Archivio del Tag ‘Concordato’
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Ddl Zan, tutti in ginocchio: clericalismo imposto per legge
«Egregio Presidente Draghi ed egregi confratelli della Loggia Laica del Grande Occidente, se volete davvero difendere la laicità dello Stato, del governo e del Parlamento italiano, dovete prendere meglio la mira. Scappucciatevi per vedere bene la realtà circostante. Non è la Chiesa cattolica apostolica romana, e tantomeno la Chiesa bergogliana, umanitaria e accogliente, a vagheggiare il ritorno a uno Stato confessionale, prono ai precetti religiosi e teso a restaurare la devozione popolare». Così Marcello Veneziani, su “La Verità”, smaschera il “nuovo clericalismo” che si vorrebbe imporre per legge, col Ddl Zan contro l’omofobia. «Per una volta – in modo magari maldestro, “gesuitico” e un po’ vile, appellandosi al Concordato – la Chiesa ha perorato il suo contrario, ha sposato una causa che più laica non si può: si è richiamata alle leggi, alla libertà di pensiero e di espressione, messa in pericolo dalla Legge Zan». Non è ingerenza nella vita laica dello Stato e della politica italiana, «nemmeno paragonabile alle numerose ingerenze della Chiesa bergogliana in tema di migranti, modelli sociali ed economici, giudizi politici e ideologici».Al contrario, scrive Veneziani, stavolta il Vaticano chiede di fermare «l’ingerenza di una legge, col relativo strascico d’intimidazione psicologica e ideologica, nella vita dei cittadini, non solo credenti e praticanti, se solo trasgrediscono ai precetti della nuova religione bioetica imposta al culto di tutti». Insiste Veneziani: «Se volete difendere davvero la laicità dello Stato, della politica, del governo e del Parlamento italiano, abbiate il coraggio di affrontare il nuovo clericalismo e la nuova Inquisizione che stanno instaurando in Italia e in Occidente le leggi, le proposte, i comitati di vigilanza, denuncia e sconfessione, che sorgono qua e là nel nostro paese a difesa e protezione della nuova religione umanitaria fondata sull’antifascismo, l’antirazzismo e l’antiomotransfobia». Una religione “anti”, molto curiosa, «imperniata sul principio di “odiare gli odiatori”, “perseguitare i persecutori”, farsi intollerante con gli intolleranti». Con la differenza che i presunti odiatori, persecutori e intolleranti «sono in larga parte inermi, innocui, e non dispongono del potere e delle armi di cui dispone la nuova Macchina dell’Inquisizione che dovrebbe colpirli a norma di legge».Il meccanismo ideologico-punitivo, secondo Veneziani, si fonda su un’inversione: ogni tentativo di difendere la famiglia o proteggere i bambini o di tutelare la sovranità nazionale e la civiltà in pericolo «viene letta e condannata al contrario come attacco a gay e trans o razzismo contro neri e migranti». Ragionando con la mente sgombra e senza «imbecillità di gregge e conformismo ideologico», ci si accorge che alla vita laica di tutti i giorni verrebbe applicato «un protocollo clericale fatto di processi alle intenzioni, catechismi impartiti in tutte le sedi, a cominciare dai bambini, caccia alle streghe, battesimi e cresime progressiste o al contrario scomuniche, esorcismi e sospensioni a divinis, inginocchiatoi e santini, devozioni e ricorrenze, nel nome di quel canone ormai sacro che ci nausea ripetere per l’ennesima volta: il politically correct e i suoi derivati tossici». Nel dettaglio, «la blasfemia, l’oltraggio alla religione, la bestemmia e la dissacrazione posti una volta a tutela della religione vengono trasferiti pari pari alle nuove categorie protette: neri senza g di mezzo, femministe del me-too, omotrans e affini, rom e altre categorie minori».«Non si può nemmeno fare una battuta su di loro, è ritenuta e punita come blasfemia», come se si trattasse di proteggere entità “intoccabili”, introducendo il reato d’opinione (di cui si occuperà «la Nuova Laica Inquisizione»). «Come chiamate tutto questo se non clericalismo, riduzione della laicità a uno Stato confessionale, regime teocratico col nuovo Dio Nero-Arcobaleno? E come chiamate i nuovi imam, i nuovi muezzin, i nuovi ayatollah che queste leggi stanno partorendo nei tribunali, nelle commissioni di vigilanza, nei comitati politici?». Clero, risponde Veneziani: «Sono clero, alle cui dirette dipendenze lavora la polizia psicopolitica, i nuovi battaglioni della Santa Fede. Il servizio d’ordine del Pci e di Lotta Continua è diventato ora milizia di stato della Nuova Religione Umanitaria. E se non ti puniscono in modo esemplare, ti intimano quanto meno di cospargerti il capo di cenere: Chiedi Scusa! Inginocchiati! Fai la penitenza! Recita l’atto di Contrizione, dieci Avemarie al gay profanato, cento Paternoster al Migrante dissacrato, ricordati di Santificare le lesbiche». Accusa Veneziani: «Il nuovo clericalismo da cui dovremmo difendere la laicità dello Stato e delle istituzioni è proprio quello che state elevando sugli altari e i tribunali a norma di legge».«Egregio Presidente Draghi ed egregi confratelli della Loggia Laica del Grande Occidente, se volete davvero difendere la laicità dello Stato, del governo e del Parlamento italiano, dovete prendere meglio la mira. Scappucciatevi per vedere bene la realtà circostante. Non è la Chiesa cattolica apostolica romana, e tantomeno la Chiesa bergogliana, umanitaria e accogliente, a vagheggiare il ritorno a uno Stato confessionale, prono ai precetti religiosi e teso a restaurare la devozione popolare». Così Marcello Veneziani, su “La Verità”, smaschera il “nuovo clericalismo” che si vorrebbe imporre per legge, col Ddl Zan contro l’omofobia. «Per una volta – in modo magari maldestro, “gesuitico” e un po’ vile, appellandosi al Concordato – la Chiesa ha perorato il suo contrario, ha sposato una causa che più laica non si può: si è richiamata alle leggi, alla libertà di pensiero e di espressione, messa in pericolo dalla Legge Zan». Non è ingerenza nella vita laica dello Stato e della politica italiana, «nemmeno paragonabile alle numerose ingerenze della Chiesa bergogliana in tema di migranti, modelli sociali ed economici, giudizi politici e ideologici».
