Archivio del Tag ‘coesione’
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Fondi-fantasma, Ue: il bilanco del Sacro Romano Impero
Tutti sappiamo che l’Europa ci frega, ma non immaginiamo fino a che punto la truffa è raffinata. Oh, certo, sì… paghiamo con un euro di debito una banca, per la quale, se quella moneta vale 10 centesimi, è già tutto grasso che cola. Anche una banconota da 500 euro costa pressappoco qualche centesimo, ma il guadagno è maggiore: se poi è denaro elettronico… puf! Non costa niente. E ti sei indebitato per il valore nominale. Un sistema come questo, però, richiede che la gente ci creda, che non possa farne a meno, che abbia paura se taglia i legami con la banca strozzina. Per fare questo, ci vogliono fior di politici e di giornalisti: e chi paga? Sempre noi, paghiamo anche le fruste dei nostri aguzzini. Mai dato uno sguardo ai bilanci dell’Ue? L’Ue è “prodiga e trasparente”, quando si tratta di mostrare quanto sono buoni e onesti con noi, salvo che – come in ogni gioco di un prestigiatore – il trucco c’è, ma non si vede. E non parlo d’ingegneria finanziaria: è più semplice, ma efficientissimo. Vediamo, anzitutto, quanto versano e ricevono i vari paesi, annualmente, all/dall’Ue, considerando che una parte viene restituita sotto forma di finanziamenti. Ogni anno (dati 2015) la “tassa” che l’Italia paga per rimanere nell’Ue è di circa 14-15 miliardi di euro, mentre quelli che ci ritornano sono circa 12-13.Così, adesso abbiamo ben cinque livelli di tassazione: Europa, Stato italiano, Regioni, Province (ora “Enti di vasta area”) e Comuni: una bella zuppa, non c’è che dire. Perché, se l’Italia è un paese “in gravi difficoltà” per quanto riguarda il debito pubblico, non riceve più di quanto dà? La Grecia, difatti è nel novero dei “riceventi”, come del resto l’Estonia, che non ha praticamente debito pubblico. Mistero. Chissà poi perché la Spagna riceve parecchio di più rispetto a quanto versa… Insomma, è un guazzabuglio senza senso, dove sembra che più dei dati oggettivi – di bilancio o di bisogno – contino di più appoggi ed alleanze con paesi potenti. Un altro aspetto è che – con un paio di eccezioni – tutti i paesi dell’area euro sono a saldo negativo, mentre i paesi fuori dall’euro sono a saldo positivo: la Polonia, ad esempio, riceve 9 miliardi in più di quanto versa, (l’ammontare del RdC tanto contestato all’Italia), che insieme alla Grecia non ha mai avuto un serio assegno di disoccupazione, quale il RdC è. Si vede che il detto “se lo conosci lo eviti”, riferito all’euro, si è fatto strada e… devono far vedere che sono prodighi! Ci piacerebbe anche sapere come mai il signor Juncker s’arrabbia così tanto per l’Italia quando il suo paese – che è un paradiso fiscale nel bel mezzo dell’Europa – versa pochissimo: eh già, i lussemburghesi sono pochi e il Pil è scarso… in compenso, i bilanci delle banche sono astronomici.Tutti i paesi a forte penetrazione economica tedesca (soprattutto industriale) sono a saldo positivo: così è anche per la Spagna, dove i capitali germanici hanno investito in lungo ed in largo. Ma… ciò che riceviamo? Sono pur sempre una dozzina di miliarduzzi… Vediamo come l’Ue li ripartisce per aree economiche. L’Ue riceve, complessivamente, circa 155 miliardi l’anno dagli Stati membri, però i bilanci sono settennali. Perché? Forse un “ricordo” dei piani quinquennali sovietici? Mistero. Ciò che più è importante è notare la ripartizione del bilancio di previsione 2014-2020, che supera la fantasmagorica cifra di 1.000 miliardi di euro e che aumenta ogni anno di 4 miliardi. Beati loro: lo sanciscono per editto, come gli imperatori del Sacro Romano Impero. Curiosità (ma non troppo): l’Ue spende – ogni anno – circa 4 miliardi in compensi, cioè stipendi. Riteniamo che, nella cifra, ci siano sia i politici che i burocrati… oppure i secondi sono pagati con i 10 miliardi annui dell’amministrazione? E Global Europe, cos’è? Sono più di 9 miliardi annui spesi per l’immagine dell’Ue nel mondo e per le spese conseguenti: un bel mistero, visto che l’Ue non ha un’unica politica estera e non è nemmeno un’entità statuale, federale o confederale. E allora?Rimangono pochi spiccioli – circa 2,5 miliardi l’anno – per sicurezza e cittadinanza e ben 20 miliardi l’anno per crescita e lavoro. Ma veniamo alle due ripartizioni principali, che sono, rispettivamente, la prima più legata agli aspetti industriali (Coesione, ecc) e la seconda all’agricoltura, che si “beccano” la prima circa 50 miliardi l’anno e la seconda addirittura circa 60 miliardi tondi tondi l’anno. Cosa ci fanno? Beh, se notate la sfilza di finanziamenti a fondo perduto, capite subito che si tratta di soldi dati a soggetti pubblici o altri grandi investitori privati. L’Europa, ai piccoli imprenditori o, comunque, a qualcuno che non abbia dietro “consistenti” appoggi politici, non dà una mazza. Due brevi esempi. Due ragazze avevano deciso d’avviare un’attività legata al loro territorio (Langa), ossia una stalla dove allevare capre per fare formaggi caprini: ci sono riuscite – e adesso vendono le loro formaggette – ma le hanno aiutate le loro famiglie. Pur bussando più volte a molte porte, non hanno ottenuto nulla dalla “grande” Europa. Nella seconda fui coinvolto personalmente.L’idea, partita da una parrocchia, era quella di creare una cooperativa fra ex carcerati che si occupasse di restauro ligneo: fui interpellato come esperto del settore (provengo da una famiglia d’antiquari) insieme ad un amico restauratore. Credevamo, essendo le uniche persone esperte, di dirigere la struttura ma non era così: la direzione generale della struttura era affidata ad un “diacono” che nessuno conosceva. Incontrai questo “diacono”, m’offrì una grappa e mi disse: «Tanto è inutile che voi pretendiate la direzione, perché “noi” riceveremo i fondi europei, voi mai». Bevvi d’un sorso la grappa e lo salutai. A mai più. Quella enorme massa di denaro che viene elargita per vari “progetti” non è altro che una colossale regalia al potere politico di una nazione, allo scopo di garantirsi la fedeltà assoluta ai dettami europei. I mille capannoni abbandonati, cosa furono? Altrettante tangenti o, comunque, “provvigioni” ottenute da “progetti” che erano inconsistenti, privi d’utilità economico-sociale, buoni solo per finanziare questo o quello, europeisti convinti, ovvio.Infine, c’è la bella favola del Fondo Sociale Europeo – il quale, per sua definizione, potrebbe essere usato anche per il RdC – ma no, non s’ha da fare. Perché? Perché la gestione del Fse era delle Regioni, poi delle Province… e adesso? Sono i famigerati “centri per l’impiego”, ossia posti dove una miriade di burocrati s’affannano per farti credere che il lavoro si troverà… a patto di fare quel certo corso d’aggiornamento, tenuto dal luminare universitario, pagato profumatamente, mediante il quale magari ti daranno anche un punteggio. E tu mangiaci, col punteggio. Mentre loro sono i veri destinatari del Fse: erano la base elettorale dei partiti che prima erano al governo e che temono un’affermazione dei sovranisti alle prossime elezioni europee. Finisce la pacchia? Vedremo. Un bilancio europeo siffatto serve soltanto a un trasferimento di denaro, che passa dai fondi pubblici alle tasche private: difatti, l’Europa è il continente che più esporta capitali nei paradisi fiscali (Isole Cayman, ecc). Ben 2.600 miliardi di dollari! Pronti, all’evenienza, ad acquistare stock di debito pubblico di un certo paese, oppure a venderli: così si ottiene il controllo di un continente, mediante lo spread ed il tipico atteggiamento dei cravattari.Del resto, cosa ci si può aspettare da un uomo (Juncker) che ha promosso l’elusione fiscale per le grandi aziende, nel suo paese e nel resto d’Europa, documentata da un’inchiesta di ben 80 giornalisti di 26 paesi, e un processo nel quale i giudici (lussemburghesi) hanno condannato…i giornalisti che avevano indagato?! Ora, torniamo a noi ed a quel famoso 2,4% che ha fatto infuriare Juncker: una nazione, pesantemente indebitata (come quasi tutti i grandi paesi europei), decide – dopo anni d’inconcludenti restrizioni economiche – di provare la via keynesiana, ossia di fornire risorse alle fasce più deboli della popolazione affinché, visto che quei soldi finiranno spesi per necessità (e non alle Cayman!), si possa innalzare la crescita e, in questo modo, ridurre il rapporto debito-Pil. E’ un tentativo plausibile? L’alternativa? Continuare in ristrettezze con il debito che sempre aumenta? Crediamo che Juncker sia arrabbiato, perché loro campano proprio sul debito altrui, come gli usurai: se qual debito non ci fosse, si dovrebbe inventarlo! Però, c’è un però.Per la prima volta sono giunti al potere partiti anti-europeisti: non tanto per principio, quanto per la miseria che è diventata questa Europa, che va sempre peggio, nella quale l’Indice di Gini (la disuguaglianza sociale) è sempre in aumento, nella quale in ogni paese s’avvertono solo “necessità di tagliare”, via welfare, via scuole, via ospedali… Il guaio è che è capitato in un grande paese: l’Italia. Al punto che, se si dovesse giungere ad uno scontro veramente duro, quel paese potrebbe sottoporre ai suoi elettori un referendum consultivo (come per il referendum consultivo per l’adesione, nel 1989) e decidere, vista l’impossibilità di rimanere insieme, d’andarsene. E sarebbe la fine dell’Unione Europea. Alcuni burocrati europei l’hanno capito (Moscovici, ad esempio, più “morbido”) mentre Juncker – che non è un gran politico, la sua formazione è prevalentemente economica – sembra non volerlo capire. Alle prossime elezioni europee lo capirà: coraggio, Juncker, non è mai troppo tardi!(Carlo Bertani, “I bilanci del Sacro Romano Impero”, dal blog di Bertani del 2 ottobre 2018).Tutti sappiamo che l’Europa ci frega, ma non immaginiamo fino a che punto la truffa è raffinata. Oh, certo, sì… paghiamo con un euro di debito una banca, per la quale, se quella moneta vale 10 centesimi, è già tutto grasso che cola. Anche una banconota da 500 euro costa pressappoco qualche centesimo, ma il guadagno è maggiore: se poi è denaro elettronico… puf! Non costa niente. E ti sei indebitato per il valore nominale. Un sistema come questo, però, richiede che la gente ci creda, che non possa farne a meno, che abbia paura se taglia i legami con la banca strozzina. Per fare questo, ci vogliono fior di politici e di giornalisti: e chi paga? Sempre noi, paghiamo anche le fruste dei nostri aguzzini. Mai dato uno sguardo ai bilanci dell’Ue? L’Ue è “prodiga e trasparente”, quando si tratta di mostrare quanto sono buoni e onesti con noi, salvo che – come in ogni gioco di un prestigiatore – il trucco c’è, ma non si vede. E non parlo d’ingegneria finanziaria: è più semplice, ma efficientissimo. Vediamo, anzitutto, quanto versano e ricevono i vari paesi, annualmente, all/dall’Ue, considerando che una parte viene restituita sotto forma di finanziamenti. Ogni anno (dati 2015) la “tassa” che l’Italia paga per rimanere nell’Ue è di circa 14-15 miliardi di euro, mentre quelli che ci ritornano sono circa 12-13.
