Archivio del Tag ‘colpa’
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Barnard: strage evitabile, Toninelli indaghi sul suo ministero
Dove sta l’origine della colpa maggiore l’ho già scritto qui, ma – caro ministro Toninelli – lei deve indagare dentro al ‘carrozzone’ ministeriale che (incolpevolmente) presiede, e che aveva tutte le competenze per almeno avvisare del pericolo e forse evitare la catastrofe, come dimostrato sotto (anche se non i fondi, per il noto problema dei tagli Ue). Ma dove diavolo era il Mit? Perché non si è almeno sentito prima dei morti a Genova? O scopriremo che i suoi tecnici erano distratti? O, peggio, che sono stati ignorati per anni? Ai lettori: date un’occhiata qui di seguito, si parla del Mit e concessionarie autostrade. Direzione generale per le strade e le autostrade e per la vigilanza e la sicurezza nelle infrastrutture stradali (questa è la struttura “ombrello”, da cui si diramano le due direzioni sottostanti, ancor più significative in tema di controlli alle concessionarie. Competenze: b) funzioni di concedente della rete autostradale in concessione; n) approvazione di programmi di adeguamento e messa in sicurezza delle infrastrutture di viabilità di interesse statale e locale; t) vigilanza sulla corretta manutenzione delle infrastrutture di competenza.Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali. Competenze: a) vigilanza e controllo sui concessionari autostradali, inclusa la vigilanza sull’esecuzione dei lavori di costruzione delle opere date in concessione e il controllo della gestione delle autostrade il cui esercizio è dato in concessione; d) proposta di programmazione, da formulare alla “direzione generale per le strade e le autostrade e per la vigilanza e la sicurezza nelle infrastrutture stradali”, del progressivo miglioramento ed adeguamento delle autostrade in concessione; g) vigilanza sull’adozione, da parte dei concessionari, dei provvedimenti ritenuti necessari ai fini della sicurezza del traffico autostradale. Nda: i termini usati lasciano al Mit ampio spazio di controllo (soprattutto al punto g) a prescindere dai termini dei singoli contratti, ma poi segue:Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali – Div1 – vigilanza tecnica e operativa della rete autostradale in concessione. Competenze: definizione delle linee di indirizzo e la programmazione delle verifiche ispettive della rete autostradale (in concessione, nda); disposizioni ed analisi in merito al rispetto dei parametri tecnici previsti dalle convenzioni per i piani di manutenzione ordinaria (Pom) e straordinaria; attuazione delle procedure sanzionatorie in caso di inadempimenti per quanto di competenza della divisione (cioè le concessionarie, nda). Di nuovo, ampio potere di controllo (“verifiche ispettive della rete autostradale”) e almeno di segnalare all’interno del Mit e pubblicamente le inadempienze o allarmi percepiti, se non addirittura di sanzionare.Ministro, nel suo palazzo va cercato molto, e non solo nelle (ignobili) ristrettezze Ue o in Atlantia, perché i termini della concessione ai Benetton saranno anche stati segreti, ma nulla impediva al Mit di capire e di denunciare anni prima la situazione, viste le sue chiare competenze di cui sopra. Ne aveva tutti i poteri (anche se purtroppo non quelli di un ministero di Stato sovrano), almeno poteri di stampa come di routine accade in Usa. Ma non risulta che il Mit e queste sue direzioni ad hoc si siano mai sentite, nello specifico della gestione da parte di Atlantia di questa bomba vagante che incombeva su Genova. Quindi, Toninelli, giustissimo puntare il dito, ma questo è un ministero che va scosso da cima a fondo.(Paolo Barnard, “Toninelli, dopo le colpe Ue lei ora indaghi sul ministero che dirige”, dal blog di Barnard del 17 agosto 2018).Dove sta l’origine della colpa maggiore l’ho già scritto qui, ma – caro ministro Toninelli – lei deve indagare dentro al ‘carrozzone’ ministeriale che (incolpevolmente) presiede, e che aveva tutte le competenze per almeno avvisare del pericolo e forse evitare la catastrofe, come dimostrato sotto (anche se non i fondi, per il noto problema dei tagli Ue). Ma dove diavolo era il Mit? Perché non si è almeno sentito prima dei morti a Genova? O scopriremo che i suoi tecnici erano distratti? O, peggio, che sono stati ignorati per anni? Ai lettori: date un’occhiata qui di seguito, si parla del Mit e concessionarie autostrade. Direzione generale per le strade e le autostrade e per la vigilanza e la sicurezza nelle infrastrutture stradali (questa è la struttura “ombrello”, da cui si diramano le due direzioni sottostanti, ancor più significative in tema di controlli alle concessionarie. Competenze: b) funzioni di concedente della rete autostradale in concessione; n) approvazione di programmi di adeguamento e messa in sicurezza delle infrastrutture di viabilità di interesse statale e locale; t) vigilanza sulla corretta manutenzione delle infrastrutture di competenza.
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Benetton, pedaggio italiano al feroce buonismo globalista
I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.Dietro la facciata “progressista” di Benetton c’è però la realtà di Maletton, il lato B. È il caso, ad esempio del milione d’ettari della Benetton in Patagonia, sottratto alle popolazioni locali come le comunità Mapuche, vanamente insorte e sanguinosamente represse. O lo sfruttamento senza scrupoli dell’Amazzonia, ammantato dietro campagne in difesa dell’ambiente. O la storia dei maglioni prodotti a costi stracciati presso aziende che sfruttavano lavoratori, donne e minori a salari da fame e condizioni penose, come accadde in Bangladesh a Dacca, dove morirono un migliaio di sfruttati che lavoravano in un’azienda che produceva anche per Benetton. Le loro facce non le abbiamo mai viste negli spot umanitari di Benetton, così come non vedremo nessuna maglietta rossa, nessun cappellino rosso sponsorizzato da Benetton o promosso da Toscani per le vittime di Genova. A questo si aggiunge per la Benetton l’affarone di gestire prima gli autogrill e poi interamente le Autostrade, dopo che lo Stato italiano ha investito per decenni miliardi per far nascere la rete autostradale. Un “regalo” del pubblico al privato, come succede solo in Italia.Il capitalismo italiano ha sempre avuto questo lato parassitario e rapace: non investe, non rischia di suo ma campa a ridosso del settore pubblico o delle sue commesse. A volte socializza le perdite e privatizza i profitti, come spesso faceva per esempio la Fiat, o piazza i suoi prodotti scartati dal mercato allo Stato, come faceva ad esempio De Benedetti accollando materiali un po’ vecchiotti dell’Olivetti alla pubblica ammministrazione. Aziende che si scoprivano nazionaliste quando si trattava di mungere dallo Stato italiano e poi si facevano globalità quando si trattava