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Il Vaticano: no al Ddl Zan, limita la libertà di pensiero
Anche l’ultima cosa che ci si potesse aspettare è accaduta: il Vaticano bacchetta l’Italia, in nome della libertà di pensiero. Il Vaticano, scrive “Repubblica”, ha chiesto formalmente al governo italiano di modificare il Ddl Zan, il disegno di legge “contro l’omofobia”. Secondo la Segreteria di Stato dell’Oltretevere, violerebbe «l’accordo di revisione del Concordato». Per questo, è stata consegnata all’ambasciata italiana presso la Santa Sede una nota a firma del Segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher. «La questione sollevata dal Vaticano è stata poi trasmessa dalla Farnesina alla presidenza del Consiglio ed è al vaglio di Palazzo Chigi». La nota è stata probabilmente consegnata il 17 giugno, in occasione di un meeting sul tema “scienza e fede”, al quale era presente anche l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani. «In questa occasione Gallagher ha incontrato Sebastiani e trasmesso le osservazioni della Segreteria di Stato, confidando in una riservatezza che non è stata mantenuta».Due i punti evidenziati nella nota trasmessa al governo italiano. Il Vaticano, scrive sempre “Repubblica”, sottolinea come – secondo il testo in discussione al Senato – le scuole cattoliche non sarebbero esentate dall’organizzazione della futura Giornata Nazionale contro l’Omofobia. E più in generale, si esprimono timori per la “libertà di pensiero” dei cattolici, che rischierebbero conseguenze giudiziarie nell’esprimere le loro convinzioni. «Mai la Santa Sede era intervenuta nell’iter di approvazione di una legge italiana esercitando formalmente le facoltà che le derivano dai Patti Lateranensi», osserva il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. «Un atto che va ben oltre la ‘moral suasion’ che spesso la Chiesa ha usato per leggi controverse». Nella nota consegnata da monsignor Gallagher si evidenzia che «alcuni contenuti della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato».Tra le questioni sollevate, si evidenziano timori per la libertà di opinione dei cattolici, in materia di omofobia e omosessualità, e si accenna anche delle possibili conseguenze giudiziarie nell’espressione delle proprie idee. «Chiediamo che siano accolte le nostre preoccupazioni», scrive la Santa Sede al governo italiano. L’iniziativa vaticana rischia di avere un enorme impatto politico: non sono in pochi, infatti, a sostenere che il Ddl Zan (col pretesto di colpire le discriminazioni di genere) di fatto introduca intollerabili limitazioni alla libertà di espressione. Attraverso Enrico Letta, il Pd – che sostiene il Ddl – fa sapere di essere «disponibile al dialogo sui nodi giuridici», pur approvando l’impianto di un dispositivo «che è una legge di civiltà». Per bocca di Antonio Tajani, Forza Italia (che invece si oppone al Ddl Zan) chiede il rispetto del Concordato, e nel merito sottolinea: «Questa legge limita gli spazi di libertà invece di farli crescere: nel testo della proposta ci sono posizioni che finiscono per limitare la libertà di opinione e di espressione».Anche l’ultima cosa che ci si potesse aspettare è accaduta: il Vaticano bacchetta l’Italia, in nome della libertà di pensiero. Il Vaticano, scrive “Repubblica“, ha chiesto formalmente al governo italiano di modificare il Ddl Zan, il disegno di legge “contro l’omofobia”. Secondo la Segreteria di Stato dell’Oltretevere, violerebbe «l’accordo di revisione del Concordato». Per questo, è stata consegnata all’ambasciata italiana presso la Santa Sede una nota a firma del Segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher. «La questione sollevata dal Vaticano è stata poi trasmessa dalla Farnesina alla presidenza del Consiglio ed è al vaglio di Palazzo Chigi». La nota è stata probabilmente consegnata il 17 giugno, in occasione di un meeting sul tema “scienza e fede”, al quale era presente anche l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani. «In questa occasione Gallagher ha incontrato Sebastiani e trasmesso le osservazioni della Segreteria di Stato, confidando in una riservatezza che non è stata mantenuta».
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Magaldi: ma il crocifisso a scuola è solo ciarpame fascista
Macché “radici cristiane”: chi vuole il crocifisso nelle scuole «non difende il cristianesimo, ma solo i patti di potere stipulati negli anni Venti da Mussolini per stabilire un’egemonia culturale clerico-fascista sulle nuove generazioni, agendo sulla scuola e sull’educazione». Il massone progressista Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, si schiera col neo-ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti, che ha messo in dubbio l’opportunità di esporre i crocifissi nelle aule scolastiche. «In Francia, in Belgio e in Germania (con l’eccezione della Baviera) non c’è nessun crocifisso nelle scuole e nei tribunali», ricorda. «E’ una conferma della vera natura della cività occidentale, cui si deve la conquista storica della libertà di religione». Questa, da secoli, è la nostra vera identità: «Ciascuno è libero di professare anche collettivamente la propria fede, senza però che quest’ambito (privato) condizioni la sfera pubblica, che deve restare laica». In realtà, ricorda Magaldi, così era anche in Italia prima del fascismo: «Quella del crocifisso nei luoghi pubblici non è una tradizione secolare, ma un’innovazione introdotta da una legge fascista del 1924».Normativa anomala, quella dei Patti Lateranensi, poi entrata «vergognosamente» anche nella Costituzione del 1948, «grazie all’ipocrisia del leader comunista Togliatti», preoccupato di non allarmare il potere vaticano di allora. Il trascinarsi delle polemiche sull’uso e abuso del simbolo cristiano offre il destro a Magaldi, cattolico convinto, di mettere a fuoco il tema, fuor dagli equivoci, in una video-chat su YouTube con Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «Gli analfabeti di ritorno della nostra attuale classe politica, quelli che ogni giorno alimentano l’allarmismo gratuito sul presunto neofascismo di oggi, magari non sanno che, se difendono il crocifisso nelle scuole, non fanno che confermare una scelta imposta da Mussolini». Lo Stato laico e liberale pre-fascista, infatti, non prevedeva l’esposizione in aula del simbolo cristiano. Sicchè, «chi proclama di voler difendere la nostra identità culturale, in realtà dimostra di non conoscere né la nostra storia né la nostra tradizione».Tra gli ipocriti, Magaldi include anche il premier Giuseppe Conte: «Si dice pronto, da cattolico, a garantire “libertà di coscienza” ai medici messi di fronte al drammatico problema dell’eutanasia, eppure è lo stesso Conte che solo ieri rinfacciava a Salvini l’esibizione del crocifisso nei comizi e l’evocazione della “Vergine Maria”». I crocifissi nelle scuole e negli altri edifici pubblici «non appartengono alla tradizione cattolica», ribadisce Magaldi: «Sono stati imposti con leggi del 1924-28 come parte di quel connubio clerico-fascista che rappresenta uno dei momenti più bassi dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia». Massone progressista, Magaldi confessa di aver aderito al cattolicesimo in mondo consapevole, in età adulta. Un’adesione matura e pienamente libera: eppure, ricorda, «la libertà di religione è stata conculcata, per secoli, dalle stesse religioni», che perseguitavano i seguaci di altre fedi. «Non ce l’ha portata lo Spirito Santo, la libertà di culto: l’hanno garantita, semmai, le avanguardie laiche e massoniche che hanno costruito il mondo contemporaneo, che tutela culture diverse».Ecco perché oggi, per la festa di San Petronio, «ha fatto benissimo la curia di Bologna a predisporre, nel menù della popolare sagra gastronomica, anche agnolotti con ripieno a base di pollo, per chi avesse problemi con la carne di maiale». Anche di polemiche sugli agnolotti, infatti, si nutre il gossip politico del 2019. Non che sia scomparsa la mortadella, dai tortellini di San Petronio: la notizia (falsa) è stata veicolata da estremisti. Per Magaldi, «si è trattato di un fraintendimento velenoso e stupido, visto che il ripieno di maiale resterà largamente maggioritario, a Bologna». Gli agnolotti al pollo, semmai, potranno avvicinare alla festa cattolica anche altre culture. Magaldi punta il dito contro «l’ateismo devoto e il tradizionalismo integralista reazionario» di chi contesta l’arcivescovo bolognese Matteo Maria Zuppi, presto cardinale, «esemplare interprete del rinnovamento e delle aperture inclusive intraprese dalla Chiesa di Papa Francesco», nel solco tracciato da prelati come monsignor Vicenzo Paglia, in uno sguardo ecumenico anticipato dalla Comunità di Sant’Egidio e dal dialogo interreligioso intrapreso ad Assisi da un Papa come Wojtyla.