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Magaldi: democrazia, non “sovranismo”. O rivince l’élite
Sovranista a chi? Se accettate di lasciarvi chiamare in quel modo, fate un favore proprio a quei poteri oligarchici che vorreste combattere. Parola di Gioele Magaldi, che avverte: c’è un equivoco, “sovranismo” non è affatto sinonimo di “sovranità”. Che senso avrebbe, ad esempio, tornare alla lira, se la moneta nazionale fosse gestita nel modo sciagurato che fu introdotto nel 1981 dai massoni Ciampi e Andreatta ben prima dell’avvento dell’euro? Un avviso a Giorgia Meloni: va bene restituire dignità all’Italia, ma senza «nostalgie “conservatrici” per chissà quale buon tempo andato». L’ex guru di Trump, Steve Bannon? «Un personaggio folkloristico e anche simpatico», il promotore di “The Movement”, network che si propone di coordinare la carica “sovranista” alle prossime europee. Ma siamo sicuri che, dietro certe manovre, non ci sia lo zampino dei soliti noti? In fondo è comodo, il recinto del sovranismo. Molto più scomodo – e più utile per tutti – sarebbe invece costringere un oligarca come Mario Draghi a usare finalmente l’euro a beneficio del popolo, non delle banche. Se c’è una cosa di cui quell’establishment marcio ha davvero paura, sottolinea Magaldi, non è l’ambiguo sovranismo, ma la cara, vecchia sovranità democratica: che pure avevamo, e che ci è stata confiscata dall’élite neoliberista, dominata dai massoni neo-aristocratici che negli ultimi trent’anni hanno cancellato l’idea stessa di Europa unita.Autore del bestseller “Massoni”, che rivela il grande potere di 36 superlogge sovranazionali nella cabina di regia della globalizzazione imposta “a mano armata”, senza diritti, Magaldi – massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt – fornisce la sua personale lettura dell’attualità ai microfoni di “Colors Radio”: lo stesso Isis, sostiene, è un progetto criminale coltivato dalla parte peggiore di quei cenacoli occulti, pronti a ricorrere persino all’orrore del terrorismo stragista per alimentare la guerra globale cui stiamo assistendo, gestita da interessi economici che si riparano dietro il paravento delle nazioni. Supermassoni reazionari, che sono riusciti a far rimangiare, all’Occidente, le conquiste inaugurate proprio da Roosevelt – l’economia espansiva fondata sul deficit positivo, secondo la ricetta del massone progressista Keynes – e la “Great Society” dello stesso Lyndon Johnson, alimentata dalle idee e dal coraggio di Bob Kennedy e Martin Luther King. L’Unione Europea? Capolavoro dell’élite neo-aristocratica, il più subdolo dei poteri: finto-progressista e finto-democratico. Pronto, oggi, anche a liquidare la nascente opposizione con la più comoda delle etichette, il “sovranismo”, che di fatto «è una falsa moneta», liberamente circolante – anche nell’Italia gialloverde – grazie a quegli stessi democratici che accettano di farsi chiamare “sovranisti”.«E a proposito di false monete», Magaldi ricorda di esser stato il primo, in tempi non sospetti, ad anticipare la “profezia” oggi rilanciata da Steve Bannon: l’Italia come unico punto di partenza possibile, in Europa, per una grande riscossa popolare. «Ma la riscossa che ha in mente Bannon – precisa Magaldi – non è quella di cui parlo io e di cui parlano i massoni limpidamente democratici: quella che abbiamo in mente noi è una rivoluzione democratica che vada a risvegliare la democrazia sostanziale, non soltanto in un paese ma in istituzioni sovranazionali che devono essere funzionanti per contrastare poteri privati altrettanto sovranazionali». Attenti alle “monete fasulle”, insiste Magaldi: in fondo, fanno comodo «a quelle élite apolidi e post-democratiche, anzi antidemocratiche, che poi sono le élite di natura massonica contro-iniziatica che si dicono europeiste ma invece hanno distrutto il sogno degli Stati Uniti d’Europa». Equivoci a reti unificate, sui media mainstream: «Adesso sembra che la contrapposizione sia, da una parte, tra tutti coloro che amano i valori democratici e progressisti, liberali, “politically correct”, e dall’altra i “sovranisti”, che sarebbero dei nazionalisti un po’ beceri e un po’ xenofobi, ripiegati su se stessi e incapaci di cogliere l’importanza delle costruzioni sovranazionali».«Quando in tanti accettano di farsi definire “sovranisti” sembra che le cose stiano così, ma non è vero», sostiene Magaldi: «Ciò che conta è la sovranità del popolo, che significa democrazia. E si può declinare tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale o sovranazionale. Anzi: per contrastare questo tipo di globalizzazione, di segno post-democratico e neo-aristocratico, servono strutture pubbliche, politiche, legittimate dal popolo». Strutture di caratura anche sovranazionale, ribadisce Magaldi, «perché a chi possiede le armi atomiche non si fa la guerra con archi e frecce, da un avamposto locale o nazionale», per di più «in un contesto nel quale si muovono forze che penetrano le nazioni e riescono addirittura, dentro le nazioni, a creare dei cavalli di Troia o delle quinte colonne che poi ti levano la sedia da sotto il sedere». La parola da usare, oggi, è un’altra – sovranità popolare – declinata in Italia e nel resto del mondo, senza frontiere. «E a tutti coloro che tacciano i loro nemici di “sovranismo”, chiederei: ma perché, voi non siete per la sovranità popolare? Siete per la sovranità di gruppi oligarchici apolidi e sovranazionali?».Meglio essere chiari, dice sempre Magaldi: «Chi si schiera tra i conservatori e contro la sovranità popolare evidentemente ha in mente una idea di governance (locale, globale, nazionale) di tipo neo-aristocratico: ed è proprio nel passato conservatore, tradizionalista, che le pulsioni democratiche si sono dovute affermare con fatica». D’ora in avanti, annuncia l’autore di “Massoni”, il Movimento Roosevelt «farà una campagna politico-pedagogica proprio su questi temi, e anche sul termine “sovranista”». E insiste: «È un equivoco, il sovranismo: il rispetto per la sovranità popolare dovrebbe essere patrimonio condiviso di tutti». La prima a calpestarla, la nostra sovranità, è proprio l’antidemocratica Unione Europea, «gestita da personaggi impresentabili come frontman delle istituzioni: personaggi screditati e davvero indegni di rappresentare il grande sogno europeo». Punto primo: bocciare un’Europa «dove la Bce è l’organo più potente di comando», e dove il Parlamento Europeo non conta quasi niente eppure «si esprime in modo vergognoso, come ha appena fatto nel caso della legge sul copyright, la censura sul web». Il punto di svolta? «Una Costituzione politica europea, che imponga di usare l’euro per favorire il benessere collettivo». Sarebbe la fine della speculazione contro gli Stati, la fine del ricatto dello spread. Ora più che mai, servirebbe «una coesione europea in grado di avere anche una politica estera comune», e invece «oggi non c’è nessuna Europa».Il recupero della democrazia, riconosce Magadi, passa certamente per il ritorno alla sovranità monetaria: «La moneta – europea o nazionale, non importa – deve essere amministrata dai rappresentanti del popolo». Le banche centrali? Già prima dell’Eurozona erano «degenerate in un potere autonomo, un potere che poi è diventato sovraordinato addirittura a quello delle istituzioni politiche democratiche». Così le banche centrali hanno tradito il loro mandato: «Dovevano invece, in ultima istanza, rispondere alle esigenze dei popoli sovrani». Rivendicare un ritorno alla lira? Inutile, se poi la moneta nazionale non viene gestita in termini democratici. Magaldi ricorda «il famigerato divorzio tra Bankitalia e ministero del Tesoro del 1981, favorito dai massoni Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, che agivano per conto di circuiti massonici non progressisti bensì neo-aristocratici». Quello strappo determinò già negli anni ‘80 «un aggravio enorme per le casse dello Stato, in termini di interessi sul debito pubblico», visto che la banca centrale «smetteva, in fondo, di garantire l’acquisto dei titoli di Stato italiani». Già quello, osserva Magaldi, era un modo per mettere la lira in difficoltà.Quindi, più che tornare alla valuta nazionale, «bisognerebbe preoccuparsi di rendere l’euro una moneta che dipenda da un potere politico democraticamente legittimato». E cioè: bisogna smettere di avere un euro «che viene gestito a discrezione della Bce, senza che nessun potere politico democraticamente legittimato possa intervenire». La Banca Cebntrale Europea? Lo sappiamo: «Pur essendo un istituto di diritto pubblico è proprietà anche di privati e risponde a logiche del tutto apolidi, sovranazionali, sganciate da qualunque livello politico democratico: questo è il problema. Finora, l’euro è stato governato da «quel funesto personaggio di Mario Draghi, che ha utilizzato la moneta europea per favorire sostanzialmente banche e interessi finanziari». Ha grandi colpe, il “venerabile” Draghi, spesso spacciato come paladino dell’Italia. Niente di più falso. Non c’era affatto il benessere del Balpaese, nella “mission” del super-tecnocrate di Francoforte, “regista” delle privatizzazioni italiane dall’epoca del Britannia, poi passato dal Tesoro a Bankitalia, alla Goldman Sachs, alla Bce. «Draghi non ha mai pensato di fare in modo che da questa moneta potesse venire un rilancio economico sociale del continente stesso. E allora, poi, si capisce perché la gente abbia vagheggiato il ritorno alla lira».La moneta, però, resta un mezzo. Il problema vero? E’ il timone politico: «Una Costituzione europea democratica, e un Parlamento Europeo che emani democraticamente un Consiglio dei ministri, mettendo fine a queste farlocche Commissioni Europee, che sono degli ibridi che non dicono nulla». Il vero obiettivo, chiarisce Magaldi, è un governo europeo finalmente legittimato dal voto popolare. Un euro-governo democratico, «che abbia il potere di indirizzare le strategie della Bce e di utilizzare la moneta euro a favore dei popoli, e non contro i popoli». Come arrivarci? Magaldi, nonostante tutto, si mostra fiducioso nelle piccole crepe che il governo gialloverde sta aprendo, nel Muro di Bruxelles. E saluta con favore il possibile avvento di Marcello Foa alla presidenza della Rai: «Non condivido alcune sue idee, ma mi risulta che sia un uomo libero: come presidente Rai sarebbe di gran lunga migliore dei suoi predecessori». Da giornalista indipendente, Foa è stato tra i primi a dare il benvenuto alla speranza gialloverde, intesa come possibile recupero di sovranità democratica. Tutto giusto, secondo Magaldi, a patto che si abbia ben chiaro il fatto che l’establishment italiano ha adottato gli stessi metodi dell’aborrita oligarchia europea: «Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, si permette il lusso di dire che non bisogna sforare i parametri di spesa, del tutto irrazionali e vessatori, stabiliti dagli euro-burocrati. La Banca d’Italia che detta le regole al governo? Deve accadere esattamente il contrario».Sovranista a chi? Se accettate di lasciarvi chiamare in quel modo, fate un favore proprio a quei poteri oligarchici che vorreste combattere. Parola di Gioele Magaldi, che avverte: c’è un equivoco, “sovranismo” non è affatto sinonimo di “sovranità”. Che senso avrebbe, ad esempio, tornare alla lira, se la moneta nazionale fosse gestita nel modo sciagurato che fu introdotto nel 1981 dai massoni Ciampi e Andreatta ben prima dell’avvento dell’euro? Un avviso a Giorgia Meloni: va bene restituire dignità all’Italia, ma senza «nostalgie “conservatrici” per chissà quale buon tempo andato». L’ex guru di Trump, Steve Bannon? «Un personaggio folkloristico e anche simpatico», il promotore di “The Movement”, network che si propone di coordinare la carica “sovranista” alle prossime europee. Ma siamo sicuri che, dietro certe manovre, non ci sia lo zampino dei soliti noti? In fondo è comodo, il recinto del sovranismo. Molto più scomodo – e più utile per tutti – sarebbe invece costringere un oligarca come Mario Draghi a usare finalmente l’euro a beneficio del popolo, non delle banche. Se c’è una cosa di cui quell’establishment marcio ha davvero paura, sottolinea Magaldi, non è l’ambiguo sovranismo, ma la cara, vecchia sovranità democratica: che pure avevamo, e che ci è stata confiscata dall’élite neoliberista, dominata dai massoni neo-aristocratici che negli ultimi trent’anni hanno cancellato l’idea stessa di Europa unita.
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Gli italiani tifano per il governo, chi ha “rotto” l’Italia lo odia
Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole (l’aria serena, dopo la tempesta). Chi l’avrebbe mai detto? L’Italia ha un governo italiano, interamente italiano, di cui gli italiani sembrano contenti se non addirittura orgogliosi, quando finalmente risponde a tono a quel villanzone di Macron, l’ex bankster di casa Rothschid che oggi ha la pretesa di parlare a nome dei francesi. Da quanto tempo non accadeva che gli italiani non fossero costretti a tollerare l’incolore governo in carica? All’epoca di Berlusconi, più della metà del paese si vergognava delle sortite quotidiane del primo ministro. Regnante il suo finto antagonista, Romano Prodi, i suoi stessi elettori ingoiavano, rassegnati, la delusione per le mancate riforme di segno progressista, sostituite regolarmente da spiacevolissimi “sacrifici” sempre imposti, con la collaborazione dei sindacati, agli strati più deboli della società. Poi finì anche quel tipo di spettacolo, e dalla commedia si passò alla tragedia (greca) con l’alto commissario Mario Monti, l’inviato speciale della Germania incaricato di mettere in ginocchio l’Italia, obbligandola ad accettare la crisi come condizione naturale, fisiologica, per un paese rappresentato come inguaribilmente latino, cioè corrotto e chiacchierone, incapace di autodiscipina.Era solo una recita, orrenda. Ma durò anche troppo: il tempo di devastare il Pil e azzoppare l’industria, far sparire il lavoro, far chiudere i negozi e massacrare le pensioni. Un terremoto: erosi i risparmi, crollato il valore degli immobili. Il futuro come incertezza e paura. Poi, dopo il macellaio, vennero i leader tipidi. Il loro compito: ripulire le strade dal sangue, e i telegiornali dalle immagini delle mense della Caritas affollate di esodati e disoccupati sessantenni. Il paese svenduto e smembrato, le serrande abbassate al ritmo di migliaia all’anno. Che poteva farci, il povero Enrico Letta – devoto, come il macellaio – alle stesse regole del rigore imposte dai medesimi poteri? E che altro poteva fare, se non chiacchiere, il suo ambiziosissimo ma vacuo pugnalatore Matteo Renzi? Non una parola, ad esempio, per ripulire la Costituzione dalla lordura del pareggio di bilancio, che umilia la democrazia italiana. Non una sillaba neppure sul Fiscal Compact, analoga punizione biblica inflitta all’Italia sempre dal macellaio e dai suoi tenebrosi mandanti europei, gente che non ha esitato a ridurre alla fame un paese come la Grecia, rimasta senza più neppure i medicinali salvavita per i bambini.Renzi? Fidatevi, annunciò con largo anticipo l’ex ministro socialista Rino Formica: al referendum finirà asfaltato dai “no”, e il suo successore a Palazzo Chigi sarà designato dal Vaticano. Ed ecco quindi Paolo Gentiloni, come previsto dal profeta Formica: l’impalpabile Gentiloni, i cui mormorii sono talmente piaciuti, agli elettori, da far dimezzare il consenso del suo partito, oggi completamente smarritosi tra le brume minacciose di un paese caduto tra le fauci dell’orco sovranista, il Moloch populista che turba i sonni degli eurocrati e dei loro patetici valletti nostrani. Hanno letteralmente sfasciato l’Italia, e accusano i 5 Stelle di velleitarismo pasticcione. Hanno spolpato e svenduto il paese, disarticolando la sua capacità produttiva: oggi in Italia i poveri assoluti sono 5 milioni, numero abnorme che racconta alla perfezione la tragedia di una società devastata, flagellata dalla piaga di una disoccupazione che non ha eguali nella storia della repubblica. Eppure, anziché tacere (ed eventualmente sparire per sempre, almeno dalla scena politica e mediatica) hanno la faccia di bronzo di dare del fascista a Matteo Salvini, il ministro che ha chiesto all’Europa di smetterla di accollare alla sola Italia l’immenso onere dell’accoglienza dei migranti mediterranei.Chissà come li avrebbe giudicati, gli sguaiati squadristi televisivi, un grande giornalista indipendente come l’ex partigiano Giorgio Bocca, regolarmenre fuori dal coro e mai allineato, nella sua lunga carriera, a nessun comodo mainstream. Certo, lo spettacolo racconta una dissonanza cognitiva sconcertante: il paese è a pezzi per colpa di un regime appena caduto, e la cosiddetta informazione spara addosso ai politici che si sono assunti l’onere della ricostruzione. L’eredità di Prodi e Berlusconi, Monti e Renzi rappresenta un disastro molto superiore alle capacità riparatorie di Salvini e Di Maio? Ma almeno questi due outsider hanno accettato la sfida: ci stanno provando. Falliranno? Difficile dirlo. Finiranno anch’essi fagocitati e manipolati dal potere-ombra, dal “pilota automatico” che ha sapientemente declassato l’Italia distraendo l’opinione pubblica dai crimini commessi contro la comunità italiana? Tutto, oggi, sembra dire il contrario. Tutto lascia sperare in un impegno serio e coraggioso per il recupero della sovranità perduta. E fa impressione il consenso di cui oggi gode il governo Conte: per la prima volta, dopo secoli, un esecutivo in carica è sostanzialmente incoraggiato dal 70% della popolazione. Al di là di come andrà a finire, non s’era mai vista una simile coesione nazionale, in tutti i 25 anni dell’infelice, ingloriosa, infame Seconda Repubblica.Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole (l’aria serena, dopo la tempesta). Chi l’avrebbe mai detto? L’Italia ha un governo italiano, interamente italiano, di cui gli italiani sembrano soddisfatti se non addirittura orgogliosi, quando finalmente risponde a tono a quel villanzone di Macron, l’ex bankster di casa Rothschild che oggi ha la pretesa di parlare a nome dei francesi. Da quanto tempo non accadeva che gli italiani non fossero più costretti a tollerare l’incolore governo in carica? All’epoca di Berlusconi, più della metà del paese si vergognava delle sortite quotidiane del primo ministro. Regnante il suo finto antagonista, Romano Prodi, i suoi stessi elettori ingoiavano, rassegnati, la delusione per le mancate riforme di segno progressista, sostituite regolarmente da spiacevolissimi “sacrifici” sempre imposti, con la collaborazione dei sindacati, agli strati più deboli della società. Poi finì anche quel tipo di spettacolo, e dalla commedia si passò alla tragedia (greca) con l’alto commissario Mario Monti, l’inviato speciale della Germania incaricato di mettere in ginocchio l’Italia, obbligandola ad accettare la crisi come condizione naturale, fisiologica, per un paese rappresentato come inguaribilmente latino, cioè corrotto e chiacchierone, incapace di autodisciplina.
