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Archivio del Tag ‘comunità’

  • La favola (vera) del paese inglese dove il cibo è gratis

    Scritto il 18/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    C’era una volta una piccola cittadina inglese, Todmorten, dove tutto quello che cresceva – broccoli, mele, ribes, patate – poteva essere raccolto e mangiato. Gratuitamente. Sembra quasi una favola per bambini, e invece è cronaca: la cronaca favolosa del Paese Commestibile. Todmorten è una piccola cittadina di 15mila abitanti a nord di Manchester, protagonista da qualche anno di una rivoluzione gentile e generosa, che promuove la produzione e il consumo di cibo locale, conosciuta con il nome di “Incredible edible”. Nata a febbraio del 2008, l’iniziativa è fiorita rigogliosa, ispirando decine e decine di altri centri, dalla Francia a Cuba, da Hong Kong fino all’Australia (in Italia registriamo germogli del progetto a San Bonifacio, nel Veronese). E solo l’anno scorso ha attirato mille curiosi visitatori da ogni angolo del mondo, accorsi a ammirare lo straordinario potere dei piccoli gesti.
    Tutto cominciò dall’orto di Pam, diventato un giorno oggetto di furti. Invece di alzare il muro di recinzione, lei lo abbassò, piantò ortaggi e accanto a loro un cartello con la scritta “Servitevi”. «C’erano annunci che invitavano le persone a prendersi qualcosa dall’orto, ma ci sono voluti mesi alla gente per capire che ciò era davvero possibile», ricorda Pam, all’anagrafe Pamela Warhurst, ambientalista, attivista e fondatrice del movimento “Incredible edible”. Insieme a lei Mary Clear, Estelle e tante altre persone appassionate che da allora lavorano quotidianamente per coltivare piante e relazioni, coinvolgendo negozi, scuole, contadini e l’intera comunità. «Il nostro sogno è quello di diventare la prima cittadina autosufficiente dal punto di vista alimentare».
    Il cibo è servito: fagioli, piselli, erbe aromatiche crescono un po’ ovunque nelle aiuole e nei giardini del paese, persino davanti alla stazione di polizia, all’ospedale e nel giardino del cimitero. «Gli obiettivi del movimento sono quelli di fornire l’accesso al cibo locale per tutti, attraverso il lavoro comune, la diffusione di conoscenze e competenze e il sostegno alle imprese del territorio», dichiarano. Già, perché le ricadute sull’economia locale di questa piccola rivoluzione dal pollice verde hanno anche loro dell’incredibile. I negozi hanno incrementato le loro vendite, puntando soprattutto sul cibo a filiera corta, sono nati una Incredible Farm, una fattoria dove i giovani imparano a diventare imprenditori alimentari, un centro educativo con l’attivazione di un nuovo diploma dedicato allo studio dell’ambiente e del territorio, eventi e corsi di cucina, di panificazione e giardinaggio per tutti. L’eco mediatica che ne stanno ottenendo ha mosso anche il Principe Carlo, loro regale fan, andato in visita a Todmorten nel 2009. Se state già pianificando una trasferta anche voi, ricordate di scrivere alla gentile Estelle, che vi prenoterà lusingata un tour del centro, con presentazione e pranzo nel favoloso Paese Commestibile.
    (Alessandra Mazzotta, “Incredible edible, la favola (vera) del paese inglese dove il cibo è gratis”, dal newsmagazine “Econote”, ripreso da “Tiscali notizie” il 6 marzo 2014).

    C’era una volta una piccola cittadina inglese, Todmorten, dove tutto quello che cresceva – broccoli, mele, ribes, patate – poteva essere raccolto e mangiato. Gratuitamente. Sembra quasi una favola per bambini, e invece è cronaca: la cronaca favolosa del Paese Commestibile. Todmorten è una piccola cittadina di 15mila abitanti a nord di Manchester, protagonista da qualche anno di una rivoluzione gentile e generosa, che promuove la produzione e il consumo di cibo locale, conosciuta con il nome di “Incredible edible”. Nata a febbraio del 2008, l’iniziativa è fiorita rigogliosa, ispirando decine e decine di altri centri, dalla Francia a Cuba, da Hong Kong fino all’Australia (in Italia registriamo germogli del progetto a San Bonifacio, nel Veronese). E solo l’anno scorso ha attirato mille curiosi visitatori da ogni angolo del mondo, accorsi a ammirare lo straordinario potere dei piccoli gesti.

  • De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra

    Scritto il 23/2/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
    Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».
    Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».
    La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».
    Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».
    Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.
    In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”.  «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».
    La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist  «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».

    Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».

  • Primo Levi: increduli e indifferenti verso lo sterminio

    Scritto il 16/2/14 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    La promulgazione delle leggi razziali? Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì “Il manifesto della razza”, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla “razza italiana”. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa – delusione sì, con grande paura sin dall’inizio, mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè, negare il pericolo. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.
    Di quello che stava accadendo in Germania sapevamo abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone, quando sono in pericolo, invece di provvedere ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche. Lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.
    Fino alla caduta del fascismo avevo vissuto abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo. La situazione peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento. Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato. Mi hanno catturato perché ero partigiano; che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto; nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: «Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli; se sei partigiano ti mettiamo al muro». Decisi di dire che ero ebreo. Sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.
    Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio, accampamento, luogo in cui si riposa, magazzino. Ma nella terminologia attuale, lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione. Il viaggio verso Auschwitz lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.
    La vita ad Auschwitz l’ho descritta in “Se questo è un uomo”. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto, in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo; serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito. Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro “La tregua”. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quello dei lager tedeschi. Ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo; quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.
    Che cosa mi ha aiutato a resistere nel campo di concentramento? Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute. E proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte. Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodicimila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica; per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517; questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere.
    Sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede. E’ una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa – cattolica, ebraica o protestante – o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: «Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana». Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo. Cadevano più facilmente i più robusti. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie; e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.
    Che cosa mancava di più? In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa. La nostalgia pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo. E quando, nei rari momenti in cui capitava che le sofferenze primarie (accadeva molto di rado) erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in second’ordine.
    Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera a gas. Sapeva che, per usanza, a chi stava per morire davano una seconda razione di zuppa; siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: «Ma signor capo baracca, io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra». Pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione. E’ stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi; le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano. E noi eravamo animali, intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.
    Quando ho saputo dell’esistenza dei forni? Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo. Ma non le ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità: le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.
    Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo; abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo. Quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti. Il lager mi ha maturato – non durante ma dopo – pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.
    (Primo Levi, dichiarazioni rilasciate ad Enzo Biagi per l’intervista trasmessa l’8 giugno 1982 da RaiUno nel programma “Questo secolo”, riproposta da “Il Fatto Quotidiano” il 26 gennaio 2014).

    La promulgazione delle leggi razziali? Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì “Il manifesto della razza”, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla “razza italiana”. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa – delusione sì, con grande paura sin dall’inizio, mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè, negare il pericolo. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.