«Sulla laicità dello Stato comunque non si scherza», sottolinea Magaldi, ricordando l’islamico Abe Smith che nel 2003 intentò una causa contro lo Stato per rimuovere i crocifissi dai luoghi pubblici. «Non lo faceva in modo laico, ma con una motivazione di parte, islamico-integralista: era offeso dalla presenza dei segni di una religione diversa dalla sua». In seno alla stessa Cei, oggi c’è chi cita il recente monito di un imam: «Non dovete togliere i crocifissi dalle scuole – avrebbe detto il religioso musulmano – perché questo significherebbe abdicare alla vostra tradizione». Appunto, replica Magaldi: «In quel mondo islamico, che non ha ancora conosciuto la laicità, la distinzione tra legge civile laica e legge religiosa (dove infatti la “sharìa” è una commistione teocratica) non ci si capacita di come si possa essere contemporaneamente cristiani e laici». La nostra identità sarebbe messa in pericolo da culture altre? «La nostra tradizione non sta nel fatto di essere cristiani o ebrei: la tradizione occidentale – insiste Magaldi – è quella che stabilisce la laicità dello Stato e la possibilità per tutte le religioni di esprimersi e di essere coltivare dai fedeli, distinguendo però sempre tra la sfera religiosa (che è privata) e la sfera civile e laica (che è pubblica)».E’ la democrazia, la sovranità del popolo, a caratterizzare la civiltà occidentale, ribadisce Magaldi. Cattolico, ma non ipocrita: «Il cristianesimo – riconosce – è stato anche compagno di strada del fascismo e di situazioni pre-moderne con visioni teocratiche della società che nulla hanno da invidiare alle attuali teocrazie islamiche». Dopo l’Illuminismo e le rivoluzioni liberali del Settecento, si è affermato un cristianesimo più aperto, «declinato anche da massoni», che stabilisce «l’importanza e la salvaguardia della religione e della libertà di coscienza, distinguendo l’ambito religioso da quello civile». Chi oggi fa le barricate per i crocifissi nelle aule «è gente che non conosce la storia: parla di tradizioni ma non conosce le proprie». In particolare, «non conosce il retaggio da cui veniamo, e non sa nemmeno perché oggi si può parlare di libertà». Vittorio Sgarbi difende il simbolo del Cristo, come “Dio che si fa uomo” e indica agli uomini la via per il loro riscatto? «Giusto, ma senza scordare che, storicamente, il cristianesimo ha usato il simbolo del Cristo anche per fare i roghi, le persecuzioni, le inquisizioni e le peggiori nefandezze», sottolinea Magaldi: «Negli anni Venti, i fascisti e i clericali dell’Oltretevere non hanno messo il croficisso nelle scuole per significare quello che dice Sgarbi, ma per stabilire un’egemonia politica sui giovani».Macché “radici cristiane”: chi vuole il crocifisso nelle scuole «non difende il cristianesimo, ma solo i patti di potere stipulati negli anni Venti da Mussolini per stabilire un’egemonia culturale clerico-fascista sulle nuove generazioni, agendo sulla scuola e sull’educazione». Il massone progressista Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, si schiera col neo-ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti, che ha messo in dubbio l’opportunità di esporre i crocifissi nelle aule scolastiche. «In Francia, in Belgio e in Germania (con l’eccezione della Baviera) non c’è nessun crocifisso nelle scuole e nei tribunali», ricorda. «E’ una conferma della vera natura della civiltà occidentale, cui si deve la conquista storica della libertà di religione». Questa, da secoli, è la nostra vera identità: «Ciascuno è libero di professare anche collettivamente la propria fede, senza però che quest’ambito (privato) condizioni la sfera pubblica, che deve restare laica». In realtà, ricorda Magaldi, così era anche in Italia prima del fascismo: «Quella del crocifisso nei luoghi pubblici non è una tradizione secolare, ma un’innovazione introdotta da una legge fascista del 1924».
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L’Italia affonda e la Chiesa gareggia in ricchezza con gli Usa
Non si sono ancora sopite le polemiche per la decisione dell’elemosiniere del Papa di pagare l’elettricità di un palazzo occupato a Roma. Secondo una parte consistente dei commentatori politici, la decisione avrebbe chiari intenti polemici nei confronti dello Stato italiano ed anche di Matteo Salvini («pagherò le bollette arretrate degli inquilini e anche quelle del ministro», ha ironizzato l’elemosiniere del Pontefice). Insomma, dietro il pagamento di una bolletta, più che l’intento evangelico ci sarebbe quello politico. Papa Bergoglio sarebbe anche intenzionato non a punire, bensì a premiare il cardinale elemosiniere Krajewski conferendogli un ministero. Con la fine del potere universale della Chiesa cattolica nel medioevo, il papato ha inaugurato una nuova serie di sfide con le organizzazioni statali. La Chiesa è sopravvissuta, ma ha anche sempre sonoramente perso queste sfide, ridimensionandosi territorialmente fino a diventare lo Stato sovrano più piccolo del mondo. Tra le tante dispute, è degna di riflessione quella tra la Chiesa romana del Cinquecento e il Re d’Inghilterra, perché ripensarla oggi nei rapporti Stato italiano/Città del Vaticano potrebbe aiutare non poco a capire come “altri” risolsero il problema del debito pubblico.Come molti ricorderanno dagli insegnamenti scolastici, l’allora sovrano d’Inghilterra Enrico VIII pronunciò l’atto di supremazia sul cattolicesimo perché le alte sfere pontificie non accettarono il divorzio tra il Re e la sua consorte Caterina d’Aragona. Non si trattò di uno scisma teologico e dottrinale, dunque, ma di una disputa personale del Re con il Papa ed il suo cardinale di riferimento, Reginald Pole. Quel che non viene mai detto con sufficiente enfasi, invece, è che la disputa tra le due organizzazioni consentì all’Inghilterra di sanare il proprio debito pubblico. La dissoluzione dei monasteri, infatti, fu un processo che dal 1536 al 1540 permise ad Enrico VIII di confiscare le proprietà della Chiesa cattolica nell’isola. Grazie al possesso dei terreni d’Oltremanica, infatti, la Chiesa vantava entrate 3 volte maggiori rispetto a quelle dello Stato. A ben guardare, il ricavato delle vendite dei monasteri e dei terreni fu piuttosto deludente rispetto alle aspettative iniziali, ma consentì comunque all’Inghilterra di avere meno problemi economici di altri Stati in quell’epoca.Tornando all’attualità, e come si può ben immaginare, la Chiesa cattolica possiede, in Italia e fuori dal Belpaese, immobili che per quantità e qualità farebbero impallidire 100 confische di Enrico VIII. Il 20 per cento del patrimonio immobiliare italiano è in mano alla Chiesa, ma se calcoliamo anche quanto c’è fuori dai confini italiani, il papato può contare sullo stesso numero di ospedali, scuole e università di un gigante come gli Stati Uniti d’America. A Roma, città dai prezzi esorbitanti al metro quadro, un quarto degli immobili presenti è di proprietà del Vaticano. Secondo studi del “Sole 24 Ore”, solo in Italia, la Chiesa possiederebbe beni per miliardi di euro; e contando anche ciò che il Papa possiede fuori dall’Italia, la cifra supera i 2.000 miliardi solo di immobili. Va anche ricordato, a tal proposito, che la Città del Vaticano è una monarchia assoluta, una delle pochissime rimaste al mondo assieme al Brunei, all’Oman, agli Emirati Arabi e all’Arabia Saudita, e che il Papa – personalmente – risulta anche il proprietario “in solido” dei beni citati. In questo veloce conteggio, sono ovviamente esclusi conti bancari, depositi vari e oro, la cui consistenza è avvolta nel più assoluto mistero.Stiamo forse dicendo che sarebbe bene confiscare le proprietà della Chiesa? Non diamo nessuna valutazione, ma non sarebbe la prima volta che uno Stato lo fa a seguito di ingerenze politiche di stampo teocratico. Oltre ad Enrico VIII ci furono anche i francesi nel periodo della Rivoluzione, che dopo la Costituzione Civile del Clero provvidero ad assegnare ai cittadini i beni ecclesiastici presenti in Francia. Inoltre, che ci fosse bisogno di andare d’accordo col clero fu un’idea del Duce, che nel 1929 sottoscritte i Patti Lateranensi; ma i grandi protagonisti risorgimentali – Mazzini, Garibaldi, Cavour e i liberali che governarono l’Italia per più di sessantanni dopo l’Unità – non fecero concordati con la Chiesa e governarono tranquillamente il paese anche senza avere la simpatia e il consenso del Papa di turno.(Massimo Bordin, “Viene da Enrico VIII d’Inghilterra la soluzione per il debito pubblico italiano”, dal blog “Micidial” del 14 maggio 2019).Non si sono ancora sopite le polemiche per la decisione dell’elemosiniere del Papa di pagare l’elettricità di un palazzo occupato a Roma. Secondo una parte consistente dei commentatori politici, la decisione avrebbe chiari intenti polemici nei confronti dello Stato italiano ed anche di Matteo Salvini («pagherò le bollette arretrate degli inquilini e anche quelle del ministro», ha ironizzato l’elemosiniere del Pontefice). Insomma, dietro il pagamento di una bolletta, più che l’intento evangelico ci sarebbe quello politico. Papa Bergoglio sarebbe anche intenzionato non a punire, bensì a premiare il cardinale elemosiniere Krajewski conferendogli un ministero. Con la fine del potere universale della Chiesa cattolica nel medioevo, il papato ha inaugurato una nuova serie di sfide con le organizzazioni statali. La Chiesa è sopravvissuta, ma ha anche sempre sonoramente perso queste sfide, ridimensionandosi territorialmente fino a diventare lo Stato sovrano più piccolo del mondo. Tra le tante dispute, è degna di riflessione quella tra la Chiesa romana del Cinquecento e il Re d’Inghilterra, perché ripensarla oggi nei rapporti Stato italiano/Città del Vaticano potrebbe aiutare non poco a capire come “altri” risolsero il problema del debito pubblico.