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Spread e Salvini, la paura secondo Mattarella (e Oettinger)
Abbiate molta paura dello spread, cari italiani, e nessuna paura – invece – di quel mestatore di Matteo Salvini, che investe proprio sulle vostre paure. La paura “non olet”, come la pecunia: dipende da chi la usa, e contro chi. Il bieco Salvini sbaglia, quando punta sulla paura per incassare voti, mentre il presidente della Repubblica può permettersi di pigiare lo stesso tasto – quello del panico – se si tratta di fermare il governo Conte, salvo poi denunciare la paura come sport impraticabile e pericoloso. Corsi e ricorsi, ma la fonte è sempre la stessa: Sergio Mattarella. Il 27 maggio, dal Quirinale, il capo dello Stato ha evocato l’apocalisse, nel caso in cui Paolo Savona avesse raggiunto il ministero dell’economia. Giusto un mese dopo, a San Patrignano, ha rivolto un analogo monito alla nazione, ma di segno opposto: l’Italia deve scrollarsi di dosso il fantasma della paura, agitato appena quattro settimane prima per interferire – forzando la Costituzione, secondo eminenti giuristi – nella formazione del legittimo governo voluto dagli italiani. In altre parole: è bene che il popolo, prima di avere paura, ascolti i giusti consigli di chi gli spiega di cosa avere paura. Magari quelli del tedesco Günther Oettinger, secondo cui “i mercati” insegneranno agli italiani come votare.«L’incertezza sulla nostra posizione nell’euro ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende», scandì Mattarella il 27 maggio. «L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali». Ancora: «Le perdite in Borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi vi ha investito. E configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e per le famiglie italiane». Lo spread, manovrato da banche franco-tedesche in mano a poteri ostili alla nascita del governo Conte, in quei giorni di alta tensione politico-istituzionale stava infatti salendo. «Occorre fare attenzione anche al pericolo di forti aumenti degli interessi per i mutui, e per i finanziamenti alle aziende», aggiunse Mattarella. «In tanti ricordiamo quando – prima dell’Unione Monetaria Europea – gli interessi bancari sfioravano il 20 per cento». E concluse: «È mio dovere, nello svolgere il compito di nomina dei ministri – che mi affida la Costituzione – essere attento alla tutela dei risparmi degli italiani».A caldo, Luigi Di Maio – oggi vicepremier e ministro – arrivò a invocare l’impeachment per il presidente della Repubblica. Prima ancora di boicottare la nomina di Savona all’economia, Mattarella aveva compiuto un gesto assolutamente inedito: aveva “invitato” l’allora presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, a consultare il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, notoriamente vicinissimo a Mario Draghi. Sul piano formale, Bankitalia è ancora un ente di diritto pubblico, ma quasi il 100% dell’azionariato è in mano a istituti di credito privati, banche e assicurazioni. La stessa Bce – vero dominus della politica europea, su mandato tedesco – è di fatto una corporazione bancaria privata. Non è sovrana la gestione dell’euro, ed è violentemente privatistica l’intera conduzione dell’Unione Europea, improntata all’ordoliberismo e gestita da una Commissione di non-eletti, “consigliati” da 1500 lobbisti che, di fatto, dettano le direttive europee in base agli interessi economici e finanziari delle maggiori multinazionali, industriali e finanziarie. Un potere di cui avere rispetto e timore, dice Oettinger (lo stesso che oggi promuove il bavaglio al web). Un potere, ribadì Mattarella, di cui gli italiani farebbero bene ad avere paura, se tenessero all’incolumità dei loro risparmi.Visitando la comunità di recupero per tossicodipendenti più famosa d’Italia, creata da Vincenzo Muccioli, Mattarella è tornato sul tema della paura a un mese dal varo del governo “gialloverde”, che ha proiettato Salvini come protagonista europeo nella politica sull’immigrazione, critico anche con la tolleranza dell’illegalità diffusa che vige nei campi Rom. «Non bisogna arrendersi alla paura», ha detto il capo dello Stato, davanti alle telecamere. «Il tessuto solidale di un paese è il bene comune prezioso, e questo va sempre considerato a partire da chi ha responsabilità pubbliche», ha aggiunto. «Qui si respira solidarietà, e questo è un patrimonio del nostro popolo: nel Dna degli italiani vi è la solidarietà». Il presidente sottolinea l’importanza di «costruire questo tessuto relazionale che rende la vita più gradevole». Il Quirinale? Deve «rappresentare l’unità dell’Italia, la sua coesione, il suo modo di sentirsi legata entro di essa, con tutti i cittadini legati a un destino comune: questa è l’unità vera del nostro paese». Una retorica umanitaria, che ignora le esasperanti vessazioni imposte dall’Ue alla “cominità solidale” e sembra piuttosto voler stridere con la presunta disumanità rinfacciata ogni giorno allo “sceriffo” Salvini, l’uomo che voleva Paolo Savona al ministero dell’economia, nonostante il professore avesse studiato anche un piano per uscire dall’euro in caso di emergenza.E mentre il collega Oettinger – l’uomo dello spread – si prepara a dirigere l’ultima grottesca crociata contro il popolo sovrano (stavolta colpendo la libertà del web, come dimostra il successo della petizione di “Change.org” contro l’iniziativa-bavaglio), il partito che lanciò Matterella al Quirinale, il Pd, ha perso la presa anche sulle “Regioni rosse”, a conferma di un cambiamento epocale in corso. Nel frattempo sta volando, nei consensi, proprio il governo Conte, sostanzialmente incoraggiato – per ora – da qualcosa come 7 italiani su 10. Un rarissimo esempio di unità nazionale e di coesione politica, per un’Italia che finalmente preoccupa i signori di Bruxelles, di Berlino e Parigi, i boss finanziari di Francoforte e i loro amici fraterni di Bankitalia. La notizia, probabilmente, che è il paese – dopo vent’anni di crisi – ha smesso di avere paura di chi vorrebbe che vivesse per sempre in stato di soggezione e inferorità. Lo spaventoso spread evocato da Mattarella il 27 maggio? Si è sgonfiato subito, per intervento della finanza statunitense. Le prove tecniche di sovranità, per l’Italia, sono appena cominciate. In mare è tempestoso, la strada è lastricata di trappole. Ma la sensazione è che – al di là dei moniti, dei consigli e degli avvertimenti, più o meno istituzionali – gli italiani abbiano intenzione di tirare dritto, serrando i ranghi attorno al governo che il vecchio establishment (inclusi i grandi media) vive come un affronto insopportabile, di cui – in questo caso sì – avere davvero paura.Abbiate molta paura dello spread, cari italiani, e nessuna paura – invece – di quel mestatore di Matteo Salvini, che investe proprio sulle vostre paure. La paura “non olet”, come la pecunia: dipende da chi la usa, e contro chi. Il bieco Salvini sbaglia, quando punta sulla paura per incassare voti, mentre il presidente della Repubblica può permettersi di pigiare lo stesso tasto – quello del panico – se si tratta di frenare il governo Conte, salvo poi denunciare la paura come sport impraticabile e pericoloso? Corsi e ricorsi, ma la fonte è sempre la stessa: Sergio Mattarella. Il 27 maggio, dal Quirinale, il capo dello Stato ha evocato l’apocalisse, nel caso in cui il pericolosissimo Paolo Savona, già ministro con Ciampi, avesse raggiunto il ministero dell’economia. Giusto un mese dopo, a San Patrignano, lo stesso Mattarella ha rivolto un analogo monito alla nazione, ma di segno opposto: l’Italia deve scrollarsi di dosso il fantasma della paura, agitato appena quattro settimane prima per interferire – forzando la Costituzione, secondo eminenti giuristi – nella formazione del legittimo governo voluto dagli italiani. In altre parole: è bene che il popolo, prima di avere paura, ascolti i saggi consigli di chi gli spiega di cosa avere paura? Magari quelli del tedesco Günther Oettinger, secondo cui “i mercati” insegneranno agli italiani come votare?