  • Crescita finita per sempre, il denaro non è la soluzione

    Scritto il 04/2/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    «Stagnazione secolare», la chiama – di fronte alla platea del Fmi – l’economista americano Larry Summers, già segretario al Tesoro: nessuna speranza che l’economia dell’Occidente possa davvero tornare a crescere. E’ finita – o sta per finire – la “convenienza economica” del capitalismo, basato sul consumo di merci industriali prodotte a basso costo. Secondo Mauro Bonaiuti, autore del saggio “La grande transizione”, «la notizia è ufficiale: l’età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia». Il declino delle economie occidentali avanzate è ormai in corso, ammette lo stesso Summers, osservando la crisi degli ultimi anni: dato che i flussi finanziari ormai sorreggono il sistema produttivo, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi. Ma – questa è la notizia – quando lo choc è stato superato, non c’è stata nessuna vera ripresa.
    Paul Krugman se lo spiega così: le trasformazioni strutturali del sistema producono stabilmente disoccupazione. Il che significa che, per “convincere” le imprese ad assumere, bisognerà fornirle di denaro a costo zero, senza neppure obbligarle a restituirlo tutto. Secondo Summers e Krugman, ormai le imprese si  aspettano che il valore di ciò che producono sia inferiore al costo di produzione: dovrebbero lavorare in perdita, sostenute dalla finanza pubblica? «Potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese – obietta Bonaiuti in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi, nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare».
    Per Bonaiuti, «qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro», dal momento che «la possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell’attività capitalistica». Per cui, «dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell’attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti)».
    Krugman è esplicito: ora sappiamo che l’espansione del 2003-2007 «era sostenuta da una bolla speculativa», e «lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni ‘90», legata alla bolla della new-economy. Persino la crescita degli ultimi anni dell’amministrazione Reagan «fu guidata da un’ampia bolla nel mercato immobiliare privato». Conclusione chiara: «Senza speculazione finanziaria non c’è più crescita». E lo stesso Summers avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere controprocenti, rendendo ancora più alti i costi di finanziamento per le imprese. Uno scenario «estremante serio e foriero di conseguenze», osserva Bonaiuti, secondo cui la tradizionale ricetta keynesiana – sostenere la domanda con maggiore spesa pubblica – potrebbe non funzionare più, se (a monte) il sistema si è davvero inceppato.
    Per Krugman «si potrebbe ricostruire l’intero sistema monetario, eliminare la carta moneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi». E quindi: esporre i cittadini (costretti a transazioni solo digitali) al rischio del prelievo forzoso sui propri conti correnti. Se queste sono le idee del “liberale” Krugman, «per far fronte all’incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere», per Bonaiuti «non è difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo». Una volta imbracciata questa logica, è evidente che «tutto si giustifica», e quindi «anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri risparmi, divengono sacrificabili sull’altare di qualche punto percentuale di Pil». La prospettiva è chiara: «Tutti, volenti o nolenti, credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via finanziaria – della macchina capitalista», nell’epoca dei “rendimenti decrescenti”. «Il tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo».
    La spirale, secondo Bonaiuti, è irrimediabile: tornare al passato è ormai semplicemente impossibile. «Per quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente». E tutto «per tenere in movimento – da una bolla speculativa all’altra – la macchina economica globale». Il rilancio è un miraggio, perché ormai il contesto è completamente mutato rispetto all’età della crescita: «Dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e consumi? Dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon mercato? Come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in pochi anni intere società?».
    Le economie capitalistiche avanzate «sono entrate già da quarant’anni in una fase di rendimenti decrescenti», dice Bonaiuti. E questo «non dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali». Siamo di fronte a un fenomeno di ben più vasta portata: si sta riducendo la produttività dell’energia, dell’estrazione mineraria, dell’innovazione, delle rese agricole, dell’efficienza dell’attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), e si riduce la produttività di un’economia non più industriale ma fondata sui servizi. «Si tratta di un fenomeno evolutivo, e dunque incrementale». I “rendimenti decrescenti”, inoltre, «non comportano solo una riduzione dei rendimenti dell’attività economica», quanto piuttosto «un generale aumento del malessere sociale», e questo «a causa dell’aumento di svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente complessità della mega-macchina tecno-economica, che ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel calcolo degli indici economici».
    Ecco perché «occorrerà dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di Pil, ma della capacità delle politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e non solo economica)». Se i sostenitori dello status quo – sia neoliberisti che keynesiani – ormai ammettono la “fine della crescita”, «non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica)». Occupazione, giustizia sociale, tutela dell’ambiente. «Il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una società sostenibile – conclude Bonaiuti – richiede un ripensamento ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall’ineliminabile dipendenza del capitalismo dalla crescita».

    «Stagnazione secolare», la chiama – di fronte alla platea del Fmi – l’economista americano Larry Summers, già segretario al Tesoro: nessuna speranza che l’economia dell’Occidente possa davvero tornare a crescere. E’ finita – o sta per finire – la “convenienza economica” del capitalismo, basato sul consumo di merci industriali prodotte a basso costo. Secondo Mauro Bonaiuti, autore del saggio “La grande transizione”, «la notizia è ufficiale: l’età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia». Il declino delle economie occidentali avanzate è ormai in corso, ammette lo stesso Summers, osservando la crisi degli ultimi anni: dato che i flussi finanziari ormai sorreggono il sistema produttivo, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi. Ma – questa è la notizia – quando lo choc è stato superato, non c’è stata nessuna vera ripresa.

  • La Marina Usa: estate 2016, Artico senza più ghiacci

    Scritto il 23/1/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Il pack polare in dissoluzione libera enormi quantitativi di metano ed entro l’estate del 2016 scomparirà il ghiaccio dell’Artico: con l’attuale tasso di riduzione della banchisa, lo scioglimento avverrà con 84 anni di anticipo su tutte le previsioni precedenti. Lo sostiene il professor Wieslaw Maslowski, ricercatore della Marina Usa coinvolto in un progetto del ministero americano per l’energia. Sostenuto dal dipartimento di oceanografia della scuola post-universitaria della Us Navy, il progetto utilizza modelli all’avanguardia, che offrono proiezioni allarmanti. «L’Artico si sta riscaldando più velocemente del resto del pianeta», rivela lo stesso Maslowki, e quindi «i processi e le ricadute di un tale aumento sono una priorità non secondaria». Per la precisione, «si calcola che nei prossimi decenni i ghiacciai dell’Artico e del Greenland Ice Sheet cambieranno significativamente e contribuiranno all’innalzamento globale delle acque». Questo avrà «ricadute significative sull’innalzamento del livello marino globale, sulle grandi correnti oceaniche e sul livello di riscaldamento, sulle comunità autoctone, sull’esplorazione delle risorse naturali e sui trasporti commerciali».
    Si tratta di anticipazioni che Maslowski ha pubblicato sulla rivista scientifica “Annual Review of Earth and Planetary Sciences”, come riferisce Nageez Ahmed in un servizio del “Guardian” ripreso da “Come Don Chisciotte”. L’articolo critica fortemente i modelli climatici globali, che ignorerebbero la reale evoluzione dello scioglimento della calotta artica. Non stupisce il ruolo del Dipartimento americano per l’energia nel sostenere la ricerca, alla luce della strategia nazionale per l’Artico, lanciata a maggio dal presidente Obama e focalizzata sulla protezione degli interessi commerciali e delle corporation. Obiettivo, il controllo dei grandi giacimenti ancora non sfruttati di petrolio, gas e minerali pregiati. L’allarmante aggiornamento fornito da Maslowksi, continua il “Guardian”, si riallaccia alle previsioni di numerosi studiosi come Peter Wadhams, capo del dipartimento di fisica polare oceanica presso la Cambridge University. Secondo Wadhams, potremmo dover fronteggiare il costo economico di un cambiamento climatico basato su uno scenario apocalittico: 50 giga-tonnellate di metano rilasciate in questo secolo nello scioglimento del permagelo del Bassopiano della Siberia Orientale.
    Questo scenario fu ipotizzato per la prima volta da Natalia Shakhova e Igor Semiletov, del Centro Internazionale di Ricerca Artica (Iarc) dell’Università dell’Alaska a Fairbanks. Nel 2010 il gruppo della Shakhova rese noti i risultati, che rivelavano come annualmente, in quella regione, traboccavano 7 tera-grammi di metano dalla superficie. Dati confermati da recenti misurazioni, effettuate con l’impiego di sottomarini. La scoperta: la temperatura dell’acqua più in profondità è aumentata negli ultimi 14 anni, correlata ad una perdita di 17 tera-grammi (17 milioni di tonnellate) di metano all’anno, accentuati dalle tempeste. «Questa stima prudenziale è oltre il doppio della precedente valutazione», sottolinea il “Guardian”. «Dunque, la sorgente di queste emissioni di metano rimane sconosciuta». La comunità scientifica è divisa: si tratta della perdita improvvisa di un grande deposito sommerso o una lenta fuoriuscita che dura da centinaia di anni? Secondo il Centro nazionale americano per la neve e il ghiaccio (Nsidc), le osservazioni eseguite dalle navi rivelano che le concentrazioni anomale di metano nell’area artica sono quasi il doppio della media mondiale: il metano emerso con lo scioglimento dei ghiacci «ha un potenziale nel surriscaldamento globale pari a 86 volte quello del biossido di carbonio».
    Molti scienziati, aggiunge Ahmed, concordano nel ritenere che ci sia bisogno di ulteriori ricerche per localizzare con precisione la sorgente di queste pericolose emissioni di metano, sapendo comunque che un Artico senza ghiacci in estate «porterebbe a serie conseguenze per il clima globale». Inoltre, alcune ricerche associano il riscaldamento dell’Artico ai cambiamenti delle correnti, che hanno già portato negli ultimi anni a mutamenti ambientali senza precedenti: fenomeni “estremi”, che «hanno colpito in maniera forte il paniere produttivo delle nazioni». Lo confermano recenti ricerche pubblicate da “Nature Climate Change”: lo scioglimento del ghiaccio marino negli ultimi 30 anni ad un ritmo dell’8% ogni dieci anni è direttamente correlato con estati estremamente calde, che non solo negli Usa si sono presentate sotto forma di siccità e ondate di calore. Identiche conclusioni dal capo-ricercatore (scienze geografiche e risorse naturali) di Pechino, Quihang Tang: «Come le alte latitudini si riscaldano più velocemente delle medie latitudini, per via dell’effetto amplificato dello scioglimento dei ghiacci, così il vento delle correnti a getto che partono da Ovest verso Est si è attenuato. Di conseguenza, il cambio di circolazione atmosferica tende a favorire sistemi climatici persistenti e stagioni estive estreme».
    Gli approfondimenti al nuovo studio pubblicato sul “Geophysical Research Letters” hanno dimostrato un collegamento tra la diminuzione dei ghiacci nel mare Artico e le stagioni estreme, in particolare l’estate e l’inverno, che includono prolungati periodi di “siccità, inondazioni, ondate di freddo e di caldo”. Secondo il professor Carlos Duarte, direttore dell’Ocean Institute all’Università della Western Australia, ci stiamo avvicinando ad un «punto critico» che potrebbe portare ad un «effetto domino», una volta che sarà finito il ghiaccio estivo. Per Duarte, «se il movimento prende avvio, può generare profondi cambiamenti climatici, che mettono l’Artico al centro e non alla periferia del sistema-Terra. E’ evidente che queste forze stanno per mettersi in moto. Ciò ha maggiori conseguenze sul futuro del genere umano, man mano che avanzano i cambiamenti climatici».