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Il compasso, la mitra e la corona: i veri burattinai del Duce
Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.La pubblicistica più recente sta mettendo a fuoco il ruolo della massoneria nella storia italiana, sempre liquidata in poche righe nei libri scolastici (alla voce “carboneria”) tra le pagine del Risorgimento. L’ideale illuministico – libertà, uguaglianza e fraternità, in antitesi al sistema di privilegi dell’Ancien Régime incarnato dalla teocrazia vaticana – era tra le componenti ideologiche dei massoni libertari che, al netto delle contingenze geopolitiche (il ruolo strategico dello Stivale nel Mediterraneo, crocevia degli interessi anglo-francesi) alimentarono in modo decisivo la spinta unitaria, fino alla Breccia di Porta Pia. Ma poi, come sempre, le cose non andarono come i più idealisti avevano sperato, secondo Carpeoro anche e soprattutto per la perdita prematura di una mente come quella di Cavour. L’Italia nacque zoppa, dopo la feroce repressione del Sud affidata ai generali sabaudi Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini. Un altro generale di sua maestà, il pluridecorato Fiorenzo Bava Beccaris, prese a cannonate la folla milanese affamata dalle tasse. Due anni dopo, nel 1900, l’anarchico Gaetano Bresci fece giustizia a suo modo, assassinando il sovrano, Umberto I di Savoia. L’Italia dei notabili liberali stava per esplodere, sotto la spinta del proletariato rurale e industriale: sulle barricate innanzitutto i socialisti, guidati da un leader come Filippo Turati, massone anche lui, e poi dal giovane giornalista Benito Mussolini, tumultuoso direttore dell’“Avanti”.A scommettere sul fascismo, racconta la storiografia, furono gli agrari, i latifondisti del Sud e il grande capitale industriale del Nord. Obiettivo: arrestare l’onda rossa del socialismo, “comprando” un leader di cui il popolo socialista si fidava. E faceva male, sottolinea Carpeoro, rivelando che Mussolini era da tempo a libro paga degli inglesi, come loro agente regolarmente stipendiato. Per gradi, è emerso il ruolo della massoneria all’ombra del primo fascismo, quello ancora “sociale” e anticlericale di Piazza San Sepolcro: era imbottito di massoni il vertice fascista, anche in lizza tra loro – da una parte il Grande Oriente, ancora anticlericale, e dall’altra la Gran Loggia, più vicina al tradizionalismo cattolico. Un errore ottico, quello di molti massoni, costretti a pentirsi amaramente di aver sostenuto il Duce, fino a puntare ben presto a sostituirlo con un altro massone, Italo Balbo, poi caduto a Tobruk alla guida del suo velivolo colpito “per errore” dalla contraerea italiana. Non ha portato fortuna, a Mussolini, il divorzio dalla massoneria, giunta infine a schierarsi con la Resistenza, fino a trasformare in atroce rituale (pena del contrappasso) il macabro scempio di Piazzale Loreto, con “l’imperatore” rovesciato e simbolicamente capovolto come l’Appeso dei tarocchi.Già decenni prima, si domanda Carpeoro, cosa sarebbe successo se Mussolini non fosse riuscito ad allontanare i massoni dal partito socialista? Se quel braccio di ferro l’avesse vinto il massone progressista Matteotti, contrario all’interventismo, l’Italia sarebbe entrata lo stesso nella tragedia della Prima Guerra Mondiale, da cui poi nacquero le tensioni sociali all’origine del fascismo? E cosa sarebbe accaduto se il Duce non avesse scaricato una seconda volta la massoneria, mettendo le logge addirittura fuorilegge per ingraziarsi il Vaticano con cui avrebbe firmato i Patti Lateranensi, mettendo fine al limbo giuridico in cui l’ex Stato Pontificio era rimasto confinato, dal 1861? Per contro, lo stesso potere vaticano non esitò a emarginare il nascente impegno politico dei cattolici, il neonato partito di Sturzo, pur di non ostacolare il nuovo Duce del fascismo, brutale con gli oppositori ma improvvisamente munifico con le gerarchie dell’Oltretevere. Così il regime transitò dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo concordatario, ma – ancora una volta – rimasero fuori dai riflettori i fili più segreti, destinati a collegare in modo insospettabile l’élite di potere, attraverso personaggi come il massone monarchico Badoglio e figure ancora più invisibili come quella dell’inafferrabile Filippo Naldi, primo finanziatore dell’ex socialista Mussolini con i soldi dei gruppi Eridania, Edison e Ansaldo, spaventati dalle crescenti rivendicazioni operaie.Proprio a Naldi, sopravvissuto a tutte le tempeste e intervistato nel dopoguerra da Sergio Zavoli, Carpeoro dedica svariate pagine del suo saggio: «Naldi era il Licio Gelli dell’epoca, capace di passare indenne da un tavolo all’altro, nel frattempo accumulando fortune economiche». Massone, Naldi, in contatto con gli alleati, con la Corona e con il Vaticano. Uno dei registi della liquidazione di Mussolini, il leader che proprio lui aveva aiutato ad emergere, e che – il 25 luglio del ‘43 – aveva tentato (fuori tempo massimo) di uscire dalla tragedia della guerra e dall’alleanza con Hitler, facendosi mettere in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo. Il piano: far nascere, a Salò, un’entità “sociale”, di nome e di fatto, non più monarchica né così generosa con il clero. Un progetto sabotato da manovre diplomatiche sotterranee: a informare i nazisti furono emissari vaticani, imbeccati da Naldi. Di fronte alla rivelazione di retroscena inediti, c’è chi storce prontamente il naso: la storia, si sostiene, più che da singoli dettagli (magari occulti) è determinata da condizioni molteplici, che coinvolgono milioni di persone, idee, eventi e progetti. Già, ma una cosa non esclude l’altra: sapere ad esempio che era massone l’eroe socialista Giacomo Matteotti, primo vero martire dell’antifascismo, può regalare più profondità di sguardo, evitando di cadere nei più classici stereotipi che dividono il mondo in buoni e cattivi.Carpeoro – all’anagrafe Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – è un intellettuale di formazione anarco-socialista: idealmente anarchico e vicino al socialismo “utopistico” pre-marxista nel quale risuonano le speranze dei primissimi manifesti rosacrociani, che già all’inizio del ‘600 sognavano un mondo senza più sfruttati, senza più proprietà privata né confini tra le nazioni. Di quell’habitat culturale – esoterico, meta-storico – Carpeoro si è occupato a lungo, come esperto simbologo, fino a sviluppare un progetto editoriale come “Summa Symbolica”, di cui è uscito il primo volume. Anche quest’ultimo lavoro sui retroscena “velati” del Ventennio, cioè la strana alleanza provvisoria tra massoneria e Vaticano all’ombra del Duce, in fondo conferma la tesi di fondo che Carpeoro sostiene: il potere, quale che sia, adotta sempre modalità magico-illusionistiche nel creare leader e uomini del destino, condannati a poi a essere puntualmente rottamati dal momento in cui diventano inutili, e magari ingombranti come Mussolini. Inglesi e americani, massoni e cardinali? Certamente, ma il vero potere resta uno schema astratto, pronto a cambiare maschera all’occorrenza, evitando anche di esporre troppo i suoi esponenti più prossimi e più decisivi: come il Re, vero dominus della parabola mussoliniana.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il compasso, il fascio e la mitra”, Uno Editori, 141 pagine, euro 12,90).Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.
