Archivio del Tag ‘Cina’
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E bravo Draghi, ha ridotto l’Europa a un nano economico
Mario Draghi alla scadenza del suo mandato è stato celebrato come il salvatore della Ue e dell’euro, e non c’è dubbio che abbia fatto di tutto per evitare il collasso della moneta unica e che ci sia riuscito. Ma per l’economia reale – ecco il rovescio della medaglia – questo non ha portato ad alcun giovamento. Nei dieci anni successivi alla crisi, dal 2007 al 2017, secondo i dati della World Bank, il Pil globale nel mondo è aumentato del 22%. Tutto merito della Cina e l’India? Per la verità gli Usa sono cresciuti del 29%. E l’Europa della Ue e dell’euro? Il dato clamoroso è che l’Europa dell’euro in dieci anni è cresciuta, come Pil, dell’1,7%. Questo è incredibile. L’Europa ha a disposizione scienza e tecnologia quanto l’America e l’Asia e si lavora in media otto ore al giorno anche qui. Americani, giapponesi e cinesi prendono un po’ meno vacanze e hanno meno mesi in maternità, vanno in pensione qualche anno più tardi. Ma la differenza non è poi così grande come si pensa. Una differenza così abissale della crescita economica su dieci anni non la si spiega con le ore lavorate, che sono in Eurozona solo un 10 o 15% di meno complessivamente.E in ogni caso questa differenza esisteva anche vent’anni fa, quando invece la crescita europea era paragonabile a quella del resto dei paesi Ocse.Questo enorme divario di crescita si spiega soprattutto con le politiche molto espansive del credito e dei deficit pubblici, che il resto del mondo ha fatto e noi nella Ue no. In Usa, il Pil è aumentato da 15.000 a 19.300 miliardi, mentre il deficit pubblico aumentava da 10.000 a 21.000 miliardi, più che raddoppiato in dieci anni (e tuttora l’America mantiene un deficit pubblico di 1.000 miliardi l’anno). In Cina il totale del debito (incluso quello di imprese e famiglie) era meno di 10.000 miliardi, e in dieci anni è esploso a oltre 40.000 miliardi. In Italia invece il credito totale a famiglie e imprese è calato, negli ultimi dieci anni, perché quello alle imprese è stato tagliato moltissimo (da 940 a 650 miliardi) e quello alle famiglie è salito solo leggermente. E la politica di Draghi alla Bce, che ha espanso il bilancio della Bce di quasi 3.000 miliardi? Questi miliardi sono andati a comprare debito pubblico, sia direttamente che indirettamente (dandoli alle banche che poi compravano ad esempio Btp). Sarebbe stato utile all’economia se si fossero aumentati i deficit tagliando le tasse, ma “le regole Ue” lo hanno impedito. E allora a cosa sono serviti i 3.000 miliardi di Draghi? Solo a far scendere a zero (o sottozero) il rendimenti di tutti i titoli di Stato, persino quell greci.Questo danneggia i risparmiatori, che infatti oggi in Italia hanno abbandonato i titoli di Stato comprando polizze, fondi e prodotti del risparmio gestito, e poi mettendo 300 miliardi nei conti correnti, che sono saliti a 1.400 miliardi. Se schiacci a zero i rendimenti dei titoli, chi vuole risparmiare deve spendere un poco di meno per compensare il reddito che non riceve più sui suoi soldi messi da parte. In compenso, a questi tassi artificialmente bassi diventa più facile indebitarsi per chi opera speculativamente sui mercati. Buona fortuna. Nel resto del mondo si è reagito alla crisi con politiche aggressive di aumento dei deficit e del credito per far circolare più soldi con ogni mezzo anche tra famiglie e imprese. Si sono tagliate le tasse e si è aumentata la spesa, e le banche sono state spinte ad aumentare il credito. Le statistiche mondiali del debito privato e pubblico mostrano un enorme aumento del debito delle imprese specie in Usa e Cina. Oggi il debito equivale in pratica alla moneta che circola, e se si vuole aumentarla bisogna aumentare il debito. Nessuno lo ha capito meglio dei giapponesi e dei cinesi. Il Giappone infatti come si sa ha un debito pubblico doppio del nostro, e la Cina ha trascinato l’economia globale negli ultimi dieci anni aumentando il debito privato di 30.000 miliardi!Se invece non si aumenta il deficit e non si stimolano le banche a prestare alle imprese, stampare moneta come ha fatto Draghi fa solo scendere i tassi sui titoli di Stato a zero o sottozero. Una cosa irrazionale, mai successa in 4.000 anni di storia, e che accade più che altro in Eurozona. Draghi ha pompato liquidità solo per comprare e far comprare alla banche titoli sui mercati. Poco o niente è andato all’economia reale. Questi dati sull’enorme divario tra il resto del mondo che cresce del 22% e l’Eurozona che cresce dell’1% indicano che siamo diventati una eccezione nel mondo; siamo l’area della crescita demografica zero o negativa, come in Italia, perché siamo prigionieri di una gabbia finanziaria che soffoca l’economia e riduce l’occupazione. L’Eurozona sacrifica le prospettive dei suoi figli, che non riproduce più, per rispettare “vincoli finanziari e di bilancio” di cui il resto del mondo se ne frega.C’è chi usa più che altro il debito privato, come i cinesi (ma le loro banche sono pubbliche), chi usa sia quello pubblco come Usa e Uk, e chi usa il debito pubblico, come i giapponesi: sì anche i giapponesi, i quali hanno goduto di un incremento del reddito pro capite dal 2008 di circa il 7% contro un calo dell’8% dell’Italia, nonostante il loro debito pubblico sia il doppio del nostro. La politica della Bce di Draghi è servita solo a impedire che la zona euro si sfaldasse; ma occorre – in Europa, e in Italia prima di ogni altro paese – uno “shock monetario”, una espansione dell’ordine dei 100 miliardi di euro, sotto forma soprattutto di riduzioni di tasse, per rilanciare gli investimenti. L’attuale legge di bilancio mette il paese in coma farmacologico, ma il prossimo anno ci saranno elezioni politiche anticipate e Salvini andrà a Palazzo Chigi; sarà meglio preparere sin d’ora un valido programma per rianimare l’Italia.(Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, “I disastri dell’Euro: l’Ue è cresciuta un decimo rispetto al mondo”, da “Libero” del 3 novembre 2019; articolo ripreso sul blog di Becchi).Mario Draghi alla scadenza del suo mandato è stato celebrato come il salvatore della Ue e dell’euro, e non c’è dubbio che abbia fatto di tutto per evitare il collasso della moneta unica e che ci sia riuscito. Ma per l’economia reale – ecco il rovescio della medaglia – questo non ha portato ad alcun giovamento. Nei dieci anni successivi alla crisi, dal 2007 al 2017, secondo i dati della World Bank, il Pil globale nel mondo è aumentato del 22%. Tutto merito della Cina e l’India? Per la verità gli Usa sono cresciuti del 29%. E l’Europa della Ue e dell’euro? Il dato clamoroso è che l’Europa dell’euro in dieci anni è cresciuta, come Pil, dell’1,7%. Questo è incredibile. L’Europa ha a disposizione scienza e tecnologia quanto l’America e l’Asia e si lavora in media otto ore al giorno anche qui. Americani, giapponesi e cinesi prendono un po’ meno vacanze e hanno meno mesi in maternità, vanno in pensione qualche anno più tardi. Ma la differenza non è poi così grande come si pensa. Una differenza così abissale della crescita economica su dieci anni non la si spiega con le ore lavorate, che sono in Eurozona solo un 10 o 15% di meno complessivamente.E in ogni caso questa differenza esisteva anche vent’anni fa, quando invece la crescita europea era paragonabile a quella del resto dei paesi Ocse.
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Grillo, fai un regalo all’Italia: chiudi il Movimento 5 Stelle
Quelli che sin dagli esordi avrebbero voluto che non esistesse e quelli come me, furibondi con il Movimento da almeno tre anni, commenteranno: “Cosa parli ancora del M5S, che è bene che sparisca dalla faccia della Terra!?” (aggiungendo magari qualche comprensibile insulto a Grillo e al sottoscritto, in quanto editorialista costantemente controvento). Secondo la mia interpretazione, costoro hanno ragione al 90% perché, in realtà, finché è stato in vita Gianroberto Casaleggio questa forza politica era davvero qualcosa di straordinario e solo chi ha militato può saperlo: l’essere antisistema (aristocrazie finanziarie parassitarie), la partecipazione dal basso, le leggi create sulla piattaforma, eccetera.Il successo del 2018 preparato dai media (ricordate gli applausi a Di Maio a La7?) e da loro incensato fu un detonatore sotto le terga dei pentastellati: promuovevano il 5S se si prostrava agli “europeones”, al pensiero dominante franco-germanocentrico razzista contro gli italiani, ma in itinere creavano le basi per distruggerlo avvicinando esponenti grillini di spicco nelle istituzioni, per “blandirli” e infine utilizzarli per creare divisioni ovviamente mal tollerate dai cittadini, soprattutto quando riguardavano temi caldi come l’immigrazione.La naturale tendenza al cambiamento del 5S doveva essere avvelenata e stravolta: l’unico irrinunciabile valore grillino condiviso da tutti gli italiani con un cervello non delegato era la fine dell’austerity, della deindustrializzazione, della colonizzazione estera; e doveva essere terminato. A causare la fine del Movimento non è stata quindi la scelta di essere né di destra né di sinistra, e infatti la stessa Lega è votata in modo trasversale e ha sostituito abilmente il 5S nella lotta all’establishment; la vera causa della fine del 5S era nella sua radice! Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, dopo anni di Berlusconi, credettero fosse sensato imperniare questa forza politica sin dagli albori sul progressismo (quello che uccise il Pci sull’altare del “Washington Consensus”), ma non si resero conto che la vittoria auspicata contro i cosiddetti “poteri forti stranieri” dentro questo schema non sarebbe stata possibile, dato che le lobbies si nutrono proprio di questo paradigma! E’ stato semplice per l’establishment agire su schiere di eletti ad esso affini e su attivisti pseudo-ribelli in cerca di posto al sole, fancazzisti e adolescenti perenni; bastavano una Carola o una Greta, figuriamoci qualche comoda poltrona.Paradossalmente, visto che si autodefiniscono progressisti, non è da loro che potrà giungere a noi qualsivoglia cambiamento, perché la loro “anima” ed arma è una forma di feroce conformismo pronto alla discriminazione; e quindi, se dovrà nascere qualcosa di nuovo dovrà essere pragmatico e agli antipodi rispetto al “fu M5S”. Le orde di piddini inconsapevoli interni al 5S non studiavano (e sposavano) quelle battaglie geopolitiche ed economiche vitali per l’Italia (ma purtroppo complesse e poco comprese dalle masse), ma in linea con i pochi neuroni di cui disponevano si vestivano di stereotipi emotivi berciando su questioni orecchiabili come la pace, l’ambiente, gli omosessuali, la corruzione, l’Europa, l’anticlericalismo, i migranti (da assistere una volta resi degli straccioni apolidi, anziché da emancipare nei loro paesi), e tutto per ottenere quella ottantina di voti con i quali approdare in Parlamento nel 2013. Successivamente, in rispetto del dogma che gli incapaci di norma sono furbissimi nelle dinamiche da branco, costoro si sono impossessati gerarchicamente del potere interno al Movimento.A questo punto per loro è stato semplice “ragionare da casta” prostituendo tutto il prostituibile; non mi riferisco solo a Di Maio, ma a quelli che lo affiancano al governo e soprattutto a chi adesso lo accusa e ha cercato di trasformare il 5S nella succursale del Pd, tra cui l’inguardabile Lombardi, Luigi Gallo e la Ruocco. Un avvelenamento dei pozzi, quindi, quello agito sul povero Movimento premendo costantemente sui peones e sul solito principio attivo letale dell’establishment: “glebalizzare” le maggioranze facendosi servire dalle minoranze arcobaleniche (lobbies Lgbt, pseudo-pacifisti, pseudo-femministi, pseudo-ambientalisti, anticlericalisti, “decresciuti felicemente”, ecc) che se ne fregano di temi quali il lavoro e la vita delle famiglie perché interessate patologicamente al loro monotema. Con questi presupposti, approdare al fantastico mondo delle politiche del rigore spacciate per espansive (!?!) e da lì al vergognoso tentativo di alleanza definitiva con il Pd (con la Lega era solo un contratto) il passo è stato breve. Tutto perfetto, se non ci fosse un fattore stranamente ancora presente e fastidioso per i nostri padroni esteri: gli elettori.E pensare che con nuove elezioni un binomio Di Battista – Salvini avrebbe potuto fare moltissimo per la nostra nazione (termine legato antropologicamente ai diritti umani e alla cultura, ditelo alle capre radical chic): magari eleggere un presidente della Repubblica libero e con a cuore il nostro Stato. Invece qualcuno, cioè Beppe Grillo con la sua corte di scherani (uno tra tutti, il presidente della Camera Roberto Fico) per qualche ragione oscura, manco fosse un ricattato, ha operato improvvisamente e violentemente in direzione opposta. Tranquilli, ciò significa che anche quel binomio di cui sopra non avrebbe funzionato a causa dei peones; quindi meglio così, il M5S deve chiudere baracca per il nostro bene. Beppe Grillo se vorrà salvare la faccia dovrà dovrà portare profonde scuse pubbliche agli italiani, esporre le scomode verità elencate in pezzi come questo e lasciare a chi è rimasto fuori da questa immondizia il compito di fondare qualcosa di differente.Questo soggetto dovrà “imporre” democraticamente ai cittadini una grammatica differente, una nuova visione con determinate linee valoriali e con fondamenta coerenti con l’obiettivo della liberazione dal giogo neoliberista sfrenato, perbenista-schiavista (e non ad esso funzionale). Ferme restando alcune regole presenti nel M5S incentrate sull’opportuno concetto “di cittadino punto e basta” (no condanne, no tessere di altri partiti da almeno 5 anni, massimo 2 mandati, no alle correnti – tutti contributi che riconosco ai fondatori del Movimento) il nuovo soggetto politico non dovrà “ripartire” ma iniziare da capo senza temere di prendere anche un misero 5%. Questa volta al centro di questo movimento dovrà esserci un paradigma identitario, patriottico, che si ponga a difesa delle nostre splendide tradizioni a cominciare dalla riscoperta dei valori cristiani della famiglia tradizionale, del Natale (iniziando da quello alle porte) festa bellissima ma ormai umiliata, rarefatta strategicamente dall’attuale Pontefice e derisa dagli adepti di ideologie massonico-anticlericali come il gender e il suicidio assistito (confuso a dovere con l’eutanasia, vedasi “Suicidio assistito, l’ennesimo abuso della lobby massonica”).Se davvero un simile nuovo soggetto politico si affaccerà nel panorama democratico, esso innanzitutto dovrà manifestare concreta vicinanza ai pilastri dello Stato come le forze di sicurezza, carabinieri e polizia, come le università e i suoi giovani, come i sindacati. Meritocrazia, competenza, capacità, scuola, ricerca, innovazione tecnologica e ambientale, giustizia sociale (salario orario minimo garantito), efficienza della pubblica amministrazione, sicurezza (idrogeologica e cittadina), lotta alle grandi evasioni ed elusioni dovranno fare il resto. Come target economico di questo movimento dovranno esservi la valorizzazione dell’economia reale regolamentando la finanza selvaggia ed estremista, la fine della austerity, l’abolizione del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio, l’attuazione di politiche davvero espansive, la piena occupazione anche “di cittadinanza attiva” e il riaffermare del principio che vede la Costituzione sopra ogni trattato internazionale. Nessun attuale eletto nelle fila degli attuali partiti-movimenti potrà candidarsi per almeno 5 anni.A livello strettamente geopolitico il nuovo movimento dovrà porsi come obiettivo l’Italia, sostenuta nelle sue peculiarità: se il nostro Stato continuerà ad appiattirsi sulla Ue come fosse una realtà continentale (lo sono Francia e Germania), finirà per condannarsi alla desertificazione socioeconomica e ad essere ininfluente. L’Italia perciò dovrà guardare fortemente verso Mosca, verso il Mediterraneo e verso le correnti di Trump e Johnson nel mondo anglosassone senza comunque chiudere alla Via della Seta; con i vicini centroeuropei la scelta più sensata sarà edificare rapporti simili a quelli presenti in passato in ambito Cee (un po’ come fanno gli inglesi specularmente col Brexit), concordando inoltre l’uscita dalla moneta unica. Sui temi migratori l’Italia dovrà tornare a chiudere i porti alle Ong (fermo restando l’aiuto verso i veri profughi) ma allo stesso tempo dovrà stabilire quote annuali di stranieri da integrare lavorativamente (esiste anche una fisiologica richiesta di manodopera estera) ma anche da formare culturalmente, spiegando loro cosa è stato fatto loro dal neocolonialismo, in primis francese, con particolare riguardo alla tematica del franco Cfa.La linea scelta da Grillo negli ultimi tempi invece è quella del kamikaze, perché al sistema mafioso internazionale poco importa se il M5S scompare: ciò che importa ad esso è il piazzare Mario Draghi (ne sia consapevole o meno) alla presidenza della Repubblica a costo di sacrificare vecchi e nuovi servi. Se notate ogni mossa dei media, del Pd, delle più alte cariche della Repubblica e via discorrendo, fino all’ultimo mandarino di sistema di provincia, è sotto sotto quello di difendere una moneta privata e straniera che paghiamo a caro prezzo: l’euro. Per il bene dell’Italia, il M5S deve scomparire perché qualsiasi cosa venisse riproposta da Di Maio e soci sarebbe una minestra riscaldata, la fase dell’innamoramento (cit. Alberoni) è terminata, e pure quella dell’amore visto che siamo addirittura alla sopportazione e alla commiserazione (Di Maio). E’ un vero peccato, non perché ne sia l’autore, che questo pezzo passi inosservato e poco condiviso sui social (mi auguro l’opposto) perché il sogno di tanti 5S è stato distrutto da qualcuno che a mio avviso passerà alla storia come un giullare traditore, mentre le energie contenute in questo sogno potrebbero ancora emancipare l’Italia e portarla fuori dal soffocamento organizzato da Parigi e Berlino, permesso sin dai decenni precedenti da una classe politica di complici e incapaci.(Marco Giannini, “Grillo passerà alla storia come un giullare traditore se non chiuderà la baracca pentastellata”. Fino al 2016, con la svolta “eurista” dei 5 Stelle al Parlamento Europeo, Giannini aveva sostenuto il M5S. Antropologo, è autore del saggio “Il neoliberismo che sterminò la mia generazione”, edito da Andromeda).Quelli che sin dagli esordi avrebbero voluto che non esistesse e quelli come me, furibondi con il Movimento da almeno tre anni, commenteranno: “Cosa parli ancora del M5S, che è bene che sparisca dalla faccia della Terra!?” (aggiungendo magari qualche comprensibile insulto a Grillo e al sottoscritto, in quanto editorialista costantemente controvento). Secondo la mia interpretazione, costoro hanno ragione al 90% perché, in realtà, finché è stato in vita Gianroberto Casaleggio questa forza politica era davvero qualcosa di straordinario e solo chi ha militato può saperlo: l’essere antisistema (aristocrazie finanziarie parassitarie), la partecipazione dal basso, le leggi create sulla piattaforma, eccetera. Il successo del 2018 preparato dai media (ricordate gli applausi a Di Maio a La7?) e da loro incensato fu un detonatore sotto le terga dei pentastellati: promuovevano il 5S se si prostrava agli “europeones”, al pensiero dominante franco-germanocentrico razzista contro gli italiani, ma in itinere creavano le basi per distruggerlo avvicinando esponenti grillini di spicco nelle istituzioni, per “blandirli” e infine utilizzarli per creare divisioni ovviamente mal tollerate dai cittadini, soprattutto quando riguardavano temi caldi come l’immigrazione.