di andarsene all’estero per ragioni di produzione, fisco o costi minori. O si rileva la gestione delle Autostrade come i Benetton e i loro soci, con sontuosi profitti ma poi è tutto da verificare se si siano curati di investire adeguatamente per ammodernare la rete e fare manutenzione efficace. La tragedia di Genova pende come un gigantesco punto interrogativo tra i cavi sospesi sulla città.Di tutto questo, naturalmente, si parla poco nei media italiani, soprattutto nei grandi; non dimentichiamo che Benetton, oltre che importante cliente pubblicitario nei media, è azionista nel gruppo de “La Repubblica-L’Espesso-La Stampa”, dove si sono incrociati – ma guarda un po’ – i sullodati Agnelli e De Benedetti. In miniatura, segue lo stesso modello ideologico e d’affari alla Benetton, anche Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Il capitalismo nostrano da un verso sostiene battaglie “progressiste” appoggiando forze politiche pendenti a sinistra e finanziando campagne global e antirazziste; poi dall’altro si trova invischiato in storie coloniali di espropriazione delle terre alle popolazioni indigene, di sfruttamento delle risorse e di uomini per produrre a costi minimi e senza sicurezza, ottenendo il massimo profitto. Poi vi chiedete perché in Italia certe opinioni politically correct sono dominanti: si è cementato un blocco tra un ceto ideologico-politico progressista, radical, di sinistra che fornisce il certificato di buona coscienza a un ceto affaristico di capitalisti marpioni. Un ceto che è viceversa adottato, tenuto a libro paga, dal medesimo. In questa saldatura d’interessi si formano i potentati e contro quest’intreccio ha preso piede il populismo.Però alle volte insorge la realtà. Drammaticamente, come è stato il caso di Genova. Dove ci sono da appurare le responsabilità, i gradi e i livelli. Inutile aggiungere che con ogni probabilità non ci sarà un solo colpevole, ci saranno differenti piani di responsabilità, anche a livello di amministratori locali, di governi centrali e ministeri dei trasporti che avrebbero dovuto vigilare e imporre alla società autostrade di spendere di più in sicurezza, pena la decadenza della concessione. Col senno di poi è facile dire che se gli azionisti della società autostrade avessero speso la metà dei loro utili (oltre un miliardo di euro l’anno) per ulteriore manutenzione, sicurezza e rifacimento di strutture a rischio, come era notoriamente il ponte Morandi a Genova, oggi probabilmente non staremmo a piangere i morti e una città stravolta, sventrata. Ma richiamare altre responsabilità non vuol dire buttarla sulla solita prassi del tutti colpevoli nessun condannato; no, ci sono gradi e livelli di responsabilità diversi, e qualcuno dovrà pagare per quel che è successo, ciascuno secondo il suo grado di colpa effettivamente accertata.A questo punto rivedere le concessioni è necessario. Ma non può essere la sola risposta. C’è da ripensare al modello italiano che non funziona più da anni, vive di rendita sul passato e manda in malora il suo patrimonio. Bisogna ripensare alla nostra scassata modernità, al nostro obsoleto repertorio strutturale, vecchio come i capannoni di archeologia industriale e le cattedrali nel deserto che spesso deturpano il nostro paesaggio e ricordano il nostro passato, quando l’industria era il radioso futuro. Un paese che non sa più pensare in grande, investire, intraprendere, far nascere, pensare al futuro. Resistono i ponti dei romani, resistono i ponti di epoca fascista, opere “aere perennius”, ma scricchiolano o crollano le opere recenti, perché non c’è stata vera manutenzione, perché c’è stato sovraccarico, o perché furono fatte in origine con materiali inadeguati, con permessi ottenuti in modo obliquo, perché qualcuno vi speculò, e non solo le imprese di costruzione.In tutto questo, purtroppo, la linea grillina del non fare, del tagliare, del risparmiare sulle grandi opere o sui grandi rifacimenti non è una risposta adeguata ai problemi e alle urgenze. Non dimentichiamo che per i grillini fino a ieri era una “favoletta” il rischio di crollo del ponte Morandi di Genova, era solo un modo per mungere soldi; e dunque pur di frenare eventuali corrotti e corruttori, per loro è meglio tenersi strade scassate e ponti insicuri. Intanto è necessario rimettere in discussione il modello imperante, con un residuo di statalismo incapace e impotente, che si accompagna a un capitalismo vorace e parassitario sotto le vesti progressiste e umanitarie, con tutte le sue connivenze politiche denunciate da Di Maio. Quelle aziende che mettevano in cerchio i bambini del mondo, salvo vederli sfruttare nelle aziende del Terzo mondo o espropriare delle loro terre. Quelle aziende che volevano abbattere muri e frontiere nel mondo e nel frattempo crollavano i ponti di casa…(Marcello Veneziani, “Benetton Maletton”, dal “Tempo” del 17 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.
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Altro che Torino-Lione, c’è da salvare un’Italia a pezzi
Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.Se il “governo del cambiamento” vuole cambiare qualcosa, deve partire proprio di qui. Cioè da zero. Con scelte di drastica discontinuità col passato: rivedere le concessioni ai privati che lucrano sui continui aumenti delle tariffe in cambio di manutenzioni finte o deficitarie; e annullare le grandi opere inutili, dal Tav Torino-Lione in giù, per dirottare le enormi risorse (anche ridiscutendone la destinazione con l’Ue) su piccole e medie opere di manutenzione, prevenzione e ammodernamento delle infrastrutture esistenti (finora ignorate perché la grandezza dei lavori e delle spese è direttamente proporzionale a quella delle mazzette). Da quando i partiti che hanno sgovernato finora hanno perso le elezioni e il potere, non fanno che esortare i successori a non disperdere il grande patrimonio ereditato. Invece proprio questo un “governo del cambiamento” deve fare: buttare a mare la pseudocultura dello “sviluppo” gigantista e della “crescita” faraonica; e invertire la scala dei valori e delle priorità.Il crollo di ieri ci dice che un ponte pericolante, figlio di un sistema marcio e corrotto, fa più danni di tutti i terroristi islamici, i migranti clandestini, le epidemie di morbillo e le altre “emergenze” farlocche o gonfiate che occupano l’agenda industrial-politico-mediatica. Se vuole cambiare seriamente, il governo si occupi di cose serie con politiche serie. Confindustria, Confcommercio, Confquesta, Confquellaltra e i loro giornaloni si metteranno a strillare? Buon segno: è a furia di dar retta a lorsignori che siamo finiti tutti sotto quel ponte.(Marco Travaglio, estratto dall’editoriale “Sotto i ponti” pubblicato dal “Fatto Quotidiano” il 15 agosto 2018 e ripreso da “Il Bene Comune Newsletter”).Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.
