà nessuno dei sopravvissuti designati abbia preso in mano le redini del paese, come avviene nella fiction, la figura ha assunto una maggiore rilevanza dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.In momenti particolarmente difficili della storia americana, il designated survivor è addirittura il vicepresidente, così da assicurare al paese una leadership autorevole in caso di bisogno. Proprio ciò che accadde il 20 settembre 2001, nove giorni dopo gli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono: durante il discorso al Congresso di George W. Bush è stato il numero due Dick Cheney a rivestire questo ruolo. Il leader dei falchi dell’amministrazione, che facevano capo alla corrente dei neocon, dopo l’11 settembre assunse direttamente la gestione della crisi in atto, e per motivi di sicurezza rimase per un periodo sempre fisicamente distante da Bush, alloggiando in una serie di località segrete. Per l’insediamento di Barack Obama nel 2009, invece, è stato scelto Robert Michael Gates, segretario della difesa durante l’era Bush, succeduto al dimissionario Donald Rumsfeld. Nel caso della transizione da un’amministrazione a un’altra, il sopravvissuto designato viene scelto all’interno del gabinetto uscente, visto che il neo eletto deve ancora formare il governo. Dopo la vittoria di Obama, però, fu tutto più semplice, visto che Gates ha accettato di rimanere nel medesimo ruolo anche con il 44esimo presidente sino al 2011, quando è arrivato Leon Panetta. Nell’era Trump i designated survivor sono stati due: il senatore dello Utah Orrin Hatch, scelto per il ruolo durante l’Inauguration Day del 20 gennaio scorso, e David Shulkin, segretario per gli affari dei veterani, sopravvissuto designato al discorso del tycoon al Congresso in seduta comune, il 28 febbraio scorso.(Valeria Robecco, “Gli uomini al comando se i leader Usa muoiono”, dal “Giornale” del 13 ottobre 2017).Cosa hanno in comune Andrew Cuomo e Dick Cheney, Ted Stevens ed Eric Holder, Bob Gates e Terrel Bell? Apparentemente nulla se non una profonda rivalità politica. Eppure tutti quanti rientrano in una categoria forse ai più sconosciuta, ma di importanza strategica per le dinamiche a stelle e strisce. Parliamo dei designated survivors, i sopravvissuti designati, detti anche i presidenti (mancati) per un giorno. Ossia, chi deve essere pronto a guidare il paese se tutti quelli che lo precedono nella linea di successione alla Casa Bianca vengono a mancare. Cosa accadrebbe infatti se si verificasse un cataclisma o un attentato nelle occasioni in cui il Commander in Chief e gli altri membri della linea di successione si trovano nel medesimo luogo, per esempio quando il Congresso è riunito in seduta comune? L’intera catena di comando americana verrebbe annientata, e il paese si troverebbe senza nessuna autorità riconosciuta. Per questo, dagli anni della guerra fredda, quando era forte il timore di un attacco nucleare, c’è la consuetudine di nominare i sopravvissuti designati, che vengono tenuti in un posto fisicamente lontano, sicuro e segreto, per mantenere ininterrotta la catena di comando in caso un evento catastrofico elimini tutti gli altri.