    Il pack polare in dissoluzione libera enormi quantitativi di metano ed entro l’estate del 2016 scomparirà il ghiaccio dell’Artico: con l’attuale tasso di riduzione della banchisa, lo scioglimento avverrà con 84 anni di anticipo su tutte le previsioni precedenti. Lo sostiene il professor Wieslaw Maslowski, ricercatore della Marina Usa coinvolto in un progetto del ministero americano per l’energia. Sostenuto dal dipartimento di oceanografia della scuola post-universitaria della Us Navy, il progetto utilizza modelli all’avanguardia, che offrono proiezioni allarmanti. «L’Artico si sta riscaldando più velocemente del resto del pianeta», rivela lo stesso Maslowki, e quindi «i processi e le ricadute di un tale aumento sono una priorità non secondaria». Per la precisione, «si calcola che nei prossimi decenni i ghiacciai dell’Artico e del Greenland Ice Sheet cambieranno significativamente e contribuiranno all’innalzamento globale delle acque». Questo avrà «ricadute significative sull’innalzamento del livello marino globale, sulle grandi correnti oceaniche e sul livello di riscaldamento, sulle comunità autoctone, sull’esplorazione delle risorse naturali e sui trasporti commerciali».

  • No-Euro: un italiano su due boccia la moneta della Bce

    Scritto il 17/1/14 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    «Euro? No, grazie». Gli italiani – in maggioranza, ormai – bocciano la moneta unica europea. Lo rivela un sondaggio proposto da “Scenari economici” a un campione di 2.400 persone, che include ogni categoria sociale e produttiva, da nord a sud, e tutte le principli fasce di età. Contro l’euro soprattutto il settentrione e gli elettori del centrodestra e del “Movimento 5 Stelle”, compresi fra i 30 e 59 anni: operai, casalinghe, disoccupati, artigiani e lavoratori autonomi. Cioè l’Italia che – più di ogni altra – subisce la devastazione socio-economica della grande recessione: tagli ai salari e alle pensioni, enti locali senza più soldi per scuola, sanità e assistenza, crisi del credito e dei consumi, fatturati a picco, chiusure e licenziamenti, erosione dei risparmi, inaudito inasprimento fiscale. Risultato: a pochi mesi dalle europee, il partito “No-Euro” raccoglie già il 24% di voti “sicuri”, mentre un altro 32% ammette: «Prenderei in considerazione l’ipotesi di votarlo». Il restante 44%, quello dei “fedeli” alla moneta della Bce, corrisponde alla roccaforte storica del centrosinistra, quella delle regioni “rosse”.
    “Scenari economici” mostra l’inesorabile progressione dell’opposizione all’euro: ad aprile 2013, il centrodestra era schierato al 68% contro la moneta di Francoforte, mentre a ottobre la quota dei contrari è salita al 76%. Percentuali analoghe a quelle dei “grillini”, mentre il centro – Monti e Casini – resta ancorato alla valuta della Bce, anche se in modo più tiepido (dal 94 si passa all’83%), mentre il consenso verso l’euro cresce solo nel centrosinistra, che passa dall’89 al 90%. La bocciatura dell’euro diventa definitiva nella terza tornata di sondaggi, effettuata lo scorso dicembre. Un italiano su due (il 49%) si dichiara «favorevole alla reintroduzione di una valuta nazionale al posto dell’euro». Postilla: occorre ovviamente affiancare questo processo «con il ripristino della Banca d’Italia come prestatore d’ultima istanza, al fine di calmierare i tassi d’interesse sui titoli del debito pubblico italiano». Era solo la fine del 2011 – due anni fa – e proprio l’alibi dello spread aveva spianato la strada a Mario Monti ed Elsa Fornero, saliti al potere per “rimettere in ordine in conti”, come se lo Stato fosse un’azienda privata.
    Un po’ è davvero così, da quando la repubblica italiana ha perso il suo “bancomat” istituzionale, la Banca d’Italia, come finanziatrice “illimitata” del governo, attraverso il Tesoro, grazie alla “privatizzazione” del debito a vantaggio della finanza privata. Poi, con l’euro, il definitivo ko: l’impossibilità tecnica di risalire la china, emettendo moneta come fa il resto del mondo, fino al caso-limite del Giappone il cui debito raggiunge il 250% del Pil senza timore di attacchi speculativi: gli “squali” sanno benissimo che la banca centrale di Tokyo sarebbe in grado in qualsiasi momento di sostenere il debito con emissione di valuta sovrana a costo zero. All’Italia invece è stata inferta la peggiore delle terapie: tagli su tagli, col pretesto neoliberista di dover eliminare il debito (cioè il motore economico dello Stato e quindi dell’economia privata), fino alla tagliola del Fiscal Compact e al delirio puro del pareggio di bilancio inserito in Costituzione dalle “anime morte” del Parlamento, ipnotizzate dal referendum permanente su Berlusconi. Risultato finale, meno servizi e più tasse: senza più disponibilità monetaria, lo Stato è costretto a dipendere dal denaro che riceve dai cittadini, sotto forma di imposte e bollette.
    Silenzio totale, sull’euro, anche da Confindustria e dagli stessi sindacati: nessuna analisi approfondita sulla crisi, nessuna soluzione alternativa, nessuna proposta. Micidiale, su questo fronte, il black-out dei media: per giornali e televisioni, l’euro è stato un sostanziale tabù, un dogma intoccabile. Ed eccezione della Lega Nord – ferma comunque ai soli slogan – il grande silenzio ha allineato tutti i partiti, a cominciare dal Pd, mentre l’ostilità verso l’euro affiora a tratti nella “pancia” del centrodestra e tra i grillini, anche se Grillo – anche nel V-Day di Genova – sulla moneta unica si è limitato a proporre un semplice referendum. La rilevazione di dicembre effettuata da “Scenari economici” parla da sola: l’euro “resiste” solo nel centrosinistra e viene travolto sia dal centrodestra (77%) che dal M5S (73%) e dall’area del non-voto (58%). Il partito virtuale No-Euro vince al nord con 8 punti di scarto e al centro-sud con 4 punti, mentre nelle “regioni rosse” si ferma al 43%, contro un 50% di “fedelissimi” pro-euro. In caso di elezioni, se ci fosse «una formazione fortemente anti-euro», Forza Italia potrebbe perdere quasi l’8% dei suoi elettori (e Grillo il 6,7%), mentre centro e centrosinistra manterrebbero quasi invariato il proprio bottino elettorale. A conti fatti, già oggi una lista anti-euro varrebbe almeno il 24% dei consensi – un italiano su quattro – ma la percentuale potrebbe più che raddoppiare: si ottiene addirittura il 56% dei consensi, sommando i contrari all’euro e la quota di italiani disponibili a “prendere in considerazione” l’ipotesi di votare un partito capace di dire no alla moneta della Bce.
    Le elezioni europee – maggio 2014 – potrebbero rivelarsi un vero e proprio referendum sull’attuale Unione Europea a guida tedesca e sul suo strumento principale di potere, l’Eurozona: «Sovranità monetaria, svalutazione, parametri di Maastricht, Fiscal Compact, politiche di austerity, vincoli di bilancio e rapporti con la Germania – sottolinea “Scenari economici” – saranno temi che verranno discussi ed approfonditi durante la campagna elettorale, e molti cittadini potrebbero votare in modo diverso rispetto ad una consultazione per il Parlamento italiano». Cresce il desiderio di tornare alla sovranità monetaria, individuata come toccasana per difendere il bilancio statale e quindi il benessere della comunità nazionale: il ritorno a una lira garantita dalla Banca d’Italia piace «non solo tra gli elettori del centrodestra e del “Movimento a 5 Stelle”, ma anche nell’area degli indecisi e del non-voto». A favore della “permanenza nell’euro” resta invece «granitico» l’elettorato del Pd, e a livello di categorie i favorevoli alla moneta “ammazza-Italia” «sono maggioritari unicamente tra pensionati e dipendenti pubblici».

    «Euro? No, grazie». Gli italiani – in maggioranza, ormai – bocciano la moneta unica europea. Lo rivela un sondaggio proposto da “Scenari economici” a un campione di 2.400 persone, che include ogni categoria sociale e produttiva, da nord a sud, e tutte le principli fasce di età. Contro l’euro soprattutto il settentrione e gli elettori del centrodestra e del “Movimento 5 Stelle”, compresi fra i 30 e 59 anni: operai, casalinghe, disoccupati, artigiani e lavoratori autonomi. Cioè l’Italia che – più di ogni altra – subisce la devastazione socio-economica della grande recessione: tagli ai salari e alle pensioni, enti locali senza più soldi per scuola, sanità e assistenza, crisi del credito e dei consumi, fatturati a picco, chiusure e licenziamenti, erosione dei risparmi, inaudito inasprimento fiscale. Risultato: a pochi mesi dalle europee, il partito “No-Euro” raccoglie già il 24% di voti “sicuri”, mentre un altro 32% ammette: «Prenderei in considerazione l’ipotesi di votarlo». Il restante 44%, quello dei “fedeli” alla moneta della Bce, corrisponde alla roccaforte storica del centrosinistra, quella delle regioni “rosse”.

