Archivio del Tag ‘condanna’
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Arrangiatevi: così la scuola neoliberista tradisce i ragazzi
Come trasformare un bambino in un “asset”: un individuo solo al mondo, in lotta contro tutti. E’ l’orrore del neoliberismo, sintetizzato da Margaret Thatcher nel 1980: «L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima». Si comincia presto, dai banchi di scuola: e il risultato è ormai sotto i nostri occhi, avverte Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt ed esperta del mondo scolastico. Nata in circoli accademici ristretti, «lautamente foraggiati per contrastare il mainstream economico keynesiano», la teoria economica neoliberista finisce con il diventare in pochi anni, fra gli anni ‘70 e ‘80, la visione dominante dell’economia, grazie agli economisti della Scuola di Chicago come Milton Friedman e Friederich von Heyek. Applicazioni immediate: il Cile di Augusto Pinochet, la Gran Bretagna della “Strega del Nord”, gli Usa di Reagan. Il neoliberismo? «Fondato su una visione assiomatica (ovvero indimostrabile) del mondo». Un mondo economico “ideale”, come «una realtà perfettamente ordinata e regolata da leggi “naturali”, al di fuori di ogni intervento regolatore dello Stato». Homo homini lupus: estremizzando la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, il neoliberismo «postula la spontanea diffusione della ricchezza e del benessere come conseguenza “naturale” dell’assenza di ogni vincolo economico, giuridico, ambientale, politico e sociale all’egoistico perseguimento del profitto».Si tratta di un dogma che non ammette smentite, scrive Patrizia Scanu sul blog del Movimento Roosevelt: l’idea della capacità dei mercati di autoregolarsi viene assunta come principale e indiscutibile legge dell’economia. Pura teologia: «Qualunque fatto che la contraddica – la disoccupazione, l’aumento dell’inflazione, l’arresto della crescita – viene attribuito esclusivamente all’insufficiente libertà del mercato». Per autoconvalida, quindi, «la ricetta è sempre “meno Stato, più mercato” (salvo quando, in modo contraddittorio, si chiede che lo Stato intervenga ad attuare politiche pro-cicliche di austerity o a proteggere il mercato interno dalla concorrenza estera, per esempio)». In questo senso, la teoria accademica – una volta nelle mani dei politici e dei potentati economici internazionali – diventa una ideologia totale, cioè «una produzione intellettuale sostanzialmente falsa e inautentica». Mira a dare ordine alla società e ad orientarne l’evoluzione storica, «che è incorreggibile e pretende di essere universale e globale». In altre parole, il neoliberismo vorrebbe «dire tutto l’essenziale sull’uomo, sotto qualunque cielo e in qualunque circostanza».In economia, continua Patrizia Scanu, le ricette neoliberiste sono principalmente tre: deregulation (ovvero assenza di regole che limitino l’acquisizione di profitti e la circolazione dei capitali), privatizzazioni (sulla base dell’assioma che il privato è più efficiente del pubblico) e riduzione della spesa sociale, per evitare “l’inquinamento” dello Stato nel mondo “perfetto” dei mercati. Una visione «discutibile e astratta dell’economia, strumentale allo spostamento di ricchezza dai poveri ai ricchi». Una concezione che è anche «responsabile dell’aggravarsi della diseguaglianza, della miseria e della disperazione, laddove essa è stata applicata in modo inflessibile (come spiega molto bene il premio Nobel Joseph Stiglitz nel saggio “La globalizzazione e i suoi oppositori”)». Nella realtà storica del processo di globalizzazione, a questa deformazione si accompagna anche e soprattutto «una visione distorta dell’uomo e della vita». Si tratta di «una vera e propria perversione antropologica, che si insinua nelle coscienze, nelle famiglie, nelle comunità e che distrugge in profondità la spontanea propensione umana alla cooperazione, all’altruismo e all’empatia». Infatti, «in questa visione esiste solo il singolo, che persegue avidamente e in modo aggressivo il suo utile egoistico; la vita è una lotta per la sopravvivenza nella quale emerge chi vince nell’incessante competizione per l’accaparramento di beni finiti».L’altro essere umano non è che «una minaccia costante al proprio benessere». Conseguenza: «Il valore di ogni relazione ed esperienza umana si misura con il denaro ed è quantificabile in termini economici». Peggio: «Non esistono limiti etici al diritto di trarre profitto dalle proprie attività, visto che per sgocciolamento (“trickle down”) la ricchezza accumulata dai vincenti porterà comunque benessere a tutti». Lo Stato che spende per i servizi sociali? «E’ vizioso, e il debito pubblico è una sorta di peccato originale che richiede un’espiazione