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Italia commissariata, dal giorno della demolizione di Craxi
Il 19 gennaio del 2000, e cioè 17 anni fa, moriva Bettino Craxi. Aveva 65 anni, un tumore al rene curato male, un cuore malandato, curato malissimo. Il cuore a un certo punto si fermò. Non fu fatto molto per salvarlo. Non fu fatto niente, dall’Italia. Craxi era nato a Milano ed è morto ad Hammamet, in Tunisia, esule. Era stato segretario del partito socialista per quasi vent’anni e presidente del Consiglio per più di tre. In Italia aveva subito condanne penali per finanziamento illecito del suo partito e per corruzione. Quasi dieci anni di carcere in tutto. Prima delle condanne si era trasferito in Tunisia. Se fosse rientrato sarebbe morto in cella. Craxi ha sempre respinto l’accusa di corruzione personale. Non c’erano prove. E non furono mai trovati i proventi. In genere quando uno prende gigantesche tangenti e le mette in tasca, poi da qualche parte questi soldi saltano fuori. In banca, in acquisti, in grandi ville, motoscafi. Non furono mai trovati. I figli non li hanno mai visti. La moglie neppure. Lui non li ha mai utilizzati. Non ha lasciato proprietà, eredità, tesori. Craxi era un malfattore, o è stato invece uno statista importante sconfitto da una gigantesca operazione giudiziaria?La seconda ipotesi francamente è più probabile. La prima è quella più diffusa nell’opinione pubblica, sostenuta con grande impegno da quasi tutta la stampa, difesa e spada sguainata da gran parte della magistratura. Craxi era stato uno degli uomini più importanti e potenti d’Italia, negli anni Ottanta, aveva goduto di grande prestigio internazionale. Si era scontrato e aveva dialogato con Reagan, col Vaticano, con Israele e i paesi Arabi, con Gorbaciov, con quasi tutti i leader internazionali. Aveva sostenuto furiose battaglie con i comunisti in Italia, con Berlinguer e Occhetto e D’Alema; e anche con la Dc, con De Mita, con Forlani, epici gli scontri con Andreotti; con la Dc aveva collaborato per anni e governato insieme. Bene, male? Poi ne discutiamo. Aveva anche firmato con la Chiesa il nuovo concordato. Morì solo solo. Solo: abbandonato da tutti. Stefania, sua figlia, racconta di quando la mamma la chiamò al telefono, nell’autunno del ‘99, e le disse che Bettino era stato ricoverato a Tunisi, un attacco di cuore. Lei era a Milano, si precipitò e poi cercò di muovere mari e monti per fare curare il padre. Non si mossero i monti e il mare restò immobile.Craxi fu curato all’ospedale militare di Tunisi. Stefania riuscì ad avere gli esami clinici e li spedì a Milano, al San Raffaele, lì aveva degli amici. Le risposero che c’era un tumore al rene e che andava operato subito, se no poteva diffondersi. Invece passarono ancora due mesi, perché a Tunisi nessuno se la sentiva di operarlo. Arrivò un chirurgo da Milano, operò Craxi in una sala operatoria dove due infermieri tenevano in braccio la lampada per fare luce. Portò via il rene, ma era tardi. Il tumore si era propagato, doveva essere operato prima, si poteva salvare, ma non ci fu verso. In quei giorni drammatici dell’ottobre 1999 Craxi era caduto in profonda depressione. Non c’è da stupirsi, no? Parlava poco, non aveva forse voglia di curarsi. Era un uomo disperato: indignato, disgustato e disperato. Stefania mi ha raccontato che lei non sapeva a che santo votarsi: non conosceva persone potenti. Il Psi non esisteva più. Chiamò Giuliano Ferrara e gli chiese di intervenire con D’Alema. Il giorno dopo Ferrara gli disse che D’Alema faceva sapere che un salvacondotto per l’Italia era impossibile, la Procura di Milano avrebbe immediatamente chiesto l’arresto e il trasferimento in carcere.Stefania chiese a Ferrara se D’Alema potesse intervenire sui francesi, i francesi sono sempre stati generosi con la concessione dell’asilo politico. Era più che naturale che glielo concedessero. Curarsi a Parigi dava qualche garanzia in più che curarsi all’ospedale militare di Tunisi. Passarono solo 24 ore e Jospin, che era il primo ministro francese, rilasciò una dichiarazione alle agenzie: «Bettino Craxi non è benvenuto in Francia». Quella, più o meno, fu l’ultima parola della politica su Craxi. Fu la parola decisiva dell’establishment italiano e internazionale. Craxi deve morire. Il 19 gennaio Craxi – per una volta – obbedì e se andò all’altro mondo. E’ curioso che quasi vent’anni dopo la sua morte, e mentre cade il venticinquesimo anniversario dell’inizio della stagione di Tangentopoli (Mario Chiesa fu arrestato il 17 febbraio del 1992, e da lì cominciò tutto, da quel giorno iniziò la liquidazione della prima repubblica), qui in Italia nessuno mai abbia voluto aprire una riflessione su cosa successe in quegli anni, sul perché Craxi fu spinto all’esilio e alla morte, sul senso dell’inchiesta Mani Pulite, sul peso della figura di Craxi nella storia della repubblica. Ci provò Giorgio Napolitano, qualche anno fa. Ma nessuno gli diede retta. Vogliamo provarci? Partendo dalla domanda essenziale: Statista o brigante.Forse sapete che Bettino Craxi negli anni Ottanta scriveva dei corsivi sull’“Avanti!”, il giornale del suo partito, firmandoli “Ghino di Tacco”. Ghino era un bandito gentiluomo vissuto verso la metà del 1200 dalle parti di Siena, a Radicofani. Boccaccio parla di lui come una brava persona. A Craxi non dispiaceva la qualifica di brigante. Perché era un irregolare della politica. Uno che rompeva gli schemi, che non amava il politically correct. Però non fu un bandito e fu certamente uno statista. Persino Gerardo D’Ambrosio, uno dei più feroci tra i Pm del pool che annientò Craxi, qualche anno fa ha dichiarato: non gli interessava l’arricchimento, gli interessava il potere politico. Già: Craxi amava in modo viscerale la politica. La politica e la sua autonomia. Attenzione a questa parola di origine greca: autonomia. Perché è una delle protagoniste assolute di questa storia. Prima di parlarne però affrontiamo la questione giudiziaria. Era colpevole o innocente? Sicuramente era colpevole di finanziamento illecito del suo partito. Lo ha sempre ammesso. E prima di lasciare l’Italia lo proclamò in un famosissimo discorso parlamentare, pronunciato in un’aula di Montecitorio strapiena e silente.Raccontò di come tutti i partiti si finanziavano illegalmente: tutti. Anche quelli dell’opposizione, anche il Pci. Disse: se qualcuno vuole smentirmi si alzi in piedi e presto la storia lo condannerà come spergiuro. Beh, non si alzò nessuno. Il sistema politico in quegli anni – come adesso – era molto costoso. E i partiti si finanziavano o facendo venire i soldi dall’estero o prendendo tangenti. Pessima abitudine? Certo, pessima abitudine, ma è una cosa molto, molto diversa dalla corruzione personale. E in genere il reato, che è sempre personale e non collettivo, non era commesso direttamente dai capi dei partiti, ma dagli amministratori: per Craxi invece valse la formula, del tutto antigiuridica, “non poteva non sapere”. Craxi era colpevole. Nello stesso modo nel quale erano stati colpevoli De Gasperi, Togliatti, Nenni, la Malfa, Moro, Fanfani, Berlinguer, De Mita, Forlani… Sapete di qualcuno di loro condannato a 10 anni in cella e morto solo e vituperato in esilio? Ecco, qui sta l’ingiustizia. Poi c’è il giudizio politico. Che è sempre molto discutibile. Craxi si occupò di due cose. La prima era guidare la modernizzazione dell’Italia che usciva dagli