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Sapelli: salvare l’Ilva, è il nostro ultimo gioiello strategico
Secondo una scuola di economisti neoliberali, non abbiamo più bisogno delle produzioni nazionali, perché l’acciaio si può acquistare, come qualsiasi altra commodity, sul mercato internazionale. Questa posizione sottovaluta però un fattore importante. L’acciaio è una materia prima lavorata, con differenti gradi di perfezione. Grazie al lascito della grande industria siderurgica nazionale di proprietà pubblica, gli acciai piani di Taranto sono di altissima qualità, tra i migliori al mondo. E in un paese caratterizzato dalla presenza di piccole e medie imprese, questi sono venduti per circa il 70% a copertura del fabbisogno nazionale. Di fatto le imprese metallurgiche, meccaniche e affini italiane possono acquistare questo acciaio di altissima qualità a un prezzo inferiore rispetto a quello dell’oligopolio internazionale. Quindi la chiusura dell’ultimo impianto a ciclo integrato rimasto in Italia sarebbe oltremodo grave: verrebbe meno uno dei pochi fattori che consentino alla nostra piccola e media impresa di resistere.Trovare una soluzione è molto difficile, anche perché il problema dell’ex Ilva risale nel tempo. Abbiamo visto avvicendarsi sentenze e provvedimenti con una lettura della responsabilità giuridica delle imprese che, se nel diritto anglosassone comporta sanzioni, nel caso di Taranto (con l’interpretazione che si è data del decreto legislativo 231 del 2001) ha comportato l’esproprio senza alcun processo degli stabilimenti che erano stati acquisiti dalla famiglia Riva e i sequestri di parte della produzione al posto delle multe. Tutto questo ha poi portato a quel provvedimento, certamente inconsueto in uno Stato di diritto, noto come “scudo penale” per Arcelor Mittal, in cambio delle bonifiche ambientali e dei necessari cambiamenti alla produzione. Il tira e molla su questo provvedimento, che ha avuto come protagonisti i 5 Stelle, ora ha indotto il gruppo franco-indiano a prendere la decisione a tutti ormai nota. Non credo che Arcelor Mittal a quel punto abbia poi voglia rimettersi in campo, perché le sono state fatte delle promesse che non sono state mantenute.Bisognerebbe trovare degli altri azionisti privati che subentrassero. Ho in mente per esempio Arvedi, che svolge le stesse produzioni utilizzando delle tecnologie che riducono altamente la possibilità di inquinamento. La nazionalizzazione? Non credo che sia una strada percorribile, per via delle regole europee. Cassa Depositi e Prestiti potrebbe anche entrare nel capitale, ma la cosa importante è trovare altri azionisti e dei manager capaci. Ma ci vorrebbe anche un governo che avesse dei ministri autorevoli, soprattutto allo sviluppo economico. A una cordata sembra stia pensando Renzi, dopo che Italia Viva ha votato insieme agli altri partiti di maggioranza per togliere lo “scudo penale” ad Arcelor Mittal. Quella di Renzi è la posizione che può esprimere una persona che è a capo di un conglomerato industriale, non che viene eletta dal popolo per fare gli interessi della nazione e occuparsi di problemi generali. È molto grave che un singolo parlamentare si faccia promotore addirittura di accordi industriali.Vuol dire che i neo-partiti personali sono agglomerati di imprenditori che di volta in volta contattano degli uomini politici, li mandano avanti per fare in modo che si preveda l’applicazione di determinate leggi e misure e attorno a questo raggiungono un consenso che abbia un peso elettorale. Intanto il Pd viene accusato di essersi appiattito sulle posizioni del Movimento 5 Stelle. Il Pd è da tempo che si allinea alle posizioni che io chiamo “esoteriche” dei 5 Stelle. Un tempo, quanti in Italia erano legati ai gruppi maoisti sostenevano che l’acciaio si potesse fare coi secchi, come secondo loro faceva Mao in Cina. Sappiamo però bene che occorre un altoforno, per questo. Adesso ci sono quanti sostengono che produrre acciaio non ha dei rischi ambientali. Li ha, ma abbiamo tutte le tecnologie idonee per evitarli. A Taranto non si è fatto molto, su questo punto, anche da parte degli enti pubblici. La Regione Puglia ha responsabilità enormi, da Vendola in poi, perché aveva tutti i mezzi legali per imporre almeno una copertura dei rifiuti metallici e impedire che il vento li portasse via.Poche settimane fa Whirlpool ha comunicato di voler chiudere lo stabilimento di Napoli, ora Arcelor Mittal fa un passo indietro da Taranto. Non è un caso, perché questo governo dà segni di grande debolezza, di grande fragilità, soprattutto di indeterminatezza nelle politiche industriali. Anche perché il Pd si è appiattito sulle posizioni dei 5 Stelle. Quindi gli investitori stranieri non si sentono più sicuri e naturalmente pensano già alle vie di fuga dall’Italia. Non escludo che ci siano gruppi esteri pronti all’assalto perché quello di Taranto, una volta risanato, è uno stabilimento di altissima professionalità e rappresenta il 70% del mercato italiano dell’acciaio (che vuol dire le industrie, soprattutto degli stampisti, meccaniche e metallurgiche, tra le migliori al mondo). Nel frattempo, in base ai contratti stipulati, anche senza produrre a Taranto Arcelor Mittal potrà rifornire i clienti dell’ex Ilva con l’acciaio realizzato all’estero. Questa è la cosa che mi preoccupa di più, perché vuole dire che si arriva a eradicare una parte della nostra industria.Penso che con questa vicenda dell’ex Ilva cominciamo ad arrivare al finale della “campagna d’Italia”, cioè alla spoliazione dell’industria italiana. Questa è una vicenda che comincia da Romano Prodi. Un modo per obbligare l’industria italiana, se vuole l’acciaio, a rifornirsi da qualcun altro. Chi se ne avvantaggia? Un po’ tutti i gruppi. Arcelor Mittal è un gruppo franco-indiano. I tedeschi, dopo la drammatica vicenda Thyssen, hanno avuto l’intelligenza di rifarsi. Quindi, come ripeto da tempo, i contendenti della campagna d’Italia sono la Francia e la Germania. Si può rimettere in piedi l’ex Ilva? Ci sarebbe il modo. Abbiamo azionisti privati, penso ad Arvedi; abbiamo anche le capacità manageriali. Ci vuole un sostegno pubblico, che però deve essere forte, autorevole e continuo nel lungo periodo. Cosa che non mi pare possibile oggi. Se c’è un ministro responsabile, mi appello a Gualtieri che mi sembra l’unico con queste caratteristiche nel governo: si dia da fare e si cerchi di separare la polemica pro o contro esecutivo dalla vicenda Ilva. La questione di fondo è salvare l’ex Ilva, qualunque governo ci sia.(Giulio Sapelli, dichiarazioni rilasciate a Lorenzo Torrisi per l’intervista “Caos Ilva, azionista privato e sostegno dello Stato, ecco come fare”, pubblicata dal “Sussidiario” il 6 novembre 2019).Secondo una scuola di economisti neoliberali, non abbiamo più bisogno delle produzioni nazionali, perché l’acciaio si può acquistare, come qualsiasi altra commodity, sul mercato internazionale. Questa posizione sottovaluta però un fattore importante. L’acciaio è una materia prima lavorata, con differenti gradi di perfezione. Grazie al lascito della grande industria siderurgica nazionale di proprietà pubblica, gli acciai piani di Taranto sono di altissima qualità, tra i migliori al mondo. E in un paese caratterizzato dalla presenza di piccole e medie imprese, questi sono venduti per circa il 70% a copertura del fabbisogno nazionale. Di fatto le imprese metallurgiche, meccaniche e affini italiane possono acquistare questo acciaio di altissima qualità a un prezzo inferiore rispetto a quello dell’oligopolio internazionale. Quindi la chiusura dell’ultimo impianto a ciclo integrato rimasto in Italia sarebbe oltremodo grave: verrebbe meno uno dei pochi fattori che consentono alla nostra piccola e media impresa di resistere.
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L’Italia perde la Fiat, venduta alla Francia. E nessuno fiata
L’Italia perde la sua maggiore azienda, per decenni sorretta dallo Stato: a mangiarsi la Fiat è la Francia di Macron, con il gruppo Psa (Peugeot-Citroen-Opel) di cui il governo francese possiede il 13%. Il Cda di quello che diventerà il quarto produttore automobilistico al mondo, con 50 miliardi di dollari di fatturato, sarà guidato dall’attuale numero uno di Peugeot, Carlos Tavares, lasciando a John Elkann la presidenza del nuovo soggetto industriale. Clamorosa l’assenza totale della politica italiana: gli uomini del Conte-bis si limitano al ruolo di semplici spettatori, e tace anche l’opposizione. Silenzio generale, di fronte alla perdita definitiva del gruppo Fiat, fatto a pezzi nel corso degli anni. Stabilimenti delocalizzati in Polonia, Serbia, Turchia, Brasile, Argentina, India e Cina. E domicilizioni “emigrate” in Gran Bretagna (sede legale), in Lussemburgo (fiscale) e negli Usa (borsistica). E ora, addio anche alla proprietà italiana del marchio, nonostante l’oceano di soldi – agevolazioni sugli stabilimenti, cassa integrazione – versati dai contribuenti italiani per tenere in piedi l’industria torinese. «Al silenzio della politica seguirà quello di giornali e televisioni», avverte Gigi Moncalvo: «Nessuno oserà contestare l’accordo, visto che il gruppo Fiat spende enormi quantità di denaro, in termini pubblicitari, sui media italiani».Autore di scomodi saggi sul potere della maggiore dinastia industriale italiana (“Agnelli segreti”, “I lupi e gli agnelli”), intervenendo nella trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, Moncalvo sottolinea lo squallore della situazione italiana, di fronte allo “scippo” francese propiziato da «rabbini e grembiulini vicini a John Elkann». Moncalvo, che ha seguito da vicino anche l’ingloriosa saga dell’eredità di Gianni Agnelli, ha scoperto che il grosso del denaro di famiglia è tuttora custodito all’estero, in un caveau all’areoporto di Ginevra, fuori dalla portata del fisco italiano. Sempre Moncalvo racconta che la Fiat, “scomunicata” dagli Usa nel 1945 per gli enormi benefici ottenuti dalle commesse belliche del regime fascista, fu improvvisamente riabilitata (e inserita nel Piano Marshall) grazie ai buoni uffici di Pamela Harriman, nuora di Churchill e buona amica dell’allora giovane Avvocato. A partire proprio dal dopoguerra, però – sostiene Moncalvo – il vero timone della Fiat passò nelle mani di Wall Street. Morto il problematico Edoardo Agnelli, che aveva annunciato la sua intenzione di avere voce in capitolo nel destino della Fiat, il gruppo torinese è stato affidato al ramo familiare Elkann.Scomparso Gianni Agnelli, i suoi storici collaboratori – Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens – hanno fatto in modo, d’intesa con la vedova, che tutto il potere finisse nelle mani dell’allora giovanissimo John Elkann. Due anni dopo, la finanza Usa ha “spedito” a Torino il super-manager bancario Sergio Marchionne, che ha finto di rilanciare gli stabilimenti italiani per poi invece siglare l’accordo con Chrysler e trasferire il cuore del gruppo a Detroit, con il varo del marchio Fca. E oggi, appena un anno dopo la prematura morte di Marchionne, il gruppo formalmente rappresentato da John Elkann sembra voler “sbaraccare” quel che resta della Fiat in Italia, cedendo il controllo dell’ex impero al paese che più sta danneggiando l’Italia, sul piano industriale: la Francia. Secondo gli analisti, segnala il “Fatto Quotidiano”, la volontà francese di restare alla guida del nuovo gruppo sarebbe evidente anche dai numeri dell’operazione. Il gruppo Psa riconosce ai soci Fca un premio da 6,7 miliardi rispetto alle quotazioni di Borsa antecedenti l’inizio delle indiscrezioni sulle nozze. Senza contare che la cifra in questione sarebbe anche al netto del dividendo straordinario di Fca – 5,5 miliardi, di cui di cui 1,6 destinati ad Exor, la cassaforte degli Agnelli – e delle quote di Faurecia e Comau che verranno distribuite ai soci.«Psa sta sostanzialmente comprando Fca», ha spiegato senza mezzi termini la società di consulenza Equita, secondo cui i francesi hanno pagato «un buon premio» agli Elkann e si sono assicurati la “maggioranza” per il controllo del nuovo gruppo. Come ha spiegato a “Bloomberg” Philippe Houchois, analista di “Jefferies”, «Psa sta pagando un premio del 32% per assumere il controllo di Fca». Sottraendo dal gruppo italo-americano i 5,5 miliardi del dividendo straordinario e il valore della quota di Comau (circa 250 milioni di euro), e da quello francese il valore della quota in Faurecia (2,7 miliardi), si arriva a una “capitalizzazione di mercato teorica” di “20 miliardi” per Peugeot e di “13,25 miliardi” per Fca. Sulla base di questi valori e “senza un premio”, agli azionisti di Peugeot sarebbe spettato il 60,15% del nuovo gruppo e a quelli di Fca il 39,85%, anziché il 50% a testa negoziato. Insomma, i conti della “fusione alla pari” non tornano, scrive Fiorina Capozzi sul “Fatto”. Del resto, aggiunge, «a Torino era noto da tempo che gli Elkann avessero intenzione di ridimensionare il peso dell’auto nel patrimonio di famiglia».Non è un mistero neppure che Fca fosse alla ricerca di un partner strategico, come testimonia il tentato “blitz” su Renault, sventato nei mesi scorsi dall’intervento di Macron. Lo Stato francese, socio di Renault, è anche azionista di Psa: segno che «in questo caso, ha fatto bene i suoi conti», chiosa Capozzi. Da parte sua, Moncalvo si domanda che fine faranno, ora, gli operai degli stabilimenti di Cassino, Melfi e Pomigliano d’Arco. Negli ultimi anni la Fiat ha chiuso Termini Imerese e Rivalta, senza contare l’Alfa Romeo di Arese. Nella storica fabbrica torinese di Mirafiori ormi si produce solo il Suv della Maserati, mentre a Cassino le Alfa (Giulia, Giulietta e Stelvio), a Melfi la 500 X e la Jeep Renegade, a Pomigliano la Panda. La Cinquecento è prodotta in Polonia, le grandi Jeep in Brasile e in India, la Tipo in Turchia. Il gruppo oggi avrebbe 130.000 dipendenti, in 119 stabilimenti distribuiti nel mondo. Drammatico, negli ultimi anni, il crollo dei livelli occupazionali italiani. Negli anni Sessanta, Mirafiori dava lavoro a 65.000 operai. Oggi, le poche migliaia di addetti rimasti si limitano all’unica linea attiva, quella della Maserati Levante. Residuo futuro per l’ex Fiat? La famiglia Elkann sembra volersene lavare le mani. D’ora in poi a dettare legge saranno i francesi. E addio al made in Italy nel settore auto.L’Italia perde la sua maggiore azienda, per decenni sorretta dallo Stato: a mangiarsi la Fiat è la Francia di Macron, con il gruppo Psa (Peugeot-Citroen-Opel) di cui il governo francese possiede il 13%. Il Cda di quello che diventerà il quarto produttore automobilistico al mondo, con 50 miliardi di dollari di fatturato, sarà guidato dall’attuale numero uno di Peugeot, Carlos Tavares, lasciando a John Elkann la presidenza del nuovo soggetto industriale. Clamorosa l’assenza totale della politica italiana: gli uomini del Conte-bis si limitano al ruolo di semplici spettatori, e tace anche l’opposizione. Silenzio generale, di fronte alla perdita definitiva del gruppo Fiat, fatto a pezzi nel corso degli anni. Stabilimenti delocalizzati in Polonia, Serbia, Turchia, Brasile, Argentina, India e Cina. E domiciliazioni “emigrate” in Gran Bretagna (sede legale), in Lussemburgo (fiscale) e negli Usa (borsistica). E ora, addio anche alla proprietà italiana del marchio, nonostante l’oceano di soldi – agevolazioni sugli stabilimenti, cassa integrazione – versati dai contribuenti italiani per tenere in piedi l’industria torinese. «Al silenzio della politica seguirà quello di giornali e televisioni», avverte il saggista Gigi Moncalvo: «Nessuno oserà contestare l’accordo, visto che il gruppo Fiat spende enormi quantità di denaro, in termini pubblicitari, sui media italiani».