collettiva». I mercati? «Sono l’unico Dio a cui essere sottomessi, senza remissione». Una degradazione infernale della dimensione umana: «La propria felicità si persegue a danno della felicità altrui: mors tua, vita mea, in un eterno gioco a somma zero, in cui la miseria e la sofferenza prodotte sono un male necessario per consentire la crescita indefinita, unico fine dell’attività economica». Una deriva ideologica, ben riassunta dalla famigerata Thatcher: «Non esiste una cosa chiamata società, ci sono solo individui e famiglie». Tradotto: le idee di vita associata, di solidarietà sociale e di beni comuni e inalienabili sono estranee a questa visione del mondo. «Tutto è quantificabile, alienabile e privatizzabile; tutto è subordinato al perseguimento dell’interesse privato e lo Stato non ha alcun ruolo nel mediare fra interessi contrapposti, anche quando i costi umani sono altissimi».Più che nella sommaria tecnicalità economistica, il neoliberismo si esprime – in termini di devastazione sociale – attraverso il modello umano che sottende, e che guida l’azione politica. «Stiamo parlando cioè di un fenomeno di egemonia culturale, nel senso descritto da Antonio Gramsci, ovvero di un pensiero che diventa dominante in un momento storico e consente ai gruppi al potere di esercitare una forma di controllo sulle persone, grazie al fatto che esso viene assunto nelle pratiche sociali, diffuso costantemente e interiorizzato». Questo pensiero egemonico, aggiunge Patrizia Scanu, di fatto «sostituisce una visione del mondo ad un’altra e colonizza le menti, rendendo difficile uscire dal “frame”, dallo schema interpretativo imposto». Per averne un saggio, basti leggere una riflessione di Gary Becker, l’allievo di Friedman che coniò l’espressione “capitale umano”. Testualmente: «Per la maggior parte dei genitori, i figli sono una fonte di reddito psicologico, o di soddisfazione. Pertanto, nella terminologia economica, essi si possono considerare un bene di consumo», scrive Becker. «I figli possono anche fornire reddito, ed in qualche caso sono anche un bene produttivo». Ancora: «Questa caratteristica fa dei figli un bene durevole, sia produttivo che di consumo».«Può sembrare eccessivo, artificiale, forse anche immorale classificare i figli alla stregua di automobili, case o macchinari», ammette Becker, ma aggiunge: le soddisfazioni garantite dai figli sono paragonabili a quelle di altri “beni durevoli”. I figli visti come beni di consumo o, peggio ancora, come bene produttivo? «Rappresentano adeguatamente il livello di stravolgimento assiologico di questo discorso», sottolinea Patrizia Scanu: «Invece di essere funzionale alla vita, l’economia la fagocita e ne inscatola con cinica indifferenza l’infinita ricchezza in una serie di anonimi contenitori tutti uguali e misurabili, che si chiamano “beni di consumo” o “beni produttivi”». Attenzione: «In questo delirio di onnipotenza, i legami familiari, i sentimenti, le aspirazioni, i destini di individui e popoli diventano la variabile dipendente delle leggi “naturali” del mercato, concepite come fisse e immodificabili, come un Fato di fronte al quale si può solo chinare la testa, con pia rassegnazione». E il guaio è che «non ci rendiamo sempre conto di quanto abbiamo finito per considerare normale questa maligna distorsione della realtà “sub specie oeconomica”, che rende pensabile l’impensabile, attraverso l’apparente neutralità del linguaggio scientifico».E’ vero: «Finiamo con l’abituarci al fatto che in molte aree del mondo esistano bambini-schiavi, bambini-soldato, bambini-oggetto sessuale (che sono senz’altro “beni produttivi”) o al fatto che le famiglie possano essere disgregate senza riserve, perché prima vengono le esigenze produttive, quando i genitori devono accettare un posto di lavoro sempre più precario in luoghi diversi e lontani fra loro, quando devono lavorare oltre l’orario per non perdere il posto, quando l’azienda delocalizza l’attività». Oppure, ci diventa familiare «il fatto che i bambini, sempre più soli, vengano tenuti buoni lasciandoli incollati molte ore al giorno ai loro costosi schermi digitali, che li rendono dipendenti e rubano loro esperienze ben più vitali». O ancora, «riusciamo a trovare accettabili le ricette neoliberiste per la scuola, espresse in una “neolingua” economica dalla quale vengono espulsi la vita, la bellezza, la conoscenza, la relazione profonda e la crescita umana». E’ diventato tragicamente normale parlare di “dirigenti” scolastici (come in azienda) anziché di presidi, di “debiti e crediti” formativi, di “offerta” formativa, di “successo” formativo, di “piani e pianificazione”, di “innovazione e imprenditorialità”, di “competenze” intese non nel senso etimologico di un sapere a cui