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E con Genova franano 40 anni di saccheggio neoliberista
Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.Per non parlare di come l’esecutivo si confronti con l’assenza di settori economici previsti dalla lungimiranza di coloro che, come dicevano, furono ridotti al silenzio, affinché i tecnocrati potessero procedere con il saccheggio del capitale nazionale. Casi emblematici delle due categorie? Maltenute sono le infrastrutture di gestione delle acque e disattesi i piani di sviluppo concepiti con le più ampie vedute urbanistiche. Assenti i sistemi di trasporto avveniristici rimasti tra le pagine di fantascienza o al più delle riviste di divulgazione scientifica: il treno a levitazione magnetica, l’aerotreno, gli hovercraft, gli aerei civili supersonici, le navi a propulsione magnetoidrodinamica, ecc.. In gravissimo affanno il settore della ricerca nello sfruttamento per scopi pacifici dell’energia custodita nei nuclei, in primis tramite la fusione nucleare. Quel che si trova alla “fine del ciclo vitale” non è, tuttavia, soltanto il parco composto delle numerosissime infrastrutture (a tal proposito approviamo il riferimento al Piano Marshall nel recente appello del Cnr alla ricostruzione delle opere obsolete), tra le quali i gioielli ingegneristici o di armonizzazione con il paesaggio costruiti anche in anticipo rispetto alle altre grandi potenze occidentali.I candidati sono stati eletti nel “governo del cambiamento” grazie ad animati discorsi sull’urgenza di intaccare la Legge Fornero, di smontare la Buona Scuola, di rivedere il Jobs Act, ma non avrebbero dovuto trascurare che l’inesorabile legge cronologica del “fine vita” vige anche per le opere immateriali: essa si applica ai cicli di vita della società stessa, quelli durante i quali prosperano le nefaste mezze verità dei sofisti. Sotto sforzi eccessivi non sono soltanto le strutture progettate dagli ingegneri, ma anche la capacità demografica della società stessa, che è stata indotta, con la negazione degli appropriati investimenti, a rinunciare di costruire la propria base di futuro progresso dei livelli di vita (lo trovate un caso che la vita media abbia cominciato lievemente a calare?). Altra cosa sarebbe stata, durante la campagna elettorale, se l’attacco alla Fornero fosse stato esteso a tutte le “riforme pensionistiche” risalendo sino a Lamberto Dini; se il male della scuola non fosse stato additato nella sola “riforma” renziana, ma si fosse aperto un dibattito sull’optimum raggiunto nei cento-cinquantanni di scuola pubblica (che in sé sono stati una lunghissima sperimentazione); se sulla questione del lavoro non si fosse sbandierata un’opposizione limitata al Jobs Act, ma fossero stati presentati in modo organico gli argomenti a favore di una rinascita economica, per incidere coordinatamente su altri fattori (moneta unica, parametri non scientifici di Maastricht, pareggio di bilancio in Costituzione, sovranità nella politica economica delle grandi opere, ecc.) anziché perdurare nella dinamica pluridecennale della depressione dei salari.Crollano, assieme ai ponti veri, i castelli fiabeschi di sabbia del sistema venduto come l’unico rimasto a disposizione, quello del liberismo, che in verità è già una concessione chiamare “sistema economico”. Siamo alla fine di un ciclo narrativo di menzogne al servizio degli avvoltoi finanziarii e in questo momento di transizione occorre tener presente che vi è chi ci consegna colpevolmente un paese in più modi fallato (non sono esclusi gli inetti o coloro che hanno preferito credere alla fiabe) e chi rischia di svilire l’impulso degli elettori, non osando essere di radicale cambiamento, ma accontentandosi di far appello alla memoria corta delle masse, invece che alla memoria a lungo termine degli esperti emarginati per decenni. Stiamo parlando di un’epoca che deve andarsene e della necessità di limitare i dolori del travaglio. Non è vero che abbiamo troppe infrastrutture: la rete ferroviaria è poco più di quella di Cavour, mentre la popolazione è nel frattempo triplicata. Ma anche, non fu mai vero che le pensioni fossero insostenibili, quando Dini vi mise mano.Non fu mai vero che la scuola dovesse trasformarsi in bottega e rafforzare la propria deriva con l’autoritarismo sotto la maschera della “autonomia” attenta alle “esigenze del territorio”. Non fu mai vero che il lavoro umano dovesse essere passato nel tritacarne della depressione dei salari. Se questa dolente epoca deve cedere, dobbiamo riconoscere altresì che non fu mai vero che la sovranità monetaria fu mal gestita dal nostro paese. Furono piuttosto certe morti di rilievo politico (Mattei, Moro, ecc.) ad arrestare la nostra corsa verso il progresso materiale e spirituale. Bisogna avere il coraggio di far maturare appieno e in brevissimo tempo il dibattito più strategico, assai mirato sulla necessità di rivedere quei vincoli che hanno determinato il disastro e continuano a legare le mani a chiunque sia chiamato a servire il paese, e non gli speculatori. Questi non staranno a lungo in attesa prima di sferrare qualche colpo.(Flavio Tabanelli, “Ponti, pensioni e altri assetti alla prova del governo del cambiamento”, da “Scenari Economici” del 15 agosto 2018).Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.
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Benetton-Spagna grazie ai nostri pedaggi, regalo di D’Alema
«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).Gli imprenditori trevigiani erano partiti molti anni fa con l’abbigliamento a buon mercato, ricorda Fabio Pavesi sul “Fatto Quotidiano”, ma hanno scoperto ben presto che i soldi – quelli veri e tanti – si fanno con i business monopolistici: «Quelli regolati da tariffe e dove la concorrenza sui prezzi, che ha morso sempre di più il tessile-abbigliamento, è del tutto inesistente». Oggi il marchio Benetton è in crisi profonda, mentre i business delle infrastrutture (autostrade e aeroporti, fino alla ristorazione con Autogrill) in cui la famiglia di Ponzano Veneto ha pensato bene di investire alla grande, sfavillano di luce propria. Atlantia, la capofila del gruppo nel settore delle autostrade, ha trovato l’accordo con la Acs di Florentino Perez (patron del Real Madrid) e la sua controllata tedesca Hochtief per “papparsi” la spagnola Abertis, su cui Atlantia aveva lanciato un’Opa da 16 miliardi. Il progetto: una holding in cui proprio Atlantia avrà il 50% del capitale, più un’azione. «Il gruppo dei Benetton entra così in Abertis dal piano superiore. Una mossa che la dice lunga sull’abilità della famiglia di Ponzano Veneto di giocarsi alla grande i suoi investimenti».Del resto, aggiunge Pavesi, il business delle autostrade è da sempre un investimento a prova di rischio, e molto remunerativo.Basta scorrere i numeri di Atlantia che possiede Autostrade per l’Italia, la rete da 3 mila chilometri (solo in Italia) oltre agli Aeroporti di Roma, cui si è aggiunto quello di Nizza, insieme ad altri piccoli scali. La holding infrastrutturale – posseduta al 30% da Edizione, la cassaforte dei Benetton – sforna ogni anno numeri in costante crescita. Nel 2017, Atlantia ha visto i ricavi salire e lambire i 6 miliardi, contro i 5,4 di solo un anno prima. «La crisi economica in Atlantia non si è mai vista. Nel 2010 il fatturato valeva poco meno di 4,5 miliardi. Eppure il traffico sulla rete autostradale negli anni bui era anche diminuito. A far salire in continuazione il fatturato c’è sempre la ciambella di salvataggio delle tariffe. Quelle non scendono mai – scrive il “Fatto” – nemmeno quando l’inflazione va a zero, come è accaduto». E’ il bengodi, per i gestori: lo Stato concede loro di rincarare i pedaggi per coprire gli investimenti. «Anche nel 2017 per Autostrade per l’Italia le tariffe hanno corso di più dell’incremento da volumi di traffico. Ed è proprio Autostrade per l’Italia l’asset più redditizio per l’intera Atlantia. La sola Autostrade ha fatto ricavi per 3,94 miliardi sui 6 miliardi di tutta Atlantia. Pagati costi operativi e del lavoro, Autostrade ha una redditività industriale stratosferica: su 3,94 miliardi di fatturato il margine operativo lordo è di ben 2,45 miliardi. Un livello del 62%. Livelli che pochi raggiungono».Dal 2012 al 2016, continua il “Fatto”, Atlantia ha girato dividendi per la bellezza di 1,5 miliardi. «Una vera “cash machine”, una macchina da soldi che spende sì in investimenti per la manutenzione e ha speso molto per la Variante di Valico, ma con una redditività così elevata si permette il lusso di portare a casa quasi un miliardo di utile netto su 6 miliardi di ricavi. Niente male, per la famiglia veneta, che ha capito già 20 anni fa che quel business era l’affare della vita». Basti pensare, come documenta Mediobanca, che a primavera del 2017 Atlantia ha ceduto due pacchetti del 5% di Autostrade con una plusvalenza di ben 732 milioni. «Ricchi, ricchissimi, un vero tesoro Autostrade/Atlantia per i Benetton». Le perdite del marchio dei maglioni? Fanno solo il solletico – conclude Pavesi – al gruppo che siede sul tesoro delle autostrade italiane, e domani anche di quelle spagnole. Il governo Conte ora annuncia una multa da 150 milioni per il crollo di Genova. Ma la revoca della storica concessione, si apprende, potrebbe costare al paese qualcosa come 20 miliardi. “E’ la privatizzazione, bellezza”. «Durante la grande svendita delle aziende di Stato, costruite con i soldi degli italiani – scrive “VoxNews” – solo comprando e rivendendo dall’Iri la catena Gs, Benetton ha messo a segno una plusvalenza da 4.500 miliardi di vecchie lire. E come nel caso Telecom, di fatto “regalata” all’amico Colaninno, nel 1999 è il governo di Massimo D’Alema a imporre all’Iri di privatizzare le autostrade».Per i Benetton, aggiunge il newsmagazine, si trattava di un grande affare da affiancare a quello di Autogrill, anch’essa acquistata tre anni prima sempre dall’Iri assieme alla catena della grande distribuzione. L’operazione finì nel mirino dell’Antitrust, che chiese ai Benetton di aprire le strade italiane anche ad altri concorrenti della ristorazione. Ma, secondo l’Agcom, il diktat dell’autorità guidata da Giuseppe Tesauro non venne osservato, e per questo nel 2004 i Benetton si beccarono una multa da quasi 16 milioni di euro. «Una puntura di spillo», rispetto alla voragine di miliardi nel frattempo incassati ogni anno. La tragedia di Genova è uno specchio: di neoliberismo privatizzatore si muore. Romperemo i vincoli di bilancio imposti dall’Ue, annuncia Salvini tra le macerie genovesi, pur di mettere in sicurezza la rete nazionale dei trasporti. Ecco il punto: scardinare la consegna del rigore e riconquistare quella sovranità finanziaria che, negli anni della crescita (attraverso il ricorso strategico al debito pubblico) aveva permesso di realizzarle, le infrastrutture che poi il centrosinistra ha svenduto. E’ solo l’inizio di un rivolgimento epocale inevitabile, drammaticamente urgente. D’Alema tace, mentre l’oscuro Orfini accusa Lega e 5 Stelle di ragliare a vanvera. Non una parola di autocritica, dall’ex sinistra che sta assistendo alla sua cancellazione, ingloriosa, dalla storia italiana.«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).