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Sapelli: Macron vuole “mangiarsi” l’Italia, grazie a Renzi
Sventato il “pericolo” gialloverde, ora il Conte-bis non serve più. E Macron potrebbe approfittarne per “prendersi l’Italia”, grazie all’amico Renzi, approfittando del caos politico nel quale versa l’Ue. Lo sostiene Giulio Sapelli, economista e storico, sondato da Marco Biscella per il “Sussidiario”. Tanto per cominciare, suona stonata la lettera della Commissione Europea che chiede chiarimenti al governo italiano sulla manovra 2020: fuoco amico contro un esecutivo allineato a Bruxelles? Il guaio, premette Sapelli, è che non si capisce più chi comandi, in questo momento, nell’Unione Europea: la Commissione von der Leyen è in stallo, al punto che «le trattative sulla Brexit le sta conducendo Juncker». Quanto ai francesi, «si sono messi contro tutti». Macron bloccato l’allargamento Ue a Macedonia e Albania. «C’è un’anarchia terribile», dice il professore, e quindi il Conte-bis è irrilevante. «Un tempo, uno sgarbo simile alla Germania, come quello fatto alla Commissione von der Leyen, non sarebbe mai stato possibile», precisa Sapelli. E la spaccatura a Bruxelles provoca «una caduta di credibilità enorme, di cui approfittebbero subito Cina e Stati Uniti».Secondo Sapelli, «i cinesi ci sguazzeranno, in questa carenza di potere». E così potranno perfezionare i loro rapporti con la Nuova Via della Seta, «su cui nessuno intende fare marcia indietro, a cominciare proprio dall’Italia». E Washington? «Gli Stati Uniti non esistono più: esistono due o tre Americhe, impegnate in una lotta spietata l’una contro le altre». Gli Usa, aggiunge il professore, non riescono più a esercitare la loro influenza stabilizzatrice. Gli Stati Uniti, dice, «sono grandi per potersi occupare del mondo, ma non grandi abbastanza per potersene occupare da soli». E quindi, «appena la potenza americana si è dimostrata non più grande come un tempo, si sono subito visti i riflessi sulle divisioni europee», che una volta «si risolvevano nell’ambasciata americana», e oggi non più. «Il problema dell’Europa non sono gli europei, ma gli Stati Uniti, che non riescono più a unire il gregge. Quindi, divisioni ed egoismi nazionali all’interno della Ue aumenteranno sempre di più». E oggi il problema numero uno, in Europa, si chiama Macron.Il presidente francese «è alle prese con grossi problemi interni», e ha davanti a sé «una campagna elettorale difficilissima con il suo pseudo-partito diviso, lacerato, a pezzi». Per Sapelli, il suo disegno troverà una via d’uscita gollista. Ovvero: «Fare il duro in Europa, non cooperare. E immaginiamoci un po’ cosa si appresta a fare la Francia in Italia». Allarme rosso: «Ora che sta per arrivare la stagione delle nomine ai vertici degli enti pubblici, la preoccupazione principale di Macron, muovendo quella macchina potente e perfetta che è la diplomazia francese, sarà di affermare la potenza della Francia nell’economia italiana». E non troverà ostacoli? «Renzi è sceso in campo per questo, per aiutare i francesi in questa posizione», sostiene Sapelli. «Situazioni che abbiamo già storicamente vissuto con il Risorgimento, con la Prima Guerra Mondiale: è una vecchia tiritera dei rapporti italo-francesi». Il professore allude anche al Trattato del Quirinale, impostato proprio sotto il governo Renzi: di quel trattato «non si sa nulla», e finora «è stato affidato a parti private: il Parlamento non ne ha mai avuto contezza».E dunque – domanda Biscella – che effetti avrà sulla politica italiana questa “comunione d’intenti” tra Macron e Renzi? «Macron si sente un re taumaturgo, invece Renzi è come un contadino che vuole farsi toccare dal re», risponde Sapelli. «Renzi è un elemento di disturbo che lavora per suoi fini, mira a disgregare i partiti. Che è la stessa operazione condotta da Macron per arrivare al potere: lui ha disgregato gollisti e socialisti, Renzi, se lo imita, vuole disgregare il Pd, e prima voleva rottamare tutti. Ma non essendo un re taumaturgo, ha poi dovuto fare un passo indietro». Secondo Sapelli, fino alla stagione delle nomine il governo non dovrà cadere. Poi, potrà succedere. Del resto, aggiunge, la creazione di “Italia Viva” è servita proprio a questo scopo. E il governo Conte-bis è a termine. «Renzi sa benissimo quanto è difficile che questo governo duri», sottolinea Sapelli.E la Germania? L’opposizione a 360° di Macron mette a rischio anche il Trattato di Aquisgrana firmato con la Merkel? «Assolutamente no», dice ancora Sapelli: «I legami fortissimi, culturali ed economici, tra Francia e Germania resistono. I due litigano continuamente, ma Berlino e Parigi sono una coppia, invece l’Italia non è fidanzata con nessuno. E’ una signora abbandonata a se stessa». Ma Conte non era il cocco dell’establishment euro-atlantico? «Parlare di un Conte accreditato presso l’establishment mondiale per aver partecipato a un G7 mi sembra un po’ esagerato», dice Sapelli, che non esclude una completa “riabilitazione” di Matteo Salvini. «Il destino di Salvini è nelle mani di Salvini, tutto dipende da cosa farà: se la Lega diventa quello che deve diventare, cioè una nuova Dc, una forza moderata, tutto potrebbe cambiare». Spiega Sapelli: «Le regioni più produttive dell’Italia, in larghissima parte rappresentate dalla Lega, hanno bisogno di un partito che sia ragionevole e riformista».Sventato il “pericolo” gialloverde, ora il Conte-bis non serve più. E Macron potrebbe approfittarne per “prendersi l’Italia”, grazie all’amico Renzi, approfittando del caos politico nel quale versa l’Ue. Lo sostiene Giulio Sapelli, economista e storico, sondato da Marco Biscella per il “Sussidiario”. Tanto per cominciare, suona stonata la lettera della Commissione Europea che chiede chiarimenti al governo italiano sulla manovra 2020: fuoco amico contro un esecutivo allineato a Bruxelles? Il guaio, premette Sapelli, è che non si capisce più chi comandi, in questo momento, nell’Unione Europea: la Commissione von der Leyen è in stallo, al punto che «le trattative sulla Brexit le sta conducendo Juncker». Quanto ai francesi, «si sono messi contro tutti». Macron bloccato l’allargamento Ue a Macedonia e Albania. «C’è un’anarchia terribile», dice il professore, e quindi il Conte-bis è irrilevante. «Un tempo, uno sgarbo simile alla Germania, come quello fatto alla Commissione von der Leyen, non sarebbe mai stato possibile», precisa Sapelli. E la spaccatura a Bruxelles provoca «una caduta di credibilità enorme, di cui approfitterebbero subito Cina e Stati Uniti».