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Scanu: sovranità svenduta illegalmente all’oligarchia Ue-Bce
Dalle parole di Mattarella, protagonista dello strano veto su Paolo Savona all’economia, fermato sulla soglia di quel ministero “in nome dei mercati”, sembrerebbe che i trattati europei abbiano ridotto a zero la nostra sovranità. Ma è davvero così? Aderendo ai trattati europei – si domanda Patrizia Scanu – abbiamo ridotto a tal punto la nostra sovranità, quantomeno cedendone una parte? E soprattutto: «Se abbiamo ceduto sovranità, era possibile farlo sulla base della nostra Costituzione?». Ovvero: «La classe politica che ha firmato quei trattati era legittimata dalla nostra Costituzione ad una cessione del genere? E se così non fosse, quali sarebbero le conseguenze e le azioni future da compiere?». In prospettiva: «Come si conciliano l’esercizio della sovranità e l’esigenza di costruire quell’Europa dei popoli che è il sogno mai realizzato della mia generazione?», si chiede Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt. «Che nozione di sovranità è adatta ad affrontare le sfide della globalizzazione? In concreto: come ci liberiamo adesso di una menzogna criminale che ci è stata raccontata per decenni?». Il gesto di Mattarella, aggiunge la Scanu, «appare rivelativo di un contenuto non espresso chiaramente per decenni, ma di importanza capitale per tutti noi: si tratta della compatibilità fra la nostra Costituzione (così invisa, per ovvie ragioni, alle élite politico-finanziarie che vorrebbero ridurci a periferia dell’Impero) e i trattati europei».Sovranità? Un concetto complesso, «lungamente dibattuto nella filosofia del diritto, in parallelo al percorso storico che porta alla formazione degli Stati moderni». Intesa come sovranità dello Stato – argomenta Patrizia Scanu – esprime l’idea che lo Stato, inteso come persona giuridica, abbia esclusivo potere nell’ambito del proprio territorio. Uno Stato indipendente da altri poteri esterni, che esercita una supremazia nei confronti dei suoi abitanti. Il filosofo Thomas Hobbes, che pure aveva una visione assolutista del potere statale, lo vedeva comunque originarsi da un “contratto sociale” stretto fra gli uomini: per contenere la violenza insita nella loro natura, gli individui cedono la sovranità allo Stato, sottomettendosi totalmente ad esso. «Nella versione più attuale, che si avvale delle riflessioni successive di Grozio, Althusius, Locke e soprattutto Rousseau, e delle discussioni dei coloni della Nuova Inghilterra fra ‘600 e ‘700 – spiega la professoressa Scanu – la sovranità non solo si origina, ma resta nel popolo, poiché gli esseri umani ne sono titolari a prescindere dall’ordinamento giuridico dello Stato». Si parla perciò di “sovranità popolare”, nel senso che i cittadini – individui liberi e sovrani, portatori di diritti – concordano di delegare allo Stato la sovranità, per far funzionare la società in modo ordinato, restandone però unici titolari.I governanti – almeno nelle democrazie indirette – sono rappresentanti del popolo, scelti ed espressi dalla sovranità popolare e agiscono in nome e per conto del popolo, che li può revocare e sostituire. Come recita l’articolo 1 della Costituzione Italiana, “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ovvero la esercita per lo più nelle modalità della democrazia indiretta e rappresentativa e nella cornice dell’ordinamento giuridico dello Stato. La Costituzione, sottolinea Patrizia Scanu, prevede anche una limitazione alla sovranità. All’articolo 11, dice: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. La Costituzione dice, insomma, che la sovranità è e resta del popolo, ma che lo Stato può accettare particolari limitazioni alla sovranità all’unico scopo di assicurare la pace e la giustizia a livello internazionale (sentite evidentemente come un bene superiore) e in condizioni di parità con altre nazioni.Ma limitare – a certe condizioni – la propria sovranità vuol dire cederla? No: limitare e cedere non sono ha stessa cosa, come ha rilevato il Gip del tribunale di Cassino, Massimo Lo Mastro, in un decreto emesso in risposta ad una opposizione all’archiviazione di una denuncia dell’avvocato Marco Mori contro Laura Boldrini. «Proprio perché senza sovranità lo Stato non esisterebbe, i limiti della Costituzione in materia di compressione del potere d’imperio dello Stato sono rigorosi». Proprio per questo, scrive Lo Mastro, il legislatore si è occupato di sanzionare penalmente la lesione del potere d’imperio dello Stato: si parla infatti di “delitti contro la personalità giuridica internazionale dello Stato” ove ne risultino integrati gli estremi soggettivi e oggettivi. Sulla base dell’articolo 11 della Costituzione, aggiunge il magistrato, la sovranità non può dunque essere ceduta, ma solo limitata. E anche le mere limitazioni hanno ulteriori “limiti”: «Fermo il divieto assoluto di cessioni, la limitazione della sovranità può avvenire unicamente in condizioni di reciprocità ed al fine esclusivo (ogni altra soluzione è stata espressamente bocciata in seno all’Assemblea Costituente) di promuovere un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni».Limitare, precisa il magistrato, significa «circoscrivere un potere entro certi limiti», ovvero «omettere di esercitare il proprio potere d’imperio (che pure deve rimanere intatto) in una determinata materia, oppure di esercitarlo all’interno di certi limiti generalmente riconosciuti dal diritto internazionale ai fini di pace e cooperazione fra le nazioni». Tutto questo, purché il contenimento del proprio potere (che “appartiene al popolo”) sia in ogni caso rispettoso dei limiti costituzionali. «La cessione di sovranità – chiosa Lo Mastro – comporta invece la consegna ad un terzo di un potere d’imperio proprio di uno Stato che così per definizione perde anche la propria indipendenza». Questo vuol dire che, se cessione di sovranità c’è stata – e c’è stata sicuramente, scrive Patrizia Scanu, visto che se per esempio la Bce è indipendente ed ha sovranità monetaria – significa che noi vi abbiamo rinunciato e abbiamo perso l’indipendenza. Una cessione dunque «non legittima»: chi l’ha permessa «ha commesso un reato». Alla lettera: «Nessun trattato europeo può avere più forza della nostra Costituzione. Un presidente della Repubblica non può subordinare la sovranità popolare ai vincoli di trattati internazionali; semmai deve fare il contrario», scrive la Scanu, visto che «ha giurato di difendere la Costituzione», non i trattati europei.Restando al popolo la sovranità, quei trattati «possono pacificamente essere ridiscussi o rigettati, purché nelle forme previste dalla Costituzione, ovvero se questa è la volontà del popolo, espressa con il voto». Questo, osserva Patrizia Scanu, «vuol dire anche che la via d’uscita da questa situazione intollerabile consiste nel riprendersi la sovranità così malamente compressa e calpestata». In altre parole: «Rivendicare sovranità – prima di tutto, sovranità monetaria – non vuol dire né tornare agli Stati nazionali del periodo pre-bellico né uscire dall’Unione Europea né necessariamente uscire dall’euro. Vuol dire al contrario portare a compimento quel processo di federazione europea che farebbe dell’Europa un contrappeso adeguato al dominio delle grandi potenze, Usa e Cina soprattutto (non certo spettatori disinteressati)». Significa «riprendersi la facoltà di emettere moneta nazionale», magari sotto forma di Stato-note o di crediti fiscali, come spiega da tempo l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt: una misura percorribile anche senza uscire dall’euro. Vuol dire «riportare sotto controllo dei cittadini i poteri extranazionali, non eletti e cooptativi che ci hanno imposto questo ordine neoliberista», in primis la Commissione Europea e la Bce per «riportare in primo piano il benessere e i diritti dei cittadini, invece delle esigenze della finanza internazionale».Insiste Patrizia Scanu: «Non è pensabile una sovranità europea che si costituisca per cessione della sovranità nazionale, come sommatoria di non-Stati, perché senza sovranità popolare non c’è Stato democratico, e se i cittadini di un paese non possono esprimere la loro volontà politica, non siamo più in democrazia». Lo Stato moderno? «E’ entrato in crisi con la globalizzazione, ma non abbiamo ancora inventato una forma politica diversa». I trattati europei? «Sono contratti giuridici fra Stati nazionali, che sono i soggetti contraenti, ciascuno pienamente titolare della propria sovranità: rinunciare ad essa è un suicidio». Impossibile fare scempio in questo modo del vecchio continente: «L’Europa è troppo ricca di storia e di differenze nazionali perché esse possano essere ignorate, ma è anche effettivamente portatrice di una cultura condivisa e di una coscienza comune. Lo scenario attuale è desolante, perché disattende i principi istitutivi dell’Unione Europea». Lo ricorda lo stesso Paolo Savona nel 2015: in teoria, l’Ue aveva formalmente promesso «lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale», senza trascurare «la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri».La crisi della Grecia – osserva Savona – ha mostrato quanto la realtà sia lontana dalle enunciazioni di principio: «Invece di uscire dal paradosso di un non-Stato europeo formato da non-Stati nazionali si intende approfondire questa strana configurazione istituzionale, perché appare vantaggiosa a pochi paesi capeggiati dalla Germania». Per Patrizia Scanu, «stiamo assistendo a una feroce competizione economica fra gli Stati dell’Unione, a cominciare dal mercantilismo tedesco, a uno spaventoso trasferimento di ricchezza dai poveri ai ricchi e dall’economia reale ai mercati finanziari». E abbiamo governi che, uno dopo l’altro, «hanno tradito lettera e sostanza della Costituzione, cedendo progressivamente quote di sovranità per loro indisponibili, rendendoci subalterni a poteri oligarchici, estranei e autoreferenziali che tutto hanno a cuore, fuorché il nostro interesse di cittadini». Prima risposta: «Prendere consapevolezza del colossale inganno perpetrato a nostro danno, con l’illusione del sogno europeo». E quindi, «ridiscutere radicalmente i trattati europei, per rifondare l’Europa su basi autenticamente democratiche». Può sembrare un paradosso, conclude Patrizia Scani, ma «chi critica l’euro e i trattati europei ha l’Europa più a cuore di chi si straccia le vesti di fronte ad ogni ipotesi di cambiamento, come stanno facendo in questi giorni i dirigenti del Pd ormai in pieno stato confusionale, e intanto svende senza contraccambio (almeno per noi) la nostra sovranità nazionale, la nostra economia e il nostro futuro».Dalle parole di Mattarella, protagonista dello strano veto su Paolo Savona all’economia, fermato sulla soglia di quel ministero “in nome dei mercati”, sembrerebbe che i trattati europei abbiano ridotto a zero la nostra sovranità. Ma è davvero così? Aderendo ai trattati europei – si domanda Patrizia Scanu – abbiamo ridotto a tal punto la nostra sovranità, quantomeno cedendone una parte? E soprattutto: «Se abbiamo ceduto sovranità, era possibile farlo sulla base della nostra Costituzione?». Ovvero: «La classe politica che ha firmato quei trattati era legittimata dalla nostra Costituzione ad una cessione del genere? E se così non fosse, quali sarebbero le conseguenze e le azioni future da compiere?». In prospettiva: «Come si conciliano l’esercizio della sovranità e l’esigenza di costruire quell’Europa dei popoli che è il sogno mai realizzato della mia generazione?», si chiede Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt. «Che nozione di sovranità è adatta ad affrontare le sfide della globalizzazione? In concreto: come ci liberiamo adesso di una menzogna criminale che ci è stata raccontata per decenni?». Il gesto di Mattarella, aggiunge la Scanu, «appare rivelativo di un contenuto non espresso chiaramente per decenni, ma di importanza capitale per tutti noi: si tratta della compatibilità fra la nostra Costituzione (così invisa, per ovvie ragioni, alle élite politico-finanziarie che vorrebbero ridurci a periferia dell’Impero) e i trattati europei».