  • Energia, iniziata la grande corsa ai forzieri dell’Artico

    Scritto il 09/1/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.
    L’economia della Russia è fortemente dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas, e il governo conta molto su queste vendite per il reddito nazionale. Fino a poco tempo fa, per soddisfare le loro esigenze energetiche, i russi potevano attingere dai giacimenti nella Siberia occidentale, ma ora, considerato il declino di molti di questi depositi, fanno molto affidamento alle riserve artiche per mantenere gli attuali livelli di produzione. «Il nostro compito principale è di rendere l’Artico la prima risorsa per la Russia del 21° secolo», dichiarò nel 2008 l’allora presidente Dmitrij Medvedev. I russi hanno esplorato le varie opzioni di trivellazione in diverse aree offshore dell’Artico. Nel Mare Pechora, a nord della Siberia nordoccidentale, il gigante dell’energia russo Gazprom ha installato la sua piattaforma Prirazlomnaya — proprio quella che gli attivisti di Greenpeace hanno preso d’assalto. Più a est, nel Mar Kara, il gruppo statale Rosneft sta collaborando con la Exxon Mobil per lo sviluppo di giacimenti molto promettenti.
    Rosneft si è anche associata alla Statoil norvegese e all’Eni Italiana per esplorare il potenziale di sfruttamento nel Mar di Barents. Ma è molto difficile che sia solo la Russia a tentare di aprire i forzieri dell’Artico. La Norvegia, come la Russia, trae gran parte delle sue entrate proprio dalle esportazioni di gas e petrolio, e punta molto sullo sfruttamento delle riserve del Mar di Barents per compensare la forte contrazione produttiva rilevata nei suoi giacimenti nei Mari del Nord e della Norvegia. Ci sono anche altre zone dell’Artico nel mirino di altri paesi: la Cairn Energy di Edimburgo ha appena aperto dei pozzi di esplorazione nelle acque a largo della Groenlandia, ad esempio, mentre la Royal Dutch Shell sta tentando l’esplorazione di campi a largo dell’Alaska.
    Nonostante tutte le sue promesse, l’Artico non cederà facilmente le sue ricchezze. In inverno, il ghiaccio copre costantemente le superfici marine e tempeste violente e frequenti sono un continuo pericolo. Il riscaldamento globale potrebbe, in qualche modo, contribuire a ridurre il ghiaccio nei periodi estivi e autunnali, permettendo così trivellazioni più prolungate, ma allo stesso tempo potrebbe causare condizioni meteorologiche inusuali e incontrollate ed altri pericoli correlati. Altro rischio che si aggiunge: molte delle linee di confine nella regione artica, sono ancora da demarcare e alcuni paesi artici hanno già minacciato di ricorrere alla forza militare nel caso in cui le compagnie energetiche occupino aree che considerate di loro sovranità.
    Le ardue sfide che l’Artico pone al suo sfruttamento hanno già intimorito la Shell, che ha speso 4,5 miliardi di $ per l’esplorazione offshore in Alaska, ma che ancora non è riuscita a trivellare un solo pozzo. Alcune di queste sfide sono perfettamente legali – comunità indigene e ambientalisti, nel timore di contaminazioni delle loro acque e danni alla natura, hanno già diffidato le compagnie dal trivellare. Inoltre, l’Artico in sé ha già dato prova di essere un avversario formidabile. Nell’estate del 2012, durante il primo tentativo della Royal Dutch Shell di sondare i depositi artici, le operazioni di trivellazione furono interrotte da venti battenti e placche di ghiaccio galleggianti. Diversi mesi dopo, quando una delle teste dei pozzi franò al suolo durante una violenta tempesta, la Shell annunciò che avrebbe sospeso le operazioni offshore in Alaska e che, prima di procedere ulteriormente, avrebbe rafforzato le proprie capacità operative nella zona.
    Le disavventure della Shell hanno anche consolidato il timore che trivellare nell’Artico ponga alla regione una minaccia considerevole. Nell’evento di una importante fuoriuscita petrolifera, il danno conseguente sarebbe molto più grave e distruttivo di quello causato nel Golfo del Messico dalla Deepwater Horizon nell’aprile 2010, sia per la mancanza di adeguate capacità di risposte operative, sia per la probabilità che il ghiaccio impedisca seriamente le operazione di bonifica. Mentre sempre più compagnie si spingeranno nell’Artico accelerando le loro attività esplorative, aumenteranno di conseguenza le probabilità di incidenti e fuoriuscite. Il fatto che la Shell – una delle compagnie petrolifere tecnologicamente più avanzate – si sia finora dimostrata incapace di superare questi rischi, accresce la preoccupazione che in quelle acque pericolose si trovino presto ad operare altre compagnie meno preparate ed efficienti.
    Cresce anche il rischio di conflitti sulla proprietà di territori contesi. Cinque paesi artici hanno già rivendicato diritti esclusivi di trivellazione su aree di confine rivendicate anche da altri paesi, mentre resta ancora controverso il controllo sulla regione polare in generale. In un’area «con un potenziale energetico che rappresenta un quarto delle riserve mondiali inesplorate di gas e petrolio», ha detto recentemente il ministro della difesa statunitense Chuck Hagel, «è prevedibile che l’ondata di interesse nell’esplorazione energetica nell’area possa aumentare le tensioni su altri argomenti controversi». Fino ad oggi nessuna di queste dispute ha provocato una risposta di tipo militare, e gli Stati artici si sono impegnati ad astenersi dal farlo in futuro. Tuttavia, quasi tutti i paesi artici hanno anche affermato il loro diritto di difesa dei propri territori offshore con la forza, e hanno anche preso le necessarie misure per rafforzarsi in questo senso. La Russia, ad esempio, ha recentemente annunciato dei programmi definiti “di infrastruttura militare di punta” nell’Artico.
    Niente, comunque, potrebbe scoraggiare altri paesi interessati.  Considerando l’altissima richiesta mondiale di petrolio e l’incapacità dei pozzi esistenti di soddisfarla, le maggiori compagnie energetiche tenteranno ogni possibile strada per aumentare la produzione. E’ quindi essenziale che siano posti subito dei limiti chiari e rigorosi alle operazioni di trivellazione nell’Artico, in modo da ridurre le tensioni esistenti nell’area. Sono stati fatti dei progressi nell’ambito del Consiglio Artico, un foro di consultazione delle nazioni artiche. Ma resta ancora molto da risolvere.  Un modo per stabilire formalmente delle regole precise potrebbe essere l’adozione di un Trattato Artico, sulla falsariga del Trattato Antartico del 1959. Come avvenne per quest’ultimo, un accordo siglato dai paesi artici stabilirebbe dei precisi confini marittimi e dei limiti alle attività militari. Potrebbe anche imporre delle regole ambientali e garantire un passaggio sicuro alle imbarcazioni civili che navigano sui mari artici. E infine, diciamolo: nessun gas e nessun petrolio potrà mai giustificare la distruzione della natura locale o una corsa agli armamenti nell’Artico.
    (Michael T. Klare, “E’ iniziata la corsa ai forzieri dell’Artico”, dal “New York Times” dell’8 dicembre 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).

    Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.

  • Ieri il nazismo, oggi il caos che prepara la mattanza

    Scritto il 08/1/14 • nella Categoria: idee • (5)

    Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.
    Chissà perché due persone diverse, l’una indipendentemente dall’altra, hanno sentito il bisogno, o il gusto, di indirizzare i miei pensieri in una certa direzione. Proprio adesso. E chissà perché, questa volta – di nuovo “per caso”? – ho deciso di leggere subito l’uno e l’altro di questi due regali. Un titolo (e l’autore della presentazione) del primo può spiegare il mio interesse contingente. Ma il secondo è nato dalla mia ignoranza (avevo confuso Israel Singer con suo fratello Isaac Singer, il secondo essendo un premio Nobel per la letteratura, scrittore tra i miei primi preferiti). Eppure quest’ultimo mi ha portato sulla stessa carreggiata dell’altro, dove non pensavo di passare. L’impressione, l’emozione, sono evidentemente collegate al presente e al prossimo futuro. Ma le due “storie” si riferiscono entrambe all’intervallo tra le due guerre mondiali, e ai luoghi (la Germania, l’Austria, la Polonia, la Galizia, la Russia) in cui la seconda guerra mondiale si preparò senza che quasi nessuno – tra le vittime, intendo dire – se ne accorgesse.
    William Sheridan Allen racconta, con una inchiesta fittissima di dati, come una comunità pacifica, sostanzialmente democratica, attraversata da una crisi economica e sociale, e – evidentemente – morale, si trasforma in pochi anni in un piccolo, feroce esercito di fanatici, di assassini e di complici di assassini. Israel Singer racconta, in forma di romanzo, la saga della famiglia Karnowski, il cui capostipite, David, emigra a Berlino da una microscopica comunità di ebrei polacchi, attraversando una delle frontiere su cui, non molti anni dopo, si massacreranno milioni, e facendo vivere a se stesso, a suo figlio Georg, e al suo nipote Jegor, la tremenda esperienza della persecuzione nazista. Non voglio qui raccontare nulla di queste ricostruzioni, una letteraria, l’altra storiografica: non è questo l’intento, e la sede. Del libro di Israel Singer voglio qui sottolineare soltanto la profondità – e l’umanità, inevitabilmente, a tratti, feroce – dell’analisi della stratificazione delle comunità ebraiche che s’incrociano nella Berlino tra le due guerre. Delle loro miserie e viltà reciproche, come del coraggio e della vitalità insopprimibile con cui si difesero, o semplicemente soffrirono e subirono.
    Sullo sfondo, senza che mai appaia la parola “nazismo”, si scorge il prima lento e poi impetuoso muoversi dei “giovanotti con gli stivali” che arriveranno al potere. Il tutto con la connivenza corale di presunti “ariani” di ogni classe. Una tragedia che avviene, matura, prima impercettibilmente, poi con la forza di un torrente in piena che tutto travolge. “Resistibile” – come la chiamò Bertolt Brecht – lo sarebbe stata soltanto se coloro che la subirono, o l’appoggiarono, si fossero accorti dove avrebbe portato. La famiglia ebraica dei Karnowski precipita nello stesso gorgo che gli abitanti della piccola città dell’Hannover (tutti, senza eccezione: commercianti, impiegati, operai, padroni) stavano contribuendo a creare. Hitler arriva al potere con il consenso delle masse, trasformatesi in una micidiale miscela esplosiva. Qui si affaccia l’analogia con il nostro presente. L’Europa, di cui ci apprestiamo a eleggere quest’anno il nuovo Parlamento, è attraversata da una crisi che ne mette in discussione le fondamenta. Umori analoghi a quelli di allora, non identici, serpeggiano a tutti i livelli. Non ci sono “giovanotti con gli stivali” che marciano delle strade, ma ci sono – in uffici senza rumori – signori in giacca e cravatta la cui ferocia, già ampiamente dimostrata, è gelidamente, religiosamente superiore a quella dei faraoni. Non solo non c’è giustizia: non c’è ragionevolezza, non c’è visione. C’è, si vede, basta guardare bene in mezzo alla nebbia del mainstream, il caos che prepara una mattanza.
    Leggendo questi due libri ho avvertito la sensazione di trovarmi su un piano inclinato, che sta accentuando la sua pendenza. 1929: aggiungi dieci anni e avrai il 1939. 2008: aggiungi dieci anni e otterrai 2018. So bene che le analogie sono spesso cattivi indicatori. So bene che i ricorsi storici non esistono, com’è vero che l’umanità non si può mai bagnare due volte nella stessa acqua. La questione, ora, è che potrebbe non esserci più acqua. Ma basta guardare due dati: quello del riscaldamento climatico in atto e quello della produzione “infinita” di denaro, cioè di debito, per capire che la crisi del 1929 fu un esercizio di bella calligrafia rispetto a quello che si avvicina a passi da gigante: scarabocchio mostruoso che minaccia qualcosa di inimmaginabile.
    (Giulietto Chiesa, “Segnali di ricorsi storici?”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 gennaio 2013).

    Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.

  • Quando la nostra Europa tornerà nelle strade

    Scritto il 27/12/13 • nella Categoria: idee • (1)

    «Perché l’America è nata nelle strade», recitava il trailer del kolossal di Martin Scorsese, “The gangs of New York”. E l’Europa di Bruxelles dov’è nata, esattamente? In quali fogne? Nello scantinato di quale tenebroso alchimista? L’Europa vera, l’unica che conti, è da sempre interamente privatizzata. Porta il nome di European Roundtable of Industrialists. E detta ogni giorno le sue condizioni, le future leggi che già l’indomani puniranno i sudditi. Li emana, i suoi diktat, sicura di essere obbedita, all’istante, da servitori opachi e zelanti come José Manuel Barroso. Lui, il portoghese venuto dal nulla, che ai potenti di Bruxelles deve tutto. E’ l’uomo che dall’alto del suo palazzo guarda il suo Portogallo bruciare di rabbia e di fame, mentre, en passant, transita negli innocui salotti televisivi, incluso quello italiano di Fabio Fazio, a ricordare che anche l’Italia “può e deve” fare di più per amputare, senza anestesia, tutto quello che resta del suo stato sociale. Il vero benessere diffuso – infrastrutture, stipendi, servizi vitali – non si chiama più neppure welfare, ma direttamente “debito pubblico”. Sottinteso: è una colpa vergognosa, un problema, un male da estirpare. Come del resto il diritto a una vita dignitosa, a uno straccio di futuro.
    Dopo vent’anni, ci si accorge all’improvviso che l’attuale Unione Europea è nemica, è interprete di una forma di barbarie particolarmente subdola e disonesta perché non urla le sue livide minacce di guerra e non sventola svastiche. Eppure ha tutt’altro scopo che la promozione dell’umanità. E’ un abile artificio autoritario, costruito con l’inganno. E’ la tomba dell’Europa democratica e popolare, assassinata e poi risorta dal nazifascismo. Non è il Parlamento di Strasburgo regolarmente eletto a governare il continente, ma uno sparuto clan di servitori, agli ordini della Ert e delle altre lobby onnipotenti, che infestano l’anonima capitale belga coi loro costosi uffici e i loro budget miliardari con un unico obiettivo: ordinare alla Commissione di ammantare di legalità le regole assolute del loro business oligarchico progettato per la grande crisi, in tempi di coperta corta. E’ il business della globalizzazione totalitaria e recessiva, in base alla quale retrocedere al medioevo quelli che fino a ieri erano cittadini e lavoratori, consumatori ingenui e inguaribilmente ottimisti.
    Per tutti loro, miseri e volgari untermenschen, la ricreazione è finita: devono abituarsi all’idea. Lo stato di eccezione – la Grecia insegna – deve diventare la nuova, raggelante normalità. L’orizzonte politico finale è chiaro: la definitiva rassegnazione collettiva. Ci saranno proteste iniziali, grida, dimostrazioni. Ma poi sulle prime fiammate di insofferenza calerà la coltre quotidiana della fatica, il sipario del conforto televisivo fatto di favole, la maschera rassicurante dell’ultimo pagliaccio travestito da politico. E ciascuno, lentamente, tornerà alla sua usuale solitudine, al deserto freddo da cui affrontare – senza più aiuti – l’atroce puntualità degli strozzini.
    Ci saranno ancora grida, là fuori, ma per attutirne l’urto basterà chiudere le finestre, almeno per il momento. Chiudere le finestre e anche gli occhi, di fronte allo spettacolo quotidiano dei negozi che chiudono, delle aziende che licenziano, degli anziani che frugano tra gli scarti del mercato o mendicano smarriti la carità di una prenotazione per esami clinici nell’ospedale di quartiere martoriato dai tagli e trasformato in centro di primo soccorso per rifugiati di guerra. Così, sempre più velocemente, la mala pianta dell’odio concimata dalla paura ricomincerà a germogliare, rispolverando idiomi che credevamo sepolti per sempre nel cimitero della storia – noi incorreggibili italiani, voi maledetti tedeschi, i soliti presuntuosi francesi.
    Dopo un sonno lunghissimo, molti studiosi e paludati accademici si risvegliano, e persino qualche politico comincia a rialzare la testa, a denunciare l’imbroglio, a segnalare il pericolo che incombe. Negli ultimi due anni – un manciata di mesi – le analisi si sono fatte acuminate, lo sguardo è stato messo a fuoco con crescente lucidità. Si spera nelle elezioni europee del maggio 2014, che forse saranno un primo vero avvertimento sulla necessità di un’inversione di rotta. Si inizia a delineare una meta – dal nome antico: democrazia – ma senza ancora disporre di una strategia per raggiungerla. Cioè strumenti di pressione, azioni politiche determinanti, rapporti di forza e strumenti da impugnare per costringere gli oligarchi a cedere il loro attuale potere assoluto.
    L’unico leader occidentale disposto a scendere sul terreno della rivendicazione diretta è Marine Le Pen, che minaccia l’uscita della Francia dall’Unione Europea e dalla sua prigione economica, la non-moneta privatizzata chiamata euro. Ma Marine Le Pen si appella alla nostalgia del suo popolo per la celebrata grandeur nazionale, e – per rimarcare identità elettorale e visibilità – non recede di un millimetro dalla antica crociata contro gli stranieri, cioè i poveri del sud e dell’est. Ancora vaga, suggestiva ma del tutto ipotetica, la proposta di candidare (virtualmente) il greco Tsipras alla guida di Bruxelles, per costituire un cartello organizzato, in grado di esprimere finalmente la voce legittima di centinaia di milioni di europei presi al laccio dai signori della crisi.
    C’è poi un’altra Europa, che per fortuna non ha mai smesso di esistere. E’ l’Europa che sognavano anime isolate e profetiche come quella di Alex Langer, eretico pioniere dell’ambientalismo come frontiera democratica, basata sulla riconversione sostenibile dell’economia partendo dai territori, dalle filiere corte, quelle che possono contrastare i monopoli irresponsabili che oggi stanno facendo a pezzi il mondo, trascinandolo verso una guerra cieca e disperata. Erano sodali di Langer gli ambientalisti della piccola e periferica valle di Susa che lottarono con successo – insieme ai francesi – per bloccare i maxi-elettrodotti destinati a trasferire in Italia l’energia elettrica prodotta dalla vicinissima centrale nucleare di Creys-Malville, pericolosa perché prossima a Torino e continuamente funestata da incidenti.
    Quei valsusini lottarono con successo, sempre insieme ai francesi, per scongiurare la costruzione di una nuova autostrada e un nuovo traforo che avrebbe devastato l’area alpina del Monginevro e la valle della Clarée, gioiello naturale transalpino al confine con l’Italia. Il comandante in capo, il sommo protettore politico di ogni grande opera infrastrutturale devastante e inutile, sul versante francese era un certo Michel Barnier, allora governatore locale. Le élite economico-finanziarie che ha servito con tanto zelo gli hanno garantito una super-carriera: oggi monsieur Barnier è il potentissimo “ministro delle finanze” della Commissione Europea.
    Quell’Europa “nata nelle strade”, per la precisione lungo quelle che collegano Torino a Lione, aveva capito in anticipo molte cose. La prima, fondamentale: la politica, qualsiasi politica, non può che camminare sulle gambe delle persone comuni, disposte a battersi con onestà per affermare un’idea irrinunciabile di giustizia. Italiani e francesi manifestano insieme sui sentieri di Chiomonte, nelle piazze di Lione presidiate dalle forze antisommossa, e affrontano insieme la battaglia per salvare l’area naturale di Notre-Dames-des-Landes, in Guascogna, che la super-multinazionale Vinci vorrebbe asfaltare per far posto a un inutile, mostruoso aeroporto. Sono sempre loro, italiani e francesi, ad aver firmato nel 2010 la Carta di Hendaye, nel paese basco, per affermare che la comunità civile non può più tollerare l’abuso del business che devasta la Terra sulla base di ciniche menzogne, solo per arricchire una casta di super-predatori, protetti dalla copertura legale offerta dalla mafia di Bruxelles.
    Questa Europa esiste, e a volte ha saputo far parlare di sé, nonostante la feroce interdizione dei media. Negare la verità, dice il generale Fabio Mini, è il primo vero atto di guerra contro tutti noi. Impegnarsi a farla circolare, la verità, oggi più che mai è una meta decisiva. Non solo per “fermare il mostro”, ma per costruire umanità e veicolare le idee necessarie a un’economia democratica, orientata al benessere. Pace, democrazia, convivenza, sostenibilità: oggi, nel delirio autistico del mainstream neoliberista, sembrano gli slogan di un programma eversivo e folle, nell’Italia cannibalizzata dai predoni e appaltata ai loro pallidi maggiordomi. Non è difficile, basterebbe dire: per tutti, o per nessuno. Di queste idee dovrà essere armata, la nostra Europa, quando tornerà nelle strade a dire che nessuno sarà mai più lasciato solo.
    (Giorgio Cattaneo, “Quando la nostra Europa tornerà nelle strade”, da “Megachip” del 27 dicembre 2013).