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Disastro privatizzato: così il neoliberismo ci crolla addosso
A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società Sias, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de “Il Fatto Quotidiano” di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo Iri, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de “Il Sole 24 Ore”).Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’Iri, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così. Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume “La grande trasformazione”, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ‘80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile. Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi?La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione, eccetera. Esistono però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia. Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’“ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole. Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza.Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione, eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna.Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi. Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone.Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione. Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: «La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi». Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo – di cui troviamo il ritratto nel libro di Gioele Magaldi, “Massoni: società a responsabilità illimitata”, editore Chiarelettere.(Patrizia Scanu, “Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 15 agosto 2018).A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.
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Salvini: Bruxelles ha sulla coscienza i morti di Genova
«Salvini fa solo demagogia», proclama da Parigi il solito Macron, pensando all’ennesima crisi-migranti (la nave Aquarius “rimbalzata” nel Mediterraneo) poco prima che l’Italia letteralmente si fermi, alla vigilia di ferragosto, di fronte al disastro di Genova: almeno 37 morti sotto le macerie del viadotto Morandi, collassato – pare – per il cedimento (non inatteso) degli “stralli”, i tiranti d’acciaio che reggevano la gigantesca infrastruttura sospesa sul capoluogo ligure. Terrore, caos, emergenza nazionale: il governo Conte, tramite Salvini e Di Maio, annuncia la revoca della concessione ad Autostrade e una multa da 150 milioni, mentre il ministro Toninelli si aspetta le dimissioni dei vertici della società. Emergono notizie purtroppo risapute: l’allarme per la tenuta del viadotto era stato rilanciato più volte, negli ultimi anni. Il problema? Soldi non disponibili per le riparazioni. «Buona parte d’Italia è da mettere in sicurezza», dichiara Salvini, a caldo, davanti alle telecamere. «C’è da metter mano a strade e ponti, autostrade, scuole, argini». Chi ce lo vieta? Ovvio: il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. «Se ci sono vincoli esterni che ci impediscono di spendere soldi (che avremmo) per mettere in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli o le autostrade dove viaggiano i nostri lavoratori, sarà il caso di porsi il dubbio se continuare a rispettare questi vincoli o se mettere, davanti a tutto e a tutti, la sicurezza degli italiani».Bingo: il leader della Lega ha centrato il punto. Se ne accorge anche “Bloomberg News”, che sottolinea: «Salvini punta il dito contro l’Ue per i morti a Genova». Commenta Paolo Barnard: «Concordo, ma sono silenti Tria, Conte e soprattutto Giulia Grillo, con oltre 60.000 italiani che muoiono, ogni anno, per le medesime ristrettezze economiche imposte dalla Ue». Ristrettezze «che hanno ucciso anche a Genova». E quindi, aggiunge Barnard, «Matteo Salvini mandi a Bruxelles quei conigli di Conte e Tria con 60.035 morti, non 37». Le dimensioni della catastrofe di Genova sono scioccanti: è crollato uno dei simboli dell’Italia del boom, risalente a mezzo secolo fa. Grandi opere (utili: non come il Tav Torino-Lione) che spinsero il “miracolo italiano”, sostenuto da poderosi investimenti pubblici sotto forma di deficit. Poi l’avvento nel neoliberismo, la fine della Prima Repubblica sotto i colpi di Mani Pulite e la grande stagnazione avviata con la nascita dell’Unione Europea e l’ingresso nell’Eurozona, che ha trasformato il debito pubblico: da leva stragegica per lo sviluppo a vera e propria tragedia nazionale, sotto il ricatto dello spread (la speculazione finanziaria sui titoli di Stato, non più sorretti dalla banca centrale come “prestatore di ultima istanza”).Uno schema evidenziato, in modo spettrale, dal martirio socio-economico della Grecia non più sovrana: prima la sovraesposizione debitoria incoraggiata dagli “stregoni” della Goldman Sachs, tra cui Mario Draghi, e poi – di fronte all’impossibilità di sostenere un maxi-debito non denominato in moneta nazionale, la condanna a ripagarlo per intero, imposta dal Fmi grazie a super-tecnocrati come Carlo Cottarelli. Il crollo del mastodontico viadotto genovese avvicina pericolosamente l’Italia alla Grecia: è un cedimento altamente simbolico, una sinistra premonizione. Certo, la situazione dovrà essere chiarita nei dettagli. Lo stesso Salvini pretende innanzitutto giustizia per i familiari delle vittime e chiede che l’inchiesta avviata dalla magistratura possa fornire indicazioni chiare su chi sono i responsabili di quanto accaduto: «Serve chiarezza, non può esserci un’altra strage senza colpevoli e qui hanno nomi e cognomi ben precisi: qualcuno deve finire in galera», dichiara il ministro dell’interno ai microfoni del Tg4. Ma è meglio risparmiarsi le speculazioni politiche spicciole: «Da ore in rete girano interrogazioni a questa o quella persona, ma non me la prendo con Delrio, perché non fa l’ingegnere nemmeno lui», aggiunge Salvini, evitando di “sparare” sul precedessore di Toninelli.Salvini punta giustamente al bersaglio grosso, Bruxelles: cioè il gran consiglio di tecnocrati non-eletti ai quali il governo gialloverde intende strappare larghe concessioni ai vincoli di bilancio, per poter finanziare Flat Tax e reddito di cittadinanza. Il leader della Lega sembra pronto a far pesare anche i morti di Genova: con più soldi da spendere a deficit, la tragedia si sarebbe evitata. L’inizio della fine, per noi? L’austerity varata da Monti e l’obbligo “criminale” del pareggio di bilancio inserito addirittura nella Costituzione, con il placet di Berlusconi e Bersani. Tra le macerie genovesi crolla anche la “teologia” neoliberista che predica la necessità dei tagli pubblici: l’economista post-keynesiano Nino Galloni ricorda che ogni atto di spesa produce un ritorno, in termini di Pil, anche del 300%. Impugnando lo sfacelo di Genova, l’Italia potrebbe rilanciare la sua sfida, da cui – ormai l’hanno capito tutti – può dipendere il futuro assetto politico dell’intera Europa. Per questo la Merkel tace, e il supermassone filo-vaticano Macron continua a latrare, in modo inaudito, contro il governo per il quale oltre il 60% degli italiani fa apertamente il tifo.«Salvini fa solo demagogia», proclama da Parigi il solito Macron, pensando all’ennesima crisi-migranti (la nave Aquarius “rimbalzata” nel Mediterraneo) poco prima che l’Italia letteralmente si fermi, alla vigilia di ferragosto, di fronte al disastro di Genova: almeno 37 morti sotto le macerie del viadotto Morandi, collassato – pare – per il cedimento (non inatteso) degli “stralli”, i tiranti che reggevano la gigantesca infrastruttura sospesa sul capoluogo ligure. Terrore, caos, emergenza nazionale: il governo Conte, tramite Salvini e Di Maio, annuncia la revoca della concessione ad Autostrade e una multa da 150 milioni, mentre il ministro Toninelli si aspetta le dimissioni dei vertici della società. Emergono notizie purtroppo risapute: l’allarme per la tenuta del viadotto era stato rilanciato più volte, negli ultimi anni. Il problema? Soldi non disponibili per le riparazioni. «Buona parte d’Italia è da mettere in sicurezza», dichiara Salvini, a caldo, davanti alle telecamere. «C’è da metter mano a strade e ponti, autostrade, scuole, argini». Chi ce lo vieta? Ovvio: il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. «Se ci sono vincoli esterni che ci impediscono di spendere soldi (che avremmo) per mettere in sicurezza le scuole dove vanno i nostri figli o le autostrade dove viaggiano i nostri lavoratori, sarà il caso di porsi il dubbio se continuare a rispettare questi vincoli o se mettere, davanti a tutto e a tutti, la sicurezza degli italiani».