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Magaldi: imbecilli a reti unificate minacciano Lega e 5 Stelle
Imbecilli: lasciano credere che il debito dello Stato sia come quello della tabaccheria sotto casa, esposta con la banca. Imbecilli pericolosi: perché scrivono sui giornali e parlano ogni sera in televisione. Somari in buona fede, disastrosamente ignoranti, o vecchi marpioni in malafede? «Non so cosa sia peggio», dice Gioele Magaldi: una persona intelligente puoi sempre persuaderla, mentre di fronte a un cretino non ci sono speranze. Gli imbecilli di turno? Quelli che cercano di spaventare gli italiani, bocciando le “mirabolanti promesse” dell’ipotetico governo gialloverde di Salvini e Di Maio. Lega e 5 Stelle, in realtà, stanno terrorizzando solo l’establishment: i professori della catastrofe, i notai dell’infame declino del paese. Le loro ricette hanno devastato l’Italia, eppure insistono: bisogna tagliare redditi e consumi, senza capire che – per quella strada, se il Pil non cresce – poi a esplodere è proprio il debito, inevitabilmente. «Arriva a comprenderlo anche un mediocre studente di economia, ma non gli imbecilli che ci parlano ogni giorno sui giornali e in televisione», dice Magaldi, in una diretta web-streaming su YouTube con Marco Moiso, in cui rilancia un nome fortissimo per Palazzo Chigi: quello dell’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt.
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L’Ue minaccia il web: non avrete altra verità che la nostra
E’ da un anno e mezzo che l’Unione Europea e gli Stati Uniti preparano il terreno. E ora ci siamo: tra non molto avremo una rete di fact-checkers, naturalmente indipendenti, naturalmente rispettosi di un rigoroso codice etico e naturalmente dediti alla causa suprema: la lotta alle fake news, ovvero al mostro che agita i sonni dell’establishment. Tutto questo, in realtà, come ripeto da tempo, ha un solo scopo: legittimare l’introduzione della censura, limitare l’impatto e la diffusione di idee non mainstream, naturalmente negando che di censura si tratti. Ma così sarà: non c’è vera democrazia quando qualcuno si arroga il diritto di decidere cos’è vero e cos’è falso, e rendendo inviolabile e sacra, quella che in realtà una pericolosissima forma di strabismo, perché si addita solo una parte del problema, le fake news veicolate dai social media, e si ignora il vero scandalo, che è rappresentato dalla manipolazione delle notizie creata all’interno dei governi, il cui impatto è infinitamente superiore. Qualunque frottola sulla Siria, sull’Ucraina, sulla Grecia resta rigorosamente impunita, purché abbia origine dentro a un’istituzione; proprio quelle istituzioni che ora pretendono, per il nostro bene, di limitare i confini della libertà di espressione.L’Unione Europea ieri ha compiuto un altro fatale passo, annunciando misure “propedeutiche”, in attesa di ulteriori “messe a punto”, già annunciate per dicembre. L’impostazione è soft, per non allarmare le masse, e infatti pochi media ne hanno parlato; l’esito, però, è scontato. Non può essere altrimenti quando si annuncia, come ha fatto il commissario Ue alla sicurezza Julian King, che «la manipolazione della pubblica opinione attraverso le fake news è una minaccia reale alla stabilità e alla coesione delle nostre società europee», annunciando «la creazione prima dell’estate di una rete europea indipendente di fact-checkers e a settembre di una piattaforma europea sulla disinformazione per aiutarli nel loro lavoro. Inoltre Bruxelles lancerà un nuovo bando quest’anno per la produzione e la diffusione di informazione di qualità sull’Ue attraverso notizie fondate sui dati». Già, ma quali verifiche? Quali dati? Quelli certificati da Macron o dal Dipartimento di Stato americano che hanno deciso di bombardare la Siria senza prove, solo sulla base di notizie riportate dai media e dai social media? Quelli diramati da Ong che pur presentandosi come non governative in realtà sono finanziate dai governi occidentali, diventando uno strumento dissimulato ma molto efficace nell’ambito delle moderne guerre asimmetriche?King ha varato anche misure per i social media da Facebook e Twitter, proprio mentre Zuckerberg, al Parlamento Europeo, annunciava la creazione di un piccolo esercito di ventimila guardiani per garantire la correttezza delle “elezioni europee del 2019”, ovvero per togliere linfa e visibilità a idee e movimenti sovranisti e critici nei confronti della Ue. Dunque per limitare dall’alto la libertà d’opinione, come accade solo nei regimi autoritari. Purtroppo si conferma lo scenario che abbiamo delineato Alberto Bagnai, Vladimiro Giacché e il sottoscritto, durante l’affollatissima conferenza che si è svolta sabato scorso a Roma, organizzata da “L’intellettuale Dissidente” e dall’associazione “a/simmetrie”. Una conferenza che ha suscitato l’entusiasmo de presenti e che potete seguire grazie a “Byoblu” di Claudio Messora, che l’ha filmata. La battaglia che si profila per un’informazione davvero libera sarà dura, molto dura. E avremo bisogno, come non mai, del vostro sostegno.(Marcello Foa, “Ci siamo: la Ue crea una rete di censori. La libertà d’opinione è in pericolo!”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 27 aprile 2018. Nel video realizzato da “ByoBlu”, la conferenza romana con Foa, Bagnai e Giacché).E’ da un anno e mezzo che l’Unione Europea e gli Stati Uniti preparano il terreno. E ora ci siamo: tra non molto avremo una rete di fact-checkers, naturalmente indipendenti, naturalmente rispettosi di un rigoroso codice etico e naturalmente dediti alla causa suprema: la lotta alle fake news, ovvero al mostro che agita i sonni dell’establishment. Tutto questo, in realtà, come ripeto da tempo, ha un solo scopo: legittimare l’introduzione della censura, limitare l’impatto e la diffusione di idee non mainstream, naturalmente negando che di censura si tratti. Ma così sarà: non c’è vera democrazia quando qualcuno si arroga il diritto di decidere cos’è vero e cos’è falso, e rendendo inviolabile e sacra, quella che in realtà una pericolosissima forma di strabismo, perché si addita solo una parte del problema, le fake news veicolate dai social media, e si ignora il vero scandalo, che è rappresentato dalla manipolazione delle notizie creata all’interno dei governi, il cui impatto è infinitamente superiore. Qualunque frottola sulla Siria, sull’Ucraina, sulla Grecia resta rigorosamente impunita, purché abbia origine dentro a un’istituzione; proprio quelle istituzioni che ora pretendono, per il nostro bene, di limitare i confini della libertà di espressione.