anni di ferro e di fuoco delle grandi conquiste operaie e popolari, e anche della grande violenza, del terrorismo, e infine della crisi economica e dell’inflazione. Craxi pensò a riforme politiche e sociali che permettessero di stabilizzare il paese e di interrompere l’inflazione.La seconda cosa della quale si preoccupò, strettamente legata alla prima, era la necessità di salvare e di dare un ruolo alla sinistra in anni nei quali, dopo la vittoria di Reagan e della Thatcher, il liberismo stava dilagando. Craxi cercò di trovare uno spazio per la sinistra, senza opporsi al liberismo. Provò a immaginare una sinistra che dall’interno della rivoluzione reaganiana ritrovava una sua missione, attenuava le asprezze di Reagan e conciliava mercatismo e stato sociale. Un po’ fu l’anticipatore di Blair e anche di Clinton (e anche di Prodi, e D’Alema e Renzi…). Craxi operò negli anni precedenti alla caduta del comunismo, ma si comportò come se la fine del comunismo fosse già avvenuta. Questa forse è stata la sua intuizione più straordinaria. Ma andò sprecata. Personalmente non ho mai condiviso quella sua impresa, e cioè il tentativo di fondare un liberismo di sinistra. Così come, personalmente, continuo a pensare che fu un errore tagliare la scala mobile, e che quell’errore di Craxi costa ancora caro alla sinistra. Ma questa è la mia opinione, e va confrontata con la storia reale, e non credo che sia facile avere certezze.Quel che certo è che Craxi si misurò con questa impresa mostrando la statura dello statista, e non cercando qualche voto, un po’ di consenso, o fortuna personale. Poi possiamo discutere finché volete se fu un buono o un cattivo statista. Così come possiamo farlo per De Gasperi, per Fanfani, per Moro. E qui arriviamo a quella parolina: l’autonomia della politica. Solo in una società dove esiste l’autonomia della politica è possibile che vivano ed operano gli statisti. Se l’autonomia non esiste, allora i leader politici sono solo funzionari di altri poteri. Dell’economia, della magistratura, della grande finanza, delle multinazionali… In Italia l’autonomia della politica è morta e sepolta da tempo. L’ha sepolta proprio l’inchiesta di Mani Pulite. C’erano, negli anni Settanta, tre leader, più di tutti gli altri, che avevano chiarissimo il valore dell’autonomia. Uno era Moro, uno era Berlinguer e il terzo, il più giovane, era Craxi. Alla fine degli anni Ottanta Moro e Berlinguer erano morti. Era rimasto solo Craxi. Io credo che fu essenzialmente per questa ragione che Craxi fu scelto come bersaglio, come colosso da abbattere, e fu abbattuto.Lui era convinto che ci fu un complotto. Sospettava che lo guidassero gli americani, ancora furiosi per lo sgarbo che gli aveva fatto ai tempi di Sigonella, quando ordinò ai carabinieri di circondare i Marines che volevano impedire la partenza di un un aereo con a bordo un esponente della lotta armata palestinese. I carabinieri spianarono i mitra. Si sfiorò lo scontro armato. Alla fine, in piena notte, Reagan cedette e l’aereo partì. Sì, certo, non gliela perdonò. Io non credo però che ci fu un complotto. Non credo che c’entrassero gli americani. Penso che molte realtà diverse (economia, editoria, magistratura) in modo distinto e indipendente, ma in alleanza tra loro, pensarono che Tangentopoli fosse la grande occasione per liquidare definitivamente l’autonomia della politica e per avviare una gigantesca ripartizione del potere di Stato. Per questo presero Craxi a simbolo da demolire. Perché senza di lui l’autonomia della politica non aveva più interpreti.Dal punto di vista giudiziario “mani pulite” ha avuto un risultato incerto. Migliaia e migliaia di politici imputati, centinaia e centinaia arrestati, circa un terzo di loro, poi, condannati, moltissimi invece assolti ( ma azzoppati e messi al margine della lotta politica), diversi suicidi, anche illustrissimi come quelli dei presidenti dell’Eni e della Montedison. Dal punto di vista politico invece l’operazione fu un successo. La redistribuzione del potere fu realizzata. Alla stampa toccarono le briciole, anche perché nel frattempo era sceso in campo Berlusconi. All’imprenditoria e alla grande finanza andò la parte più grande del bottino, anche perché decise di collaborare attivamente con i magistrati, e dunque fu risparmiata dalle inchieste. Quanto alla magistratura, portò a casa parecchi risultati. Alcuni molto concreti: la fine dell’immunità parlamentare, che poneva Camera e Senato in una condizione di timore e di subalternità verso i Pm; la fine della possibilità di concedere l’animista; la fine della discussione sulla separazione delle carriere, sulla responsabilità civile, e in sostanza la fine della prospettiva di una riforma della giustizia.Altri risultati furono più di prospettiva: l’enorme aumento della popolarità, fino a permettere al Procuratore di Milano – in violazione di qualunque etica professionale – di incitare il popolo alla rivolta contro la politica (“resistere, resistere, resistere… ”) senza che nessuno osasse contestarlo, anzi, tra gli applausi; il via libera all’abitudine dell’interventismo delle Procure in grandi scelte politiche ( di alcune parlava giorni fa Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”); l’enorme aumento del potere di controllo sulla stampa e sulla Tv; la totale autonomia. Ora a me restano due domande. La prima è questa: quanto è stata mutilata la nostra democrazia da questi avvenimenti che hanno segnato tutto l’ultimo quarto di secolo? E questa mutilazione è servita ad aumentare il tasso di moralità nella vita pubblica, oppure non è servita a niente ed è stata, dunque, solo una grandiosa e riuscita operazione di potere?E la seconda domanda è di tipo storico, ma anche umano: è giusto che un paese, e il suo popolo, riempano di fango una figura eminente della propria storica democratica, come è stato Craxi, solo per comodità, per codardia, per “patibolismo”, deturpando la verità vera, rinunciando a sapere cosa è stato nella realtà il proprio passato? Io penso di no. Da vecchio anticraxiano penso che dobbiamo qualcosa a Bettino Craxi.(Piero Sansonetti, “Da anticraxiano vi dico: gli dobbiamo qualcosa”, da “Il Dubbio” del 19 gennaio 2017).Il 19 gennaio del 2000, e cioè 17 anni fa, moriva Bettino Craxi. Aveva 65 anni, un tumore al rene curato male, un cuore malandato, curato malissimo. Il cuore a un certo punto si fermò. Non fu fatto molto per salvarlo. Non fu fatto niente, dall’Italia. Craxi era nato a Milano ed è morto ad Hammamet, in Tunisia, esule. Era stato segretario del partito socialista per quasi vent’anni e presidente del Consiglio per più di tre. In Italia aveva subito condanne penali per finanziamento illecito del suo partito e per corruzione. Quasi dieci anni di carcere in tutto. Prima delle condanne si era trasferito in Tunisia. Se fosse rientrato sarebbe morto in cella. Craxi ha sempre respinto l’accusa di corruzione personale. Non c’erano prove. E non furono mai trovati i proventi. In genere quando uno prende gigantesche tangenti e le mette in tasca, poi da qualche parte questi soldi saltano fuori. In banca, in acquisti, in grandi ville, motoscafi. Non furono mai trovati. I figli non li hanno mai visti. La moglie neppure. Lui non li ha mai utilizzati. Non ha lasciato proprietà, eredità, tesori. Craxi era un malfattore, o è stato invece uno statista importante sconfitto da una gigantesca operazione giudiziaria?