si aspira condividendo esperienza, ma come strumenti per competere alla pari sul mercato, da “certificare” (altra parola della “neolingua”) e da misurare con “test” oggettivi e standardizzati.Patrizia Scanu ricorda il “Portfolio delle competenze” della ministra Moratti, «fulgido esempio di lessico aziendalista». La Buona Scuola di Renzi? «E’ un concentrato di ideologia neoliberista, in cui tutto è finalizzato a trasformare la scuola in un’azienda, i docenti in passivi impiegati privi di autonomia professionale e costantemente sotto ricatto economico e psicologico, gli studenti in docili schiavi da addestrare per le esigenze del mondo del lavoro, ma privi di creatività e di senso critico». E’ una dimensione in cui il tempo-scuola – sempre più ridotto dal 2008 in poi, fino alla trovata dei licei quadriennali – è un tempo «infarcito di attività accattivanti, ma prive di sostanza culturale, come il Clil (ovvero l’insegnamento di una materia in lingua straniera con didattica smart) o la didattica multimediale». Ormai il mondo del lavoro «entra di prepotenza nella didattica, diventandone lo scopo». E arriva, con il nuovo esame di Stato, «a valutare l’alunno, al posto del docente, per una parte cospicua del voto finale». E gli enti certificatori esterni, come l’Invalsi (che entrerà anch’esso nella valutazione finale dello studente) sottraggono una bella fetta di autonomia didattica al docente, «costringendolo all’aberrazione del “teaching to test”, cioè a sacrificare ulteriormente la filosofia, la matematica, la storia o la letteratura alla preparazione al test standardizzato».La verità, sintetizza Patrizia Scanu, è che «nell’orizzonte ideologico neoliberista non esistono né l’uomo né il cittadino, ma solo il lavoratore e il consumatore». E la standardizzazione «livella ogni differenza di personalità e di profili attitudinali individuali». Da quest’anno, poi, nella valutazione finale in uscita dalla scuola primaria (a 10 anni!) entra una qualità comportamentale che si chiama “Spirito di iniziativa ed imprenditorialità”, «tanto per chiarire subito qual è il fine». Obiettivamente, un bambino che cresce “intossicato” da questa visione del mondo «è pronto ad accettare qualunque lesione ai propri diritti, a considerare normale l’egoismo e naturale competere con gli altri, a dare per scontata la “durezza del vivere” che è il prezzo della crescita». Ed è pronto a considerare il lavoro una specie di condanna, «anziché la propria emancipazione personale e civile come scopo dello studio». Il bambino si abitua a non fare mai domande, «poiché tutto è già pianificato, predisposto e certificato: ogni conoscenza è misurabile e quantificabile, e ciò che esula dalla misura standardizzata (il pensiero critico, il gusto estetico, la creatività) non ha più posto nella sua formazione e nel suo portfolio delle competenze».In questo modello di scuola, aggiunge Patrizia Scanu, scompare anche l’autonomia didattica del docente, «compressa dalla pressione ministeriale a conformarsi ai metodi via via imposti dall’alto come innovativi», fino all’alternanza scuola-lavoro (che sottrae tempo alla didattica) e all’influenza dei datori di lavoro che valutano gli studenti. Ci sono i vincoli dell’Invalsi, la valutazione meritocratica (economicistica), i risultati quantificabili con il “successo formativo” degli allievi. E ancora: l’ingerenza dei privati nel finanziamento e nella gestione degli istituti. Secondo il piano renziano, «le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola». Per questo intervengono le risorse private, che «possono contribuire a trasformare la scuola in un vero investimento collettivo». La scuola è una frontiera mobile, si legge nel documento: «Se pensiamo alle sfide della competizione globale, al dinamismo di una società sempre più multiculturale, alla rapidità del cambiamento tecnologico, capiamo subito le esigenze di una continua sperimentazione educativa. Vale per la scuola quanto è ormai ovvio per moltissimi altri ambiti, a partire dalla ricerca: sommare risorse pubbliche a interventi dei privati è l’unico modo per tornare a competere».Via libera ai fondi privati, visto che lo Stato chiude i rubinetti: ben vengano fondazioni e altri enti per la gestione di risorse provenienti dall’esterno, privi di “appesantimenti burocratici”. Tanto per essere chiari, osserva Patrizia Scanu: la scuola deve attrezzarsi alla competizione globale «data come indiscutibile», dev’essere in continua sperimentazione «come se fosse sempre in funzione di esigenze esterne a sé e priva di riferimenti culturali», deve accogliere senza controllo finanziamenti privati «con le relative pressioni esterne», e deve diventare “un investimento collettivo”, trasformandosi in una fondazione. «Ma i