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Pagare a vita: il ruolo di Cottarelli nell’agonia della Grecia
Carlo Cottarelli è tra i massimi responsabili delle mostruose sofferenze inflitte alla Grecia, che hanno trasformato il paese in un avanmposto del terzo mondo, con ospedali senza più medicine per curare i bambini e le maggiori infrastrutture – porti, aeroporti – comprate dalla Germania a prezzi di saldo. Lo afferma Fabio Lugano su “Scenari Economici”, citando documenti ufficiali che confermano il ruolo nefasto dell’economista neoliberale, scelto da Sergio Mattarella come candidato premier alternativo a Giuseppe Conte. La colpa di Cottarelli? Fu tra i dirigenti del Fmi che, quando la Grecia era commissariata dalla Troika, non permisero ad Atene di tagliare il debito, accollandone interamente il costo alle aziende e alle famiglie greche. Ragioni ideologiche: Cottarelli, autore della spending review del governo Letta, secondo l’insigne economista keynesiano Nino Galloni rifiuta di ammettere il valore potenziale del deficit, capace di triplicare – in termini di Pil – la spesa pubblica erogata. Nel caso della Grecia, ha invece rifiutato la “ristrutturazione” del debito storico, che avrebbe permesso al paese di tornare a respirare, evitando la catastrofe che non ha ancora finito di travolgerlo.Dato che sia Cottarelli che il collega Olivier Blanchard sono «molto restii a rivelare il loro ruolo nella questione greca», e visto che «sembra vogliano ripetere lo stesso frame con l’Italia», Fabio Lugano ha scovato i documenti che comprovano il ruolo di Cottarelli nel “martirio” della Grecia. «Nulla di segreto», premette Lugano su “Scenari Economici”: «Tutta roba ufficiale messa a disposizione del pubblico e già conosciuta». Il documento più interessante sulla questione greca, scrive Lugano, è il report dell’Indipendent Evaluation Office del Fmi, cioè l’ufficio che effettua l’audit sulle operazioni del Fondo Monetario, che insieme a Bce e Commissione Europea faceva parte della Troika incaricata di gestire la crisi finanziaria ellenica. «Abbiamo già specificamente trattato questo tema in precedenza, ma ci torneremo sopra in futuro – avverte Lugano – perchè il tema dei moltiplicatori fiscali viene lì trattato in modo approfondito e specifico, facendo notare come i moltiplicatori utilizzati dal Fmi nella valutazione della politica fiscale fossero completamente errati, pari ad un quinto di quanto verificato in seguito». In altre parole: i tagli inferti alla Grecia hanno prodotto solo il 20% del risultato atteso da Cottarelli e soci, e al prezzo della devastazione sociale di un’intera nazione.Il ruolo “cottarellico” nella vicenda? Lugano lo scova a pagina 23 del report: «Il Fmi – si legge – rimase diviso sulle conseguenze e i rischi legati a una ristrutturazione del debito». Per un pelo non prevalsero i saggi, disposti ad aiutare davvero la Grecia. «Mentre la maggioranza dello staff del Fmi era in modo crescente a supporto della ristrutturazione del debito», quindi del reale salvataggio della Grecia, «alcuni funzionari senior in posizioni chiave continuavano ad affermare che il debito fosse sostenibile», cioè scaricabile sulle spalle di aziende e famiglie, giovani e pensionati. Nel settembre 2010 – continua il rapporto – il Fad pubblicò un paper affermando che, «per le economie avanzate di oggi», incluse quelle «periferiche» dell’area euro, «il default non è nell’interesse dei cittadini». Firmato: “Cottarelli e altri, 2010”. «Il paper in questione lo trovate facilmente nel sito Fmi, ma non aspettatevi molto», dice Lugano: «Le motiviazioni sono deboli, alcune delle quali contestate nel medesimo report dell’Ieo – come ad esempio la sua fobia per i moltiplicatori elevati, o la sopportabilità di avanzi primari enormi». Le scelte di Cottarelli, aggiunge Lugano, influenzarono quelle del Fmi nel non insistere in un maggior taglio immediato del debito, «e lasciarono gravato lo Stato greco di un fardello che non poteva sopportare».Comunque, poi – nonostante le previsioni di Cottarelli – alla fine si dovettero ugualmente effettuare due tagli del debito, e nel 2017 il Fmi richiese addirittura un terzo taglio dei conti, che però non venne concesso. Ma l’immane debito greco, così gravoso solo perché denominato in euro (moneta non sovrana), non doveva essere interamente “sostenibile” fin dall’inizio? «Le affermazioni di Cottarelli si rivelarono completamente erronee – sottolinea Lugano – e impedirono di affrontare in modo immediato la crisi: invece che risolvere il tutto il 12-24 mesi si è proseguito con una specie di lenta agonia che non è ancora terminata». Conclude Lugano: «Considerare l’euro o le economie anche periferiche al di fuori delle regole dell’economia è stato un errore clamoroso, che viene ripetuto anche ora. Il problema non è errare, ma perseverare nell’errore, in una politica che si è dimostrata errata. Questa è la grande colpa dell’economista».Carlo Cottarelli è tra i massimi responsabili delle mostruose sofferenze inflitte alla Grecia, che hanno trasformato il paese in un avanmposto del terzo mondo, con ospedali senza più medicine per curare i bambini e le maggiori infrastrutture – porti, aeroporti – comprate dalla Germania a prezzi di saldo. Lo afferma Fabio Lugano su “Scenari Economici”, citando documenti ufficiali che confermano il ruolo nefasto dell’economista neoliberale, scelto da Sergio Mattarella come candidato premier alternativo a Giuseppe Conte. La colpa di Cottarelli? Fu tra i dirigenti del Fmi che, quando la Grecia era commissariata dalla Troika, non permisero ad Atene di tagliare il debito, accollandone interamente il costo alle aziende e alle famiglie greche. Ragioni ideologiche: Cottarelli, autore della spending review del governo Letta, secondo l’insigne economista keynesiano Nino Galloni rifiuta di ammettere il valore potenziale del deficit, capace di triplicare – in termini di Pil – la spesa pubblica erogata. Nel caso della Grecia, ha invece rifiutato la “ristrutturazione” del debito storico, che avrebbe permesso al paese di tornare a respirare, evitando la catastrofe che non ha ancora finito di travolgerlo.