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Magaldi: sta cambiando tutto, e adesso ve ne accorgerete
Forse adesso anche i più sprovveduti, i teorici della “follia estiva” del Papeete, capiranno perché Salvini ha staccato la spina al governo gialloverde, una volta capito che Conte e Tria gli avrebbero impedito di alleggerire la pressione fiscale e inaugurare una politica finalmente espansiva. Ultimo tradimento, il voto dei grillini per Ursula von der Leyen alla Commissione Europea. Ragionamento del leghista: guai se resto al governo, costretto a firmare una manovra che rappresenta l’esatto contrario di quanto promesso. Risultato: Salvini ora fa il pieno alle regionali in Umbria (57,5%), umiliando Zingaretti e in particolare Di Maio, con i 5 Stelle al di sotto dell’8%. «Logico che gli italiani, a partire dall’Umbria, puniscano le forze del Conte-bis e la loro manovra finanziaria deprimente, persino preoccupante», con la crociata contro i mini-evasori e la demonizzazione del contante. Gioele Magaldi canta vittoria: il suo Movimento Roosevelt si è schierato con la Tesei sostenendo “Umbria Civica” del battitore libero Nilo Arcudi: «Non per rieditare l’obsoleto e deludente centrodestra, ma per promuovere un dialogo trasversale coi progressisti del centrosinistra, contro i conservatori di entrambe le coalizioni».Un esito scontato: «Nel 2018, i gialloverdi avevano promesso un vero cambiamento: assaporato il quale, ora gli elettori non possono digerire l’imbarazzante Conte-bis», sottomesso ai consueti vincoli-capestro imposti da Bruxelles. Per Magaldi, tutto sta insieme: gli elettori umbri premiano il Salvini che si è circordato di economisti post-keynesiani come Bagnai e Rinaldi, contrari alla “teologia” del rigore Ue. Nel frattempo, Giuseppe Conte è sulla graticola: oltre alla débacle umbra, che taglia le gambe alla grottesca alleanza tra il Pd e i grillini che proprio in Umbria li avevano denunciari, facendo cadere la giunta “rossa” di Catiuscia Marini, il premier teme sviluppi dal caso Russiagate, dopo le strane omissioni (segnalate dal “Corriere della Sera”) che rendono incompleta, se non reticente, la sua prima audizione al Coapasir. Il sospetto: Conte avrebbe usato in modo improprio i servizi segreti italiani, mettendoli a disposizione del ministro statunitense William Barr, impegnato a cercare prove contro Joe Biden, rivale di Trump. Non è tutto: proprio mentre Perugia si trasformava nella Caporetto di “Giuseppi”, il “Financial Times” ipotizzava che Conte potrebbe essere accusato di conflitto d’interessi per aver fatto da consulente a un fondo d’investimento di area vaticana, ora accusato di corruzione.«Me ne compiaccio», dichiara Magaldi, irridente, pensando alla “macchina del fango” scatenata contro Salvini per “Moscopoli”, anche attraverso il servizio di “Report” trasmesso in prossimità dell’audizione di Conte al Copasir e alla vigilia delle elezioni in Umbria. «Segno che tra i cosiddetti “poteri forti” non ci sono soltanto quelli di segno reazionario, che sostengono il Conte-bis, dopo aver sorretto i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni». Esponente italiano del network massonico progressista internazionale (Grande Oriente Democratico, Rito Europeo Universale), Magaldi annuncia: i massoni progressisti sono impegnati in una controffensiva, in tutto il mondo, dopo i decenni devastanti della globalizzazione neoliberista. Il presidente del Movimento Roosevelt cita la Cina, che ha rimosso la governatrice di Hong Kong contestata dalla popolazione, e segnala anche l’esultanza di Trump per l’annuncio della morte del capo dell’Isis, «il massone reazionario e terrorista Abu Bakr Al-Baghdadi, esponente della superloggia “Hathor Pentalpha” fondata dal clan Bush per terremotare il pianeta anche col terrorismo, grazie ad affiliati come lo stesso Osama Bin Laden».Se le creazioni supermassoniche chiamate Isis e Al-Qaeda avevano marcato l’ultima svolta (terroristica) del piano di dominio del pianeta, fondato sulla strategia della tensione internazionale per imporre a mano armata questa globalizzazione a senso unico e senza diritti, secondo Magaldi – autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) – tutto era cominciato l’11 settembre 1973 in Cile, con il golpe di Pinochet che aveva introdotto con la massima violenza la dottrina neoliberista della “scuola di Chicago” di Milton Friedman. A maggior ragione, dice oggi Magaldi, riempie il cuore – oggi – assistere a una protesta spettacolare come quella in corso a Santiago del Cile, sfidando il coprifuoco imposto da un governo che, come allora, ha schierato i carri armati nelle strade. «Tutto sta cambiando, a livello planetario, grazie alla regia della massoneria progresista», avverte Magaldi, lasciando capire che lo stesso Salvini – in apparenza esaltato dai mojito del Papeete, ad agosto – è stato «sapientemente consigliato» sul da farsi. «Salvini sta studiando», disse Magaldi, dopo il divorzio del leader leghista dal governo coi grillini. «E’ vero, sto studiando», ha confermato Salvini, nel “duello” televisivo con Renzi, da Bruno Vespa.«Fortemente trasformata da Salvini, la Lega è comunque ancora caratterizzata da un’impostazione tradizionalista, ad esempio in merito ai diritti civili (unico merito di Renzi, l’aver varato almeno le “unioni civili”)». Tuttavia, aggiunge Magaldi, «il Carroccio di Bossi e Maroni era apertamente liberista, mentre la Lega di Salvini si è affidata a economisti progressisti, dotati di una visione che prevede il ritorno dell’intervento dello Stato nell’economia: meno tasse e investimenti strategici da non inserire nel computo del deficit». Se son rose fioriranno, sembra dire Magaldi: anche perché, in ogni caso, tutti gli altri (Conte e Di Maio, Zingaretti e Renzi, lo stesso Berlusconi) non hanno mai osato neppure ipotizzare un cambio delle regole, da intavolare a Bruxelles. Potrebbe farlo ora l’ipotetico “nuovo” Mario Draghi, che – di colpo – evoca la sovranità monetaria, con l’emissione di denaro illimitata prescritta dalla Modern Money Theory? Meglio non correre con la fantasia, raccomanda Magaldi: Draghi potrebbe sostituire Conte «solo se si facesse garante con Bruxelles di una vera espansione della spesa strategica per l’Italia», e dopo aver fatto ammenda delle sue “malefatte”. «Come per la mafia contano i pentiti, che ne scardinano l’organizzazione, così Draghi dovrebbe dimostrare di essere davvero pentito della sua pessima governance reazionaria e neoaristocratica, prima di Bankitalia e poi della Bce».Forse adesso anche i più sprovveduti, i teorici della “follia estiva” del Papeete, capiranno perché Salvini ha staccato la spina al governo gialloverde, una volta capito che Conte e Tria gli avrebbero impedito di alleggerire la pressione fiscale e inaugurare una politica finalmente espansiva. Ultimo tradimento, il voto dei grillini per Ursula von der Leyen alla Commissione Europea. Ragionamento del leghista: guai se resto al governo, costretto a firmare una manovra che rappresenta l’esatto contrario di quanto promesso. Risultato: Salvini ora fa il pieno alle regionali in Umbria (57,5%), umiliando Zingaretti e in particolare Di Maio, con i 5 Stelle al di sotto dell’8%. «Logico che gli italiani, a partire dall’Umbria, puniscano le forze del Conte-bis e la loro manovra finanziaria deprimente, persino preoccupante», con la crociata contro i mini-evasori e la demonizzazione del contante. Gioele Magaldi canta vittoria: il suo Movimento Roosevelt si è schierato con la Tesei sostenendo “Umbria Civica” del battitore libero Nilo Arcudi: «Non per rieditare l’obsoleto e deludente centrodestra, ma per promuovere un dialogo trasversale coi progressisti del centrosinistra, contro i conservatori di entrambe le coalizioni».
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E’ la Cina a finanziare Erdogan che schiaccia i curdi in Siria
Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno più volte richiamato all’ordine la Turchia. Per essere più convincenti, Washington e Bruxelles sono arrivate a minacciare Ankara di una guerra commerciale, tra possibili dazi, tariffe e sanzioni. Tutte armi, queste, capaci teoricamente di fare a pezzi la fragile economia turca. Eppure, nonostante il rischio di vedere il proprio paese in ginocchio, Recep Tayyip Erdogan non intende fermarsi sul più bello: l’operazione militare in Siria del nord deve proseguire a qualunque costo. Che Erdogan sia solo un incosciente è fuori discussione, perché il Sultano ha in realtà fatto i suoi conti e sa bene quali sono i vantaggi e gli svantaggi nel continuare a fare il bullo di quartiere. Il presidente turco ha lanciato la missione “Fonte di pace” da poche settimane ma i preparativi, in realtà, sono iniziati molti mesi fa. Nel bel mezzo della crisi che stava strozzando la lira turca, diplomatici e tecnici di Ankara si sono rimboccati le maniche per dotare il governo di una sorta di paracadute capace di limitare i danni a una Turchia in caduta libera. E in effetti, senza alcuna protezione, la discesa del paese verso il baratro sarebbe stata rapidissima, sommando la crisi economica alle conseguenze della recente guerriglia contro i curdi.L’assicurazione alla vita della Turchia si chiama Cina. Se la scorsa estate Pechino non avesse effettuato un vero e proprio bailout per salvare la Turchia dal default, oggi Erdogan non avrebbe la forza per muovere neanche un soldato. Secondo quanto riportato da “Bloomberg”, a giugno la Banca Centrale cinese ha trasferito fondi nel paese turco per un valore complessivo di 1 miliardo di dollari, rinsaldando il rapporto lira turca-yuan. Ma non è finita qui, perché Erdogan ha sfruttato al meglio la relazione con Xi Jinping per convincerlo a sborsare 3,6 miliardi di dollari da spendere in vari progetti infrastrutturali. E Xi, considerando la posizione geografica della Turchia, perfetto ponte tra Oriente e Occidente, ha subito accettato, immaginando di potenziare la Nuova Via della Seta. La Cina è insomma riuscita in un colpo solo a rendere vana l’azione economica degli Stati Uniti e rafforzare il progetto della Belt and Road; dall’altra parte, Erdogan si è risollevato e ha potuto organizzare il piano d’invasione della Siria. Il risultato dell’avvicinamento turco alla Cina è che oggi Ankara non si fa impressionare da ipotetiche guerre commerciali. I finanziamenti e i prestiti cinesi consentono alla Turchia di infischiarsene delle minacce statunitensi, almeno per quello che riguarda il breve periodo.Ma Erdogan ha in mente di costruire un ponte stabile che porta dritto nel cuore della Città Proibita di Pechino, perché il Sultano, lo scorso 11 agosto, ha dichiarato di essere pronto a commerciare con la Cina attraverso valute nazionali aggirando il dollaro. Quando gli Stati Uniti hanno minacciato di cancellare l’economia turca, la moneta di Ankara e i rispettivi tassi di interesse locali non hanno battuto ciglio, scendendo di pochissimo. E questo, sottolinea “Asia Times”, è «notevole, data la fragilità della valuta turca all’inizio del 2019». La Cina è un vero e proprio bancomat per Erdogan; ma attenzione, perché il Sultano sta giocando con il fuoco: Pechino sta sì riempiendo la Turchia di soldi, ma il rischio è che il Dragone la inghiotta in un sol boccone non appena lo riterrà necessario. Giusto per rimarcare i rapporti di forza tra Cina e Turchia, vale la pena analizzare il comportamento di Ankara nei confronti degli uiguri. Prima del salvataggio cinese, Erdogan aveva tuonato contro il trattamento cinese riservato alla minoranza turcofona situata nello Xinjiang; dopo il salvataggio, il Sultano si è corretto dicendo che «gli uiguri vivono felici in Cina». Non solo: Ankara ha pure accettato di cooperare con le autorità cinesi per rispedire oltre la Muraglia gli uiguri che si nascondono in Turchia.(Federico Giuliani, “Dietro la Turchia si nasconde la Cina”, dall’inserto “InsideOver” de “Il Giornale” del 22 ottobre 2019).Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno più volte richiamato all’ordine la Turchia. Per essere più convincenti, Washington e Bruxelles sono arrivate a minacciare Ankara di una guerra commerciale, tra possibili dazi, tariffe e sanzioni. Tutte armi, queste, capaci teoricamente di fare a pezzi la fragile economia turca. Eppure, nonostante il rischio di vedere il proprio paese in ginocchio, Recep Tayyip Erdogan non intende fermarsi sul più bello: l’operazione militare in Siria del nord deve proseguire a qualunque costo. Che Erdogan sia solo un incosciente è fuori discussione, perché il Sultano ha in realtà fatto i suoi conti e sa bene quali sono i vantaggi e gli svantaggi nel continuare a fare il bullo di quartiere. Il presidente turco ha lanciato la missione “Fonte di pace” da poche settimane ma i preparativi, in realtà, sono iniziati molti mesi fa. Nel bel mezzo della crisi che stava strozzando la lira turca, diplomatici e tecnici di Ankara si sono rimboccati le maniche per dotare il governo di una sorta di paracadute capace di limitare i danni a una Turchia in caduta libera. E in effetti, senza alcuna protezione, la discesa del paese verso il baratro sarebbe stata rapidissima, sommando la crisi economica alle conseguenze della recente guerriglia contro i curdi.
