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5G, vaccini e “fake”: la post-verità, nell’Era del Coronavirus
Vaccini e 5G sono di gran voga, in tempi di coronavirus, nella cosiddetta narrativa complottista. Ne parla anche Massimo Mazzucco, denunciando il “ministero della verità” allestito a Palazzo Chigi e la spettacolare, duplice manovra in atto da parte dell’establishment: da un lato si raccomanda la fruizione dei soli media ufficiali (spesso i primi a spacciare “fake news”) e dall’altro si criminalizzano le fonti alternative di informazione. Esemplare il caso del Patto per Scienza di Burioni, che chiede addirittura ai magistrati di spegnere “ByoBlu”, reo di avere ospitato uno scienziato “eretico” come Stefano Montanari. L’allarme di Mazzucco è esplicito: c’è da temere che si approfitti del coprifuoco imposto dal coronavirus per poi magari limitare la nostra libertà di informazione anche domani, quando l’emergenza sarà finita. Motivo: social, video e blog vantano ormai milioni di visualizzazioni, dunque rappresentano una potenziale minaccia per chi volesse mentire agli italiani attraverso i canali ufficiali della comunicazione tradizionale.Nella sua ricostruzione giornalistica, Mazzucco – autore di importanti documentari sull’11 Settembre, trasmessi anche da Canale 5 in prima serata – cita alcune clamorose “fake news” veicolate dai grandi network televisivi: dagli inesistenti “200 bambini morti a Londra per il morbillo” (evocati da Beatrice Lorenzin negli studi di Vespa e Formigli) alle affermazioni di Rex Tillerson su Putin “criminale di guerra” (distorte da Giovanna Botteri). Il record – nella classifica di Mazzucco – spetta ad Andrea Purgatori, che su La7 ha spacciato le sequenze di un videogame per “le immagini dell’uccisione del generale Soleimani”. In studio ha assicurato: sembra un videogioco, ma non lo è. Smascherato, su Twitter ha ammesso: sì, è vero, quelle immagini erano di un videogame. E questi, si domanda Mazzucco, sarebbero i campioni dell’informazione seria, gli unici di cui dovremmo fidarci, come ripete lo spot che Mediaset sta trasmettendo a ciclo continuo?Mazzucco, naturalmente, passa per complottista. La sua colpa? E’ stato il primo a realizzare un film che demolisce, prove alla mano, la versione ufficiale sull’11 Settembre. L’Oscar del Complottismo gli è stato tributato per il documentario “American Moon”. I suoi detrattori lo accusano di negare l’avvenuto sbarco sulla Luna del 1969. Se invece uno si prende la briga di visionare il filmato, scopre che Mazzucco – suffragato dal parere dei alcuni tra i più importanti fotografi, da Peter Lindbergh a Oliviero Toscani – si limita, per così dire, a dimostrare che quelle storiche immagini sarebbero state realizzare in studio, sulla Terra (per quale motivo, non è dato saperlo). Comunque la si pensi, socraticamente, il contributo di Mazzucco invita a coltivare il dubbio: cosa che lo stesso giornalismo per primo dovrebbe sempre fare, come ricorda lo statunitense Seymour Hersh, secondo cui negli ultimi anni il mondo ha vissuto troppe guerre, con troppe vittime civili, anche a causa della reticenza della stampa, che secondo Hersh ha permesso ai decisori di avventurarsi nelle peggiori imprese manipolando l’opinione pubblica grazie alle “fake news” veicolate dai grandi media.Sono proprio le “fake news ufficiali” a scatenare la degenerazione complottistica, che inonda il web di vere e proprie bufale: un regalo favoloso, per chi volesse spegnere (insieme a quelle dei “terrapiattisti”) anche le voci autorevoli, onestamente impegnate a cercare verità irrintracciabili nel mainstream. Il cospirazionismo appare perfettamente funzionale al peggior potere: incrementa la credulità dei più ingenui e, al tempo stesso, squalifica i ricercatori seri. Nella sua ottusità dogmatica, il complottismo è speculare al negazionismo: i complottisti pensano che qualsiasi evento sia sempre e solo il frutto di una bieca cospirazione, mentre i loro apparenti avversari negano, semplicemente, che i complotti esistano. E’ la stessa storia a insegnarci che i complotti si susseguono, da sempre, ma non è detto che poi vadano in porto. In una infinita scala di grigi, come si può pensare che tutto sia soltanto bianco o nero? Questo non-pensiero semplificato, automatico, fa sicuramente comodo a chi maneggia il consenso in modo spregiudicato, fabbricando nemici su misura per ogni stagione, con il relativo corollario di odio, paura e tifo calcistico.Il problema, avverte Mazzucco, è che ora la situazione starebbe cambiando a vista d’occhio: sotto la fortissima pressione psicologica e sociale dell’emergenza da coronavirus, si annuncia un progressivo soffocamento, anche governativo, delle voci indipendenti. Il che – statistiche alla mano – potrebbe preludere a qualcosa di francamente inquietante: un futuro in cui, come già avviene in Cina, sia espressamente vietato far circolare idee eterodosse? Ovvero: siamo alla vigilia del peggior incubo distopico di matrice orwelliana, coi cittadini sorvegliati passo passo, elettronicamente? Domande che pesano, e che Mazzucco propone agli ascoltatori. Dato il coprifuoco imposto per via del Covid-19, non c’è bisogno di ricordare che, in guerra, la prima vittima è sempre la verità. Sul misteriosissimo coronavirus, finora, si è detto tutto e il contrario di tutto: medici e ricercatori stanno lottando, ogni giorno, per venirne a capo e trovare una cura risolutiva e rassicurante. Nel frattempo, il complottismo si scatena: il Covid-19 sarebbe il frutto di una cospirazione mondiale, e la virulenza del morbo sarebbe accentuata dalle microonde della rete 5G. In parallelo, specularmente: silenzio assoluto, dai grandi media, sia sulle problematiche da vaccino che sui potenziali rischi del wireless di quinta generazione.In Italia, negli ultimi anni, la grande stampa ha regolarmente silenziato le notizie allarmanti via via emerse, da fonti autorevoli, riguardo alla somministrazione improvvisamente obbligatoria di vaccini polivalenti di ultima generazione. Sulla scorta di consulenze mediche, la commissione parlamentare guidata da Gian Piero Scanu additò alcuni vaccini come concausa di gravi patologie a danno dei nostri militari. La Regione Puglia – unica, ad aver istituito un monitoraggio speciale (farmacovigilanza attiva) dopo l’introduzione dell’obbligo vaccinale in Italia, ha fornito le percentuali – altissime – delle reazioni avverse registrate dai bambini vaccinati. E il presidente dell’ordine dei biologi italiani, Vincenzo D’Anna, ha rilevato la presenza di vaccini “sporchi”, tra le dosi distribuite in Italia. Voci autorevoli e argomentazioni serie: non per negare l’utilità dei vaccini, ma verificare le condizioni particolari della loro attuale somministrazione obbligatoria. Se ne avessero parlato diffusamente, giornali e televisioni, magari avrebbero scoperto – come ricorda lo stesso Mazzucco – che negli Usa gli eventuali errori delle aziende produttrici di vaccini sono “depenalizzati” per legge: a indennizzare le eventuali vittime provvede lo Stato. E dagli anni ‘80, l’amministrazione Usa ha già dovuto sborsare 4 miliardi di dollari per risarcire persone che la giustizia ha riconosciuto vittime di “danni da vaccino”.La parola magica – fake news – incombe anche su chi si azzardasse a menzionare il fantasma del 5G, cioè “l’Internet delle cose” appena bloccato da paesi come Svizzera e Slovenia, preoccupati per l’assenza di prove certe – per ora, almeno – sull’innocuità di questa nuovissima tecnologia, connessa con i satelliti appena messi in orbita, a migliaia, da Elon Musk. Fa male alla salute, il 5G? I complottisti ne sono certissimi. Gli scienziati invece sono divisi: alcuni escludono pericoli, altri temono che le frequenze del 5G possano nuocere alle nostre cellule. In molti esprimono dubbi: sostengono che siano necessari test più approfonditi, per giungere a conclusioni incontrovertibili, in un senso o nell’altro. Intanto, a mettere in relazione il 5G addirittura con il coronavirus è anche Gunter Pauli, consigliere economico di Giuseppe Conte. Ma la vera notizia, probabilmente, è un’altra: per i grandi media, il 5G è come se non esistesse. Semplicemente non ne parlano, anche se l’avvenimento pubblico di cui parlare ci sarebbe: sono ormai quasi 200 i Comuni italiani che si sono opposti all’installazione delle antenne.Daccapo: se un tema è dibattuto presso l’opinione pubblica, perché non parlarne con precisione e serenità? Se i timori legati all’eventuale abuso di alcuni vaccini fossero infondati, perché non smontarli – una volta per tutte – sulla base di prove inoppugnabili? Idem: se quelle sul fantomatico 5G sono soltanto bufale, perché non demolirle – in modo serio, scientifico – a reti unificate? Il silenzio, viceversa, alimenta inevitabilmente ogni tipo di illazioni. Ragiona Mazzucco: alle domande scomode si evita di rispondere, preferendo tacciare comodamente di complottismo chi osa rilanciarle, quelle domande. Attenzione: domande, non tesi dogmatiche. L’obiettivo non è propagandare verità prefabbricate, magari apocalittiche, ma raggiungere una verità ragionevolmente accertabile. E non è nemmeno questione di vaccinazioni e antenne: la vera posta in gioco è la trasparenza, su tutto. Dove finisce, la democrazia, se l’opinione pubblica non è innanzitutto informata dei fatti che la riguardano? Il lavoro dei tanti ricercatori che in questi anni hanno offerto analisi disponibili solo sul web, purtroppo, mina una volta di più il prestigio dell’informazione mainstream. E questa non è affatto una buona notizia.Messi finalmente da parte complottismi e negazionismi, simmetriche deformazioni della conoscenza, una quota accettabile di verità dovrebbe emergere dal terreno intermedio della vera informazione, laica, onesta, in buona fede. Avvertiva Indro Montanelli: guardatevi da chi dichiara di diffondere notizie “oggettive”; fidatevi invece di chi si limita a fornire narrazioni sincere (magari anche erronee, ma sbagliando in proprio). Sbagliare fa parte del mestiere: la stessa scienza deve il suo progresso proprio all’ammissione dei suoi errori. Torna in mente l’immagine usata dal filosofo Bertrand Russell: più cresce il fascio di luce che rischiara il buio, più cresce la consapevolezza della vastità delle tenebre, cioè dell’ignoto. Di fronte all’ignoto che oggi minaccia di colpo miliardi di individui – la strana comparsa del Covid-19 – forse è bene concludere che non esistono risposte semplici, e che le testi preconcette (complottiste e negazioniste) non aiutano a risolvere il problema. Se poi i decisori mostrano apertamente di temere la proliferazione di voci incontrollate, forse c’è di che preoccuparsi. Quanta strada avrebbero fatto, i peggiori complotti, se l’opinione pubblica non fosse stata ipnotizzata dai suoi incantatori? Il pifferaio più celebre, Hitler, riuscì a far credere ai tedeschi che le loro disgrazie fossero imputabili agli ebrei. Il film “Il tamburo di latta”, di Volker Schlöndorff, tratto dall’omonimo romanzo di Fassbinder, si conclude con queste parole: credevamo di aver aperto la porta a Babbo Natale, e invece era l’uomo del gas.(Giorgio Cattaneo, “5G, vaccini e Ministero della Verità: complottismo e negazionismo nell’Era del Coronavirus”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 aprile 2020).Vaccini e 5G sono di gran voga, in tempi di coronavirus, nella cosiddetta narrativa complottista. Ne parla anche Massimo Mazzucco, denunciando il “ministero della verità” allestito a Palazzo Chigi e la spettacolare, duplice manovra in atto da parte dell’establishment: da un lato si raccomanda la fruizione dei soli media ufficiali (spesso i primi a spacciare “fake news”) e dall’altro si criminalizzano le fonti alternative di informazione. Esemplare il caso del Patto per la Scienza di Burioni, che chiede addirittura ai magistrati di spegnere “ByoBlu”, reo di avere ospitato uno scienziato “eretico” come Stefano Montanari. L’allarme di Mazzucco è esplicito: c’è da temere che si approfitti del coprifuoco imposto dal coronavirus per poi magari limitare la nostra libertà di informazione anche domani, quando l’emergenza sarà finita. Motivo: social, video e blog vantano ormai milioni di visualizzazioni, dunque rappresentano una potenziale minaccia per chi volesse mentire agli italiani attraverso i canali ufficiali della comunicazione tradizionale.