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Paura-Renzi, tutti con lui: Usa, Cei, Merkel, Wall Street
Ve lo vedete il nostro ambasciatore a Washington che si intromette nelle campagna elettorale di Trump? Ne verrebbe fuori un putiferio. Invece, rileva Aldo Giannuli, in Italia nessuno apre bocca se mezzo mondo interviene in soccorso di Renzi, in vista del temutissimo referendum d’autunno – temutissimo perché, dopo il Brexit, sarebbe una breccia per altri “pericolosi” referendum, non solo in Italia, sull’euro e la Ue. «La Cei, l’ambasciatore americano, la Merkel, Wall Street, le agenzie di rating come “Fitch”, la Goldman Sachs e la Jp Morgan, la Ue e chissà chi altro nelle prossime ore, stanno accorrendo tutti al capezzale del governo italiano in vista del pericoloso appuntamento referendario che rischia di diventarne l’infarto finale». Per Renzi la strada è in salita: la probabilità di perdere è molto più che una semplice ipotesi. «E pur di scongiurare questo (per loro) infausto evento, si mettono da parte rivalità e vecchi rancori e si travolge persino la prassi diplomatica per la quale è vietatissimo ad un ambasciatore prendere posizione sulle vicende interne del paese presso il quale è distaccato». E, salvo «la timida ma onorevole uscita di Mattarella», non c’è stata nessuna protesta diplomatica del nostro ministero degli esteri.Ormai, scrive Giannuli sul suo blog, «pare che il governo italiano non rappresenti più il popolo italiano ma sia diventato una dépendence del Pd e che, anzi, ringrazi gli Usa per il grazioso appoggio». Ma perché l’opposizione tace? Non una parola dai 5 Stelle o da Sinistra Italiana. In silenzio anche Lega Nord, Forza Italia, Fratelli d’Italia. Perché non chiedere «un dibattito in aula sulle ingerenze straniere nel referendum», o magari «una mozione di sfiducia al ministro degli esteri?». E le gerarchie vaticane, perché si schierano anche loro con Renzi? «Cosa gliene importa ai vescovi italiani (che per il Concordato, dovrebbero tenere il becco chiuso sulla politica in questo paese) se, in Italia, c’è il Senato o no?». Quanto alla Casa Bianca, finora «ha mostrato ben poche simpatie per Renzi a causa delle sue posizioni sui rapporti con la Russia», ma adesso perché di colpo lo difende? E perché anche la Merkel accorre in aiuto del “giullare” fiorentino? No, Renzi non è diventato improvvisamente simpatico a tutti: «Il punto è un altro e va messo in relazione alla Brexit». Una bocciatura della riforma renziana «suonerebbe come la seconda aperta sconfessione di un governo europeo, e questo sarebbe un esempio molto pericoloso».Napolitano e Monti sono stati espliciti, in merito: non sono materie da sottoporre a giudizio referendario, il popolo non deve metter becco in questi argomenti. Il rischio, continua Giannuli, è che «a ruota piombino le richieste di referendum sulla Ue, l’euro o altre materie “sensibili” anche in Francia, Spagna, Portogallo, Olanda e Repubblica Ceca, travolgendo i rispettivi governi come è stato rovesciato Cameron e come lo sarebbe Renzi se vincesse il No». E questo, ovviamente, «potrebbe preludere al crollo della Ue con effetto-domino sugli Usa», anche perché «non dobbiamo perdere d’occhio i venti di rivolta elettorale che soffiano su Europa e Usa come reazione alla crisi ormai quasi decennale». Questa l’analisi di Giannuli: «Le élites dominanti, anzi la élite globale, reagisce mettendo da parte i suoi dissensi interni e opponendo un fronte unico alla sollevazione popolare. D’altra parte, la riforma di Renzi dell’“uomo solo al comando” tutta impostata sul ruolo centrale e quasi esclusivo del governo ai danni di magistratura e, soprattutto, Parlamento si inquadra perfettamente nella “costituzione emergenziale” della globalizzazione: una governance impostata su una sorta di conferenza permanente dei capi degli esecutivi senza impicci parlamentari e tantomeno di organi come le Corti Costituzionali o, più in generale, del potere giudiziario». In altre parole, «l’ordine neoliberista non tollera di essere messo discussione e tantomeno dai popoli dell’Occidente». Se non altro, ora ha gettato la maschera.Ve lo vedete il nostro ambasciatore a Washington che si intromette nelle campagna elettorale di Trump? Ne verrebbe fuori un putiferio. Invece, rileva Aldo Giannuli, in Italia nessuno apre bocca se mezzo mondo interviene in soccorso di Renzi, in vista del temutissimo referendum d’autunno – temutissimo perché, dopo il Brexit, sarebbe una breccia per altri “pericolosi” referendum, non solo in Italia, sull’euro e la Ue. «La Cei, l’ambasciatore americano, la Merkel, Wall Street, le agenzie di rating come “Fitch”, la Goldman Sachs e la Jp Morgan, la Ue e chissà chi altro nelle prossime ore, stanno accorrendo tutti al capezzale del governo italiano in vista del pericoloso appuntamento referendario che rischia di diventarne l’infarto finale». Per Renzi la strada è in salita: la probabilità di perdere è molto più che una semplice ipotesi. «E pur di scongiurare questo (per loro) infausto evento, si mettono da parte rivalità e vecchi rancori e si travolge persino la prassi diplomatica per la quale è vietatissimo ad un ambasciatore prendere posizione sulle vicende interne del paese presso il quale è distaccato». E, salvo «la timida ma onorevole uscita di Mattarella», non c’è stata nessuna protesta diplomatica del nostro ministero degli esteri.