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La cricca totalitaria delle bufale sul clima alterato dall’uomo
Il clima è sempre cambiato da un decennio all’altro. Ci sono state grandi oscillazioni durante gli anni ’30. Abbiamo avuto il “dust bowl” (serie di tempeste di sabbia) durante l’estate e nel 1936 un freddo record. Nel 1936 l’ondata di freddo del Nord America, che colpì anche il Giappone e la Cina, è ancora oggi una delle più intense mai registrate nella storia. Non possiamo dare la colpa di quanto avvenne alle mamme che portavano in macchina i ragazzini a giocare a calcio, bruciando combustibili fossili. Le automobili erano ancora un lusso negli anni ’30. Semplicemente, non esiste alcuna prova di cambiamenti climatici causati dall’uomo. Nessuno è disposto a denunciare questa assurdità semplicemente mostrando le marcate oscillazioni di temperatura registrate nei secoli. Si tratta di un segreto ben celato, ma il 95% dei modelli climatici che, come ci viene detto, provano il legame tra le emissioni umane di CO2 e il catastrofico riscaldamento globale si sono rivelati, dopo circa due decenni di stasi nelle temperature, sbagliati. Non dovrebbe sorprendere. Ci siamo dovuti sorbire le stramberie dei catastrofisti climatici per circa 50 anni. Nel gennaio 1970, la rivista “Life”, basandosi su “solide prove scientifiche”, sosteneva che entro il 1985 l’inquinamento atmosferico avrebbe ridotto della metà la luce del Sole che raggiunge la Terra.Di fatto, in quel periodo, la luce del Sole è diminuita tra il 3 e il 5%. In un discorso del 1971, Paul Ehrlich dichiarava: «Se fossi un giocatore d’azzardo, scommetterei che l’Inghilterra non esisterà più nel 2000». Spostiamoci velocemente al mese di marzo 2000 e a David Viner, scienziato ricercatore esperto presso l’Unità di Ricerca Climatica dell’Università East Anglia, che dichiarò a “The Independent”: «Le nevicate sono ormai una cosa che appartiene al passato». Nel dicembre 2010 il “Mail” online riferiva del «dicembre più freddo mai registrato, con temperature scese a meno 10 °C portando il caos in tutta la Gran Bretagna». Anche noi australiani abbiamo avuto le nostre previsioni sbagliate. Forse la più assurda è stata la dichiarazione dell’allarmista climatico Tim Flannery del 2005: «Se i tabulati del computer sono corretti, le attuali condizioni di siccità diventeranno permanenti nell’Australia dell’Est». Le precipitazioni successive e le gravi inondazioni hanno mostrato che i tabulati, o le sue analisi, erano sbagliati. Ci siamo bevuti una previsione sbagliata dopo l’altra. Inoltre, il gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) è stato ripetutamente colto in flagrante per false rappresentazioni della realtà e metodi scadenti.Gli uffici metereologici sembrano aver dato una “aggiustatina” ai dati per adattarsi alla narrazione prevalente. L’affermazione della Nasa che il 2014 è stato l’anno più caldo mai registrato è stata rivista, dopo che era stata messa in discussione, a una probabilità di appena il 38%. Gli eventi meteorologici estremi, che una volta erano imputati al riscaldamento globale, non lo sono più, dal momento che la loro frequenza e intensità sono in diminuzione. E allora perché, vista la mancanza di prove, le Nazioni Unite insistono perché il mondo spenda centinaia di miliardi di dollari all’anno in futili politiche che hanno come obiettivo i cambiamenti climatici? Forse Christiana Figueres, segretario esecutivo della struttura dell’Onu del cambiamento climatico, ha la risposta? Lo scorso febbraio, la Figueres ha detto a Bruxelles: «È la prima volta nella storia dell’umanità che ci stiamo ponendo il compito di cambiare intenzionalmente, entro un determinato periodo di tempo, il modello di sviluppo economico che regna da almeno 150 anni dalla rivoluzione industriale». In altre parole, la vera agenda si concentra sull’autorità politica. Il riscaldamento globale è solo l’amo.Abbiamo anche avuto modo di ascoltare la Figueres affermare che la democrazia è un sistema di governo scadente per combattere il cambiamento climatico. La Cina comunista, ha detto, è il modello migliore. Non stiamo parlando di fatti o di logica. Parliamo di un nuovo ordine mondiale sotto il controllo dell’Onu. Quest’ordine si oppone al capitalismo e alla libertà e ha fatto del catastrofismo ambientale un argomento familiare per raggiungere il suo obiettivo. La Figueres dice che, al contrario della Rivoluzione Industriale, «quella che sta avvenendo è una trasformazione centralizzata». Dal suo punto di vista, la divisione nelle opinioni sul riscaldamento globale negli Usa è «molto deleteria». Naturalmente. Nel suo mondo autoritario, non è ammesso spazio per la discussione o il disaccordo. Capiamoci, il cambiamento climatico è il campo di una battaglia che i totalitaristi e i loro accoliti non possono perdere. Come dice Timothy Wirth, presidente della Fondazione Onu: «Anche se la teoria (del cambiamento climatico) è sbagliata, faremo la cosa giusta in termini di politica economica e ambientale».Dopo aver guadagnato così tanto terreno, gli eco-catastrofisti non ne cederanno un centimetro. Dopo tutto, hanno messo le mani sull’Onu e hanno a disposizione tanti soldi. Hanno un alleato enormemente potente alla Casa Bianca. Hanno arruolato con successo accademici conformisti e media mainstream obbedienti e ingenui (la “Abc” e “Fairfax” in Australia) per far loro portare avanti la narrazione a discapito delle prove. Continueranno a dipingere il movimento sul cambiamento climatico come nato dal consenso spontaneo e indipendente di scienziati, politici e cittadini preoccupati, che credono che l’attività umana sia “in maniera estremamente probabile” la causa dominante del riscaldamento globale (“in maniera estremamente probabile” è un termine scientifico?). E continueranno a mobilitare l’opinione pubblica, utilizzando la paura e gli appelli alla moralità. Il sostegno dell’Onu verrà assicurato attraverso la promessa di redistribuzione di ricchezza dall’Occidente, anche se le sue prescrizioni di politica anti-crescita prolungheranno inutilmente la povertà, la fame, le malattie e l’analfabetismo nei paesi più poveri del mondo.La Figueres ha dichiarato a un recente summit sul clima a Melbourne che lei «contava veramente sulla leadership dell’Australia» perché si assicurasse che gran parte del carbone rimanesse nel suolo. Speriamo che, come il primo ministro indiano Narendra Modi, Tony Abbot non la ascolti. L’India conosce l’importanza dell’energia a basso costo e si prevede che superi la Cina come il leader mondiale di importazione di carbone. Persino la Germania si accinge a mettere in marcia il maggior numero di centrali elettriche a carbone degli ultimi 20 anni. Esiste la possibilità concreta che Figueres e coloro che condividono la sua ambizione di un potere centralizzato riusciranno nel loro intento. Mentre si avvicina la conferenza Onu di dicembre sul cambiamento climatico, verrà messa pressione sull’Australia perché firmi ulteriori trattati sul cambiamento climatico, che distruggeranno posti di lavoro. Resistere sarà politicamente difficile. Ma resistere dovremmo. Stiamo già pagando un inutile prezzo sociale ed economico per gesti vuoti. Quando è troppo, è troppo.(Martin Armstrong, “Quando gli ambientalisti ignorano la storia”, articolo apparso su “Weekend Australian” il 30 settembre 2019 e ripreso da “Voci dall’Estero”).Il clima è sempre cambiato da un decennio all’altro. Ci sono state grandi oscillazioni durante gli anni ’30. Abbiamo avuto il “dust bowl” (serie di tempeste di sabbia) durante l’estate e nel 1936 un freddo record. Nel 1936 l’ondata di freddo del Nord America, che colpì anche il Giappone e la Cina, è ancora oggi una delle più intense mai registrate nella storia. Non possiamo dare la colpa di quanto avvenne alle mamme che portavano in macchina i ragazzini a giocare a calcio, bruciando combustibili fossili. Le automobili erano ancora un lusso negli anni ’30. Semplicemente, non esiste alcuna prova di cambiamenti climatici causati dall’uomo. Nessuno è disposto a denunciare questa assurdità semplicemente mostrando le marcate oscillazioni di temperatura registrate nei secoli. Si tratta di un segreto ben celato, ma il 95% dei modelli climatici che, come ci viene detto, provano il legame tra le emissioni umane di CO2 e il catastrofico riscaldamento globale si sono rivelati, dopo circa due decenni di stasi nelle temperature, sbagliati. Non dovrebbe sorprendere. Ci siamo dovuti sorbire le stramberie dei catastrofisti climatici per circa 50 anni. Nel gennaio 1970, la rivista “Life”, basandosi su “solide prove scientifiche”, sosteneva che entro il 1985 l’inquinamento atmosferico avrebbe ridotto della metà la luce del Sole che raggiunge la Terra.