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Streeck: sovranismo progressista, contro l’élite globalista
Secondo il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, i paesi a economia matura hanno di fronte tre precise tendenze, a lungo termine: un declino persistente del tasso di crescita, un aumento costante del debito (pubblico, privato e totale) e un’esplosiva disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Queste tendenze sono tra loro legate, spiega Nicolò Bellanca su “Micromega”: la bassa crescita, intensificando il conflitto distributivo, accentua la disuguaglianza tra i gruppi, mentre a sua volta la disuguaglianza, abbassando la domanda effettiva, riduce la crescita. Di conseguenza il settore finanziario si espande ulteriormente per allargare il credito dei gruppi che più subiscono la disuguaglianza, ma – restringendo l’economia reale e le sue possibilità occupazionali – la stessa finanza approfondisce gli squilibri sociali. Allarme rosso: gli alti livelli di debito innalzano il rischio di crisi finanziarie, che a loro volta – moltiplicando le posizioni debitorie più vulnerabili – accentuano le disparità e rallentano la crescita, e così via. Storia: a circa 250 anni dalla rivoluzione industriale, osserva Bellanca, si sono estremamente affievolite le forze sociali e politiche di contrasto al capitalismo, tra le quali la religione, il socialismo, il nazionalismo e la democrazia. «Il punto è di cruciale importanza, poiché un capitalismo senza oppositori viene lasciato ai suoi meccanismi interni ed è incapace di autolimitarsi».Tutti ci accorgiamo, sottolinea Streeck, che oggi nessuna formula politico-economica, di destra o di sinistra, fornisce un coerente sistema di regolazione al capitalismo. Ma questo succede non tanto per l’assenza di idee progettuali o di leader carismatici, come spesso sentiamo lamentare, bensì «perché nessun intervento riformatore dell’economia può essere efficace se le istituzioni non-economiche sono quasi estinte: non si può curare una malattia in mancanza degli anticorpi». Per Streeck, il capitalismo è ormai ingovernabile per l’attenuarsi dei vincoli che furono in grado di contrastarlo e contenerlo. «Nei momenti cruciali della sua storia, sono state le forze di opposizione a stabilizzare il capitalismo in quanto società: movimenti di classe, etnici o di genere hanno animato i contropoteri della società; movimenti regionali, nazionali o religiosi hanno preservato la coesione sociale; gli Stati socialdemocratici del benessere e i sindacati di massa hanno assicurato una domanda sufficiente nella sfera economica, così come la legittimazione della riproduzione sociale. Il capitalismo vive finché non diventa “puro”, ossia finché non espelle dalla società le forze non-economiche in grado, trattenendone la spinta espansiva, di proteggerlo da sé stesso».Questa tesi non appartiene soltanto a Streeck, rileva Bellanca. In ambito marxista, Rosa Luxemburg sostiene che senza una ulteriore frontiera da valicare, l’accumulazione capitalista s’inceppa. Karl Polanyi aggiunge che nel capitalismo circolano delle “merci fittizie” – il tempo, la natura, il denaro e il lavoro umano – le quali vengono distrutte, o rese inutilizzabili, se affidate alle compravendite mercantili: poiché il capitalismo abbisogna di queste “merci”, deve accettare che siano regolate in maniera non-mercantile, e deve quindi ammettere un proprio limite. Secondo Streeck, la versione neoliberista del capitalismo ha avuto “troppo successo”, colonizzando l’intero mondo della vita e quasi azzerando le controspinte socio-politiche. Smentito il pregiudizio marxista, secondo cui il capitalismo si chiuderà soltanto quando sarà pronta una società migliore, promossa da un soggetto rivoluzionario. «Data la frammentazione dei movimenti antagonisti, manca un gruppo sociale che possa orientare progettualmente la società. Lo scenario futuro più probabile sarà quello in cui il collasso capitalista non sarà seguito dal socialismo, bensì da un periodo di entropia».Per Bellanca, la prognosi di Streeck non è sempre persuasiva, dato che «discute il futuro del capitalismo senza alcun riferimento al luogo in cui il futuro del capitalismo sarà sicuramente deciso: l’Asia». Se non altro, «il suo atteggiamento non scivola nel fatalismo e nell’impotenza politica». Piuttosto, lo studioso tedesco puntualizza: non tutte le maniere con cui attraversare il prossimo “interregno” saranno equivalenti. A suo parere, almeno uno dei fattori non-capitalisti potrà ancora costituire un valido baluardo di resistenza, per i lavoratori e per i cittadini: lo Stato-nazione. «Nel mondo reale, non c’è democrazia al di sopra dello Stato-nazione, ma solo grande tecnocrazia, grandi capitali e grande violenza. I regimi politici capaci di rappresentare gli interessi delle classi subalterne, dei gruppi discriminati e delle popolazioni locali nel mondo si sono formati – quando ciò è avvenuto – soltanto all’interno del perimetro della sovranità statuale». Pertanto, aggiunge Streeck, il rilancio dello Stato politico come Stato sociale democratico potrà costituire uno strumento per temperare e, in parte, regolare la furia del capitale. E mentre il sovranismo di destra si scaglia contro i migranti in nome dell’etnia e rivendica la chiusura delle frontiere, Streeck indica alla sinistra un percorso strategico nel quale la leva del sovranismo progressista contrasti la tirannia “illuminata” di Bruxelles e affronti il tema di come uscire dal totalitarismo globalista.«I neoliberisti – scrive – hanno convinto tanti a sinistra che oggi il solidarismo internazionalista comporta che i lavoratori dei vecchi paesi industrializzati lascino competere sui loro posti i lavoratori delle aree più povere del pianeta. Invece il solidarismo ha significato e significa che i lavoratori si organizzano assieme per impedire al capitale di contrapporre gli uni agli altri in mercati “liberi”, ossia non regolamentati». Su questo terreno, che Bellanca definisce «del sovranismo democratico-costituzionale», la previsione di Streeck s’incontra con quella dell’economista di origine serba Branko Milanovic, secondo cui «i conflitti tra le classi all’interno dei paesi accresceranno, in termini relativi, la loro importanza nel prossimo futuro». Lo stesso Streeck aggiunge che le battaglie dentro e mediante gli Stati-nazione saranno, nel tempo che ci aspetta, l’orizzonte politico meno inefficace e più vicino ai bisogni dei lavoratori e dei cittadini. «Questa coppia di previsioni – conclude Bellanca – presenta implicazioni politiche molto precise per la sinistra da ricostruire».Secondo il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, i paesi a economia matura hanno di fronte tre precise tendenze, a lungo termine: un declino persistente del tasso di crescita, un aumento costante del debito (pubblico, privato e totale) e un’esplosiva disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Queste tendenze sono tra loro legate, spiega Nicolò Bellanca su “Micromega”: la bassa crescita, intensificando il conflitto distributivo, accentua la disuguaglianza tra i gruppi, mentre a sua volta la disuguaglianza, abbassando la domanda effettiva, riduce la crescita. Di conseguenza il settore finanziario si espande ulteriormente per allargare il credito dei gruppi che più subiscono la disuguaglianza, ma – restringendo l’economia reale e le sue possibilità occupazionali – la stessa finanza approfondisce gli squilibri sociali. Allarme rosso: gli alti livelli di debito innalzano il rischio di crisi finanziarie, che a loro volta – moltiplicando le posizioni debitorie più vulnerabili – accentuano le disparità e rallentano la crescita, e così via. Storia: a circa 250 anni dalla rivoluzione industriale, osserva Bellanca, si sono estremamente affievolite le forze sociali e politiche di contrasto al capitalismo, tra le quali la religione, il socialismo, il nazionalismo e la democrazia. «Il punto è di cruciale importanza, poiché un capitalismo senza oppositori viene lasciato ai suoi meccanismi interni ed è incapace di autolimitarsi».
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Grimaldi: droga, terrore e migranti, ecco il piano del potere
Tre sono le grandi operazioni con cui la cupola finanzcapitalista persegue nel terzo millennio il dominio totalitario politico, militare, economico e culturale sull’umanità. Lo Stato unico della sorveglianza e del controllo senza spiragli o crepe. Hanno tutte origine nel cosiddetto riflusso degli anni ’80 del Novecento, risposta all’onda insurrezionale del decennio precedente e prodromo dell’offensiva scatenata vent’anni dopo, a partire dalla “normalizzazione-passivizzazione” delle coscienze e dei saperi con gli strumenti hi-tech degli apprendisti stregoni di Silicon Valley. La diffusione della droga per la guerra alla droga; la diffusione del terrorismo per la guerra al terrorismo; la migrazione di massa finalizzata a un unico superstato che persegue la distruzione di ogni statualità attraverso la creazione di masse, estratte dal proprio contesto storico, omologate dall’abbandono, dalla disperazione, dalla perdita di anima e nome collettivi e da un destino di subalternità irrimediabile. Strategia di distruzione dei diritti umani (intesi come libertà, riservatezza, lavoro, autonomia, rapporti sociali), se va bene sostituiti da diritti detti civili (per lo più intesi come superamento di quelli biologici) e dal diritto di muovere guerra e distruzione a chi si pretende di accusare di violazione dei diritti umani.