    «Perché l’America è nata nelle strade», recitava il trailer del kolossal di Martin Scorsese, “The gangs of New York”. E l’Europa di Bruxelles dov’è nata, esattamente? In quali fogne? Nello scantinato di quale tenebroso alchimista? L’Europa vera, l’unica che conti, è da sempre interamente privatizzata. Porta il nome di European Roundtable of Industrialists. E detta ogni giorno le sue condizioni, le future leggi che già l’indomani puniranno i sudditi. Li emana, i suoi diktat, sicura di essere obbedita, all’istante, da servitori opachi e zelanti come José Manuel Barroso. Lui, il portoghese venuto dal nulla, che ai potenti di Bruxelles deve tutto. E’ l’uomo che dall’alto del suo palazzo guarda il suo Portogallo bruciare di rabbia e di fame, mentre, en passant, transita negli innocui salotti televisivi, incluso quello italiano di Fabio Fazio, a ricordare che anche l’Italia “può e deve” fare di più per amputare, senza anestesia, tutto quello che resta del suo stato sociale. Il vero benessere diffuso – infrastrutture, stipendi, servizi vitali – non si chiama più neppure welfare, ma direttamente “debito pubblico”. Sottinteso: è una colpa vergognosa, un problema, un male da estirpare. Come del resto il diritto a una vita dignitosa, a uno straccio di futuro.

  • Lerner: Mario Caniggia, l’Italia che disse no all’orrore

    Scritto il 22/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Si è spento a Pozzengo, nella nostra Vallecerrina, il partigiano Mario Caniggia. Nel rendergli omaggio vi propongo l’introduzione che alcuni anni fa scrissi al suo libro di memorie sulla Brigata Monferrato. Adesso la fotografia della brigata partigiana “Monferrato” che entra vittoriosa a Torino il giorno della Liberazione, è appesa qui nella mia stanza di lavoro in cascina. Tra gli altri c’è lui, Mario Caniggia, ancora ragazzo ma reso uomo da un’esperienza di quelle che segnano la vita intera. E che spetta alla nostra comunità democratica tramandare di generazione in generazione. Ricordo ancora il pomeriggio assolato in cui un signore dai capelli bianchi si affacciò timidamente alla porta di casa. «Disturbo? Era da tanto tempo che non venivo qui. Eppure il posto mi è familiare, qui s’è sparato. I repubblichini tiravano col mortaio dall’altura di Odalengo Piccolo, un nostro compagno è stato ferito alla gamba, i tedeschi presidiavano il fondovalle…».
    Ho chiamato i miei figli perché lo ascoltassero e gli stringessero la mano, grati. Mario Caniggia era venuto da un paese vicino, Pozzengo, a testimoniarci la storia che nobilita il nostro territorio. Già sapevamo che le due case diroccate sul bricco della vigna, alle nostre spalle, erano il rifugio dei partigiani valcerrinesi. I vecchi le chiamano ancora così: le case dei partigiani. Un nome che la nostra famiglia s’impegna a mantenere vivo. Caniggia raccontava e gli si inumidivano gli occhi. Non aveva ancora compiuto diciotto anni quando fece la scelta del rischio e della coerenza, e gli toccò guardare in faccia la morte dei suoi compagni. Ma non solo: la morte per rappresaglia dei civili innocenti, come i capifamiglia e il parroco di Villadeati. Quella sua emozione si è trasmessa a noi stretti intorno a lui, ed è come se avesse permeato di sé le mura di cascina Bertana, gli ippocastani e il prato lì davanti, il ruscello, la collina… luoghi incantevoli che racchiudono una storia significativa, e dunque acquistano un valore da non disperdere.
    Dal giorno di quella visita indimenticabile, a ogni visitatore che viene anche da lontano io mi sento in dovere di raccontare quel che è stato. Per ricordare a me stesso e agli altri che il passaggio della libertà, la via stretta e dolorosa della lotta di liberazione dal nazifascismo, si sono realizzati solo grazie al fatto che tante persone semplici, perbene, hanno trovato in se stesse la forza di dire no all’indifferenza. Senza quel movimento dal basso, senza l’eroismo silenzioso di chi ha sentito come un dovere schierarsi contro un potere oppressivo, forse i nazifascisti sarebbero stati sconfitti lo stesso (ma chissà quando, dopo mesi o anni di ulteriori sofferenze). Senza i partigiani la società del dopoguerra non avrebbe potuto guardarsi allo specchio, digiuna di buoni esempi e di cultura democratica.
    Ogni tanto incontro ancora Mario Caniggia, magari la domenica mattina al mercato di Valle Cerrina. Delle volte par quasi che voglia scusarsi, con quel sorriso impacciato, del peso della storia di cui è portatore. Come se recasse fastidio a noi fortunati che siamo arrivati dopo, e percorriamo ignari lo stesso territorio. Come se noi avessimo il diritto di infischiarcene di quel che è stato, solo l’altro ieri, nel Monferrato Casalese così come in tante altre parti d’Italia. Dimenticare significherebbe ricadere nell’analfabetismo della coscienza. Insista, Mario Caniggia, finchè ne ha le forze. Faccia parlare questi luoghi per quel che di tragico hanno vissuto, perché altrimenti nulla potrà garantirci che l’oppressione liberticida, la discriminazione razziale, il terrore della rappresaglia, possano ripetersi.
    Quando Mario Caniggia mi ha consegnato il manoscritto della sua testimonianza sulla VII Divisione Autonoma “Monferrato”, insieme alla fotografia in cui si riconosce lui giovane partigiano Alì, l’ho letta d’un fiato. Sono rimasto colpito dalla sua sobrietà piemontese. Si trova qui un’interpretazione difficilmente contestabile a episodi tragici, come la strage di Villadeati, su cui di recente una storiografia scandalistica (Giampaolo Pansa) invano tenta di riaprire controversie. Sono lieto che l’Anpi di Alessandria abbia confermato il valore storico di questo memoriale, contributo prezioso a una storia del nostro territorio. E’ con orgoglio e gratitudine che ne raccomando ai giovani la lettura. Anche pensando al mio più caro amico, ebreo casalese, di vent’anni più anziano di me, che su queste colline ha trovato rifugio e salvezza grazie alla generosità di persone incapaci di voltare la testa dall’altra parte.
    (Gad Lerner, “In memoria del partigiano Mario Caniggia, Brigata Monferrato”, dal blog di Lerner del 15 dicembre 2013).