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Militari russi in Italia: perché sono qui e cosa fanno per noi
“Dalla Russia con amore” era soltanto un vecchio film di spionaggio. Ma dalla sera del 21 marzo, ovvero da quando Vladimir Putin telefona a Giuseppe Conte e concorda una missione russa di aiuti all’Italia – messa sotto scacco dal coronavirus – il titolo diventa qualcosa di nuovo e mai visto sul nostro territorio: 8 squadre mobili di virologi e medici militari russi, aerei carichi di autocarri verde scuro dall’inconfondibile targa nera, sistema di disinfezione aerosol, nonché attrezzature mediche, mascherine in grande quantità. Tutto diretto a Pratica di Mare, che per i russi non è semplicemente una base militare sul litorale romano, ma piuttosto il luogo di storici accordi e della mediazione italiana tra Usa e Russia. Inevitabilmente la scelta di Putin caduta sui militari ha scatenato e continua a scatenare polemiche nel nostro paese, benché fosse stata concordata al più alto livello bilaterale. Ma poco è stato spiegato. In primis non è stato detto che in Russia il top della sanità è proprio quella militare: un comparto con strutture ospedaliere separate, personale qualificatissimo e anche produzione di strumenti e apparecchi medicali.Sì, perché anche se l’industria della difesa russa ce la ricordiamo per il Kalashnikov, o per il carro armato T-34 contro i nazisti a Berlino, oggi fa anche altro. Compresi i respiratori o “dispositivi per la ventilazione meccanica”. Come gli Aventa-M, il cui disegno spiccava a marzo sulle scatole scaricate dagli aerei militari russi a Pratica di Mare. Top di gamma, valore di listino pari a 14.000 euro ciascuno prodotto da Upz-Ojsc Ural Instrument-Making Plant (parte della holding statale Rostec). Si tratta di dispositivi mobili che lavorano sull’inalazione-espirazione, dotati di un generatore di flusso integrato e un moderno controllo touch. In Russia ne vengono prodotte 600 unità al mese. E ancora mascherine antivirus Spiro-302, tute per la protezione totale e molto altro. Insomma la scelta di Putin, che ha fatto scandalizzare alcuni osservatori, equivale a dire: vi mando il meglio. E non solo in Italia, perché secondo la stampa russa, dozzine di Aventa sono stati mandati anche a New York.Il ministero della difesa russo all’inizio parlava di circa 100 persone pronte per l’Italia, con i principali specialisti nel campo della virologia e dell’epidemiologia. Le 8 squadre mediche e infermieristiche comprendono ciascuna un medico generico, un anestesista-rianimatore, un epidemiologo, un’infermiera anestesista e, inoltre, unità dotate di complessi ad alte prestazioni per la disinfezione di edifici e strade. La Regione Lombardia ha poi parlato di 150 persone destinate all’Ospedale degli Alpini a Bergamo. Da Pratica di Mare, infatti, dopo una serie di riunioni con rappresentanti della difesa e della Protezione civile italiana, la colonna dei russi, composta da 22 automezzi, scortata dai carabinieri e divisa in due parti, ha risalito il nostro stivale, passando per Firenze e Bologna, e arrivando a Bergamo. Da qui è partita anche un’azione di disinfezione delle strutture maggiormente interessate dall’epidemia. A partire dalla ben nota Martino Zanchi. Sinora sono stati disinfettati migliaia di metri quadrati di locali interni e strade di accesso.Aleksey Spirinchev, a capo del gruppo che si occupa della disinfezione, spiega che non si tratta di sostanze fortemente inquinanti, ma di alcool: «In tre settimane qui sono morte 20 persone, noi stiamo aiutando a debellare il virus dalle stanze. Tutti i locali vengono trattati con alcool al 70% che è abbastanza efficace, sia contro i virus che contro i batteri». I medici e i militari russi dopo il 26 marzo hanno visitato numerose strutture, compresi piccoli comuni, come Gromo, Cene, Brembate di Sopra, Clusone, Alzano Lombardo e anche Valbondione, piccolo Comune dell’alta Val Seriana, dove il sindaco Romina Riccardi aveva tolto la bandiera europea. Mosca aveva parlato inoltre di 1 milione di mascherine e 200.000 test per l’infezione da coronavirus donati dal famoso uomo d’affari cinese, Jack Ma, membro onorario della Russian Geographical Society, una specie di club esclusivo guidato da Putin. Ovviamente, più che l’opinione pubblica italiana, c’è per Putin quella russa, che inizia a conoscere solo ora il coronavirus. E che potrebbe vedere non di buon occhio tante elargizioni. Al di là della retorica, il ministero della difesa russo ha messo subito in chiaro: non si tratta soltanto di aiuto, ma anche di un’utile esercitazione. L’esperienza acquisita nell’eliminazione delle conseguenze del Covid-19 in Italia sarà «nell’interesse dello Stato» russo.(”Militari russi in Italia: perché sono qui e cosa fanno”, da “Analisi Difesa” del 5 aprile 2020).“Dalla Russia con amore” era soltanto un vecchio film di spionaggio. Ma dalla sera del 21 marzo, ovvero da quando Vladimir Putin telefona a Giuseppe Conte e concorda una missione russa di aiuti all’Italia – messa sotto scacco dal coronavirus – il titolo diventa qualcosa di nuovo e mai visto sul nostro territorio: 8 squadre mobili di virologi e medici militari russi, aerei carichi di autocarri verde scuro dall’inconfondibile targa nera, sistema di disinfezione aerosol, nonché attrezzature mediche, mascherine in grande quantità. Tutto diretto a Pratica di Mare, che per i russi non è semplicemente una base militare sul litorale romano, ma piuttosto il luogo di storici accordi e della mediazione italiana tra Usa e Russia. Inevitabilmente la scelta di Putin caduta sui militari ha scatenato e continua a scatenare polemiche nel nostro paese, benché fosse stata concordata al più alto livello bilaterale. Ma poco è stato spiegato. In primis non è stato detto che in Russia il top della sanità è proprio quella militare: un comparto con strutture ospedaliere separate, personale qualificatissimo e anche produzione di strumenti e apparecchi medicali.
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Il massone Bob Dylan, Kennedy e i golpisti del coronavirus
Vide il corpo di Kennedy sobbalzare in avanti, e capì che Chuck Nicoletti lo aveva colpito alla schiena, sparando dal palazzo accanto a quello in cui era appostato il futuro capro espiatorio Lee Oswald. Il presidente era ferito, ma in modo non mortale. Un’intuizione millimetrica, lo spazio di un secondo: poi la limousine si sarebbe allontanata dalla fatale collinetta dell’agguato. Fu in quel preciso istante che il secondo killer sparò a sua volta, con il suo Fireball, facendogli saltare il cervello e ribaltando all’indietro il corpo di Jfk. «Sono stato, io a esplodere il colpo mortale», dice James Files – detenuto negli Usa per altri reati – nel documentario (mai distribuito nel circuito televisivo) che svela la vera storia dell’omicidio, realizzato in mondovisione il 22 novembre 1963 a Dallas. Versione confermata in punto di morte da Howard Hunt, allora numero due della Cia. Per l’assassinio del secolo, gli 007 reclutarono la mafia di Chicago. Se ne accorse Zack Shelton, agente dell’Fbi, subito messo a tacere. Altra fonte, un “pentito”: il criminale Chaucey Holt. Conferma Tosh Plumlee, pilota della Cia: fu lui a trasportare a Dallas i gangster incaricati di eliminare Jfk.Alla vigilia, in un drammatico summit nella città texana, il piano venne convalidato dal Deep State: con lo stesso Howard Hunt, nella villa del petroliere Clint Murchinson c’era Edgar Hoover (Fbi) insieme al vice di Kennedy, Lyndon Johnson, e ad altri due futuri presidenti degli Stati Uniti, Richard Nixon e George Bush. Potere criminale: ma perché riparlarne oggi, come fa Bob Dylan, suggerendo un collegamento tra quell’atroce mattanza e il coronavirus? «State attenti e mettetevi al riparo», ha scritto Dylan sul suo sito, il 27 marzo, presentando l’esplosiva “Murder Most Foul”, regalata al pubblico “worldwide”, in modo sorprendente e spettacolare. Una strepitosa ballad lunga 1016 secondi (quasi 17 minuti) che ripercorre “l’omicidio più ignominioso”, facendo di Kennedy il simbolo di un’America che si stava svegliando, anche sulle ali della musica, per uscire dall’incubo della guerra fredda e della segregazione razziale, del terrore nucleare, del Vietnam.Perché farlo proprio adesso? Perché diventa così loquace, un solitario come Dylan, sempre ultra-reticente con la stampa? Probabilmente, la domanda contiene già la risposta: era indispensabile lanciare un avvertimento, sia pure filtrato dall’eleganza del linguaggio artistico. Un messaggio però anche esplicito, con indizi messi lì apposta per lasciarsi decodificare: l’invito a “suonare il numero 3, il numero 9″, cioè la perfezione dell’armonia. Roba da esoteristi: come il massonico 33, evocato a proposito dei “fratelli” che avrebbero organizzato “l’inferno”, a Dallas. «Nessun mistero: Bob Dylan è, da sempre, un massone radicalmente ultra-progressista», afferma – clamorosamente – Gioele Magaldi, evidentemente autorizzato a dare ufficialmente la notizia. «Dylan milita nei medesimi circuiti massonici progressisti ai quali appartengo anch’io», aggiunge Magaldi, che nel 2014 – nel saggio “Massoni”, edito da Chiarelettere – ha denunciato le trame anche golpiste e terroristiche della supermassoneria reazionaria.L’accusa: è stata la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, ad architettare l’11 Settembre e il crollo delle Torri Gemelle, per poi inventarsi anche l’Isis. Se qualche sprovveduto crede ancora alla storiella degli aerei che avrebbero abbattuto le Twin Towers (cadute per “demolizione controllata”, come ormai dimostrato da oltre tremila architetti e ingegneri americani), proprio l’omicidio Kennedy – giudiziariamente irrisolto, dopo oltre mezzo secolo – sta lì a ricordare a tutti che, a volte, “l’impossibile” diventa possibilissimo. Tant’è vero che qualcuno ci lascia la pelle: anche in modo inimmaginabile, persino se si tratta di un intoccabile come il presidente degli Stati Uniti. Magaldi mette in fila gli eventi: la stessa élite reazionaria, che nel 1975 usò la Trilaterale di Kissinger per dichiarare guerra alla democrazia sociale, oggi sovragestisce la crisi planetaria della pandemia secondo il modulo Wuhan, fondato sulla sospensione della libertà costituzionale.Attenti, avverte Magaldi: fu proprio il club di Kissinger a sdoganare la Cina, aprendola al mercato globale, per farne una specie di Frankenstein: formidabile efficienza economica, ma niente democrazia. Un modello perfetto da trapiantare in un futuro Occidente distopico, raggelante, oggi con il pretesto psico-sanitario del coronavirus, il coprifuoco imposto a tutti (provvisorio, ma con la prospettiva che le libertà di ieri non tornino mai più). Ed ecco, allora, Bob Dylan. «La sua uscita – sottolinea Magaldi – è perfettamente sincronizzata con l’altrettanto clamorosa lettera di Mario Draghi al “Financial Times”, in cui l’ex presidente della Bce (fino a ieri massone neoaristocratico, e oggi tornato ai lidi keynesiani delle origini) dichiara guerra alla “teologia” del rigore neoliberista, evocando addirittura il New Deal rooseveltiano: cioè la necessità di ricorrere a massicci aiuti di Stato per svincolare l’economia dal ricatto della finanza speculativa. Un regime che tuttora strangola l’Italia nella morsa dell’Ue, proprio adesso che il paese ha un bisogno drammatico di fondi che non si trasformino in debito».Draghi e Dylan, strano tandem: in modo diverso paiono dire la stessa cosa. Ovvero: siamo ormai giunti a un bivio esiziale, messi di fronte – con l’accelerazione planetaria della pandemia – a una scelta di campo ormai ineludibile: se la globalizzazione solo finanziaria porta dritti a Wuhan, l’alternativa sta nel riscrivere da zero le regole del mondo. E chi, meglio di John Kennedy, riuscì a esplicitare questo concetto? Era il sogno della New Frontier: un mondo unito, pacificato e libero. Di recente, s’è scoperto un carteggio segreto con Nikita Krushev: i due leader impegnavano Usa e Urss a mettere fine alla guerra fredda entro il 1970. Ma a costare la vita a Kennedy, probabilmente, fu altro: per esempio, la decisione di stampare direttamente banconote di Stato, svincolate dal sistema bancario. Ed ecco che Jfk, riletto oggi, sembra parlare direttamente a noi, alle prese con le maschere dell’euro-rigore “tedesco”. Ma chi era, veramente, Kennedy?