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Duri con Salvini, ma zitti sul martirio (razzista) della Grecia
Condivido quasi nulla di Matteo Salvini, anzi, dico chiaro che da molto quest’uomo sta offrendo il fianco al ben noto sottosuolo dei più beceri italiani, quindi benissimo ha fatto il professor Paolo Becchi a sollecitare il ministro dell’interno verso prese di posizione sia politiche che personali inequivocabili contro qualsiasi rigurgito razzista (“Libero”, 02/08). Perché l’Europa è una terra fresca di oltre duemila morti per razzismo contati nel solo anno 2012, a cui, sempre per razzismo e sempre nello stesso periodo, si aggiunsero un milione di discriminati nel diritto alle cure fondamentali, abbandonati a contagi incontrollati di malaria e Hiv, e una strage d’innocenti per mortalità infantile. Si tratta di un olocausto di umani le cui origini, e il cui agghiacciante svolgimento, furono dovuti a una martellante campagna politica presso le opinioni pubbliche dove le vittime erano additate specificamente come gruppo etnico nemico dell’interesse comune degli onesti lavoratori, come sanguisughe delle tasse di chi veramente lavora, e come corrotti, ovvero una popolazione parassita inferiore contro cui si giustificavano, nella difesa degli onesti, misure di una durezza senza pietà fino alle estreme conseguenze di cui sopra. Una campagna quindi populista, becera e razzista.Un autorevole quanto accorato studio della più prestigiosa rivista medica del mondo, il “The Lancet”, del 2014 forniva le cifre di quel bagno di sangue: 2.200 morti negli over 55 in un solo anno, un aumento dei contagi da Hiv del 3.126% (tremilacentoventisei), casi diffusi di malaria, e un aumento della mortalità infantile fra le loro donne di un orribile 43%. Questo può fare il populismo razzista, questo ha fatto, in Grecia. Dietro al megafono dell’istigazione a nessuna pietà per quei “parassiti” c’erano Angela Merkel, Jean-Claude Trichet, Christine Lagarde, Mario Monti fra i più vociferanti. L’istigazione all’odio contro l’etnia greca arrivò al punto da impedire all’altrimenti umanitaria sinistra italiana delle Ong, de “La Repubblica”, del Pd, e degli apostoli dell’anti-razzismo come i Saviano, Padellaro, Benigni e Lerner di organizzare milizie in maglietta rossa dirette alla Corte di Giustizia dell’Aja per denunciare quei crimini contro l’umanità a sfondo interamente razzista (ricordo solo quel Barnard in prima serata Tv gridare “Mario Monti, lei li ha tutti sulla coscienza quei morti, criminale”, non ricordo altri colleghi).Che fosse razzismo – cioè un rigurgito di dissennato astio da parte di milioni di europei contro un’etnia considerata parassita – interamente ad opera del populismo razzista di Merkel, Trichet, Lagarde e Monti – lo dimostrò un autorevole studio pubblicato già nel 2010 dal prestigioso Levy Economics Institute of Bard College di New York a firma di Dimitri B. Papadimitriou, L. Randall Wray e Yeva Nersisyan, dove ogni singola accusa all’etnia parassita e infame veniva fatta a pezzi: 1) Il debito greco, detto “minaccia alla stabilità di tutto il continente e causato da diffuso malcostume e parassitismo” era in realtà dovuto in maggioranza alla recessione economica mondiale, cioè calo Pil, calo tasse, e aumento conseguente di aiuti statali ai lavoratori in difficoltà di cui la Grecia non aveva nessuna colpa. 2) Non era affatto vero che il reddito pro capite greco era troppo alto per le casse di governo. Era invece uno dei più bassi d’Europa. 3) Lo Stato Sociale greco spendeva pro capite in media 3.530 euro contro i 6.251 della media europea. Nessuna elemosina a “parassiti”. 4) I costi amministrativi greci erano inferiori a quelli tedeschi o francesi, la spesa dello Stato era sotto la media Oecd, e la spesa pensionistica era in linea con quella di Germania e Francia.E’ col gelo nel sangue per questo precedente di pura follia razzista, e in ricordo dei distratti fischiettii (quando non assensi) dell’umanitaria sinistra italiana delle Ong, de “La Repubblica”, del Pd, e degli apostoli dell’anti-razzismo come i vari Saviano, Padellaro, Benigni e Lerner, che trovo assolutamente giusto il richiamo del professor Becchi a Matteo Salvini. E lo scrivo senza una traccia di sarcasmo. Meglio una parola in più del leader leghista contro derive razziste populiste anti “parassiti” che l’accusa domani di essere stato in qualsiasi modo complice di un’onda d’odio che causò poi stragi. O peggio: di essere stato un omologo di Angela Merkel (e la strage in Grecia continua).(Paolo Barnard, “Il prof. Becchi avvisa Salvini sul razzismo, e fa bene. Io aggiungo l’altra parte”, dal blog di Barnard del 3 agosto 2018).Condivido quasi nulla di Matteo Salvini, anzi, dico chiaro che da molto quest’uomo sta offrendo il fianco al ben noto sottosuolo dei più beceri italiani, quindi benissimo ha fatto il professor Paolo Becchi a sollecitare il ministro dell’interno verso prese di posizione sia politiche che personali inequivocabili contro qualsiasi rigurgito razzista (“Libero”, 02/08). Perché l’Europa è una terra fresca di oltre duemila morti per razzismo contati nel solo anno 2012, a cui, sempre per razzismo e sempre nello stesso periodo, si aggiunsero un milione di discriminati nel diritto alle cure fondamentali, abbandonati a contagi incontrollati di malaria e Hiv, e una strage d’innocenti per mortalità infantile. Si tratta di un olocausto di umani le cui origini, e il cui agghiacciante svolgimento, furono dovuti a una martellante campagna politica presso le opinioni pubbliche dove le vittime erano additate specificamente come gruppo etnico nemico dell’interesse comune degli onesti lavoratori, come sanguisughe delle tasse di chi veramente lavora, e come corrotti, ovvero una popolazione parassita inferiore contro cui si giustificavano, nella difesa degli onesti, misure di una durezza senza pietà fino alle estreme conseguenze di cui sopra. Una campagna quindi populista, becera e razzista.