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Ribellarsi all’Europa, reportage finanziato dai lettori
Europa ribelle: quella che gli altri media di solito non raccontano. E che, il 25 maggio, annuncia amare sorprese per gli eurocrati di Bruxelles. Gian Micalessin e Andrea Indini, inviati del “Giornale”, si sguinzagliano a caccia di informazioni in Inghilterra, Francia, Olanda e Germania, «alla ricerca delle ragioni della rabbia e della delusione che minacciano di metter fine all’Unione Europea e alla sua moneta». Operazione gestita con la collaborazione del crowdfunding: sono i lettori, con apposite donazioni online, a contribuire alla realizzazione del reportage sulla “guerra già cominciata”, quella contro l’austerity imposta dalla Troika dell’Eurozona. «Fuori dall’euro, fuori dal Concordato», scrive “Vency”, aprendo la lotteria dei commenti sull’iniziativa editoriale. «L’Europa esiste ed è ancora nel mio cuore il sogno di bambina di avere una Europa unita», scrive Giulia. «Peccato che quando ci si mettono i denari è come dare tutto in pasto ai porci». E a proposito: «Si sa perché il regno Unito non ha mai aderito all’euro?».Non mancano gli euro-rassegnati come Tonio, «convinto che, senza l’Europa, pur con alcuni errori, staremmo molto peggio». Il rimedio? «Imparare a saper spendere meglio e di più i fondi europei assegnatici». Senza contare che «l’Europa ci ha garantito circa 70 anni di pace, dopo le 2 terribili e atroci guerre mondiali con milioni di morti». Per Alessandro, quella di Tonio è una nota «banalissima», peraltro «propagandata da coloro che ci vogliono tenere incatenati all’euro». Gli eurocrati italiani? «Vogliono finire di distruggere il fior fiore dell’industria che hanno ereditato, nel settore energetico, produttivo, sanitario, scolastico, abitatativo, pensionistico, innovativo che aveva l’Italia». La pensa così anche Gianmario: «Credo che tutti gli uomini di buona volontà che amano la libertà, non debbano sottrarsi dal combattere, con qualsiasi mezzo, questa politica europea che ci porterà a una disastrosa rovina. Pensate agli ultimi gravi eventi che questi pagliacci, includendo Obama, hanno ispirato e realizzato: sto parlando della Libia, delle primavere arabe, della Siria e ora della questione Ucraina. Lo avete visto Kerry, il pollo americano, correre a riconoscere il governo fantoccio messo su dalla Ue? Dobbiamo fermarli!».«L’Europa – fa eco Cosimo – risponde a “Capitan America” con un film mozzafiato, “L’impero s’è desto”, ambientato nel 2058: il conflitto mondiale tra gli alleati (Usa, Gb, Canada e Australia) contro i confederati (Cina, India e l’Eurussia)», cioè «il grande impero dove non tramonta mai il sole, che si estende dall’Atlantico al Pacifico, fondato dalle nuove generazioni dalle ceneri della vecchia Unione Europea che non seppe soddisfare le aspettative economiche e democratiche». I lettori dimostrano di capire cosa significhi l’euro-rovina nel bel mezzo delle tensioni mondiali Usa-Russia, con sullo sfondo la Cina e le emergenze economiche, climatiche, energentiche. Nel fanta-film geopolitico di Cosimo, la nuova guerra sarebbe scoppiata «perché gli Usa, dopo aver stabilito il controllo sulle risorse energetiche siberiane, del Medio Oriente e quelle minerarie dell’Africa, vogliono accaparrarsi anche lo sfruttamento del sistema delle piogge monsoniche a ridosso dell’Himalaya, che rappresenta ormai l’unica grande riserva di acqua potabile». Torna a bomba Andrea Pacini: «L’ Europa così come noi l’abbiamo vista nascere non esiste più, lo spirito della sua nascita si è dissolto».«E’ desolante e sconfortante – aggiunge Andrea – vedere come il genuino impegno di uomini politici d’altri tempi si sia vanificato, dissolto davanti a interessi che, più che di semplice natura economica, definirei di depravato potere economico che non guarda in faccia a nessuno». Le conseguenze? «Sono sotto gli occhi di tutti: abbiamo veramente bisogno di questa Europa genuflessa ai grandi poteri, sopratutto di oltreoceano?». Risponde, nel modo più diretto possibile, Dimitriye Popovic: quale Europa, scusate? «E’ tutto ancora come prima, per l’uomo che lavora per sostenere la propria famiglia». Storia personale: «Non mi è entrato in tasca un bel nulla, anzi le tasche me l’hanno svuotate». Adesso non si fanno più guerre? «Con le armi no, ma c’è una guerra più cruenta che fa morti bianche: forse, allora, è meglio morire traffitti da una palla di piombo». E, detto per inciso alla redazione del “Giornale” che lancia il crowdfunding per il reportage sulla rivolta contro gli euro-orrori, Dimitriye quasi si scusa: «Non posso contribuire, perchè non ho una carta di credito».Europa ribelle: quella che gli altri media di solito non raccontano. E che, il 25 maggio, annuncia amare sorprese per gli eurocrati di Bruxelles. Gian Micalessin e Andrea Indini, inviati del “Giornale”, si sguinzagliano a caccia di informazioni in Inghilterra, Francia, Olanda e Germania, «alla ricerca delle ragioni della rabbia e della delusione che minacciano di metter fine all’Unione Europea e alla sua moneta». Operazione gestita con la collaborazione del crowdfunding: sono i lettori, con apposite donazioni online, a contribuire alla realizzazione del reportage sulla “guerra già cominciata”, quella contro l’austerity imposta dalla Troika dell’Eurozona. «Fuori dall’euro, fuori dal Concordato», scrive “Vency”, aprendo la lotteria dei commenti sull’iniziativa editoriale. «L’Europa esiste ed è ancora nel mio cuore il sogno di bambina di avere una Europa unita», scrive Giulia. «Peccato che quando ci si mettono i denari è come dare tutto in pasto ai porci». E a proposito: «Si sa perché il regno Unito non ha mai aderito all’euro?».
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Islam in classe? Meglio: nuove regole, per ogni religione
Il Corano in classe, per concedere pari diritti alle religioni e scongiurare i rischi di un Islam clandestino? No, perché non dovrebbe più essere lo Stato a dover “sdoganare” le regioni: questo presupposto, sancito peraltro dal Concordato a tutela dei cattolici, è vecchio e sbagliato: anziché estenderlo anche all’Islam, va cancellato anche per il cattolicesimo. Lo afferma Sofia Ventura, docente di scienze politiche all’università di Bologna, nell’intervento “Una società plurale in uno Stato neutrale”
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L’Islam clandestino non giova all’Italia
A chi giova un Islam illegale, clandestino e messo ai margini della società? Bisogna partire da questa domanda per comprendere il senso della proposta, che tanto clamore ha suscitato, lanciata nei giorni scorsi ad Asolo, al seminario annuale delle due fondazioni, “Italianieuropei” e “Farefuturo”, guidate rispettivamente da Massimo D’Alema e Gianfranco Fini: proposta che prevede la possibilità di inserire l’insegnamento facoltativo della religione islamica nell’ordinamento scolastico nazionale.
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Fini: migrazioni bibliche, no a politiche razziste
Il tema dell’immigrazione non deve essere piegato alla «propaganda quotidiana». Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, è intervenuto il 26 agosto alla Festa del Pd di Genova lanciando un severo monito al governo Berlusconi dopo le aspre polemiche degli ultimi giorni, come lo scontro che ha opposto Lega Nord e Vaticano sul “respingimento” in mare dei migranti, molti dei quali bisognosi di diritto d’asilo. «Affrontare un tema così grande, con un’ottica riduttiva, rischia di non portarci da nessun parte: l’approccio emotivo e fondato soltanto sulla questione della sicurezza dei cittadini italiani è miope e sbagliato».