«Tra le altre cose, il presidente assassinato a Dallas era un inziato eleusino», rivela lo storico fiorentino Nicola Bizzi, che nel sorprendente libro “Da Eleusi a Firenze” mette a fuoco l’ascendenza “eleusina” del Rinascimento italiano. Ovvero: la regia occulta, nel potere della signoria medicea, della tradizione misterica risalente al 1300 avanti Cristo, quando – secondo la narrazione – la dea Demetra avrebbe rivelato ai fedeli di Eleusi, alle porte di Atene, l’origine “atlantidea” della nostra specie, “creata” dagli dei Titani come Poseidone, signore dei mari. Kennedy eleusino? «Di più: era anche un templare, direttamente collegato a Dante Alighieri». Lo sostiene Luca Monti, autore del volume “Firenze, città santa dei templari”, pubblicato da Aurora Boreale, editrice di cui è titolare lo stesso Bizzi. Collegato alla rete odierna del templarismo, Monti spiega: l’autore della Divina Commedia ereditò la guida segreta dell’Ordine del Tempio dopo il rogo in cui fu arso vivo l’ultimo gran maestro ufficiale, Jacques de Molay. E il collegamento con il presidente assassinato a Dallas? «Il successore dell’Alighieri-templare fu Gherarduccio dei Gherardini, antenato di John Fitzgerald Kennedy», nientemeno.Stupefacente? Be’, sì. Ma questo aiuta a leggere un po’ meglio tra le righe, persino nei riferimenti simbolico-esoterici di cui è gremito l’amletico testo del massone Dylan, “Murder Most Foul”. Va preso sul serio, Luca Monti? Fate voi. Nel 2016, intervistato da Paolo Franceschetti, si sbilanciò con questa previsione: «Nel 2020 succederà qualcosa di inaudito, a livello mondiale». La fonte? Numeri, ancora: nella Commedia di Dante, ricorre il 515. Le profezie contenute nel poema sono intervallate dal medesimo numero di versi, “centodieci e quinque”. «Io penso che questo 515 arriverà verso il 2020», disse Monti, spiegando: «Questo numero rappresenta anche la riunificazione; noi siamo tutti in potenza parti di Dio, particelle divine, e il 515 rappresenta la riunione di noi stessi col divino». Suggestioni da brividi? Certo, si tratta di materiale con cui Bob Dylan ha sempre dimostrato un’estrema confidenza: nessuno come lui ha saputo maneggiare – e con uno slang “pop”, per giunta – la stessa Bibbia e i simboli pescati nei territori dell’alchimia, dell’astrologia, dei tarocchi, della mitologia. Se Kennedy era anche un neo-templare e un iniziato “eleusino”, oltre che un celebrato campione della democrazia, suona sempre meno strano l’omaggio che il grande cantautore gli tributa, in mezzo al panico da coronavirus, come se “Murder Most Foul” fosse anche una dichiarazione di guerra, oltre che un esercizio di pietà.Cade dall’alto, il guanto di sfida lanciato dall’ex ragazzo di Duluth, con alle spalle sessant’anni di carriera, oltre 50 dischi e anche l’Oscar cinematografico per la colonna sonora di “Things have changed”. Il prestigio culturale di Bob Dylan è già scritto nella storia: Premio Pulitzer, Nobel per la Letteratura, Legion d’Onore francese, Premio Principe delle Asturie. Risale al ‘97 il riconoscimento dei Kennedy Center Honors, e al 2012 la Medaglia Presidenziale della Libertà (massimo “award” civile, negli Stati Uniti). Neppure il Dylan politico è una sorpresa, dai tempi di “Blowin’ in the wind” e “Masters of war”. Suo il primo atto d’accusa, frontale, contro la globalizzazione: “Union Sundown”, nel 1983, anticipa profeticamente la tragedia delle delocalizzazioni, in un mondo che sarebbe stato devastato dallo strapotere delle multinazionali. Forte l’attitudine a scendere in campo direttamente, in modo anche spericolato: l’affarista William Zantzinger dichiarò di essere stato rovinato, da Dylan, per la canzone “The lonesome death of Hettie Carroll”, domestica nera uccisa a bastonate. Il pugile afroamericano Rubin Carter, vittima di un caso giudiziario condizionato dal razzismo, fu letteralmente scarcerato in seguito alla campagna per la sua liberazione lanciata da Dylan con il brano “Hurricane”.«Siamo un paese costruito sulla schiena degli schiavi», disse, in prossimità dell’uscita dell’album “Tempest”, pubblicato nel 2012, in cui riecheggia la guerra civile americana nell’interpretazione del poeta Herny Timrod. Sempre rarissime, le interviste, ma quasi tutte memorabili. «Come spiegare la mia longevità artistica? Be’, da giovane ho fatto un patto con il “comandante in capo”». Tradotto: consacro la mia arte alla maggiore delle cause. Obiettivo: far fermentare il talento, alchemicamente, al servizio dell’umanità. Un modo per “tendere al divino”, per citare il 515 dantesco? Più esplicitamente: «Pensate alla trasfigurazione di Cristo, nel Getzemani». Simboli, certo. Positivi e negativi: «Ha vinto Walt Disney», sentenziò anni fa: «Quindi abbiamo perso tutti». Prigioneri della Matrix, in un mondo di plastica? Ecco, forse il velo potrebbe squarciarsi, oggi, di fronte al dramma del coronavirus che sembra distruggere ogni certezza. A patto però – e qui è il “templare” kennedyano che riemerge, il “massone progressista” – che si abbia il coraggio di metterci la faccia. Per esempio regalando ai senzatetto milioni di dollari, ricavati dal disco natalizio “Christmas in the heart” pensato nel 2009 per sfamare gli homeless d’America (gesto di liberalità squisitamente massonico, se non addirittura rosacrociano).A proposito: tra i leggendari Rosa+Croce, elusiva confaternita iniziatica capitanata nel secondo ‘900 dal pittore Salvador Dalì, un simbologo italiano come Gianfranco Carpeoro include il grande Freddie Mercury. E il suo gruppo – i Queen – è l’unico citato da Dylan nella sequenza finale di “Murder Most Foul”, in cui si dispiega lo splendore della colonna sonora degli irripetibili anni Sessanta. Un indizio rivelatore: siamo di fronte a una stretta parentela, non solo artistica? In recenti conferenze, insieme allo stesso Magaldi, Carpeoro ha svelato la cifra massonica di artisti come David Bowie e, in particolare, l’identità anche rosacrociana del massone progressista Michael Jackson, cresciuto nella Prince Hall Freemasonry, l’obbedienza dei neri americani. A costargli la vita, a quanto pare, sarebbe stata la canzone “They don’t care about us”, contro gli abusi del grande potere globalista. Un verso recita: «Tutto questo non succederebbe, se Roosevelt fosse ancora qui». Alla moglie di Franklin Delano, Eleanor, madrina della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il giovanissimo Bob Dylan dedicò “Dear Mrs. Roosevelt”, scritta dal suo antico maestro Woody Guthrie.Sempre Dylan fu tra le star che risposero all’appello di Michael Jackson, autore con Lionel Richie del brano corale “We are the World”, destinato a raccogliere fondi (campagna “Usa for Africa”) per assistere la popolazione dell’Etiopia colpita dalla spaventosa carestia del 1985. Oggi, a quanto sembra, siamo all’ennesimo appuntamento con la storia: si tratta di disseppellire John Kennedy, per aiutare il mondo a ritrovare il suo stesso coraggio. Cambiare tutto, senza paura: né del coronavirus, né nei suoi ipotetici “sovragestori”, che probabilmente sognano un pianeta di neo-sudditi, schiavizzati dal terrore dei virus (oggi il “corona”, domani chissà), e sottoposti alla dittatura orwelliana di una polizia sanitaria capace di imporre vaccini e microchip, azzerando la privacy e la libertà. Messaggio: il momento è cruciale. La sfida è lanciata: “Murder Most Foul” è nell’aria, ne sta parlando il mondo intero. «State al riparo, e state attenti», si congeda il quasi ottantenne Dylan. «E che Dio sia con voi».(Giorgio Cattaneo, 5 aprile 2020).Vide il corpo di Kennedy sobbalzare in avanti, e capì che Chuck Nicoletti lo aveva colpito alla schiena, sparando dal palazzo accanto a quello in cui era appostato il futuro capro espiatorio Lee Oswald. Il presidente era ferito, ma in modo non mortale. Un’intuizione millimetrica, lo spazio di un secondo: poi la limousine si sarebbe allontanata dalla fatale collinetta dell’agguato. Fu in quel preciso istante che il secondo killer sparò a sua volta, con il suo Fireball, facendogli saltare il cervello e ribaltando all’indietro il corpo di Jfk. «Sono stato, io a esplodere il colpo mortale», dice James Files – detenuto negli Usa per altri reati – nel documentario (mai distribuito nel circuito televisivo) che svela la vera storia dell’omicidio, realizzato in mondovisione il 22 novembre 1963 a Dallas. Versione confermata in punto di morte da Howard Hunt, allora numero due della Cia. Per l’assassinio del secolo, gli 007 reclutarono la mafia di Chicago. Se ne accorse Zack Shelton, agente dell’Fbi, subito messo a tacere. Altra fonte, un “pentito”: il criminale Chaucey Holt. Un pilota della Cia, Tosh Plumlee, conferma di aver trasportato a Dallas i gangster incaricati di eliminare Jfk.
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Bob Dylan, messaggio: John Kennedy, contro il coronavirus
The Greatest, si auto-celebrò il giovane Cassius Marcellus Clay, non ancora Muhammad Alì. Figlio di un pittore di insegne pubblicitarie. Figlio adottivo del ladro che gli rubò la bicicletta nuova, che il padre – il pittore di insegne – gli aveva appena regalato, per il suo compeanno. E figlio anche di Joe Martin, il poliziotto di Louisville a cui baby-Cassius si rivolse, in lacrime, per il terribile furto. Va bene ragazzo, domani passa in ufficio per la denuncia. Ma se poi lo incontri, il ladro, sei capace di spaccargli la faccia? No, scosse la testa, sconsolato, il piccolo Cassius. E allora, gli disse Joe, ti aspetto nella mia palestra di boxe. Fu il primissimo passo, per poi diventare The Greatest. Mike Porco, from Italy (Calabria, per la precisione) era il nome del gestore del Gerde’s Folk City, la birreria del Village dove il giovanissimo Bobby si beveva le serate, di birra in birra, ascoltando gli strimpellatori che vi si esibivano. Un giorno si fece avanti: anch’io so suonare qualcosa. Mike lo mise alla prova, nel pomeriggio, mentre le ragazze lustravano il pavimento. Chiamò John Lee Hooker, che era atteso nei giorni seguenti. Poi gli comprò dei jeans puliti.Venne la sera fatidica, e andò tutto bene. John Lee Hooker disse a Mike Porco che il ragazzino del Minnesota se la cavava bene, con la sua armonica. Allora Mike gli regalò una serata morta, tutta per lui. Non c’era nessuno, nel pubblico, tranne un tizio un po’ sbronzo. L’indomani si capì che il tizio assonnato aveva un nome altisonante, Robert Shelton. Il suo giornale, il “New York Times”, annunciava che al Gerde’s era nata una stella. Virtualmente, nel suo campo, The Greatest. Ora che il mondo trema per il virus e seppellisce i suoi caduti, ecco che l’uomo del Minnesota fa un’uscita in solitaria e mondiale, nel suo stile, con una ballad regalata a tutti, urbi et orbi, lunga minuti 17. Un’omelia lentissima e dolcissima, in morte di John Kennedy e di tutta l’innocenza planetaria che morì insieme a John Kennedy, con tutte le speranze di un’umanità che sembrava si stesse pericolosamente risvegliando. Una sciarada di capolavori uno sull’altro, di nomi leggendari e memorabili, promesse, spettacolari acrobazie mai viste prima, e mai più viste. La consapevolezza del momento: la musica, in fondo all’anima del mondo, in quel miracoloso attimo in cui divenne musica persino la politica.Era semplicemente troppo, suggerisce la ballata. Ma se io sono ancora qui tra voi, alla mia età – dice l’autore, il menestrello – allora ve lo racconterò. Non è possibile dimenticare l’accaduto, non è possibile che non torni a vivere. Non è possibile non essere inondati dall’eco di quel lampo, di quell’istante irripetibile. Bisogna renderlo immortale, resuscitarlo tra i caduti del coronavirus, e trasformarlo in arma formidabile. Conosce l’arte di qualsiasi Antigone, l’autore. Gli han conferito pure il Premio Nobel, alla gloria dei suoi settantanove anni a maggio. Parla di sacrifici umani, la morte più cattiva. Evoca numeri ben noti al chiaroscuro, il 6 e il 9. E non teme di menzionare il 33, citando la crocifissione filmata da Zapruder sulla Dealey Plaza. Che è come dire: so chi è stato. Certo che sa chi è stato, il ragazzo di Duluth. L’ha capito da un pezzo. E sa anche che è gente della stessa razza che, tanti anni dopo, ha fatto crollare le Twin Towers. Sa anche che sono ancora loro, sempre gli stessi, a trafficare oggi col coronavirus. Lo dice a modo suo, con la sublime reticenza dei grandissimi, uscendosene con la sua ballad su John Kennedy, esattamente adesso, come se Jfk fosse una specie di sciamano, di talismano contro il male.Dal menestrello può solo imparare, il cinema, a sceneggiare vita e morte – only a matter of minutes, tra il prima e il dopo, e il mentre – quando si spappola la fisica e ogni singola molecola, ogni porzione del cervello di John Kennedy sembra tornare qui tra noi, a raccontare – con letizia misteriosa – lo splendore sterminato di chi osa guardare il mondo con amore, l’invincibile segreto che oggi più che mai viene in soccorso dell’umanità smarrita, terrorizzata dalla pandemia. L’elencazione ellittica, specialità retorica di aedi raffinati, sdraia la ballad in mezzo a nostalgie, tra monumenti museali dell’America che fu – con un’unica eccezione, Freddie Mercury, citato come per lasciare un segno a chi volesse coglierlo, bianco come lo strano guanto dell’ectoplasma Michael Jackson – we are the World, remember? We are the World, sicuro. Noi, non loro. E’ questo che sussurra la ballad sterminata del ragazzo del Nord, “Murder Most Foul”, chiedendo a tutti di specchiarsi per un attimo in quel cervello esploso a Dallas, lungo la New Frontier di tanti anni fa, quando una neve nera cominciò a cadere. Questo è il momento, sembra dire. Sapete, spetta a noi. Ora, di nuovo, tutto può accadere.(Giorgio Cattaneo, 5 aprile 2020. Il brano “Murder Most Foul” è stato pubblicato sul sito di Bob Dylan il 27 marzo 2020, accompagnato da queste parole: «Mettetevi al sicuro, state attenti, e che Dio sia con voi»).The Greatest, si auto-celebrò il giovane Cassius Marcellus Clay, non ancora Muhammad Alì. Figlio di un pittore di insegne pubblicitarie. Figlio adottivo del ladro che gli rubò la bicicletta nuova, che il padre – il pittore di insegne – gli aveva appena regalato, per il suo compleanno. E figlio anche di Joe Martin, il poliziotto di Louisville a cui baby-Cassius si rivolse, in lacrime, per il terribile furto. Va bene ragazzo, domani passa in ufficio per la denuncia. Ma se poi lo incontri, il ladro, sei capace di spaccargli la faccia? No, scosse la testa, sconsolato, il piccolo monello. E allora, gli disse Joe, ti aspetto nella mia palestra di boxe. Fu il primissimo passo, per poi diventare The Greatest. Mike Porco, from Italy (Calabria, per la precisione) era il nome del gestore del Gerde’s Folk City, il locale del Village dove il giovanissimo Bobby si beveva le serate, di birra in birra, ascoltando gli strimpellatori che vi si esibivano. Un giorno si fece avanti: anch’io so suonare qualcosa. Mike lo mise alla prova, nel pomeriggio, mentre le ragazze lustravano il pavimento. Lo propose a John Lee Hooker, che era atteso nei giorni seguenti. Quindi, in vista dell’evento, gli procurò dei jeans puliti.