    Si è spento a Pozzengo, nella nostra Vallecerrina, il partigiano Mario Caniggia. Nel rendergli omaggio vi propongo l’introduzione che alcuni anni fa scrissi al suo libro di memorie sulla Brigata Monferrato. Adesso la fotografia della brigata partigiana “Monferrato” che entra vittoriosa a Torino il giorno della Liberazione, è appesa qui nella mia stanza di lavoro in cascina. Tra gli altri c’è lui, Mario Caniggia, ancora ragazzo ma reso uomo da un’esperienza di quelle che segnano la vita intera. E che spetta alla nostra comunità democratica tramandare di generazione in generazione. Ricordo ancora il pomeriggio assolato in cui un signore dai capelli bianchi si affacciò timidamente alla porta di casa. «Disturbo? Era da tanto tempo che non venivo qui. Eppure il posto mi è familiare, qui s’è sparato. I repubblichini tiravano col mortaio dall’altura di Odalengo Piccolo, un nostro compagno è stato ferito alla gamba, i tedeschi presidiavano il fondovalle…».

  • La geopolitica della menzogna: come distorcere la storia

    Scritto il 15/12/13 • nella Categoria: Recensioni • (Commenti disabilitati)

    Nel suo “Invece della catastrofe”, Giulietto Chiesa afferma senza giri di parole che la lotta di classe è stata storicamente neutralizzata: attraverso il sistema dei media, il “nemico” è riuscito a far credere agli sfruttati di essere soci del club fortuna. Così, il grande capitale ha scatenato l’offensiva finale, prendendosi tutto. «Si poteva evitare questa capitolazione, l’onta di essere assaliti alle spalle quasi senza colpo ferire?». Forse, sostiene Alberto Melotto, «a patto di riconoscere che la cognizione degli uomini, la loro capacità di discernere la realtà esterna, passa attraverso l’abbeverarsi a quella fontana generosa, multicolore e mai spenta che è la società dello spettacolo: chi controlla quei canali di immissione di contenuti fittizi può formare come morbida argilla la coscienza di interi popoli». Disinformazione e consenso attraverso i media, ovvero: la geopolitica della menzogna. E’ il tema di un saggio di Paolo Borgognone, deciso a smascherare l’inganno quotidiano su cui si basano le strategie di dominio.
    Nella prefazione di Giulietto Chiesa, è in primo piano la strage messa in atto alla maratona di Boston. Mostri da sbattere in prima pagina, i fratelli Dzhokar e Tamerlan Tsarnaev, ceceni, dunque islamici, “quindi” terroristi. Cronache improbabili sull’uccisione di Tamerlan, lungo strade affollate di misteriosi addetti alla sicurezza. «Già Edgar Allan Poe, nel racconto “La lettera rubata” ci diceva che spesso la verità va messa in primo piano per poterla meglio nascondere, e in questo i media americani (ed europei) sono davvero maestri», scrive Melotto su “Megachip”. «Ci troviamo di fronte a un altro tassello di quella strategia della tensione su scala planetaria, in versione “bigger than life” per restare all’idioma yankee, che predispone l’uditorio ad una supina passività, ad una studiata altalena di acquiescenza e di smodata partecipazione emotiva, fatta di paura e di aggressività». Dalla orwelliana “settimana dell’odio” siamo giunti a questo lungo, interminabile decennio post 11 Settembre, dove si induce l’essere umano a «rifugiarsi nel già pensato».
    Il capitolo Siria? Ci ha portati a un passo dalla guerra mondiale. E alcuni fattori, come «il tardivo orgoglio del Parlamento britannico, scottato dalla sacra alleanza Bush-Blair (“We won’t get fooled again”, cantavano gli Who)» ci hanno evitato gli scenari peggiori, ma intanto «la ruota dell’intrattenimento globale ha ripreso a girare, e non ci sarà tempo per risolvere le cause di questo e del prossimo conflitto». Borgognone smaschera «molti farisei del politicamente corretto», denunciando la disinformazione costruita nel ‘900 contro l’Urss: «L’Occidente ha demonizzato l’esperienza d’oltrecortina non soltanto per scongiurare le nefaste (a suo modo di vedere) inclinazioni verso la società degli uguali, ma anche per allontanare il pericolo di un modo di intendere l’esistente che non poteva essere “normalizzato” e ridotto agli standard di questa parte di mondo». La stampa occidentale, scrive, «non ha mai indagato le origini e i fondamenti culturali, sociali e di integrazione comunitaria della tradizione russa. Ha preferito insistere sul tema della russofobia, della slavofobia».
    Borgognone, impegnato da anni nel Civs (Centro iniziative verità e giustizia), analizza da vicino il caso di un quotidiano come  l’Economist”, rappresentante di quell’alta borghesia atlantica che, dall’alto del suo “prestigio”, riesce a condizionare le politiche di parlamenti e di Stati sovrani. Né sorprende che sia tenero verso “Occupy Wall Street”, movimento che considera innocuo, sostanzialmente giovanilista e “liberal”. Idem per gli Indignados, dove le particelle anarco-libertarie convivono coi «bravi ragazzi di buona famiglia, che vogliono solo allargare le maglie del sistema per entrare a farne parte in pianta organica». Ma se il pubblico occidentale è totalmente indifeso di fronte ai “produttori di falsità”, le cose cambiano in Sudamerica, dove il popolo non si fida del mainstream e dispone ancora di anticorpi difensivi, contro lo strapotere delle televisioni legate alle grandi corporations. Sono proprio i cittadini del Venezuela, nel 2002, a respingere il golpe contro Hugo Chàvez, deposto per aver democratizzato l’economia nei settori-chiave dell’agricoltura, della pesca e degli idrocarburi, tradizionale appannaggio dell’élite. Mentre Bush e Aznar salutano il “ritorno della democrazia” nell’insediamento dell’industriale golpista Pedro Carmona Estanga, è proprio il popolo a gonfiare per protesta le vie di Caracas, nel nome di Chàvez, reclamando verità e giustizia fino a convincere l’esercito a rimettere in sella il presidente legittimo. Ma, mentre i cecchini sparavano sulla folla facendo 200 morti tra i manifestanti, le reti televisive trasmettevano a tambur battente cartoni animati e filmetti come “Pretty woman”.
    Il caso di Cuba, che occupa la parte finale del volume di Borgognone, secondo Melotto «mostra in modo ancor più evidente – e più imbarazzante per noi occidentali – quanto il racconto di parte sappia tacere, svilire, nascondere fatti che saprebbero destare, questo sì, genuino scandalo, se solo qualcuno si prendesse la pena di renderli noti». Il 6 ottobre 1976 muoiono 73 passeggeri su un volo di linea cubano, appena decollato dalle Barbados. A capo del commando terroristico, il pediatra Orlando Bosch, stretto collaboratore della Cia e leader degli anti-castristi di Miami. «E ancora, epidemie procurate ad hoc» che fecero strage di animali ed esseri umani. «Tutto questo per ripristinare un’olimpica condizione di signoraggio che aveva luogo ai tempi di Fulgenzio Batista». Dall’analisi di Borgognone esce male anche una campionessa del dissenso come Yoani Sanchez, in realtà riempita di dollari per fare propaganda contro Cuba. Molto denaro, annota Melotto: ogni mese, l’equivalente di due anni di salario cubano. E’ così che «la classe dei dissidenti va in paradiso».
    (Il libro: Paolo Borgognone, “La disinformazione e la formazione del consenso attraverso i media”, Zambon editore, 240 pagine, 12 euro. Volume I: “La disinformazione strategica. Caratteri peculiari del fenomeno e analisi del caso latinoamericano”).