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Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo
Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?(Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
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Carpeoro: elettori beffati, la sovragestione ha vinto ancora
La sovragestione tutto vuole, in Italia, meno che un governo forte. Qualunque governo le sta bene, purché sia debole, ricattabile e compromesso. In che senso compromesso? Era assolutamente chiaro che Di Maio era andando a chiedere la benedizione di ambienti americani – che lo hanno abbastanza snobbato, ma che comunque sono sempre pronti a cavalcarlo, se atto alla bisogna (come hanno fatto con Berlusconi: gli ambienti delle Ur-Lodges hanno snobbato nella stessa misura Berlusconi e Renzi, e sono ampiamente disponibili a snobbare anche Di Maio, pur gestendolo – quello non è un grosso problema). Di Maio è andato a chiedere la benedizione di costoro, e quindi è compromesso a tutti gli effetti. Forse lo era già prima, nel senso che le relazioni americane rispetto al Movimento 5 Stelle ci sono ben note. La Bonino è compromessa da tempo, tant’è vero che i suoi ultimi anni di convivenza con Pannella sono stati costituiti di esclusivamente di dissapori, e non di accordo e coesione politica. E quindi tutto quadra. Adesso Renzi, che ha capito di esser stato giocato, vuol mettersi un attimo di traverso (per cui verrà messo immediatamente a tacere).D’altro canto, se avesse avuto i numeri per governare l’altra componente, il centrodestra, non sarebbe cambiato assolutamente nulla: nel senso che Berlusconi è compromesso, mentre Salvini era assolutamente pronto ad allinearsi alla sovragestione. Lo dimostra il fatto, ad esempio, che proponga una politica sull’immigrazione che è stranamente simile a quella di Donald Trump, che in realtà è una non-politica dell’immigrazione. Fatte queste premesse, probabilmente la sovragestione avrà il risultato che più le aggrada. Se si dovesse fare – cosa che ritengo improbabile – un governo del centrodestra, avrebbe un governo pronto ad assecondarla. Se si dovesse fare un governo “Bonino, Pd, 5 Stelle”, idem: avrebbe un governo pronto ad assecondarla. L’unico risultato che la sovragestione non vuole è che si torni a votare, perché la esporrebbe al rischio di trovare uno sbocco, per l’Italia. Ma intanto sono sicuro che gli italiani, ancora una volta, non avranno nessun risultato che sia coerente con il loro voto.Non potranno averlo, un risultato coerente con il voto appena espresso, a meno che la base dei 5 Stelle non si metta di traverso e punti i piedi per tornare a votare – ma vedo che in questo momento non ce ne sono i presupposti. A questo punto vedremo se i 5 Stelle sanno o non sanno governare – perché noi questa riprova, oggi, non l’abbiamo. Io ho le mie idee, sul Movimento 5 Stelle, ma sono prontissimo a rivederle, se governassero bene. Il problema è che non ne avrà la riprova, perché i 5 Stelle non potranno governare: se lo faranno, governeranno “sotto scopa” e in un ambito di piena sudditanza alla sovragestione. Se non governeranno, dovranno affilare le armi e governerà qualcun altro, che sarà ugualmente prono al fatto che noi veniamo tranquillamente gestiti da lobby finanziarie e paramassoniche, che regoleranno i loro interessi sulla nostra pelle.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella diretta web-streaming “Border Nights” del 6 marzo 2018. Con il termine “sovragestione”, Carpeoro – autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, edito da Revoluzione – intende i massimi poteri economico-finanziari internazionali, collegati a precisi settori dei servizi segreti atlantici, regolarmente incaricati di operazioni di manipolazione e disinformazione, fino alla guerra e alla strategia della tensione che utilizza manovalanza islamista).La sovragestione tutto vuole, in Italia, meno che un governo forte. Qualunque governo le sta bene, purché sia debole, ricattabile e compromesso. In che senso compromesso? Era assolutamente chiaro che Di Maio era andato a chiedere la benedizione di ambienti americani – che lo hanno abbastanza snobbato, ma che comunque sono sempre pronti a cavalcarlo, se atto alla bisogna (come hanno fatto con Berlusconi: gli ambienti delle Ur-Lodges hanno snobbato nella stessa misura Berlusconi e Renzi, e sono ampiamente disponibili a snobbare anche Di Maio, pur gestendolo – quello non è un grosso problema). Di Maio è andato a chiedere la benedizione di costoro, e quindi è compromesso a tutti gli effetti. Forse lo era già prima, nel senso che le relazioni americane rispetto al Movimento 5 Stelle ci sono ben note. La Bonino è compromessa da tempo, tant’è vero che i suoi ultimi anni di convivenza con Pannella sono stati costituiti esclusivamente di dissapori, e non di accordo e coesione politica. E quindi tutto quadra. Adesso Renzi, che ha capito di esser stato giocato, vuol mettersi un attimo di traverso (per cui verrà messo immediatamente a tacere).
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Macron: ho paura, i francesi voterebbero per uscire dall’Ue
In un’intervista shock, Macron ammette che la Francia voterebbe per l’uscita dalla Ue, se si tenesse un referendum. In un’intervista alla “Bbc”, il capo dell’Eliseo afferma a sorpresa che un equivalente francese della Brexit avrebbe «probabilmente» condotto allo stesso esito: l’uscita dall’Unione Europea. «La dichiarazione del leader francese suona particolarmente insolita in un momento in cui gli alfieri dell’establishment cercano di rassicurare che c’è “ripresa” e che i “populisti” sono in ritirata», scrive Henry Tougha su “Voci dall’Estero”. «Ma suona insolita anche per la spiegazione esatta e puntuale del problema: l’ipotetico voto per l’uscita dalla Ue sarebbe l’espressione delle classi medie e delle classi lavoratrici che si oppongono a una globalizzazione fatta contro di loro». Quando lo scorso anno Marine Le Pen perse le elezioni presidenziali francesi, ed Emmanuel Macron vinse con ciò che sembrò una valanga di voti, l’establishment tirò un sospiro di sollievo, «non solo perché la celebre euroscettica populista era stata battuta, ma anche perché sembrò che il vento fosse cambiato», scrive “Zero Hedge”. Perciò, dopo un 2016 tumultuoso, il 2017 iniziò con un bel colpo a favore degli eurocrati non-eletti di Bruxelles. «Dopotutto la gente si era espressa e aveva detto di volere più Europa (e più euro), non meno». E invece non è vero, dice oggi Macron: i problemi restano, e anche i francesi “scapperebbero” da Bruxelles.Il presidente francese, scrive “Zero Hedge” in un post ripreso da “Voci dall’Estero”, ha scioccato tutti in Europa quando ha ammesso che gli elettori francesi voterebbero per uscire dalla Ue se in Francia si tenesse un referendum del tipo “dentro o fuori” sull’appartenenza al blocco di paesi guidati da Bruxelles. «Non sorprende che nessun altro paese Ue abbia messo a rischio la propria appartenenza al blocco tramite un voto pubblico, dopo che la Gran Bretagna ha sorpreso gli altri paesi membri con un voto per l’uscita nel 2016, a dispetto di tutti i sondaggi che mostravano come un esito del genere fosse praticamente impossibile». Durante un’intervista con il giornalista Andrew Marr della “Bbc”, Emmanuel Macron ha ammesso che potrebbe perdere un eventuale referendum francese sull’appartenenza alla Ue. Interpellato sul voto della Brexit, il presidente ha candidamente detto a Marr: «Non sono io a dover giudicare o commentare le decisioni del vostro popolo». Ma, ha aggiunto, «la mia interpretazione è che ci siano molti sconfitti della globalizzazione che hanno improvvisamente deciso che quest’ultima non fa più per loro». Quindi, se la Francia avesse indetto lo stesso referendum, avrebbe avuto lo stesso risultato? «Sì, probabilmente», ha ammesso Macron. «Sì, in un contesto simile».Certo, ha precisato Macron, «abbiamo un contesto molto diverso, in Francia». Ma attenzione: Londra ha divorziato dall’Ue pur non avendo il capestro finanziario dell’euro, né gli stessi vincoli di bilancio della Francia. Quindi, confessa Macron, «avrei dovuto combattere molto duramente per averla vinta», la battaglia per mantenere la Francia nel perimetro di Bruxelles. Spiegazione: «La mia idea è che le classi medie, le classi lavoratrici e i più anziani hanno deciso che ciò che è successo negli ultimi decenni non è andato a loro favore, e che gli aggiustamenti fatti all’interno della Ue non erano a loro favore». Ancora: «Penso che l’organizzazione della Ue sia andata troppo oltre con la libertà ma senza coesione, con la libertà dei mercati ma senza regole». Frasi pesantissime, pronunciate da un ex banchiere del gruppo Rothschild nonché pupillo della supermassoneria eurocratica più reazionaria, incarnata da Jacques Attali. Libertà d’azione illimitata solo per i capitali finanziari, e “carcere duro” per la finanza pubblica, costretta al suicidio dei tagli che hanno messo in ginocchio l’economia reale, le aziende, le società. Macron, l’uomo dell’élite, avverte che il pericolo – per loro, gli oligarchi – è tutt’altro che sparito dai radar: i boss che contano (da Parigi a Berlino, da Francoforte a Bruxelles) hanno paura che ai cittadini venga permesso di votare, per scegliere se restare ancora in questa Europa o se scappare verso la perduta sovranità.In un’intervista shock, Macron ammette che la Francia voterebbe per l’uscita dalla Ue, se si tenesse un referendum. In un’intervista alla “Bbc”, il capo dell’Eliseo afferma a sorpresa che un equivalente francese della Brexit avrebbe «probabilmente» condotto allo stesso esito: l’uscita dall’Unione Europea. «La dichiarazione del leader francese suona particolarmente insolita in un momento in cui gli alfieri dell’establishment cercano di rassicurare che c’è “ripresa” e che i “populisti” sono in ritirata», scrive Henry Tougha su “Voci dall’Estero”. «Ma suona insolita anche per la spiegazione esatta e puntuale del problema: l’ipotetico voto per l’uscita dalla Ue sarebbe l’espressione delle classi medie e delle classi lavoratrici che si oppongono a una globalizzazione fatta contro di loro». Quando lo scorso anno Marine Le Pen perse le elezioni presidenziali francesi, ed Emmanuel Macron vinse con ciò che sembrò una valanga di voti, l’establishment tirò un sospiro di sollievo, «non solo perché la celebre euroscettica populista era stata battuta, ma anche perché sembrò che il vento fosse cambiato», scrive “Zero Hedge”. Perciò, dopo un 2016 tumultuoso, il 2017 iniziò con un bel colpo a favore degli eurocrati non-eletti di Bruxelles. «Dopotutto la gente si era espressa e aveva detto di volere più Europa (e più euro), non meno». E invece non è vero, dice oggi Macron: i problemi restano, e anche i francesi “scapperebbero” da Bruxelles.