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Gli Usa ammettono: il coronavirus era da noi già nel 2019
«Potrebbe essere stato l’esercito Usa ad aver portato l’epidemia a Wuhan». Così il portavoce del ministero degli esteri cinese Zhao Lijian. Una riflessione nata dopo l’audizione al Congresso degli Stati Uniti del direttore del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, Robert Redfield, nella quale ha riconosciuto che alcune persone, morte negli Usa di recente causa polmonite, sarebbero invece decedute per Covid-19 non diagnosticato. «È stato trovato il paziente zero negli Stati Uniti?». Ha rincarato la dose Lijian. «Quante sono le persone infette? Come si chiamano gli ospedali? Potrebbe essere l’esercito americano che ha portato l’epidemia a Wuhan. Siate trasparenti! Rendete pubblici i vostri dati! Gli Stati Uniti ci devono una spiegazione!». La vicenda è riportata da “The Hill”, che spiega come ciò sia parte di una narrativa cospirativa che circola sul web, e che vede il virus portato in Cina dagli atleti americani, e loro numeroso seguito, che si sono recati a Whuan per partecipare ai Giochi mondiali militari, che si sono svolti tra il 18 e il 27 ottobre 2019, praticamente quando è iniziata l’epidemia. Non necessariamente un atto criminogeno, ma una trasmissione involontaria: gli atleti Usa, o il seguito, sarebbero stati già infetti da coronavirus.La tesi sarebbe sostenuta da una coincidenza: cinque atleti di nazionalità ancora ignota sarebbero stati ricoverati in un ospedale locale per virus ignoto. Vero il ricovero, spiega il “Global Times”, ma si trattava del ben noto colera. E, però, la domanda posta resta. Secondo “Global Research”, già ad agosto, un medico di Taiwan avrebbe avvertito gli Stati Uniti che alcuni decessi per polmonite attribuiti alle sigarette elettroniche, le “svapo”, erano in realtà da attribuire a un nuovo coronavirus. “Repubblica”, a settembre, riferiva di 550 ammalati con problematiche polmonari, che avevano portato ad alcuni decessi. Conto più che approssimativo, se si tiene conto di cosa sia la sanità americana, che all’inizio dell’epidemia, ad esempio, ha negato il tampone a cittadini di ritorno dalla Cina perché non avevano i soldi per pagarli (qualcosa sta cambiando, vedi il “Washington Post”). Certo, la vicenda “svapo” va vista nell’ottica di una guerra mossa dalle potenti industrie del tabacco alla concorrenza, ma è pur vero che non si sono registrati analoghi disturbi in altre aree del mondo, come l’Italia, dove lo “svapo” aveva preso piede.Ad alimentare la possibilità che la polemica impegnata da Zhao Lijian abbia una sua plausibilità, è anche il fatto che il cosiddetto “paziente zero” di Whuan, da cui è nata l’epidemia, sia ancora causa di controversie. Così andiamo a qualcosa di più inquietante, forse collegato, forse no: il 5 agosto il “New York Times” riportava la notizia che il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti aveva intimato al laboratorio di armi batteriologiche di Fort Detrick di «cessare ogni attività» perché il sistema di filtraggio delle acque reflue non era sicuro. Un po’ quanto viene descritto nel film “Cattive acque”, uscito tre settimane fa in Italia (tempestività di Hollywood), che racconta la storia vera della battaglia giudiziaria intrapresa da un avvocato americano contro l’azienda chimica Dupont, i cui scarichi hanno avvelenato, e continuano ad avvelenare, migliaia di persone (non solo, spiega anche dell’avvelenamento da sostanze chimiche di circa il 90% dell’umanità… da vedere, in streaming, dato che i cinema son chiusi).Ovviamente si disse che nessuna sostanza pericolosa era effettivamente fuoriuscita da Fort Detrick, che però è stato chiuso in via preventiva. In altra nota, avevamo accennato come a luglio 2019, cioè poco prima della chiusura di Fort Detrick, la Camera degli Stati Uniti aveva chiesto formalmente al Pentagono se avesse testato e usato armi chimiche tra gli anni ’50 e gli anni ’70. Una richiesta insolita e non motivata da problematiche d’attualità. La cui spiegazione potrebbe essere proprio la contaminazione causata da Fort Detrick, notizia che presumibilmente circolava in alcuni ambiti. Un modo per far pressione, in maniera indiretta come si usa in tali casi, sulla vicenda, perché si chiudesse senza suscitare polveroni sull’Us Army. Al di là delle domande, si può notare come l’episodio di cronaca nera – che, ripetiamo, non necessariamente ha a che vedere col coronavirus – abbia come focus Fort Detrick, sito che richiama alla memoria altro ed oscuro.Qualcuno ricorderà il panico che per diversi mesi attanagliò il mondo dopo l’11 Settembre a causa della diffusione di missive contenenti antrace, letale arma batteriologica. La responsabilità dell’invio della posta avvelenata, indirizzata a personalità importanti e non d’America e del mondo, fu attribuita all’Agenzia terrorista nota come Al-Qaeda (il segretario di Stato americano Colin Powell usò tale minaccia per convincere il mondo della necessità di attaccare l’Iraq, che avrebbe avuto magazzini pieni di antrace). L’Fbi scoprì poi che l’antrace che aveva terrorizzato il mondo proveniva dall’America, da Fort Detrick appunto. La vicenda si chiuse individuando anche un possibile untore, un ignoto ricercatore che prestava la sua opera in quel laboratorio strategico. Che, ovviamente, non avrebbe mai potuto far tutto quel pandemonio globale da solo… tant’è. Morì suicida, tutto insabbiato.(”Dall’antrace al coronavirus, le vie di Fort Detrick”, post di “Piccole Note” del 13 marzo 2020).«Potrebbe essere stato l’esercito Usa ad aver portato l’epidemia a Wuhan». Così il portavoce del ministero degli esteri cinese Zhao Lijian. Una riflessione nata dopo l’audizione al Congresso degli Stati Uniti del direttore del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, Robert Redfield, nella quale ha riconosciuto che alcune persone, morte negli Usa di recente causa polmonite, sarebbero invece decedute per Covid-19 non diagnosticato. «È stato trovato il paziente zero negli Stati Uniti?». Ha rincarato la dose Lijian. «Quante sono le persone infette? Come si chiamano gli ospedali? Potrebbe essere l’esercito americano che ha portato l’epidemia a Wuhan. Siate trasparenti! Rendete pubblici i vostri dati! Gli Stati Uniti ci devono una spiegazione!». La vicenda è riportata da “The Hill“, che spiega come ciò sia parte di una narrativa cospirativa che circola sul web, e che vede il virus portato in Cina dagli atleti americani, e loro numeroso seguito, che si sono recati a Whuan per partecipare ai Giochi mondiali militari, che si sono svolti tra il 18 e il 27 ottobre 2019, praticamente quando è iniziata l’epidemia. Non necessariamente un atto criminogeno, ma una trasmissione involontaria: gli atleti Usa, o il seguito, sarebbero stati già infetti da coronavirus.
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Medico: Italia fragile ma sincera, a minacciarla è il panico
Se dal presidente della Repubblica al presidente del Consiglio al governatore di Lombardia, sino al sindaco di Trescore Cremasco e poi ancora sino a medici, funzionari di sanità e infermieri oltre che naturalmente a televisioni e giornali, tutti ci raccomandano di non preoccuparci, allora vuol dire che la situazione è veramente seria. La Lombardia e il Nord Italia, in particolare Milano, hanno preso misure drastiche che dai tempi bellici non si sentivano più nominare. Paesi blindati, chiusura di scuole, università, cinema e teatri, orari ridotti di pub, bar e ritrovi pubblici, perfino le messe per una settimana sono sospese. Misure di manzoniana memoria allora imposte dal tribunale di Sanità: «Si dispose a prescriver le bullette per chiudere fuori dalla città le persone provenienti da paesi dove il contagio si era manifestato, a bruciare robe, a mettere in sequestro case, a mandare famiglie al lazzaretto. I delegati presero in fretta e furia quelle misure che parvero loro le migliori e se ne tornarono, colla trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e fermare un male già tanto avanzato e diffuso».Ma oggi siamo nel 2020 e l’Italia inspiegabilmente è divenuta l’untore d’Europa, i nostri vicini iniziano a guardarci con sospetto e nemmeno noi siamo proprio tranquilli. Certamente non siamo razionali, visto quello che è successo nei supermercati lombardi domenica 23 febbraio. Ci hanno tolto il calcio e abbiamo cercato la gara all’ultimo pacco di pasta. Perché? Nessuno delle migliaia di invasati del carrello saprebbe rispondere freddamente a questa domanda. Anche i cosiddetti esperti sono di opinioni differenti: sentiamo virologi che negano la pandemia e riducono la gravità del coronavirus a poco più di una influenza stagionale (che ha circa 200 morti annuali in Italia), mentre altri sottolineano che il 20% dei colpiti da corona necessitano di ricovero in rianimazione. Insomma, oscilliamo tutti, a diversi livelli, tra il convincerci che va tutto bene e il farci travolgere dal panico più o meno sociale. Ma cosa dovrebbe farci pendere verso uno o l’altro di questi due poli?Certo, tecnicamente è una malattia nuova, senza terapia specifica o preventiva, ci sono solo le misure di supporto generiche sino all’intubazione e al respiratore automatico; non è ancora chiaro il meccanismo o il comportamento, quando il pericolo di contagio è massimo. Il cosiddetto paziente zero è introvabile; sono al lavoro matematici e fisici alla ricerca dell’algoritmo perfetto che lo faccia rintracciare. Poi perché questa esplosione proprio in Italia, quando anche Germania e Francia hanno stretti rapporti commerciali e turistici con la Cina? Nascondono qualcosa che noi invece sbandieriamo in maniera del tutto trasparente? Un punto fermo c’è: coronavirus non è né Ebola né peste. Il tasso di letalità aggiornato in Cina è del 3,8 per cento, un po’ minore in Italia dove peraltro sono decedute solo persone anziane e defedate da altre malattie. Gli altri sinora sono guariti. Ma il mettere in fila tutti questi e altri elementi non ci porterà al risultato voluto. Non ci dirà se scegliere speranza o panico.Un uomo o una donna soli, isolati, senza un punto fermo, sono fragili e diventano preda di chi è più forte, dei condizionamenti che la nostra società esercita, delle paure e dei sentito dire. Ubbidirà all’ordine di correre al supermercato o di barricarsi in casa. Occorre una saldezza personale e di giudizio data dal rapporto e dal credito con i nostri cari, i nostri simili, cercando il significato del nostro vivere. Insomma tutta questa inaspettata situazione, certamente critica, non può non farci nascere domande sincere, umane (cosa è questa paura? Di che cosa ho paura? C’è speranza? Dove?) Non saranno i nostri scrupoli a cambiare la situazione. Oltre ad usare la ragione, e quindi ad ascoltare e seguire i consigli di chi sta gestendo con competenza la situazione, a continuare a costruire nelle nostre giornate (io non temo di continuare il mio lavoro di medico in corsia o Pronto Soccorso) occorre sperimentare una grande gratitudine per quello che la vita ci ha offerto e che abbiamo sempre dato per scontato, e che adesso paradossalmente ci manca. Coscienti della nostra fragilità ma anche della nostra dipendenza saremo certamente più profondi e più autentici. Affrontando il mare aperto del domani.(Patrick Reali, “Non le paure cambiano le cose ma continuare a costruire nelle nostre giornate”, dal “Sussidiario” del 25 febbraio 2020).Se dal presidente della Repubblica al presidente del Consiglio al governatore di Lombardia, sino al sindaco di Trescore Cremasco e poi ancora sino a medici, funzionari di sanità e infermieri oltre che naturalmente a televisioni e giornali, tutti ci raccomandano di non preoccuparci, allora vuol dire che la situazione è veramente seria. La Lombardia e il Nord Italia, in particolare Milano, hanno preso misure drastiche che dai tempi bellici non si sentivano più nominare. Paesi blindati, chiusura di scuole, università, cinema e teatri, orari ridotti di pub, bar e ritrovi pubblici, perfino le messe per una settimana sono sospese. Misure di manzoniana memoria allora imposte dal tribunale di Sanità: «Si dispose a prescriver le bullette per chiudere fuori dalla città le persone provenienti da paesi dove il contagio si era manifestato, a bruciare robe, a mettere in sequestro case, a mandare famiglie al lazzaretto. I delegati presero in fretta e furia quelle misure che parvero loro le migliori e se ne tornarono, colla trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e fermare un male già tanto avanzato e diffuso».
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Master Roosevelt: per conoscere i segreti del grande potere
Cani da guardia della democrazia: così amavano lasciarsi definire i veri reporter, all’epoca in cui Bob Woodward e Carl Bernstein, dalle colonne del “Washington Post”, trascinavano Nixon verso l’impeachment e le dimissioni. Oggi, lo spettacolo è patetico: i mastini di un tempo sono stati rimpiazzati da barboncini scodinzolanti, che non osano avventurarsi oltre il recinto delle notizie ufficialmente autorizzate. Il grande freddo è calato dopo l’opaca tragedia dell’11 Settembre, che segna un drammatico spartiacque tra verità e autocensura. Vale per tutto, anche per la politica: vietato osare. Vent’anni di piombo e di sangue, costellati di guerre protette dalla disinformazione, tra crisi economiche generate dalla finanziarizzazione definitiva dell’economia globalizzata, in mano a poche famiglie potentissime. A prendere il potere, gettando la maschera, è stata un’élite neo-feudale. Obiettivo: saccheggiare il pianeta, svuotando la democrazia anche in Europa. Tutto è perduto? No, se si crede ancora nella sovranità democratica. Lo sostiene Gioele Magaldi, esponente italiano di quella stessa supermassoneria internazionale che, nelle sue forme più regressive, ha privatizzato il globo. La sua tesi: se le superlogge reazionarie hanno messo all’angolo quelle progressiste, protagoniste del boom economico, è ora di impegnarsi a rovesciare il tavolo. Come? Anche sfornando una nuova classe dirigente. Per esempio, con un master come quello ora in partenza, decisamente unico in Italia.Il corso è destinato a italiani disposti a ricevere una formazione speciale, che li metta nelle condizioni di vedersela alla pari con i grandi player dell’attualità. Storia della conoscenza, storia del potere e delle civiltà umane. E poi: economia post-keynesiana e rooseveltiana, finanza etica e conti pubblici, geopolitica. Comunicazione: marketing e pubblicità, giornalismo, media e televisione. Ma anche “scienza, polis e potere”, filosofia politica, ecologia, salute, arte e letteratura, cinema, musica e “affabulazione collettiva”. Sono alcune delle materie del “Master Roosevelt in Scienze della Polis”, al via a fine gennaio: 12 weekend intensivi, tra Roma e Milano, con anche il supporto video per chi non potrà partecipare a tutte le lezioni. «Solo il nostro master – assicurano i promotori – offre insegnamenti teorico-pratici che coprono tutto lo “scibile” contemporaneo». Informazioni preziose per affrontare il buongoverno della cosa pubblica, consapevoli dei propri diritti e doveri, oltre che della propria sovranità di cittadini. «Inoltre – aggiungono gli organizzatori – questo master soddisfa esigenze di conoscenza inter-disciplinare (di natura sia “materiale” che “spirituale”) che nessun’altra alta scuola di formazione può garantire».Basta dare un’occhiata alle docenze proposte. Per esempio: storia, teoria e pratica dei servizi segreti e dell’intelligence pubblica e privata. Oppure: esoterismo, iniziazioni e massoneria. Ancora: introduzione alla Kabbalah. E poi simbologia, ideologie e sistemi di pensiero. Un lavoro in profondità: si parlerà di archetipi psicologici e comportamenti politico-sociali, svelando «i segreti delle energie sottili e delle arti marziali e venusiane». Premessa: è il potere stesso – per chi non l’avesse ancora capito – a padroneggiare queste materie. E il Master Roosevelt è dunque la prima opportunità, offerta a tutti, di esplorare quel mondo elusivo, precluso ai più. Ad affermarlo è lo stesso Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha tolto il velo all’aspetto più segreto dell’establishment: «A muovere anche i massimi oligarchi è una sorta di “aristocrazia dello spirito”, che li induce a ritenersi gli unici depositari dei destini del mondo». Non la pensa così l’autore di “Massoni”, già inziato alla superloggia progressista “Thomas Paine” e ora leader del Grande Oriente Democratico. La sua tesi: «La vera massoneria è costituzionalmente progressista. Storicamente, è stata proprio la “libera muratoria” a produrre le forme della modernità, lo Stato di diritto, la relativa libertà del cittadino non più suddito e la facoltà di auto-governarsi mediante elezioni democratiche, una volta conquistato il suffragio universale».Pietra miliare: la Rivoluzione Francese, con la caduta dell’Ancien Régime. Da allora, lotte e rivolte in tutto il mondo, fino al Risorgimento italiano. Quindi i decenni gloriosi del boom, nell’ultimo dopoguerra: «Era massone Franklin Delano Roosevelt, che volle il Piano Marshall dopo aver sconfitto il nazismo. Era “libera muratrice” sua moglie Eleanor, madrina dei diritti umani. Era massone Keynes, lo stratega del benessere diffuso in Occidente. Ed erano massoni John Rawls e William Beveridge, gli inventori del welfare (concepito per eliminare il gap tra ricchi e poveri)». Nel suo saggio – un vero e proprio bestseller italiano – Magaldi scrive che la leadership culturale e politica delle superlogge progressiste fu sabotata con la violenza alla fine degli anni Sessanta, negli Usa, con il doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King: i rooseveltiani li avevano scelti, come presidente e vice, per cambiare faccia al mondo. Non è andata così: nel 1973 (proprio l’11 settembre) la superloggia “Three Eyes” di Kissinger e Rockefeller organizzò il golpe in Cile introducendo il neoliberismo con i carri armati. Due anni dopo, la Trilaterale avrebbe spiegato, con il manifesto “La crisi della democrazia”, che era iniziata la grande retromarcia storica: meno diritti, meno pace e meno benessere per tutti. Sulla base di cosa? Di un piano egemonico: la riconquista del pianeta, da parte di un’élite massonica che i sodali di Magaldi definiscono “controiniziata”, avendo rinnegato l’impegno massonico per il progresso democratico dell’umanità.Nel 2011, in televisione, lo stesso Magaldi si espose in prima persona per segnalare la militanza – nella supermassoneria reazionaria – di primattori come Mario Monti, il presidente Napolitano e lo stesso Draghi. Sei mesi dopo l’uscita del suo dirompente saggio (silenziato dai grandi media), Magaldi ha fondato il Movimento Roosevelt, un soggetto meta-partitico che si propone di “risvegliare” la politica italiana in modo trasversale, appellandosi a tutti i partiti per il ripristino della democrazia sostanziale nella governance, dominata da un’Ue non democratica. Nel 2019, viste le incertezze deludenti del governo gialloverde, Magaldi (insieme all’economista Nino Galloni, vicepresidente “rooseveltiano”) ha anche aperto il cantiere del “Partito che serve all’Italia”, work in progress politico-programmatico: fine dell’austerity, istruzioni per l’uso. E ora, con il master, si passa direttamente all’attività formativa. Nel corso di un anno, il programma affronta materie vaste e complesse: istituzioni democratiche e meccanismi elettorali, amministrativi e parlamentari, approfondendo anche le leggi ordinarie e quelle costituzionali. E poi relazioni istituzionali pubbliche e private, euro-atlantismo e Nato, area mediterranea e strategie militari globali, storia contemporanea e dinamiche planetarie.Tra le docenze non mancano “polis e disabilità”, rigenerazione urbana e architettura, organizzazione del lavoro, “percezione di sé e osservazione dell’ambiente”. Un impegno a 360 gradi: modelli democratici ed elettorali a confronto. Una bussola precisa: mente, coscienza ed etica, tra politica e società. In altre parole: si tratta di formare super-cittadini, capaci di misurarsi senza timidezza con qualsiasi interlocutore, per arrivare – domani – a irrobustire finalmente una classe politica diversa, più preparata, in grado di tutelare l’Italia nel solo modo che Magaldi e i suoi ritengono possibile, e cioè recuperando la sovranità democratica di concerto con il resto d’Europa e del mondo. Da qualche tempo, lo stesso Magaldi segnala indizi di un possibile cambiamento in corso: «L’élite massonica neoaristiocratica che ha messo in piedi quest’Europa post-democratica sta per cedere, di fronte al disastro socio-economico che ha prodotto: lo dimostrano anche le esternazioni pubbliche e private di un supermassone come Mario Draghi, tra i massimi architetti dell’austerity, che ora si dichiara pronto a tornare sui suoi passi, recuperando la lezione di Keynes e quella personalmente ricevuta dal grande economista italiano Federico Caffè».Durissimo nel denunciare le peggiori malefatte del potere e i suoi aspetti più occulti, Magaldi ha fiducia nel futuro: crede sinceramente che la democrazia sociale sperimentata in Europa nel dopoguerra possa riprendere il suo corso. Ma per sbriciolare il potere degli oligarchi, dice, occorre una nuova generazione di italiani, all’altezza della sfida. Occorre anche gettare nella spazzatura l’ipocrisia che, nel nostro paese, impedisce di riconoscere il ruolo della massoneria, menzionando le logge solo per demonizzarle. E se sono massoni molti dei protagonisti negativi dell’attuale establishment, è meglio acquisire quelle stesse competenze, anche senza entrare in massoneria. Pure questa, in fondo, è tra le missioni del Master Roosevelt: fare in modo che nessuno detenga il monopolio della conoscenza. Avverte Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sui misfatti neo-feudali del neoliberismo: ai “mostri” del vero potere, menti raffinatissime e preparatissime, non puoi opporre un branco di politicanti spesso mediocri e ignoranti come quelli italiani. Prima ancora che il servilismo, è la loro incompetenza a trasformarli fatalmente in docili maggiordomi, meri esecutori di decisioni prese altrove.Se siamo ridotti così, con governi-fantasma che prendono ordini da Bruxelles, da una Commissione Europea che è solo la cinghia di trasmissione del volere di potentati privati, secondo Magaldi dipende dagli snodi cruciali della storia recente. Per esempio l’eliminazione del massone progressista Olof Palme, campione del welfare svedese, alla vigilia delle trattative che avrebbero portato al Trattato di Maastricht. Da quel “frame” sciagurato non siamo ancora usciti: ci hanno fatto credere che il debito pubblico sia una colpa, e che lo Stato sia come una famiglia che, se s’indebita, poi deve ripagare tutto (e con gli interessi). Solo nel 2018, sulla base di questi presupposti – a essere sovrani sono i mercati finanziari, non i cittadini – Mattarella impedì a Paolo Savona l’accesso al ministero dell’economia. In quell’occasione, Magaldi chiese le dimissioni del presidente della Repubblica, che definì «un servizievole paramassone». Rispetto all’epoca del governo Monti, l’informazione alternativa ha fatto passi da gigante, grazie al web. E’ cresciuta una forte minoranza, finalmente informata. Fioriscono iniziative, convegni, gruppi. Ma manca ancora un progamma organico per mettere a fuoco il problema in modo esauriente, forgiando autentici esperti. Ed è esattamente a questo che punta il Master Roosevelt, prima scuola italiana che nasce per insegnare a sfidare, domani, questo potere che tiene prigioniero il paese.(L’avvio del Master Roosevelt in Scienze della Polis è previsto per sabato 25 gennaio 2020, ore 9, presso l’Istituto Sant’Orsola di via Livorno 50/a, Roma).Cani da guardia della democrazia: così amavano lasciarsi definire i veri reporter, all’epoca in cui Bob Woodward e Carl Bernstein, dalle colonne del “Washington Post”, trascinavano Nixon verso l’impeachment e le dimissioni. Oggi, lo spettacolo è patetico: i mastini di un tempo sono stati rimpiazzati da barboncini scodinzolanti, che non osano avventurarsi oltre il recinto delle notizie ufficialmente autorizzate. Il grande freddo è calato dopo l’opaca tragedia dell’11 Settembre, che segna un drammatico spartiacque tra verità e autocensura. Vale per tutto, anche per la politica: vietato osare. Vent’anni di piombo e di sangue, costellati di guerre protette dalla disinformazione, tra crisi economiche generate dalla finanziarizzazione definitiva dell’economia globalizzata, in mano a poche famiglie potentissime. A prendere il potere, gettando la maschera, è stata un’élite neo-feudale. Obiettivo: saccheggiare il pianeta, svuotando la democrazia anche in Europa. Tutto è perduto? No, se si crede ancora nella sovranità democratica. Lo sostiene Gioele Magaldi, esponente italiano di quella stessa supermassoneria internazionale che, nelle sue forme più regressive, ha privatizzato il globo. La sua tesi: se le superlogge reazionarie hanno messo all’angolo quelle progressiste, protagoniste del boom economico, è ora di impegnarsi a rovesciare il tavolo. Come? Anche sfornando una nuova classe dirigente. Per esempio, con un master come quello ora in partenza, decisamente unico in Italia.
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Magaldi: bravo Salvini, si fa processare sfidando gli ipocriti
Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di fermare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato vent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.In video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Magaldi chiarisce la sua posizione: per i politici (almeno, fin che sono in carica) è necessaria la tutela dell’immunità parlamentare assicurata nel modo più forte, anche per salvaguardare la piena dignità della funzione politica. Quanto a Salvini, ben venga il salto di qualità della sua condotta: fino a ieri, di fronte ad analoghe contestazioni (nave Diciotti), il capo della Lega era passato dall’ostentare tranquillità al quasi-implorare l’immunità, fino a essere “salvato” da Conte e Di Maio. Oggi, con il quadro parlamentare ribaltato e i 5 Stelle al governo col Pd, il no” agli sbarchi diventa materia giudiziaria: un pretesto per cercare di indebolire il nuovo leader dell’opposizione. Eloquente il parere di Zingaretti, secondo cui Salvini (che starebbe esasperando la vicenda) agirebbe «per motivi personali». Il che la dice lunga sulla perdurante ipocrisia di un Pd che, in fondo, è l’erede diretto di quella “casta di maggiordomi” che accettò senza condizioni il vincolo esterno dell’Ue, pur di sedersi al governo dopo il crollo (giudiziario) della Prima Repubblica. Un Pd senza idee né identità, che strizza l’occhio al neo-ambientalismo propagandistico di Greta e all’imbarazzante exploit delle Sardine, che pretendono di imbavagliare i ministri negando loro accesso a Twitter.Salvini tira dritto: vuole andare a processo per la Gregoretti (spiazzando anche la Meloni e Forza Italia) e intanto si protegge le spalle omaggiando Trump e Netanyahu: clamoroso l’applauso del leghista per l’uccisione americana del generale iraniano Qasem Soleimani, temuto da Israele. E a proposito: Salvini è tornato sul tema mediorientale, tifando per la promozione di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, dopo aver equiparato l’antisemitismo alle critiche al sionismo. In un recente convegno alla presenza dell’ambasciatore israeliano in Italia, l’ex vicepremier si è rammaricato dell’assenza di Liliana Segre: «Lei avrebbe tanto da insegnare, Carola Rackete no», ha aggiunto, attaccando la “capitana” della Sea Watch che speronò una motovedetta della Guardia di Finanza. Il fatto che una tragedia come la Shoah venga costretta a galleggiare nello stesso mare in cui nuotano i migranti descrive bene il tenore della speculazione politica corrente, mentre l’Italia perde i pezzi: vessato dalla Commissione Europea, il Belpaese non riesce a risolvere nessuna delle sue crisi industriali, e in più assiste impotente anche alla perdita della Libia, ormai “appaltata” al duopolio russo-turco senza che il fantasmatico Conte-bis riesca a battere un colpo per dimostrare di esistere.«Salvini sta studiando», disse Magaldi la scorsa estate, dopo la diserzione del Papeete e la fine del governo gialloverde, clamorosamente rimpiazzato da quello giallorosso. Per i detrattori (e i grandi media), si trattò di un autogoal: il capo della Lega sperava nelle elezioni anticipate, mai si sarebbe aspettato che i 5 Stelle si stringessero al Pd – e a Renzi – per giunta mantenendo Conte a Palazzo Chigi. Salvini fornisce una versione diversa: gli sarebbe stato impossibile giustificare ancora, presso l’elettorato leghista, un governo senza risultati. Non solo la problematica autonomia regionale per il Nord-Est, ma soprattutto il miraggio della Flat Tax, o comunque il sollievo fiscale promesso da Armando Siri. Ai gialloverdi, leghisti inclusi, Magaldi non ha mai fatto sconti: «Bravissimi ad abbaiare contro Bruxelles, e altrettanto bravi a prendere ceffoni, tornando a Roma con le pive nel sacco e senza neppure la magra consolazione del 2,4% di deficit». Erano i tempi in cui il campione sovranista Salvini flirtava con Marine Le Pen e l’ungherese Orban, insieme all’intero cartello di Visegrad ostile alle frontiere aperte. Poi è arrivata la bombetta-Moscopoli, con i silenzi imbarazzati sulla presenza di Savoini al Metropol, intercettato (da quale servizio segreto?) mentre discuteva di forniture energetiche, non si sa a che titolo, con oligarchi russi.Nella conversione atlantista di Salvini, peraltro anticipata già nella visita in Israele lo scorso anno, Magaldi vede il bicchiere mezzo pieno: «Salvini si sta schierando, dopo esser stato tacciato di essere inaffidabile in quanto filo-russo». Per la precisione, si sta allineando a Trump e Netanyahu. Magaldi apprezza: «Sono a favore della creazione di uno Stato palestinese e denuncio gli abusi della politica israeliana», premette, non senza aggiungere: «Israele resta pur sempre l’unica democrazia dell’area: se si vuole la pace, è più facile partire proprio dagli elementi israeliani progressisti, piuttosto che dai paesi – tutti autoritari – che circondano lo Stato ebraico». E cita il coraggioso tentativo di Yitzhak Rabin, «massone progressista» assassinato nel ‘95 da un colono ultra-sionista per aver tentato, davvero, di stringere una pace storica coi palestinesi. Nulla di simile è oggi all’orizzonte: era ancora vivo Arafat quando la scelta della pace fu pagata, dall’Olp, con la secessione di Gaza, finita sotto il controllo di Hamas, «una formazione fondamentalista sciita, vicina all’Iran, che nega tuttora a Israele il diritto di esistere». Mala tempora currunt: Medio Oriente nel caos, Libia contesa da potenze lontane dall’Ue, Europa inesistente, Italia paralizzata da una crisi che sembra senza vie d’uscita. E in mezzo a questo disastro, l’impresentabile Pd pretende di crocifiggere Salvini, per via giudiziaria, con il pretesto dell’opposizione agli sbarchi?A far salire la temperatura, ovviamente, sono le imminenti regionali in Emilia Romagna: una lunghissima campagna elettorale, punteggiata dai comizi casa per casa dell’onnipresente Salvini, cui si oppone – agitando addirittura l’antifascismo – l’ambigua ciurma delle Sardine prodiane. Per Magaldi, sono tappe della guerra tattica che, dietro le quinte, vede contrapposti due supermassoni occulti, «il “fratello” Romano Prodi e il “fratello” Mario Draghi, entrambi proiettati verso la conquista del Quirinale, dopo Mattarella». Quanto all’Emilia, si tratta di una Regione «ben governata dall’uscente Stefano Bonaccini». Se dovesse perdere, però, non sarebbe una tragedia: «E’ inconcepibile – dice Magaldi – la pretesa di mantenere al potere sempre la stessa parte politica, ininterrottamente, per mezzo secolo: non bisogna avere paura dell’alternanza, che è il sale della democrazia, e questo dovrebbe valere anche per la Lega». Nel frattempo, resta comunque inevasa la questione di fondo: «L’Italia – sintetizza Magaldi – ha bisogno di un cambio radicale nella governance dell’Ue, ottenendo il via libera a investimenti per 200 miliardi non computabili nel deficit. C’è un paese da ricostruire, facendolo uscire dall’incubo artificiale dell’austerity, progettata da un’élite reazionaria di cui sia Draghi che Prodi sono stati al servizio, con la differenza che oggi Draghi si dice pentito del suo operato, mentre Prodi se ne guarda bene».Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di neutralizzare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato trent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite, ai tempi in cui la Lega Nord, in Parlamento, agitava il cappio. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.