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Contro Marcello Foa in Rai, il complotto dei morti viventi
Nella desolante bocciatura di Marcello Foa, da parte del comitato parlamentare che dovrebbe vigilare sulla lottizzatissima televisione di Stato, si legge in controluce la bancarotta politica e intellettuale di un establishment disperato. A infliggere gli ultimi colpi di coda sono i rottami della Seconda Repubblica neoliberista, finto-liberale e finto-progressista, ridotti a fischiare e demonizzare qualsiasi iniziativa del governo gialloverde, la cui vera e unica colpa è quella di esistere, per volere dei maledetti elettori che hanno osato rovesciare milioni di voti sui 5 Stelle sulla Lega. Neutralizzata dall’ennesima legge elettorale fatta apposta per rifilare al paese il solito inciucio maleodorante, la democrazia è riuscita comunque a infiltrarsi in Parlamento, mettendo in piedi – contro tutti i poteri forti – un esecutivo problematico e squilibrato, pieno di incognite e di falle, ma quantomeno distante mille miglia dalla politica senza speranza e senza verità che aveva stremato l’Italia negli ultimi 25 anni, sotto il dominio del “pensiero unico” dell’austerity interpretato dal falso centrodestra in combutta con l’altrettanto falso centrosinistra. Due pugili suonati, travolti dai rispettivi fallimenti, ma ancora capaci di far male all’Italia, privando il paese della possibilità – storica – di disporre di un presidente Rai antropologicamente diversissimo dai precedessori. Un giornalista di razza: onesto, coraggioso, pulito.Per contro, il “complotto dei sorci” rende ancora più palese la disperazione degli ex partiti caduti in rovina, specchio perfetto – e piuttosto vomitevole – dei grandi poteri che li hanno utilizzati per decenni, allo scopo di ridurre in cenere la sovranità italiana e svendere il patrimonio nazionale, fino a precipitare il paese in una crisi presentata come fisiologica e incurabile. Sono ancora a piede libero, e armati fino ai denti, i killer politici dell’Italia che fu: possono infatti contare sul plumbeo mainstream cartaceo e radiotelevisivo, lesto nel trasformare in una specie di pazzo visionario un reporter come Foa, allievo di Montanelli, distintosi – nella sua lunga carriera – per equilibrio, indipendenza politica e capacità di fornire opinioni illuminanti e giudizi altamente critici sullo stato delle cose, a cominciare dal giornalismo declassato a far west dove ormai gli “stregoni della notizia” fabbricano quotidianamente le “fake news” suggerite dai governi. Era decisamente troppo, Marcello Foa – troppo abile, troppo trasparente – per essere tollerato dagli omuncoli del Pd e dai loro compari, i residuati bellici ancora al servizio del nonno di Arcore. C’è anche un che di lugubre, nella congiura dei ratti livorosi, pieni di furore per i successi di Salvini: hanno bocciato Foa, ma non hanno niente di meglio da proporre agli italiani. Sanno di non essere nient’altro che cadaveri politici.Tutti i sondaggi attribuiscono ai gialloverdi un consenso che supera il 60%, senza contare gli elettori di Fratelli d’Italia e quel 27% di italiani che il 4 marzo ha scelto di non votare, nauseato dalle performance dei renziani e dei loro colleghi berlusconiani. In modo sbilenco e “gridato”, tra proclami e slogan che sarà difficile trasformare in provvedimenti legislativi, il nuovo governo è comunque assistito dalla sostanziale indulgenza di un paese che non riesce più a digerire gli zombie che ancora infestano, ventiquattr’ore al giorno, i salotti televisivi. E’ in atto un scontro epocale, socio-culturale prima ancora che politico: il sentimento di rivolta generalizzata, per comodità chiamato populismo, segnala che la narrazione dei leghisti e dei pentastellati ha comunque colto nel segno, visto che risponde a un preciso stato d’animo largamente condiviso. Non sarà più possibile truccare completamente la politica, al punto da spacciare per “riforme” endogene la traduzione sistematica dei diktat dell’oligarchia finanziaria euro-pilotata. I morti viventi ancora in circolazione possono, appunto, sabotare l’elezione di Marcello Foa alla presidenza della Rai. Ma la storia è contro di loro. Si è innescata una sorta di rivoluzione culturale: e più la crisi continua a mordere, meno comprensione ci sarà chi ha osato cestinare un gentleman come Marcello Foa, vero e proprio alieno in questa Italia di roditori in via di estinzione.Nella desolante bocciatura di Marcello Foa, da parte del comitato parlamentare che dovrebbe vigilare sulla lottizzatissima televisione di Stato, si legge in controluce la bancarotta politica e intellettuale di un establishment disperato. A infliggere gli ultimi colpi di coda sono i rottami della Seconda Repubblica neoliberista, finto-liberale e finto-progressista, ridotti a fischiare e demonizzare qualsiasi iniziativa del governo gialloverde, la cui vera e unica colpa è quella di esistere, per volere dei maledetti elettori che hanno osato rovesciare milioni di voti sui 5 Stelle sulla Lega. Neutralizzata dall’ennesima legge elettorale fatta apposta per rifilare al paese il solito inciucio maleodorante, la democrazia è riuscita comunque a infiltrarsi in Parlamento, mettendo in piedi – contro tutti i poteri forti – un esecutivo problematico e squilibrato, pieno di incognite e di falle, ma quantomeno distante mille miglia dalla politica senza speranza e senza verità che aveva stremato l’Italia negli ultimi 25 anni, sotto il dominio del “pensiero unico” dell’austerity interpretato dal falso centrodestra in combutta con l’altrettanto falso centrosinistra. Due pugili suonati, travolti dai rispettivi fallimenti, ma ancora capaci di far male all’Italia, privando il paese della possibilità – storica – di disporre di un presidente Rai antropologicamente diversissimo dai precedessori. Un giornalista di razza: onesto, coraggioso, pulito.
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Mazzucco: vogliono il morto in mare, per seppellire Salvini
L’avevo detto in anticipo: ci hanno preso per il culo. Dall’incontro di Bruxelles con il leader europei, Conte non ha portato a casa assolutamente niente, se non appunto la presa in giro di una promessa di collaborazione che ovviamente non c’è. Vedrete come finiremo, quest’estate: cominceremo ad avere delle barche piene di gente, che galleggiano in mezzo al mare senza sapere dove andare. E infatti ci siamo già arrivati. Finché non hai l’impegno da parte degli altri di prenderci la gente, chiudere i porti serve solo a creare una crisi locale. Arrivano barconi con sopra 450 migranti: figurarsi se la Libia se li riprende, o se sbarcano a Malta. Quindi Salvini dovrà trovare una scusa, inventarsi una motivazione. Il fatto è che, ogni volta, se accettiamo di sbarcare migranti, dall’altra parte – i francesi soprattutto – si sfregano le mani, perché finché non si ottiene un impegno reale, un accordo firmato, nel quale ci si distribuisce questi migranti, non cambierà assolutamente niente. Finiremo solo per scontrarci contro un problema che è più grosso di tutti noi. Mattarella è intervenuto per far sbarcare profughi, decidendo lui al posto del governo? Non è la prima volta che Mattarella ci dimostra che non è affatto super partes: sta chiaramente dalla parte dei “piddini”, della cordata buonista umanitaria che – non si capisce perché – ha tanto bisogno di questi immigrati.E’ vero che Salvini in quel caso ha fatto il passo più lungo della gamba: come ministro degli interni non è carino intervenire per suggerire alla magistratura quello che dovrebbe fare, tipo arrestare presunti facinorosi. Ma è altrettanto vero che non sono affari che riguardano Mattarella: comunque sia, è una questione tra ministeri o istituzioni diverse, mistero degli interni e magistratura. Non abbiamo certo bisogno che intervenga il Quirinale, e invece il capo dello Stato ha fatto proprio una telefonata a Conte, diretta, per chiedere che sbloccasse la situazione. Quindi Mattarella non è assolutamente super partes, come peraltro aveva già dimostrato durante la