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Mitchell, Apollo 14: i nostri governi parlano con gli alieni
«Gli alieni sono qui, da parecchi anni. Ci sono tante ottime prove che lo dimostrano». Fa un certo effetto leggere che un ex astronauta ritiene sicura l’esistenza di civiltà extraterrestri: non in qualche remota galassia ma proprio qui, sul nostro pianeta, in mezzo a noi. «E vi assicuro che fa ancora più effetto sentirglielo dire di persona», scrive Sabrina Pieragostini, giornalista televisiva di “Studio Aperto”, che con l’anziano Mitchell ha parlato al telefono poco prima che l’astronauta ci lasciasse, nel 2016. Classe 1930, Mitchell è stato un eroe dell’epopea spaziale del XX secolo, membro del ristrettissimo “club dei 12” (tanti sono gli uomini che, almeno ufficialmente, hanno posato i loro piedi sulla Luna). La Pieragostini gli fece un’intervista radiofonica: lui dalla sua casa in Florida, lei dall’Italia. «Ottenerla è stato incredibilmente semplice», ammette la giornalista, sul suo blog. «La nostra chiaccherata, ovviamente, non poteva che incentrarsi sull’argomento che dal 2008 l’ha riportato alla ribalta: la vita extraterrestre e il “cover up”», cioè la coltre di silenzio stesa sugli Ufo, la cui esistenza è stata ammessa soltanto oggi dalla marina militare degli Stati Uniti, con tanto di video registrati dalle telecamere dei caccia, che inquadrano i dischi volanti nel mirino.Pilota della missione Apollo 14 e recordman di permanenza sul suolo lunare, Mitchell ha risposto a tutte le domande di Sabrina Piragostini, ribadendo la sua assoluta certezza che non siamo soli: una verità a suo avviso «nota da tempo a molti governi» e che «forse, un giorno, sarà finalmente svelata». L’astronauta ha però escluso che le sue convinzioni siano legate ad esperienze dirette, vissute durante la sua permanenza nello spazio. «Ma ciò che ha saputo e sentito, dopo il suo ritorno dalla Luna, lo ha persuaso che il fenomeno Ufo sia reale», riporta la Pieragostini. Un evento si impone su tutti: il celeberrimo caso di Roswell. E’ stato il “crash” più famoso della storia, avvenuto a pochi chilometri di distanza da Artesia, la cittadina del New Mexico in cui il giovane Edgar era cresciuto. Il giorno dello schianto di quello che da decenni l’esercito americano definisce un banale pallone-sonda meteorologico, però, Mitchell non era lì: studiava al college. Ma a distanza di molti anni, quando – divenuto ormai una celebrità internazionale – è tornato a trovare gli amici, i testimoni di quella misteriosa vicenda hanno fatto la fila per andare da lui a raccontargli cosa fosse davvero accaduto, quel 3 luglio del 1947. «L’ incidente è reale, è tutto vero», ha confermato così Mitchell alla giornalista italiana, senza la minima esitazione.La loro conversazione ha preso il via da quell’esperienza, segnando la carriera e stessa vita di Mitchell: la missione Apollo 14 che lo portò a camminare, per molte ore, sul nostro satellite. «Se credo che gli alieni esistano? Certamente! Penso che ci siano le prove che siamo stati visitati da molto tempo». Un’affermazione sorprendente, da parte di un uomo di scienza. Soprattutto considerando che molti altri scienziati, al contrario, insistono nel dire che non esistano prove a sostegno di simili teorie. «Le prove invece ci sono eccome», ha assicurato Mitchell: «Conosco personalmente alcuni dei ricercatori più autorevoli, in America e in Europa». Come dire: in certi ambienti la notizi è risaputa. «Poi, sono cresciuto a Roswell, in New Mexico, dove è avvenuto il famoso incidente del 1947, perciò conosco molto bene l’argomento e anche le persone che ne furono coinvolte: ed è stato un incidente reale», ha insistito Mitchell. Quindi gli alieni sono qui, sulla Terra, in mezzo a noi? «Senza dubbio sono qui», è la risposta dell’astronauta. «Negli ultimi decenni, molti studiosi hanno effettuato ricerche in questo ambito. Ci sono stati tantissimi episodi di dischi volanti, avvistamenti di astronavi… Sia piloti civili che militari hanno avuto incontri con Ufo nei cieli durante gli ultimi anni. È tutto ben verificato, sono informazioni perfettamente dimostrate».E che aspetto avrebbero, i nostri visitatori? Risposta: «Sono consapevole del fatto che in tutte le ricerche e i rapporti in materia si parla di diverse razze aliene. Alcuni potrebbero essere dei robot, altri delle vere forme viventi. Ci sono almeno 3 o 4 tipi di alieni che ci hanno già visitato e che sono qui, tra noi, da parecchio tempo». Quali erano le fonti di Mitchell? Si trattava di militari e funzionari governativi? «Solo alcuni lavorano per il governo, ma la maggior parte sono ricercatori indipendenti», ha risposto l’ex pilota dell’Apollo 14. «Hanno trascorso decine di anni a compiere le loro indagini, cercando i testimoni, analizzando i siti e scrivendo i loro resoconti. Questo, sia negli Stati Uniti che in Europa. In particolar modo, in Inghilterra Nick Pope è un’ottima fonte di informazioni su tutto ciò che accade nel Regno Unito». Domanda inevitabile: davvero, come molti affermano, Stati Uniti, Europa, Russia e Cina – solo per citare alcune delle nazioni impegnate nella conquista dello spazio – stanno coprendo la verità in merito alla questione extraterrestre? Cosa sanno, veramente? «Non sono informato, ovviamente, su tutto ciò che i governi conoscono, ma siamo consapevoli che molti di loro tengono ancora ben chiusi i loro archivi», ha detto Mitchell. «Il mio governo, ad esempio, quello degli Stati Uniti, ha deciso per il momento di non rendere pubblici i contenuti dei suoi archivi». Già nel 2008, durante un’intervista radiofonica, Mitchell aveva sostenuto di «aver avuto informazioni da fonti militari» dell’esistenza di «contatti consolidati tra vari governi terrestri ed esponenti di civiltà aliene».Quindi il “cover up”, l’insabbiamento, è un fenomeno reale? «Direi che alcuni governi trattengono ancora la piena informazione, sì, è vero. Ma sta arrivando il momento delle domande». Ora, con l’improvviso sdoganamento ufficiale dell’esistenza degli Ufo (per la verità, quasi obbligatorio dopo centinaia di migliaia di avvistamenti, sempre più frequenti), la sensazione è che ci stiamo avvicinando a qualcosa di definitivo: la rivelazione, la cosiddetta “disclosure”. Siamo alla vigilia, come tanti auspicano, di un cambio di rotta? Davvero l’opinione pubblica sta per essere messa al corrente della realtà aliena? «Spero di sì», ha detto Mitchell alla Pieragostini. «Spero che presto la gente sappia cosa sta realmente succedendo». E ancora: «Non sono sicuro che ciò avverrà in tempi brevi, ma mi auguro che sia così. Mi farebbe molto piacere». In una conferenza stampa di qualche anno prima, Mitchell aveva ribadito il concetto: «Per lungo tempo l’umanità si è chiesta se siamo soli nell’universo, ma solo ora ne abbiamo le prove. No, non siamo soli. Il nostro destino, secondo me, si apre alla possibilità di entrare in una sorta di comunità planetaria. Dobbiamo provare a tendere la mano oltre il nostro pianeta e oltre il nostro sistema solare, per capire realmente cosa c’è là fuori».«Gli alieni sono qui, da parecchi anni. Ci sono tante ottime prove che lo dimostrano». Fa un certo effetto leggere che un ex astronauta ritiene sicura l’esistenza di civiltà extraterrestri: non in qualche remota galassia ma proprio qui, sul nostro pianeta, in mezzo a noi. «E vi assicuro che fa ancora più effetto sentirglielo dire di persona», scrive Sabrina Pieragostini, giornalista televisiva di “Studio Aperto”, che con l’anziano Mitchell ha parlato al telefono poco prima che l’astronauta ci lasciasse, nel 2016. Classe 1930, Mitchell è stato un eroe dell’epopea spaziale del XX secolo, membro del ristrettissimo “club dei 12” (tanti sono gli uomini che, almeno ufficialmente, hanno posato i loro piedi sulla Luna). La Pieragostini gli fece un’intervista radiofonica: lui dalla sua casa in Florida, lei dall’Italia. «Ottenerla è stato incredibilmente semplice», ammette la giornalista, sul suo blog. «La nostra chiacchierata, ovviamente, non poteva che incentrarsi sull’argomento che dal 2008 l’ha riportato alla ribalta: la vita extraterrestre e il “cover up”», cioè la coltre di silenzio stesa sugli Ufo, la cui esistenza è stata ammessa soltanto oggi dalla marina militare degli Stati Uniti, con tanto di video registrati dalle telecamere dei caccia, che inquadrano i dischi volanti nel mirino.
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Darpa, Usa: soldati-Ogm invulnerabili, col Dna modificato
Visto che non sarà possibile «produrre tanti vaccini e tanti antivirus per proteggere tutta la popolazione durante una guerra chimica o biologica», perché non provare a trasformare il corpo umano in una “fabbrica” di anticorpi? E’ la domanda, sconcertante, che aleggia attorno alle parole di Steven Walker, il direttore della Darpa, punta di lancia della ricerca applicata alla difesa statunitense. Il Pentagono, avverte l’avvocato neozelandese Darius Shahtahmasebi, sta infatti provando a varcare la frontiera naturale fisiologica. Obiettivo: «Alterare la biologia umana per offrire una adeguata protezione contro attacchi chimici e biologici». Secondo il giurista, esperto di questioni geopolitiche, «arriverà un momento in cui i film di fantascienza si scriveranno da soli: siamo già in una fase in cui forse è solo questione di tempo, e poi si metterà in pratica tutto ciò su cui stanno studiando alcuni scienziati finanziati dal governo per cercare di aiutare le forze armate Usa». Il grande problema, per il Pentagono, sono le armi più eslusive, non convenzionali. Si domanda Walker: «Si riuscirà davvero a proteggere un soldato sul campo di battaglia, dalle armi chimiche e biologiche, controllando il suo genoma?», ovvero «facendo cioè in modo che il suo genoma produca proteine che lo proteggono automaticamente da fattori esterni?».In apparenza, spiega Shahtahmasebi, l’obiettivo della Darpa non è di formare un esercito di super-soldati (anche se la tentazione potrebbe esserci). La vera meta è rendere i militari invulnerabili, di fronte ad agenti tossici. Per questo, la Defense Advanced Research Projects Agency sta sviluppando una nozione nota come “editing genico” (o editing del genoma) con lo scopo di rendere più potente il personale militare americano. «L’editing genico – spiega Shahtahmasebi – è essenzialmente un gruppo di tecnologie che consentono agli scienziati di cambiare il Dna di un organismo, aggiungendo, rimuovendo o alterando materiale genetico in particolari posizioni del genoma». Per ottenere l’immunità assoluta dei soldati, la Darpa ha finora speso 65 milioni di dollari nella ricerca sulla modifica genetica. Come osserva Walker, si possono usare queste tecnologie “per il bene”, oppure “per il male”. A quanto pare, la Darpa cerca di «usarle per il bene, per proteggere i combattenti Usa». Aggiunge l’avvocato Shahtahmasebi: «Se c’è qualcosa per cui sono conosciute le agenzie del governo Usa che lavorano per il Pentagono, è che usano sempre a fin di bene una tecnologia paurosamente pericolosa». E la Darpa è nota per l’uso spericolato della tecnologia. Al punto, ora, da progettare soldati-Ogm trasformando in cavie i miltari statunitensi?Proprio la Darpa, aggiunge il legale, è la stessa agenzia incaricata di sviluppare un «software personalizzato capace di scoprire i falsi [fake news] nascosti tra oltre 500.000 storie, foto, video e clip audio». In altre parole: «La stessa agenzia che sta cercando