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Carpeoro: Craxi ucciso dai nostri nemici, complici gli italiani
Dove siamo, col cervello, mentre le cose accadono? Perché non riusciamo quasi mai a leggerne il vero segno? Fa impressione, oggi, ascoltare i mea culpa di tanti italiani che, vent’anni dopo la sua morte nella solitudine di Hammamet, rimpiangono in Bettino Craxi il politico puro, lo statista, l’uomo irriducibilmente indipendente dal sistema mainstream, anche a costo di apparire antipatico, altezzoso, insopportabile. E fa ancora più impressione ascoltare un suo antico collaboratore come Gianfranco Carpeoro, spietato con gli storici detrattori di Craxi: «Fino a quando continueranno a dar retta a gente come Travaglio e Scanzi, gli italiani verranno sodomizzati quotidianamente». La durezza di Carpeoro è impietosa: «Quelli che oggi ancora scrivono, mentendo, che Berlusconi fu una sorta di erede politico di Craxi, dimenticano la lite furobonda che li oppose. Insieme ad Andreotti, Craxi costrinse Berlusconi a cedere “l’Espresso” e “Repubblica”. Così poi Berlusconi tradì Craxi, scatenando le sue televisioni nel cavalcare Mani Pulite». L’Italia del benessere stava finendo: «Prodi svendette la Sme a De Benedetti per 600 milioni, e il gruppo fu poi rivenduto per 20 miliardi». Era l’inizio della fine: per “terminare” l’Italia, dopo aver eliminato Moro, bisognava far fuori anche Craxi: «I nemici di Bettino erano gli stessi che avevano tolto di mezzo Moro, per la salvezza del quale proprio Craxi (con Pannella) fu l’unico a battersi».Avvocato per trent’anni, Carpeoro (Pecoraro, all’anagrafe) – massone, simbologo, saggista e romanziere – era cresciuto tra i giovani socialisti calabresi alla corte di Giacomo Mancini. A Milano, aveva seguito Bobo Craxi e ricoperto vari incarichi nel Psi. Poi, tra lui e il leader socialista c’erano stati dissapori, quando a Carlo Tognoli fu preferito Paolo Pilliteri come sindaco milanese: «Il problema, con Bettino, era che non accettava che gli si desse torto, né in pubblico né in privato». Si riconciliariono in piena tempesta Mani Pulite: «Gli scrissi, apprezzò le mie parole. Poi, quando riparò ad Hammamet, andai a trovarlo due volte». Beninteso: «Craxi non è semplicemente morto: è stato ucciso», sottolinea Carpeoro, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. L’accusa: gli fu impedito di essere curato in modo adeguato, in Italia, senza venire arrestato. Era piagato dal diabete, insidiato da un tumore. E Craxi preferì morire, piuttosto che affrontare il carcere. In un suo libro appena uscito, Fabio Martini ricorda: l’allora premier Massimo D’Alema chiese al procuratore Francesco Saverio Borrelli di attivare una procedura umanitaria, in modo che Craxi potesse essere operato a Milano, da uomo libero. Ma Borrelli rifiutò. A quel punto, D’Alema avrebbe potuto emanare un decreto, ma non osò farlo. E Craxi, poco dopo, morì. «In carcere, sarebbe sopravvissuto tre giorni», dice Carpeoro: «E per impedirgli di dire la sua, comunque, gli avevano minacciato i figli».Rivelazioni clamorose, anticipate da Carpeoro nel 2015 durante una conferenza dell’associazione “Salus Bellatrix” di Vittorio Veneto, guidata da Francesca Salvador. «Perché Craxi non si difese a viso aperto, contrattaccando, visto che si sentiva vittima di un complotto? Ci aveva provato, contattando Paolo Mieli, Giovanni Minoli e Giancarlo Santalmassi, cioè il “Corriere” e la televisione. Ma quella sera stessa lo raggiunse un avvertimento anonimo e minaccioso all’hotel Raphael, dove alloggiava a Roma». Messaggio esplicito: attento, se parli colpiremo i tuoi figli. «Nel giro di poche ore lo chiamarono Bobo e Stefania: lui aveva trovato la sua casa messa a soqquadro, mentre a lei avevano anche preso i vestiti dagli armadi e glieli avevano bruciati sul terrazzo». I figli erano spaventati, il padre pure: i responsabili della sicurezza di Craxi gli dissero che si trattava di minacce credibili, pericolose. Al che, continua Carpeoro, Bettino rinunciò alle interviste-bomba e passò al Piano-B: «Chiamò l’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, e lo incaricò di mediare coi giudici di Milano». L’offerta: siate “morbidi”, e io lascerò l’Italia. Detto fatto: «In molti notarono l’anomala mitezza di Di Pietro nell’interrogatorio di Craxi». Era il segnale atteso: Craxi lasciò il paese da uomo libero, come pattuito. «La Tunisia, l’estradizione non l’avrebbe mai concessa. Ma l’Italia non l’ha comunque mai chiesta».Ipocrisie colossali? E non è tutto: «Nell’archivio del tribunale di Milano – aggiunge Carpeoro – c’è una stanza inaccessibile dove sono tuttora tenuti sotto chiave i dossier riguardanti 6 anni di indagini condotte prima che si venisse a sapere di Mani Pulite». Indagini-fantasma? «A quanto pare, condotte con metodi non legali», cioè senza avvertire gli indagati. «Me ne parlò direttamente un magistrato», dichiara Carpeoro. «Riferii subito la cosa a Bettino, ma decise di non fare nulla: sottovalutò il pericolo. Io comunque sono pronto a testimoniare in aula, se si apre un’inchiesta su questo». Si riaprirà? Carpeoro ne dubita: «Troppi poteri forti non vogliono che se ne parli: dovranno passare altri dieci anni, prima che questo capitolo si possa riaprire». Ancora tanti, i protagonisti in circolazione. L’ex giustiziere Di Pietro? «Una figura interamente costruita per affondare l’Italia colpendo Craxi. Ogni giorno era a colazione con il console americano: al punto che, per l’imbarazzo, gli Usa furono costretti a liberarsi di quel diplomatico». Bruciava ancora la notte di Sigonella: quale altro leader europeo aveva mai osato far circondare i marines dalla propria polizia, per proteggere un commando palestinese? Gli americani volevano Abu Abbas, inviato da Arafat per risolvere la crisi della nave da crociera Achille Lauro. Craxi lo difese, in nome della sovranità nazionale, pagando per questo un prezzo altissimo.«Quello che i cialtroni della nostra carta stampata continuano a non dire, e a far finta di non sapere – aggiunge Carpeoro – è che l’unica vittima dei sequestratori della nave, l’anziano paralitico Lion Klinghoffer, non era solo un pensionato ebreo con passaporto statunitense: era anche e soprattutto un alto esponente del B’nai B’rith», l’esclusiva massoneria ebraica che rappresenta il nerbo del Mossad, che in quegli anni si era reso responsabile di azioni sanguinose contro i palestinesi. Era il 1985: l’Italia, quinta potenza industriale del mondo, aveva ancora una politica estera (oltre che un vero governo). Bel problema: andava “risolto”. Aldo Moro era stato “sistemato” come sappiamo, dopo esser stato minacciato di morte da Henry Kissinger. Un anno dopo Sigonella, i killer colpirono Olof Palme a Stoccolma: «Era il leader carismatico dei socialisti europei», ricorda Carpeoro: «Lui vivo, non sarebbero mai riusciti a fare questo aborto di Ue». Per un po’ resistette la Francia, «ma lo stesso Mitterrand fu messo fuori gioco». Restava Craxi, e si sa com’è finita. «Se ti metti contro certi poteri, devi solo sperare di vincere», aggiunge Carpeoro: «Sai già in partenza che, se perdi, poi finisci ad Hammanet. E infine muori, assassinato – di fatto – dai nemici del tuo paese, e con la complicità dei tuoi stessi concittadini, che il potere ha messo contro di te».Carpeoro non fa sconti, agli italiani: si sono lasciati manipolare, come i topolini dal pifferaio di Hameln. Solo oggi, vent’anni dopo, molti di loro aprono gli occhi. «Craxi aveva un progetto ben preciso: voleva un’Europa unita, ma governata dai socialisti». Era stata la dottrina di Olof Palme: «Tagliare le unghie al capitalismo, frenarne gli eccessi». Peccato che il potere, in programma, avesse ben altro: neoliberismo assoluto e “totalitario”, svuotamento della democrazia e sottomissione della politica. Tagli alla spesa, crollo della classe media, rigore fiscale, mortificazione dell’economia reale a favore delle grandi concentrazioni finanziarie. In altre parole, l’attuale Disunione Europea: «Profetiche, in questo senso, le invettive di Craxi da Hammamet di fronte all’avvento dell’euro: ma ormai era un leader screditato in ogni modo, esiliato, latitante». Si era battuto per l’Italia, senza che gli italiani se ne accorgessero. La fine della scala mobile? Per Carpeoro, una concessione tattica al sistema. Il “serpente monetario” Sme? Una vittoria craxiana: uno stratagemma per proteggere la lira dalle speculazioni dei Soros. Dopo di lui, il diluvio: privaizzazioni selvagge, fine dello Stato. Oggi l’Italia è in ginocchio, col cappello in mano a mendicare elemosine a Bruxelles, e senza uno straccio di progetto politico – e men che meno, di statista – in grado di disegnare un futuro diverso.Ha stravinto il peggior potere, il neoliberismo finanziario che ci ha imposto l’austerity come dogma religioso. E l’Italia l’ha messa nel sacco nel solito modo, cooptando italiani “collaborazionisti”. «Siamo un paese così, fin dal Rinascimento: pur di sconfiggere la signoria rivale, ci si allea con gli stranieri». Ben lieti, i baroni dell’ex Pci, di accettare il “vincolo esterno” imposto dall’Ue alla politica italiana: caduta la Prima Repubblica arrivarono finalmente al governo, ma a patto di obbedire agli ordini della sovragestione internazionale. «Craxi fu tolto di mezzo perché, esattamente come Moro, una cosa simile non l’avrebbe mai accettata. Non c’era modo di piegarlo: bisognava eliminarlo». Il suo grande errore? «Si fidava degli italiani: immaginava che prima o poi capissero che lavorava per loro». E invece, gli hanno dato del ladro. Non cambiarono idea neppure il giorno che nessun parlamentare alzò la mano per contestarlo, quando in Parlamento chiese: qualcuno può dire di non aver mai percepito finanziamenti politici illegali? «Si evita sempre di ricordare che, in assenza di una legge adeguata per coprire i costi della politica, la Dc fu finanziata per decenni dagli Usa, e il Pci dall’Urss». Ma il ladro era “Bottino” Craxi, come lo chiama Travaglio, anche se persino Borrelli – prima di morire – si è domandato se Mani Pulite non abbia finito per favorire i grandi poteri che volevano depredare l’Italia.«E’ vero che i soldi servivano a finanziare il partito, ma qualcosa restava attaccato alle dita», dice a Craxi un personaggio del film “Hammamet”. «Di sicuro – replica Carpeoro – le dita non erano quelle di Craxi, che per sé non hai preteso una lira: del suo famoso “tesoro”, solo immaginario, non c’è traccia». Aveva tollerato personaggi discutibili, nel Psi? «Certo, ma era inevitabile: se avesse tagliato anche quelli, avrebbe dimezzato i voti. E il suo grande cruccio è sempre stato quello di non essere riuscito a superare il 15%. Già così, comunque, dava fastidio sia alla Dc che al Pci, che avrebbero preferito fingere in eterno di combattarsi, continuando a spartirsi il potere sottobanco in modo consociativo». Cos’è mancato, a Craxi? Gli italiani: il consenso del paese, nonostante gli enormi successi economici. «E il bello è che la parola “socialismo” riscuoteva generale simpatia». Il maggior merito di Craxi? «Aver sgombrato il campo, una volta per tutte, dalla lotta di classe: l’idea di poter raggiungere un socialismo vero con le riforme, cioè senza la violenza di una rivoluzione». Riforme per il popolo, non contro il popolo (come quelle neoliberiste). E com’è che il potenziale campione diventa un nemico pubblico? Pensiero magico: la fabbricazione dell’Uomo Nero. Carpeoro ne fa una teoria argomentata: si educa la gente a votare “contro”, se si vuole distruggere un paese. Caduto un avversario, eccone un altro. L’importante è non costruire mai niente di buono. Ed eccoci qua, con Salvini e le Sardine, Conte e Di Maio. E l’Italia – o quel che ne resta – divorata in un sol boccone dal pescecane di turno.Dove siamo, col cervello, mentre le cose accadono? Perché non riusciamo quasi mai a leggerne il vero segno? Fa impressione, oggi, ascoltare i mea culpa di tanti italiani che, vent’anni dopo la sua morte nella solitudine di Hammamet, rimpiangono in Bettino Craxi il politico puro, lo statista, l’uomo irriducibilmente indipendente dal sistema mainstream, anche a costo di apparire antipatico, altezzoso, insopportabile. E fa ancora più impressione ascoltare un suo antico collaboratore come Gianfranco Carpeoro, spietato con gli storici detrattori di Craxi: «Fino a quando continueranno a dar retta a gente come Travaglio e Scanzi, gli italiani verranno sodomizzati quotidianamente». La durezza di Carpeoro è impietosa: «Quelli che oggi ancora scrivono, mentendo, che Berlusconi fu una sorta di erede politico di Craxi, dimenticano la lite furobonda che li oppose. Insieme ad Andreotti, Craxi costrinse Berlusconi a cedere “l’Espresso” e “Repubblica”. Così poi Berlusconi tradì Craxi, scatenando le sue televisioni nel cavalcare Mani Pulite». L’Italia del benessere in crescita stava finendo: «Prodi svendette la Sme a De Benedetti per 600 milioni, e il gruppo fu poi rivenduto per 20 miliardi». Era l’inizio della fine: per “terminare” il Belpaese, dopo aver eliminato Moro, bisognava far fuori anche Craxi: «I nemici di Bettino erano gli stessi che avevano tolto di mezzo Moro, per la salvezza del quale proprio Craxi (con Pannella) fu l’unico a battersi».