formazione del governo. Dal punto di vista di Salvini, cioè di chi vuole fermare gli sbarchi, la verità è che noi abbiamo due nemici: uno è l’Unione Europea, l’altro è la cordata interna del Pd e dei buonisti che non vedono l’ora che ci sia qualche tragedia in mare per poter addossare la colpa su Salvini e cominciare con l’arma del ricatto. E questo purtroppo mi tocca dirlo: temo che succederà molto presto, perché è impensabile che si possa passare tutta l’estate in situazioni come queste, senza che prima o poi non ci scappi da qualche parte il morto. A quel punto si scatenerà la vergogna del ricatto morale e finiremo esattamente dove qualunque persona con un minimo di cervello aveva già capito che saremmo finiti.L’altra sera, in televisione, Luca Telese cercava di attirare in trappola un’esponente dei 5 Stelle. Diceva: e se in uno di questi lager libici ci fosse una donna che deve partorire? Non ha forse il diritto di sognare di venire in Italia? E’ chiaro che se vai a cercare il caso estremo riesci sempre ad avere ragione, nello specifico, ma non hai stabilito la questione di principio – cosa che, appunto, tutte queste persone si rifiutano di fare. La questione è semplice: certo, anch’io ho il diritto di sognare di diventare ricco come Donald Trump, ma non è che poi sono autorizzato ad andare a rapinare una banca o a violare la legge, per diventarlo. Quindi, se ci sono delle leggi, vanno rispettate. E noi abbiamo queste leggi, in questo momento, che non permettono un’immigrazione di questo tipo. Quindi bisogna rispettarle. Il problema non è tra noi e il Sud, è tra noi e il Nord. Il resto dell’Europa se ne fotte, dei migranti che sbarcano in Italia. Tutto sarebbe risolto se ci fosse un accordo di spartizione automatica, proporzionale, fra gli Stati europei. Su ogni barcone con 450 migranti, divisi per i 28 paesi Ue, a ciascuno finirebbero 20 persone: non sarebbe più un problema, per nessuno. E soprattutto, noi vedremmo che gli altri non se ne fregano, e quindi saremmo anche noi più invogliati a fare la nostra parte, se gli altri facessero la loro. Viceversa è chiaro che ti impunti, come sta facendo Salvini in questo momento.(Massimo Mazzucco, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta “Mazzucco Live”, in web-streaming su YouTube il 14 luglio 2018).L’avevo detto in anticipo: ci hanno preso per il culo. Dall’incontro di Bruxelles con il leader europei, Conte non ha portato a casa assolutamente niente, se non appunto la presa in giro di una promessa di collaborazione che ovviamente non c’è. Vedrete come finiremo, quest’estate: cominceremo ad avere delle barche piene di gente, che galleggiano in mezzo al mare senza sapere dove andare. E infatti ci siamo già arrivati. Finché non hai l’impegno da parte degli altri di prenderci la gente, chiudere i porti serve solo a creare una crisi locale. Arrivano barconi con sopra 450 migranti: figurarsi se la Libia se li riprende, o se sbarcano a Malta. Quindi Salvini dovrà trovare una scusa, inventarsi una motivazione. Il fatto è che, ogni volta, se accettiamo di sbarcare migranti, dall’altra parte – i francesi soprattutto – si sfregano le mani, perché finché non si ottiene un impegno reale, un accordo firmato, nel quale ci si distribuisce questi migranti, non cambierà assolutamente niente. Finiremo solo per scontrarci contro un problema che è più grosso di tutti noi. Mattarella è intervenuto per far sbarcare profughi, decidendo lui al posto del governo? Non è la prima volta che Mattarella ci dimostra che non è affatto super partes: sta chiaramente dalla parte dei “piddini”, della cordata buonista umanitaria che – non si capisce perché – ha tanto bisogno di questi immigrati.
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Barnard: la Chiesa è marcia, con che faccia accusa Salvini?
La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.Nel 2014 il ministro delle finanze vaticane, cardinale George Pell, disse che «abbiamo scoperto centinaia di milioni di euro nascosti in conti dimenticati di cui non avevamo rendicontazione». E questi sono solo gli spiccioli di Papa Bergoglio. Secondo l’“International Business Times”, il Vaticano gestisce strumenti d’investimento per 6 miliardi di euro; ha 700 milioni investiti sulle Borse; tiene 20 milioni di dollari in oro alla Federal Reserve in Usa. Il gioielliere Bulgari a Londra paga l’affitto alla Chiesa di Roma in uno dei palazzi meglio prezzati del mondo a New Bond Street. L’investment bank Altium Capital idem, nella prestigiosa St James’s Square. Secondo il Consiglio d’Europa il merchant banker dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Aps), Paolo Mennini, nel 2012 da solo gestiva 680 milioni di euro per i cardinali, i quali solamente dallo Ior ricevono dividendi per 60 milioni annui. I valori delle proprietà immobiliari usate per profitto commerciale e speculativo dalla Santa Sede sono impossibili da calcolare, ma ecco un’idea: il “Sole 24 Ore” ha stimato che la sola ‘agenzia immobiliare’ vaticana chiamata Apsa, diretta fino al 2016 dal cardinale Domenico Calcagno, gestisce 10 miliardi di euro in immobili commerciali (esclusi quindi chiese, canoniche, seminari, ecc.) che, si ribadisce, è solo una vaga idea del totale in mano alla Santa Sede nel mondo.Allora, è accettabile che le “belle anime” cattoliche italiane, di cui l’innominabile catto-sinistra è pregna, si permettano di tuonare dalle pagine ad esempio di “Famiglia Cristiana” contro Salvini perché «ha mosso critiche al mondo cattolico che accoglie i migranti»? Accoglie i migranti? Ah, davvero? E come li accoglie? Con quanti denari concretamente sborsati fra i sopraccitati miliardi che tengono in speculazioni finanziarie e di Borsa? Può la Santa Sede mostrarci le cifre? In quanti immobili milionari che posseggono li hanno accolti, quanti sono stati allestiti per loro? Può la Santa Sede, che millanta di “accogliere”, fornirci le mappe? Ma con che inguardabile faccia questi ipocriti intimidiscono con l’abietta superstizione del senso di colpa il Salvini e i suoi elettori? Allora, Papa Bergoglio, prima di condannare i peccatori, veda di mettere le gabbane dei suoi preti, i miliardi delle vostre speculazioni e le migliaia di proprietà dove stanno le vostre parole. E se proprio dovete sdoganare la politica leghista sulla tragedia dei migranti come politica criminale contro gli innocenti – c he non è, perché al peggio è gretta insensibilità dettata da meschina ignoranza personale o da vere difficoltà economiche – ecco chi davvero ha fatto in epoca contemporanea una politica criminale di massa contro gli innocenti, col crocifisso al collo.Da un mio articolo di 2 anni fa: “Nel 2012 persino Jp Morgan ha dovuto prendere le distanze dallo Ior per sospetti di riciclaggio in armi. “Vatileaks”, scatenato da Gianluigi Nuzzi, già 3 anni fa rivelava il marciume criminale delle finanza vaticana. Mentre l’adorato Papa Francesco scalava in diligente silenzio i ranghi della Chiesa in Argentina, la P2 con lo Ior e Calvi erano i maggiori canali di forniture di missili Exocet proprio alla Giunta di Buenos Aires (30.000 morti), oltre ad armare criminali di massa e torturatori in Guatemala, Perù, Ecuador e Nicaragua. E scrive Vittorio Cotesta nel libro “Global Society, Cosmopolitanism and Human Rights”: «Uno dei maggiori obiettivi di questo network (Ior ecc.)… è di sostenere i golpisti che gli Stati Uniti e il Vaticano usano per schiacciare la Teologia della Liberazione». Papa Francesco ne fu complice ideologico e, in due casi, anche fisico fino al 2013”. Sono l’ultimo a sostenere Matteo Salvini in Italia, ma odio gli ipocriti. Creano molta più sofferenza dei razzisti, perché sono loro che al temine di epoche di disgustoso finto buonismo (vero, Pd?) tradiscono i popoli sui diritti fondamentali e li spingono all’aspetto più deteriore del populismo, quello di rabbia cieca e poi infine anche disumana.(Paolo Barnard, “La Chiesa condanna Salvini, ma con che faccia?”, dal blog di Barnard del 20 luglio 2018).La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.