    Nel suo “Invece della catastrofe”, Giulietto Chiesa afferma senza giri di parole che la lotta di classe è stata storicamente neutralizzata: attraverso il sistema dei media, il “nemico” è riuscito a far credere agli sfruttati di essere soci del club della cuccagna. Così, il grande capitale ha scatenato l’offensiva finale, prendendosi tutto. «Si poteva evitare questa capitolazione, l’onta di essere assaliti alle spalle quasi senza colpo ferire?». Forse, sostiene Alberto Melotto, «a patto di riconoscere che la cognizione degli uomini, la loro capacità di discernere la realtà esterna, passa attraverso l’abbeverarsi a quella fontana generosa, multicolore e mai spenta che è la società dello spettacolo: chi controlla quei canali di immissione di contenuti fittizi può formare come morbida argilla la coscienza di interi popoli». Disinformazione e consenso attraverso i media, ovvero: la geopolitica della menzogna. E’ il tema di un saggio di Paolo Borgognone, deciso a smascherare l’inganno quotidiano su cui si basano le strategie di dominio.

  • Se la Comunità fronteggia il Privante che mangia lo Stato

    Scritto il 12/12/13 • nella Categoria: idee • (1)

    Non abbiamo la minima idea di come andrà a finire. Ma sappiamo che in questo momento – oggi, non nel futuro – sta volgendo a termine un complesso di vita che potremmo definire nel seguente modo: io studio, in buona parte per imparare a fare un lavoro per qualcun altro; questo qualcun altro ha bisogno di me perché guadagna vendendo le cose che faccio con il mio lavoro; prestando il mio lavoro, guadagno abbastanza soldi da avere un tetto, mangiare e mettere su famiglia – tutte cose che richiedono un minimo di pianificazione e hanno a che fare con un’idea di lunga durata. E anche per pagare le tasse con cui un ente in sé immaginario, una pura astrazione – lo Stato – mi assicura salute, sicurezza, scuola e pensione, e almeno in teoria esegue i miei voleri, espressi attraverso i miei rappresentanti politici. Se ragioniamo in termini di complesso di vita, sostiene Miguel Martinez, ci rendiamo conto della portata storica di questa fase: è «l’agonia dell’intero complesso di vita, strutturato sui poli del Cittadino, del Lavoro e dello Stato».
    Questo dato di fatto è talmente enorme e pauroso, che – almeno in Europa e soprattutto in Italia – le persone pensanti «tendono a cercare rifugio in discorsi che hanno quasi sempre tre caratteristiche: sono rivolti al passato, sono idealistici e sono paralleli», osserva Martinez in un post su “Kelebeklerblog”, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ci rifugiamo nel passato perché «tutti i riferimenti, sia per indicare ciò che va demonizzato, sia per indicare ciò che va esaltato, si trovano in storie di cui abbiamo perso completamente il senso. Che si tratti della cristianità, del nazismo, dello stato liberale e/o sociale o del comunismo, ogni argomentare sul passato – che pure è un tema affascinante – nasconde false piste su come agire nel presente». Sicché, dalla fine di un complesso di vita deriva un elemento molto concreto: lo svuotamento dello Stato dal basso verso l’alto. «In apparenza, lo Stato non solo ancora esiste, ma alla testa assume forme sempre più totalizzanti: andiamo sempre più verso la costruzione di un unico massiccio dispositivo, cui si è scelto di dare il nome di “Europa”. Sotto questo unico dispositivo, altri reggono più o meno bene. Pensiamo, in Italia, al dispositivo militare; oppure all’immenso sistema Tav, cioè il geniale meccanismo inventato dopo Tangentopoli per permettere alla Fiat, alle grandi cooperative dette “rosse” e alla mafia di continuare ad arricchirsi con i soldi pubblici».
    Dove emerge invece in modo evidente la dissoluzione dello Stato è in basso: «Ogni giorno, quando ci guardiamo attorno, vediamo un altro pezzo che scompare. Che sia il consultorio di quartiere venduto per fare velocemente quattrini, il vigile che non controlla più, il custode o le saponette che mancano nella scuola, la ludoteca che perde un operatore, l’autobus che non passa più». Di questo passo, «tra qualche mese, gli anziani che si recavano all’Asl a due passi da qui dovranno prendere due autobus per recarsi all’altro capo della città, perché il presidio chiude (il Comune dice che è colpa della Regione, tiè). Sono storie che tutti conosciamo, avvengono lentamente, ciascuna da sola sembra evitabile, attribuibile quindi a un errore o a una debolezza. Ma se un giorno riuscissimo a metterle tutte insieme, vedremmo che se lo Stato negli ultimi anni si è ridotto in alto – poniamo, tanto per sparare qualche cifra del tutto inventata – del 10%, in basso si è ormai ridotto del 50%. E a quel punto capiremo che si tratta di storia, non di questo o quell’assessore».
    In questo vuoto, secondo Martinez si inseriscono due attori, il Privante e la Comunità Attiva. «Il Privante (meglio noto come “il privato”, con un curioso contorcimento semantico) raramente sostituisce le funzioni dello Stato, salvo in qualche caso come gli asili nido». Di solito, il Privante «occupa gli spazi dello Stato per nuovi fini, come le caserme in dismissione che le finanziarie stanno acquistando per fare grandi alberghi». Succede come con lo Stato: «In alto ci sarà pure un po’ di “crisi”, ma i soldi continuano a girare in quantità che superano la possibilità di consumo degli stessi ricchi. E quindi non mancano i clienti per i grandi alberghi, i ristoranti o le Ferrari. Casomai, nella stessa città, sono i non ricchi la cui sopravvivenza viene minacciata direttamente». Il Privante, come dice il nome, priva: «Esclude gli altri cioè da quelli che in passato erano in qualche maniera spazi sociali». Viceversa, «ovunque in Italia emergono quelle che possiamo chiamare le Comunità Attive, innumerevoli associazioni e soprattutto comitati che nascono ogni giorno». Soggetti collettivi, che «suppliscono alla scomparsa dello Stato» e di fatto «si organizzano da sé e al di fuori delle istituzioni», spesso lavorando «in quello che viene chiamato con disprezzo il “proprio orticello”».
    In questi anni, le Comunità diventate un elemento sempre più importante: «Credo che ciò spieghi in buona parte lo straordinario risultato ottenuto da Beppe Grillo alle elezioni, una cosa che forse sfugge ai grandi media che trascurano le mille realtà locali di questo paese». Il successo di Grillo, che non ha precedenti nella storia italiana, «è stato costruito totalmente al di fuori e contro i media, grazie a migliaia e migliaia di singole persone, che quasi sempre riflettevano le confuse e varie esigenze dei comitati che ovunque combattevano per cause non rappresentate dalle istituzioni, dalla lotta contro gli inceneritori a quella contro il Tav». Milioni di persone, che «si sono sentite talmente libere dal rispetto dovuto alle istituzioni e ai partiti da scegliere qualcosa di totalmente innovativo nel panorama politico italiano». Secondo Martinez, «c’è una convergenza di forze travolgenti, che sta cambiando in maniera irriconoscibile il mondo. Questa convergenza sta già portando alla crisi lenta ma irreversibile del triangolo Cittadino, Lavoro, Stato, e quindi alla fine di tutto il complesso di vita in cui siamo cresciuti e che forma il nostro modo di vedere le cose».
    Proprio perché la crisi è convergente, aggiunge Martinez, non possiamo sperare in una “soluzione”: «Si fa benissimo a resistere dove si può – a chiedere un metro in meno di un tunnel in val di Susa e un bidello in più nella scuola elementare». Ma attenzione: «Non illudiamoci che l’argine terrà», perché questa crisi «implica in particolare lo svuotamento, a partire dal basso, dello Stato», a beneficio del Privante e della Comunità Attiva. «Chiaramente, il Privante ha immensi vantaggi. Non solo ha più soldi; soprattutto, i soldi permettono di costruire rapporti contrattuali a lungo termine, molto più solidi dei rapporti affettivi su cui si fonda la Comunità». Per questo, «è più facile che il futuro sia quindi “neofeudale” che comunitario». Per fortuna, però, si va espandendo anche la Comunità, che spesso nasce come struttura di autodifesa contro il Privante. «Le cose cambiano – conclude Martinez – se mi pongo un altro tipo di domanda: in che modo posso fare qualcosa lì dove mi trovo, oggi, con le persone e le storie che ci sono realmente? Qui c’è lo spazio della libertà, in cui le nostre scelte possono contare qualcosa».

    Non abbiamo la minima idea di come andrà a finire. Ma sappiamo che in questo momento – oggi, non nel futuro – sta volgendo a termine un complesso di vita che potremmo definire nel seguente modo: io studio, in buona parte per imparare a fare un lavoro per qualcun altro; questo qualcun altro ha bisogno di me perché guadagna vendendo le cose che faccio con il mio lavoro; prestando il mio lavoro, guadagno abbastanza soldi da avere un tetto, mangiare e mettere su famiglia – tutte cose che richiedono un minimo di pianificazione e hanno a che fare con un’idea di lunga durata. E anche per pagare le tasse con cui un ente in sé immaginario, una pura astrazione – lo Stato – mi assicura salute, sicurezza, scuola e pensione, e almeno in teoria esegue i miei voleri, espressi attraverso i miei rappresentanti politici. Se ragioniamo in termini di complesso di vita, sostiene Miguel Martinez, ci rendiamo conto della portata storica di questa fase: è «l’agonia dell’intero complesso di vita, strutturato sui poli del Cittadino, del Lavoro e dello Stato».

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