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Greta, Vogue e Joaquim Phoenix: l’ambientalismo dei cretini
È vero, stiamo rovinando l’ambiente. È vero, stiamo depredando il pianeta delle sue risorse naturali. È vero, stiamo avvelenando l’aria, l’acqua e i cibi che mangiamo. Ma problemi del genere, che sono di portata globale, richiedono soluzioni complesse e ragionate, e non ci si può certo accontentare di gesti simbolici che servono solo ad acquietare momentaneamente la nostra coscienza, ma non possono minimamente intaccare i problemi che abbiamo di fronte. Sembra invece che ultimamente si sia scatenata una gara a chi riesce a inventare la soluzione più stupida per far vedere che lui ha capito come si fa a risolvere il problema ambientale. La capofila di queste stupidità è proprio Greta Thunberg, che ha deciso di non viaggiare più in aereo “perché gli aerei inquinano”. Ma pensare oggi di abolire i voli aerei è assolutamente ridicolo, come è ridicolo pensare di poter modificare in modo sostanziale il modo in cui funzionano i loro motori. Talmente ridicolo, fra l’altro, è stato il gesto di Greta, che poi per riportare indietro la barca a vela che l’aveva trasportata fino a New York hanno dovuto andarci – in aereo, naturalmente – quattro marinai. Per cui, per un biglietto aereo risparmiato da lei, ne sono stati acquistati quattro per l’equipaggio di ritorno. Ma Greta è stata solo la apripista delle idiozie “a impatto zero”.Ultimamente la rivista “Vogue Italia” ha deciso di cavalcare l’onda ambientalista con una scelta tanto spettacolare quanto ridicola. Hanno fatto un intero numero della loro rivista senza fotografie (che è un po’ come se la Ferrari facesse un’automobile senza il motore, tanto per capirci: le riviste di moda “sono” le loro fotografie). E la loro spiegazione è stata talmente stupida che non riesco riassumerla con parole mie, devo per forza citare la dichiarazione originale dell’editore: «Lo scopo di questa scelta coraggiosa è, semplicemente, di essere più sostenibili». Che cosa ci sia di così sostenibile nell’evitare di fare le fotografie ce lo spiega il direttore di “Vogue Italia”, Emanuele Farneti: «150 persone coinvolte. Una ventina di voli aerei e una dozzina di viaggi in treno. 40 automobili a disposizione. 60 consegne internazionali. Luci che vengono spente e accese senza sosta per almeno 10 ore, parzialmente alimentate da generatori a benzina. Avanzi di cibo per alimentare le troupes. Plastica per avvolgere i vestiti. Elettricità per ricaricare i telefoni, le macchine fotografiche…». A questo punto – verrebbe da dire – smettiamo anche di produrre film, perché se la produzione di alcuni servizi fotografici ha un tale impatto ambientale, quella di un semplice film ne ha 100 volte tanto.Lo sapete quanti voli aerei servono per realizzare un film internazionale, quanto mangia ogni giorno una troupe cinematografica, quante volte accende e spegne la luce entrando in studio, quante automobili si muovono durante la realizzazione, e quanti telefonini e cineprese bisogna alimentare ogni giorno con la corrente elettrica? Torniamo quindi ai cartoni animati, con quattro disegnatori segregati in cantina, e diciamo addio al cinema una volta per tutte. Ma la vera follia di un gesto del genere è che venga proprio da una rivista come “Vogue”. L’alta moda infatti rappresenta la quintessenza del superfluo, la quintessenza dello spreco, la quintessenza del lusso, la prevalenza assoluta dell’apparire sulla sostanza. Per non parlare dello sfruttamento della manodopera nel terzo mondo, dove buona parte degli stilisti fa produrre propri tessuti per due lire, per poi rivendere i vestiti “griffati” a cifre stratosferiche. Ma loro, invece di chiudere una rivista del genere e andare a lavorare in fabbrica, preferiscono sostituire le fotografie con dei disegnini (per un mese soltanto, sia chiaro), per lavarsi la coscienza sul problema ambientale senza minimamente intaccare un’industria dai profitti miliardari.Veniamo ora al terzo esempio, perché è il più ridicolo di tutti. L’attore Joaquim Phoenix ha deciso di usare sempre lo stesso smoking, da adesso in avanti, per tutti i premi che andrà a ritirare. Dall’articolo dell’Ansa leggiamo: «Phoenix, vegano e ambientalista convinto, ha fatto la scelta consapevole di avere lo stesso tuxedo per l’intera stagione dei premi (dove, c’è da giurarci, sarà protagonista con allori) per ridurre sprechi e avere un’impronta green coerente al suo attivismo». E’ infatti noto come la produzione massiccia di smoking da cerimonia sia una delle cause principali del disboscamento della foresta amazzonica, dell’inquinamento atmosferico e dell’estinzione delle balene. Pensate che bello, se invece di una scemenza del genere Joaquim Phoenix avesse detto: «Da oggi mi presenterò a ritirare qualunque premio mi venga assegnato vestito esclusivamente di abiti di canapa. La canapa infatti è un prodotto pienamente eco-sostenibile, che non inquina e che non porta alcun danno ambientale nella sua coltivazione». Ma un discorso del genere avrebbe significato essere intelligenti, e di intelligenza al mondo a questo punto sembra restarne molto poca.(Massimo Mazzucco, “L’ambientalismo degli stupidi”, da “Luogo Comune” del 13 gennaio 2020).È vero, stiamo rovinando l’ambiente. È vero, stiamo depredando il pianeta delle sue risorse naturali. È vero, stiamo avvelenando l’aria, l’acqua e i cibi che mangiamo. Ma problemi del genere, che sono di portata globale, richiedono soluzioni complesse e ragionate, e non ci si può certo accontentare di gesti simbolici che servono solo ad acquietare momentaneamente la nostra coscienza, ma non possono minimamente intaccare i problemi che abbiamo di fronte. Sembra invece che ultimamente si sia scatenata una gara a chi riesce a inventare la soluzione più stupida per far vedere che lui ha capito come si fa a risolvere il problema ambientale. La capofila di queste stupidità è proprio Greta Thunberg, che ha deciso di non viaggiare più in aereo “perché gli aerei inquinano”. Ma pensare oggi di abolire i voli aerei è assolutamente ridicolo, come è ridicolo pensare di poter modificare in modo sostanziale il modo in cui funzionano i loro motori. Talmente ridicolo, fra l’altro, è stato il gesto di Greta, che poi per riportare indietro la barca a vela che l’aveva trasportata fino a New York hanno dovuto andarci – in aereo, naturalmente – quattro marinai. Per cui, per un biglietto aereo risparmiato da lei, ne sono stati acquistati quattro per l’equipaggio di ritorno. Ma Greta è stata solo la apripista delle idiozie “a impatto zero”.
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Magaldi: Iran, Cia e Mossad. Ma in palio c’è la democrazia
Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.«Un’élite occulta e reazionaria si era impossessata delle istituzioni statunitensi, progettando direttamente l’attentato delle Torri Gemelle». Il piano: «Fingere di “esportare la democrazia” in Medio Oriente, usando il terrorismo “false flag” (fabbricato in casa) per promuovere guerre devastanti come quelle che hanno prostrato l’Iraq, col risultato di distruggere il prestigio degli Usa nella regione». Parola di Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha svelato nomi e cognomi del club del terrore chiamato “Hathor Pentalpha”, inventore delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Stragismo atlantico clandestino, cinicamente progettato con l’affiliazione nella “Hathor” di supermassoni occulti come Osama Bin Laden (Al-Qaeda) e poi Abu Bakr Al-Bahdadi, sedicente “califfo” dell’Isis. La “Hathor” fu creata da Bush senior poco dopo l’insediamento a Teheran del regime degli ayatollah: era comodissimo, il turbante di Khomeini, per prepararsi a inoculare nei media occidentali il veleno del famoso “scontro di civiltà”. La tesi: l’Islam è un nemico, non può coesistere col sistema socio-economico occidentale. Bufale, e tanta ipocrisia: «Gli Usa – sottolinea Magaldi – convivono tuttora benissimo con le monarchie petrolifere del Golfo come l’Arabia Saudita, il cui autoritarismo teocratico è forse persino peggiore di quello dell’Iran khomeinista».Il grande alibi, per tutti, è sempre stato Israele: ovvero l’ostilità islamica verso lo Stato ebraico, accusato di aver schiacciato i palestinesi. L’uomo che stava per metter fine a mezzo secolo di massacri – Yitzhak Rabin, Premio Nobel per la Pace – venne assassinato nel 1995 da un fanatico israeliano ultra-sionista. Tolto di mezzo il massone progressista Rabin (e il miraggio dello Stato palestinese) si sono scatenati i “neocon” statunitensi, con il loro piano di egemonia e business fondato sulla “guerra infinita”, alimentata dagli “inside job” del terrorismo condotto sotto falsa bandiera, da manovalanza jihadista pilotata da servizi segreti occidentali. Attorno alle macerie dell’Iraq e della tormentatissima Striscia di Gaza sono quindi gradualmente riaffiorate le potenze regionali, accanto a Israele: l’Arabia Saudita, la Turchia e, naturalmente, l’Iran. Quest’ultimo, di recente, ha ampliato enormemente la sua sfera d’influenza: dallo Yemen al Libano, da Gaza alla Siria fino al vicino Iraq. Uomo-chiave della Mezzaluna Sciita, il grande stratega Qasem Soleimani, considerato una sorta di eroe nazionale per aver fermato i tagliagole dell’Isis tenendoli lontani dalle frontiere iraniane, indirettamente minacciate dagli impresari occulti dello Stato Islamico.Proprio la riconosciuta funzione patriottica di Soleimani – oltre alle sconcertanti modalità della sua morte, un atto terroristico apertamente rivendicato dagli Usa – spiega la folla oceanica ai funerali, milioni di persone (e addirittura una quarantina di morti, nella calca, in una manifestazione di dolore collettivo, intensamente popolare, esibito per giorni di fronte al mondo). Un militare integerrimo, Soleimani, che aveva rifiutato la politica per restare tra i suoi soldati, la temutissima brigata Al-Quds, specializzata in operazioni coperte, oltre i confini. L’eroe di Teheran era da tempo nel mirino del Mossad, che ne temeva le mosse d’intesa con Hamas a Gaza e con Hezbollah in Libano. In Iraq, era stato determinante (accanto alle forze coordinate da Trump) nello sconfiggere il Califfato. Idem in Siria: con i russi, l’esercito di Assad e i miliziani sciiti libanesi, Soleimani aveva contribuito in modo decisivo a ripulire il paese dai terroristi inizialmente armati, addestrati e protetti dall’Occidente. Perché sia stato ucciso il 3 gennaio 2020 (e in quel modo, in un paese terzo, con un missile sparato da un drone) resta un mistero.Le fonti mainstream occidentali lo accusano di aver orchestrato, nei giorni precedenti, l’assalto all’ambasciata statunitense di Baghdad. Il governo iracheno smentisce: al contrario, afferma, Soleimani era stato chiamato dall’Iraq per una delicata missione diplomatica. Doveva innanzitutto calmare le acque tra le milizie sciite (alcune ostili al predominio iraniano) e, soprattutto, consegnare un messaggio strategico destinato all’Arabia Saudita, cui Teheran proponeva una de-escalation nella regione. Chi ha ucciso Soleimani, dunque, intendeva tagliare le gambe a una possibile intesa di pace tra la nazione leader degli sciiti e quella dei sunniti? Altre vere spiegazioni, del resto, non giungono da nessun’altra parte: la propaganda mediatica statunitense s’è limitata, in modo imbarazzante, a definire “un terrorista” l’uomo-chiave dell’intelligence militare dell’Iran. Giulietto Chiesa ricorda i propositi omicidi di Yossi Cohen, il capo del Mossad, e cita il senatore repubblicano Lindsay Graham, che ha minacciato Trump: se ritira le truppe Usa dal Medio Oriente, può scordarsi l’appoggio di metà del partito al Senato, quando si dovrà decidere sull’impeachment. Il solito network filo-sionista, che il cospirazionismo chiama impropriamente lobby ebraica?Gianfranco Carpeoro, dirigente del Movimento Roosevelt fondato da Magaldi, fa un’altra ipotesi: sempre sotto la minaccia dell’impeachment (e quindi dell’appoggio condizionato per le imminenti elezioni presidenziali) sarebbe stata proprio la famigerata “Hathor Pentalpha”, annidata nel Deep State americano, a indurre Trump a colpire Soleimani per “rimediare” alla recente, sbandierata uccisione di Al-Baghdadi, esponente della “Hathor”. Una ricostruzione che però non convince Magaldi: «Il network massonico-progressista internazionale, a cui io stesso appartengo – dice – contribuì a far eleggere Trump proprio per tenere lontana la “Hathor” dalle stanze del potere». E inoltre – aggiunge Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – i supermassoni della “Hathor” «continuano a vedere Trump come il fumo negli occhi: impensabile un accordo tra loro e la Casa Bianca». Ma allora, perché Soleimani è stato ucciso proprio ora? Secondo Magaldi, l’episodio fa parte della spietata logica simmetrica della guerra permanente, che è aberrante ma tragicamente coerente: se hai a lungo sfidato la superpotenza egemone (e i suoi terroristi) anche utilizzando milizie pronte a usare il medesimo terrorismo, non puoi non sapere che un giorno potresti cadere sul campo a tua volta, come qualsiasi altro combattente.Soleimani però non era un combattente qualsiasi, era il massimo responsabile della politica dell’Iran sul terreno mediorientale. Di più: era il grande protagonista della riconquista sciita dei territori disastrati dall’imperialismo Usa, tra le macerie della regione petrolifera perennemente funestata dalla piaga dell’irrisolto conflitto israelo-palestinese, spesso usato come alibi da entrambe le parti per perseguire politiche di potenza. «Non è un mistero – dice Magaldi – che i “falchi” israeliani si siano accordati, in passato, anche con i “falchi” iraniani: si finge di combattersi all’infinito, e lo spettro del nemico esterno – vero o presunto – è comodissimo per rafforzare il potere interno». Magaldi invita a esaminare quale fosse il principale referente di Soleimani: l’ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran e capo dell’ala più reazionaria del regime. Gli stessi Pasdaran, di cui la Quds Force di Soleimani è la punta di lancia, rappresentano una bella fetta del potere, anche economico, della teocrazia sciita. Un bersaglio perfetto, il valoroso generale, per chi avesse voluto colpire la radice più intransigente dei “padroni” di Teheran: un capitolo di quella che Federico Rampini chiama “la seconda guerra fredda”, che oggi vede Trump fronteggiare bruscamente la Cina e i suoi alleati. Nel mirino c’è quindi l’Iran, snodo nevralgico del Golfo Persico lungo la nuova Via della Seta. Un paese da quarant’anni ostile agli Usa, e ora alleato con Pechino e Mosca.«Non mi sorprende l’estrema prudenza con cui Cina e Russia hanno reagito all’uccisione di Soleimani», ribadisce Magaldi, il primo a scommettere – a caldo – sul fatto che l’omicidio (benché così eccellente) non avrebbe provocato l’Armageddon bellico paventato da più parti. Violazione del diritto internazionale? Certo: «Sono episodi brutali, ai quali non vorremmo mai assistere, ma – ripeto – in qualche modo simmetrici, e dettati da una spietata logica squisitamente geopolitica». Al punto che oggi Magaldi arriva a sostenere che Trump, vista l’assenza di ritorsioni clamorose da parte dell’Iran (eccetto il bombardamento missilistico solo dimostrativo, su alcune basi statunitensi in Iraq) sia da considerarsi un obiettivo tecnicamente raggiunto, senza troppi danni: «Se volevano liberarsi di Soleimani, ci sono riusciti: e questo è un fatto». Meglio quindi non lasciarsi condizionare dall’emotività, insiste Magaldi: l’indignazione non aiuta a capire cosa si muove veramente, là fuori, oltre il teatro anche sanguinoso delle apparenze. Sempre secondo Magaldi, poi, l’espansionismo sciita – orchestrato dal regime teocratico di Teheran – oltre Atlantico è considerato come speculare, in qualche modo (almeno, nel richiamo esplicito alla legge coranica, interpretata nel modo più drastico) al terrorismo dell’Isis: stessa visione politica violenta, figlia di un’analoga interpretazione fanatica del medesimo credo religioso?Le differenze sono vistose: in Iran non sono all’opera tagliagole. I macellai dell’Isis, messi in campo dall’Occidente, hanno invece terrorizzato per anni interi Stati mediorientali. Per contro, a Teheran resiste un regime che ignora i diritti civili e pratica una brutale censura, mortifica le donne, nega ogni libertà di espressione, reprime il dissenso, tortura e fa sparire i detenuti scomodi. In altre parole una sorta di dittatura, che trae la sua forza proprio dal durissimo assedio al quale è stata ininterrottamente sottoposta a partire dalla comparsa del turbante di Khomeini. Embargo, sanzioni, minacce militari dirette e indirette. Timidi i tentativi di tregua, come lo storico accordo promosso da Obama sul nucleare, ora stracciato da Trump anche col sangue di Soleimani. Se lo spettacolo non è esattamente edificante, Magaldi si sforza di guardare oltre: la vera sfida, ripete, oppone democrazia e oligarchia, progressisti e reazionari. «Un errore imperdonabile, da parte dell’élite globalista, è stato quello di aver concesso alla Cina di entrare, senza nemmeno uno straccio di democrazia formale, nel grande gioco del commercio planetario, permettendole così di diventare una grande potenza». Sbaglia, sostiene Magaldi, chi si limita a puntare il dito contro l’imperialismo americano: la lobby (massonica) che ha costruito questa globalizzazione senza diritti, mettendo in ginocchio anche il lavoro in Occidente con la tragedia delle delocalizzazioni, era composta da oligarchi di svariati paesi, incluso il gigante cinese. E questa cupola è ancora largamente al comando, mettendo in campo soggetti solo formalmente democratici (come l’Ue) e protagonisti geopolitici che non tentano neppure di fingersi ispirati dalla democrazia.La dialettica tra esponenti progressisti e reazionari, aggiunge Magaldi, «attraversa tutti i gangli del vero potere, persino le più importanti strutture di intelligence come la Cia e il Mossad, dove storicamente coesistono anime antitetiche tra loro». Tutto questo avverrebbe molto in alto, a nostra insaputa, e spesso al di sopra dei governi stessi, ridotti a pedine. Anche per questo, forse, è morto il conservatore Qasem Soleimani, leale soldato dell’Iran degli ayatollah? Secondo il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss, teorico dello strutturalismo, tutto è relativo: nessuno può arrogarsi il diritto di decretare quale sia il sistema politico migliore. Quando scriveva le sue opere, però, la globalizzazione non si era ancora manifestata in tutta la sua potenza: il cosiddetto terzo mondo lottava per liberarsi dai suoi parassitari colonizzatori. All’epoca, da Teheran, non partivano Boeing ucraini carichi di studenti iraniani diretti in Canada. Tragedia nella tragedia, l’abbattimento del volo civile nei cieli della capitale iraniana. «Intendiamoci: non è certo una specialità dell’Iran», precisa Magaldi: «Ne sappiamo qualcosa in Italia, con il caso di Ustica». Amato da Godard e Scorsese, il cinema di Kiarostami ha mostrato al mondo un Iran meraviglioso, fatto di umanità e silenzi. Ricordarsi che esiste anche quello, forse, può aiutare a uscire dal buio sanguinoso di un’attualità nutrita di propaganda, ignoranza e rombanti menzogne quotidiane.Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.