di creare una razza di super-soldati, deve trovare anche quali sono le notizie false e identificare quali sono i media che fanno disinformazione». Secondo il “Bulletin of the Atomic Scientists”, ci sono molti modi di usare questa tecnologia, per cui «le cose potrebbero andare storte», al punto che la stessa Darpa «vuole anche capire come si può invertire il processo se si dovessero verificare conseguenze indesiderate». Darius Shahtahmasebi si ribella all’idea: «Non riesco a dimenticare – scrive – l’immagine di uno scienziato che ha alterato due embrioni prodotti da un donatore sieropositivo e li ha impiantati in una madre sana, che poi ha dato alla luce due gemelli, con l’intenzione di rendere i bambini resistenti all’Hiv». Secondo uno studio di “Nature Medicine”, le persone che hanno vissuto naturalmente questo stesso tipo di mutazione hanno avuto il 20% in più di probabilità di morire giovani. «Non sorprende che quello scienziato, in Cina, sia costantemente sotto sorveglianza, e che potrebbe dover ancora rispondere per il suo operato».La Darpa fu istituita nel 1957 come risposta al lancio spaziale dello Sputnik da parte dell’Urss. Oggi, ad allarmare l’agenzia sono soprattutto i progressi tecnologici compiuti da Pechino. «Credo che il modo migliore per competere con i nostri antagonisti sia vincere la corsa tecnologica del 21° secolo», ha detto Walker. «La mia preoccupazione più immediata – ammette Shahtahmasebi – sta nel fatto che gli Usa potrebbero presto avere un esercito formato da super-soldati, la cui struttura genetica consentirà loro di resistere a ogni tipo di guerra biologica e chimica; per non parlare di un esercito di robot assassini e di un’enorme quantità di armi nucleari avanzate, combinate con una allegra dottrina nucleare del “prima sparo e poi ti chiedo il permesso”». La domanda su dove tracciare la linea, conclude Shahtahmasebi, non è solo a carattere scientifico, ma anche esistenziale: «Ci dovrà pur essere un punto in cui dovremo dire di averne abbastanza della guerra, e nel quale potremo smetterla di focalizzare le nostre energie e le nostre risorse su come fare un’altra guerra ancora più grande». Molto meglio se comininciassimo a ragionare, finalmente, su «come evitarla, la guerra».(Darius Shahtahmasebi è avvocato e analista politico, abita in Nuova Zelanda e si occupa della politica estera Usa in Medio Oriente, Asia e nella regione del Pacifico. Come legale è abilitato in due giurisdizioni internazionali. Le sue dichiarazioni, rilasciate a “Rt”, sono state tradotte da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte” l’11 ottobre 2019).Visto che non sarà possibile «produrre tanti vaccini e tanti antivirus per proteggere tutta la popolazione durante una guerra chimica o biologica», perché non provare a trasformare il corpo umano in una “fabbrica” di anticorpi? E’ la domanda, sconcertante, che aleggia attorno alle parole di Steven Walker, il direttore della Darpa, punta di lancia della ricerca applicata alla difesa statunitense. Il Pentagono, avverte l’avvocato neozelandese Darius Shahtahmasebi, sta infatti provando a varcare la frontiera naturale fisiologica. Obiettivo: «Alterare la biologia umana per offrire una adeguata protezione contro attacchi chimici e biologici». Secondo il giurista, esperto di questioni geopolitiche, «arriverà un momento in cui i film di fantascienza si scriveranno da soli: siamo già in una fase in cui forse è solo questione di tempo, e poi si metterà in pratica tutto ciò su cui stanno studiando alcuni scienziati finanziati dal governo per cercare di aiutare le forze armate Usa». Il grande problema, per il Pentagono, sono le armi più elusive, non convenzionali. Si domanda Walker: «Si riuscirà davvero a proteggere un soldato sul campo di battaglia, dalle armi chimiche e biologiche, controllando il suo genoma?», ovvero «facendo cioè in modo che il suo genoma produca proteine che lo proteggono automaticamente da fattori esterni?».
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Contro la disoccupazione l’unica guerra di Trump: stravinta
Quando incontro persone che sono venute a conoscenza delle mie osservazioni su Putin e Trump, il refrain che ascolto è sempre lo stesso: da quando in qua ti piacciono i dittatori? Vorresti forse un modello che si ispira agli autoritarismi? E avanti di questo passo. Tralasciando l’analisi su Putin (ho scritto un libro su di lui dove è spiegato tutto quello che c’è da sapere), prendiamo in considerazione la mia “simpatia” per Donald Trump, anche e soprattutto alla luce di quanto accaduto oggi. In primo luogo, deve essere chiaro che non nutro alcuna simpatia per il presidente americano. Non mi piace come speaker, né tanto meno la sua carriera privata, sbandierata in modo presuntuoso sui media, quando in realtà stiamo parlando di un palazzinaro newyorkese che ha ereditato una cospicua fortuna dal padre costruttore. Non mi piace il suo look – abiti fuori misura – né la sua trasmissione televisiva sull’imprenditoria, dove esibiva il solito fare paternalistico dell’imprenditore che si è fatto da sé (e non è vero…). Mi stufano i seimila tweet che pubblica quotidianamente, e che sono spesso contraddittori. Fatta questa doverosa precisazione, veniamo però alle cose che Trump ha davvero detto e poi davvero fatto.In primo luogo Trump ha promesso di non iniziare nuovi conflitti geopolitici, al fine di risparmiare le vite di giovani americani e di consentire ad ogni paese ove vi sono tensioni di superarle in autonomia. Una volta eletto, ha rispettato questo impegno? I dati sono sotto gli occhi di tutti. Trump non ha iniziato alcun conflitto e i suoi interventi (ad esempio in Siria) sono risibili rispetto a quelli dei suoi predecessori, Obama e Bush. Ha minacciato Turchia, Corea del Nord, Venezuela. Ma stava solo prendendo per i fondelli i falchi del Pentagono, che da anni sono rimasti senza cibo. Sentite cosa ha dichiarato su di lui l’economista Paul Krugman, non senza un travaso di bile: «A quanto pare, per Trump distruggere la Nato non è un mezzo per raggiungere uno scopo: è lo scopo in sé. Trump non vuole riformare l’ordine mondiale. Vuole distruggerlo». E tutto l’intervento di Krugman viene riportato sul maggior organo di informazione finanziaria d’Italia. Sì, insomma, quando questi si arrabbiano è segno che la direzione intrapresa è quella giusta.Ma veniamo all’economia, alla “struttura”, tanto per usare termini marxisti. Trump aveva promesso di aiutare il settore economico manifatturiero americano. Anche se il manifatturiero pesa pochino dentro la balena economica americana, molti statunitensi sono infatti in difficoltà da anni, perché diverse fabbriche hanno chiuso i battenti per lasciare la produzione nelle mani dei paesi emergenti o di quelli già emersi, come la Cina. Gli Usa, infatti, non sono abitati solo da avvocati ebrei della Grande Mela che vanno a teatro e suonano il flauto nei pub, come Woody Allen, né la costa ovest è frequentata solo dagli smanettoni della Silicon Valley e dagli artisti di San Franciso. Ci sono anche operai, artigiani, estrattori, agricoltori. Insomma, l’America non è solo Apple e Facebook! Trump lo ha capito e ha pensato di aiutare il mondo del lavoro anche della gente comune, e lo sta facendo con politiche protezionistiche tese a savaguardare le produzioni locali. I risultati che finora ha ottenuto sono di destra o di sinistra? Se ancora vi piacciono queste classificazioni, giudicate da soli il dato uscito stamani: il tasso di disoccupazione negli Usa oggi è arrivato al 3,5%.Sembrerà strano, ma non tutti quelli che mi leggono sono intelligenti, e allora per i più duri di comprendonio vale la pena ripeterlo almeno 5 volte, con l’invito di ripetere questa frase ogni mattina, prima delle abluzioni. «Il tasso di disoccupazione – recitano le agenzie – non era così basso dal dicembre di 50 anni fa. Rivisti al rialzo anche i dati sull’occupazione dei due mesi precedenti: a luglio i nuovi posti sono passati da 159.000 a 166.000, ad agosto da 130.000 a 168.000». Cosa significa, per una comunità di enormi dimensioni (327 milioni di abitanti) abbassare la disoccupazione al 3,5%? Due cose, anzitutto: i lavoratori dipendenti hanno maggior potere contrattuale, e in quei territori non lavora solo chi non vuole lavorare. Pregherei i detrattori di risparmiarmi la filastrocca sull’America che non ha la sanità pubblica, il diritto allo studio e le solite cose. Lo so benissimo e combatto contro questo, nel mio piccolo, da sempre. Ma sono distorsioni del capitalismo che non sono di sicuro imputabili a Trump, eletto nel 2016. Che piaccia o no, Trump sta dimostrando almeno due cose: da un lato, che la pianificazione pubblica dell’economia può dare enormi risultati. Dall’altro, che il mondo può essere una realtà politica e culturale multipolare.(Massimo Bordin, “Trump ha ucciso la disoccupazione, ora tocca ai suoi critici”, dal blog “Micidial” del 4 ottobre 2019).Quando incontro persone che sono venute a conoscenza delle mie osservazioni su Putin e Trump, il refrain che ascolto è sempre lo stesso: da quando in qua ti piacciono i dittatori? Vorresti forse un modello che si ispira agli autoritarismi? E avanti di questo passo. Tralasciando l’analisi su Putin (ho scritto un libro su di lui dove è spiegato tutto quello che c’è da sapere), prendiamo in considerazione la mia “simpatia” per Donald Trump, anche e soprattutto alla luce di quanto accaduto oggi. In primo luogo, deve essere chiaro che non nutro alcuna simpatia per il presidente americano. Non mi piace come speaker, né tanto meno la sua carriera privata, sbandierata in modo presuntuoso sui media, quando in realtà stiamo parlando di un palazzinaro newyorkese che ha ereditato una cospicua fortuna dal padre costruttore. Non mi piace il suo look – abiti fuori misura – né la sua trasmissione televisiva sull’imprenditoria, dove esibiva il solito fare paternalistico dell’imprenditore che si è fatto da sé (e non è vero…). Mi stufano i seimila tweet che pubblica quotidianamente, e che sono spesso contraddittori. Fatta questa doverosa precisazione, veniamo però alle cose che Trump ha davvero detto e poi davvero fatto.
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Magaldi: “Liberiamo l’Italia” non sa che tutto sta cambiando
Che senso ha invocare il rispetto di una Costituzione brutalmente amputata da Monti nel 2012 con l’obbligo del mostruoso pareggio di bilancio? E che senso ha farlo oggi, proprio mentre i vertici della Bce – l’uscente Draghi e l’entrante Lagarde – ammettono, in modo clamoroso, che bisogna gettare nella spazzatura decenni di austerity, da loro stessi imposta, per “restituire la moneta al popolo” e varare gli eurobond destinati a sostenere i debiti pubblici azzerando il fantasma dello spread? Se lo domanda Gioele Magaldi di fronte a quello che definisce «il velleitarismo rossobruno» dei promotori della manifestazione “Liberiamo l’Italia”, in programma a Roma il 12 ottobre. Bocciatura secca, per qualsiasi generico “sovranismo” gridato: serve solo a rendere impresentabili certe proposte (uscire dall’euro e dall’Ue) che i media si incaricano prontamente di presentare come pittoresche, dunque inoffensive. «A Roma si svolgerà l’ennesima parata malinconica e inutile, come tutte quelle finora promosse da chi, in questi anni, ha compiuto una sorta di idolatria della Costituzione, limitandosi ad auspicarne la piena attuazione, senza mai portare a casa nessun risultato».