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Mazzucco: gli Usa, Stato di polizia travestito da democrazia
Da 15 anni denuncio gli americani come burattinai del terrorismo internazionale. Credo di essere l’unica persona al mondo che ha fatto tre documentari diversi sull’11 Settembre, nei quali, in modo sistematico (implicitamente in due, esplicitamente in uno) accuso gli americani di essere i burattinai del terrorismo internazionale. Il mio antiamericanismo me lo sono cresciuto da solo, e molto prima di conoscere Giulietto Chiesa. Ho vissuto negli Stati Uniti per trent’anni, prima dieci anni a New York e poi vent’anni a Los Angeles. Ero andato a Los Angeles nel ‘94 pensando di trasferirmi in America definitivamente perché volevo fare cinema: non perché l’America mi piacesse in modo particolare, ma perché a Hollywood c’era l’ambiente che pensavo di trovare (poi invece la sorpresa è stata un’altra). Così, ho cominciato comunque a conoscere da vicino questa nazione. Intanto io non ce l’ho con gli americani. Si può dire solo in termini generici che io sarei antiamericano. Gli americani sono un popolo di persone sostanzialmente per bene, magari un po’ fessacchiotti e infantili: come nazione, li paragono a un quindicenne in piena esplosione ormonale. Ce l’ho in particolare con le élite che li controllano, e controllano mezzo mondo, o tre quarti del mondo.Una cosa che mi manca, degli Usa, è l’assenza di burocrazia: la facilità di fare business, se lo vuoi fare, senza impedimenti e senza pastoie. Mia moglie s’era messa a disegnare gioielli fatti a mano, che piacevano. Non ha avuto bisogno di nessuna partita Iva: è andata all’ufficio postale, ha complilato un semplice modulo con il suo codice fiscale, ha pagato 20 dollari e dopo mezz’ora aveva la licenza per vendere i suoi gioielli. Una facilità assoluta, nell’andare incontro alle persone, senza costringerle ad avvalersi del commercialista. Quando feci la mia prima patente di guida americana, avendo già la patente italiana dovevo sostenere solo l’esame scritto, senza guida. Superato il test, all’ufficio di New York pochi minuti dopo c’era già la mia patente pronta. Rimpiango dell’America questo non volerti mettere i bastoni tra le ruote, per tutto quello che è burocrazia: mi manca questa capacità di aiutare il cittadino, che in Italia è impensabile (e forse ha ragioni che risalgono a 500 anni fa). E’ chiaro che imporre uno Stato burocratico dà il potere a chi gestisce la burocrazia: se sei un burocrate che ha in mano tutte le carte, puoi favorire chi vuoi e sfavorire gli altri. Un’arma di ricatto, tant’è vero che in Italia, se hai bisogno di qualcosa, la prima domanda è sempre “non è che conosci qualcuno, al ministero?”.La cosa invece che sono felice di aver lasciato in America è quel fastidio sottile di sapere di vivere in uno Stato di polizia travestito da democrazia. In realtà, tanto apparente è la libertà di pensiero, la libertà di espressione, la cosiddetta libertà democratica che c’è in America, quanto invece è strisciante il ferreo controllo mentale sulle tue opinioni. Nel momento stesso in cui tu “sgarri” ed esci da pensiero mainstream, sei automaticamente considerato un paria. Adesso purtroppo la cosa è arrivata anche qui, perché noi seguiamo sempre di qualche anno quello che avviene negli Stati Uniti. Ma quando ho lasciato gli Usa, sei anni fa, avevo già questa sensazione: non potevi parlare con nessuno, liberamente. Qualunque cosa provassi a dire, di fronte cioè a qualunque argomento controverso, vedevi subito occhi sbarrati e persone che sparivano. E questo dovrebbe essere il grande paese della libertà di espressione? E’ un senso diffuso, quello di non potersi esprimere liberamente. Qui, bene o male, puoi ancora farlo. Se al bar ti metti a discutere sull’11 Settembre, non è che ti guardino per forza come un alieno: magari ti contrastano, ma una discussione puoi farla. La tua posizione è comunque accettata. Là invece scatta una sorta di orrore interiore: appena esci dal pensiero unico, sei automaticamente da cancellare dalla società. E questo è molto pesante, specialmente per uno come me, che la pensa diversamente su molti argomenti.Il mio non è un antiamericanismo a priori, le mie opinioni sono argomentate. Dal 2004, quando ho aperto il blog “Luogo Comune”, denuncio i crimini statunitensi: l’invasione americana dell’Iraq ha fatto più di un milione di morti, tra le vittime civili. Mi sembra di aver sempre giustificato, con i dati di fatto, le mie posizioni. Si dice che Qasem Soleimani non avrebbe combattuto l’Isis, e che anzi avrebbe contribuito a farlo crescere? Quando qualcuno ne porterà le prove, sarò ben felice di cambiare idea su Soleimani. Trump è stato incastrato e obbligato a mettere la firma sull’operazione Soleimani dopo che è avvenuta? Non c’è niente di irragionevole, in questa ipotesi. Queste operazioni possono essere giustificate da una impellenza immediata. Cioè: i militari possono tranquillamente aver fatto fuori Soleimani sensa avvisare Trump (cosa che io continuo a pensare che sia successo), mettendolo di fronte al fatto compiuto, dicendogli: si è presentata un’occasione irripetibile per ucciderlo, sulla via dell’aeroporto di Baghdad, senza massacrare civili innocenti. A quel punto, il presidente cosa fa? O denuncia i militari di averlo aggirato, perdendo così le prossime elezioni dimostrando di non essere capace di controllare il Pentagono, oppure abbozza e ci mette la firma.La prima reazione di Trump non è stato un tweet per rivendicare l’uccisione del “cattivo” Soleimani. Su Twitter ha solo pubblicato la foto di una bandiera americana, senza nessuna scritta e senza intestarsi niente. Strano, per uno che “cinguetta” così tanto. Secondo me, Trump stava ancora cercando di capire cosa fosse successo. Quando l’ha capito, non gli è rimasto altro da fare che fingere che l’avesse deciso lui. Uno può sposarla o meno, questa ipotesi, ma è tutt’altro che irragionevole. Apprezzo la reazione missilistica dell’Iran dopo l’omicidio di Soleimani: un atto dimostrativo, che conferma la capacità chirurgica dell’Iran di colpire le basi militari americane nella regione, ma in questo caso senza l’intenzione di provocare vittime. Il Boeing colpito nei cieli di Teheran? In attesa di sapere cosa sia accaduto veramente, dobbiamo intanto registrare le scuse solenni e ufficiali dell’Iran per quello che viene definito un tragico errore. Anche gli Usa abbatterono un volo civile, sotto Clinton, ma il Pentagono smentì le iniziali ammissioni del presidente. E dopo 40 anni aspettiamo ancora le scuse (e la verità) per Ustica.L’Iran sostiene che l’errore – imperdonabile – sia stato causato dallo stato di tensione innescato dagli Usa con l’omicidio del generale Soleimani. Attenzione, Soleimani era a Baghdad in missione diplomatica ufficiale: secondo l’ex primo ministro iracheno Mahdi, stava portando a Baghdad un accordo di de-escalation, quindi di pacificazione, fra l’Iran e l’Arabia Saudita, cioè i maggiori portavoce (sciita e sunnita) che si confrontano a distanza, in Medio Oriente, ovviamente con Israele che sta dalla parte dei sauditi contro l’Iran. Quindi Soleimani in quel momento era un diplomatico, in missione diplomatica. E se c’è una cosa che non si fa, in tutto il mondo, nonostante lo schifo delle guerre, è uccidere i diplomatici: è una regola che vale da sempre. Infatti, lo stesso Soleimani si era esposto alla possibilità di essere colpito: pensava che non avrebbero mai osato fare un’azione del genere. Era convinto di essere sotto immunità diplomatica: in questo sta la gravità dell’accaduto. Poi non so dire quanto fosse criminale, Soleimani, ma – a quel livello – nessuno è uno stinco di santo: non ci sono buoni e cattivi, si combattono guerre pesantissime da 30-40 anni, nella regione petrolifera, ma niente giustifica un atto del genere.Un senatore repubblicano ha protestato apertamente, in televisione, perché una commissione senatoriale americana non ha ottenuto risposte dal Pentagono sui motivi dell’uccisione di Soleimani. La commissione verifica l’azione dei militari e può quindi riferire al Parlamento, dunque ai cittadini, cosa succede. Lo scopo della commissione non è far rivelare al Pentagono i suoi segreti militari, ma è quello di verificare (a porte chiuse) quali sono i motivi che hanno spinto i militari a compiere una determinata operazione. Dopodiché, i senatori possono assicurare di aver ricevuto spiegazioni valide, sia pure non divulgabili per ovvie ragioni di sicurezza nazionale. Invece questo senatore, uscito dai lavori della commissione, ha detto: «Ci hanno dato solo 75 minuti di tempo». Il Pentagono aveva parlato di un “attacco imminente” progettato da Soleimani? Protesta il senatore: «Ogni volta che chiedevamo dov’era, questo attacco imminente, chi lo avrebbe dovuto compiere e contro quale obiettivo, non ci rispondevano. E in più – riferisce sempre il senatore – ci hanno hanno anche detto: “Non permettetevi mai più di dubitare delle nostre scelte militari per un futuro, eventuale attacco all’Iran”». E questo è un senatore repubblicano: non un democratico, che potrebbe avere interesse a contestare l’amministrazione Trump. Ribadisce: al Senato, il Pentagono non ha offerto alcuna giustificazione per l’omicidio del generale Soleimani.(Massimo Mazzucco, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Mazzucco Live” dell’11 gennaio 2020, su YouTube. Mazzucco è autore di documentari come “11 settembre 2001 – Inganno globale” uscito nel 2006, “Il nuovo secolo americano” del 2007 e “11 Settembre – La nuova Pearl Harbor”, del 2013).Da 15 anni denuncio gli americani come burattinai del terrorismo internazionale. Credo di essere l’unica persona al mondo che ha fatto tre documentari diversi sull’11 Settembre, nei quali, in modo sistematico (implicitamente in due, esplicitamente in uno) accuso gli americani di essere i burattinai del terrorismo internazionale. Il mio antiamericanismo me lo sono cresciuto da solo, e molto prima di conoscere Giulietto Chiesa. Ho vissuto negli Stati Uniti per trent’anni, prima dieci anni a New York e poi vent’anni a Los Angeles. Ero andato a Los Angeles nel ‘94 pensando di trasferirmi in America definitivamente perché volevo fare cinema: non perché l’America mi piacesse in modo particolare, ma perché a Hollywood c’era l’ambiente che pensavo di trovare (poi invece la sorpresa è stata un’altra). Così, ho cominciato comunque a conoscere da vicino questa nazione. Intanto io non ce l’ho con gli americani. Si può dire solo in termini generici che io sarei antiamericano. Gli americani sono un popolo di persone sostanzialmente per bene, magari un po’ fessacchiotti e infantili: come nazione, li paragono a un quindicenne in piena esplosione ormonale. Ce l’ho in particolare con le élite che li controllano, e controllano mezzo mondo, o tre quarti del mondo.