soggetti di questo “noi” non sono precisati e sono facilmente individuabili nei capitali privati. Eccolo lì, il punto-chiave, quello su cui pochissimo si è detto ai cittadini: la scuola-fondazione non è la scuola pubblica della Costituzione: non forma uomini e cittadini, ma lavoratori già pronti a entrare velocemente e senza diritti nel mondo del lavoro». Quella scuola, scrive Patrizia Scanu, «non colma le disuguaglianze sociali, ma le accentua, rendendole territoriali». Peggio: «Non rilascia titoli con valore legale, ma certificazioni di competenze, abbandonando i singoli alla leggi spietate del mercato. E non educa, ma si limita ad istruire secondo la volontà di chi la finanzia».Siamo all’applicazione scolastica dell’ingegneria sociale promossa dagli “stregoni” della Scuola di Chicago: «Ritroviamo qui per intero il Verbo neoliberista: deregolamentare, privatizzare e tagliare servizi pubblici con la scusa del debito pubblico e della carenza di fondi, unica realtà immodificabile». La stessa autonomia scolastica, nata per superare il centralismo burocratico della scuola statale, attraverso questa pericolosa “mutazione genetica” diventa «la solitudine darwiniana della scuola, che deve mantenersi a galla nella lotta per la sopravvivenza escogitando sempre nuovi modi per attrarre finanziamenti, perdendo ogni reale autonomia e diventando, nella sostanza, privata». Questo, conclude Patrizia Scanu, è un crimine politico: «E’ un tradimento del compito educativo della scuola ed è un violento assalto ai valori sui quali si fonda la scuola della Costituzione». Una deriva in apparenza inarrestabile, alla quale – oggi più che mai – è necessario opporre contromisure strategiche.Come trasformare un bambino in un “asset”: un individuo solo al mondo, in lotta contro tutti. E’ l’orrore del neoliberismo, sintetizzato da Margaret Thatcher nel 1980: «L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima». Si comincia presto, dai banchi di scuola: e il risultato è ormai sotto i nostri occhi, avverte Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt ed esperta del mondo scolastico. Nata in circoli accademici ristretti, «lautamente foraggiati per contrastare il mainstream economico keynesiano», la teoria economica neoliberista finisce con il diventare in pochi anni, fra gli anni ‘70 e ‘80, la visione dominante dell’economia, grazie agli economisti della Scuola di Chicago come Milton Friedman e Friederich von Heyek. Applicazioni immediate: il Cile di Augusto Pinochet, la Gran Bretagna della “Strega del Nord”, gli Usa di Reagan. Il neoliberismo? «Fondato su una visione assiomatica (ovvero indimostrabile) del mondo». Un mondo economico “ideale”, come «una realtà perfettamente ordinata e regolata da leggi “naturali”, al di fuori di ogni intervento regolatore dello Stato». Homo homini lupus: estremizzando la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, il neoliberismo «postula la spontanea diffusione della ricchezza e del benessere come conseguenza “naturale” dell’assenza di ogni vincolo economico, giuridico, ambientale, politico e sociale all’egoistico perseguimento del profitto».
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Giovagnoli: perché la Chiesa ci ha tolto gli alberi millenari
Solo questo, oggi, possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Era il manifesto poetico e politico di Eugenio Montale, sotto il fascismo. Letteratura a suo modo eroica, da Premio Nobel: ermetismo, frammentismo. Bandire le convenzioni letterarie, le leziosità, i virtuosismi formali e accademici. La verità, innanzitutto. Da allora, la poesia si è frantumata in un “solve et coagula” decisamente alchemico, che a volte l’ha fatta anche risorgere, sotto mentite spoglie, persino nell’universo mercenario degli spot pubblicitari. Di alchimia si occupa un poeta dei nostri giorni, molto sui generis: si chiama Michele Giovagnoli e faceva la guida naturalistica sui monti delle Marche, tra le ultime foreste di cerro. Poi si è ammalato, ed è entrato in crisi. Un problema al colon: incurabile, per la medicina ufficiale – ma non per il bosco: «Sono entrato nel bosco di notte, e il bosco mi ha guarito», racconta, ai microfoni di “Border Nights”. «Già l’indomani, i medici hanno constatato la mia completa guarigione. Mi hanno chiesto se fossi stato a Lourdes: ma quello è l’ultimo posto dove sarei andato». Già, perché il poetico alchimista Giovagnoli – un folletto, dalla chioma che ricorda quella di Branduardi – ha intrapreso una battaglia personale contro il potere che, racconta, ha condannato a morte le foreste primordiali, quelle degli alberi millenari. Pochi lo sanno, ma fu proprio la Chiesa di Roma – nel nono secolo dopo Cristo – a decretare la distruzione sistematica degli alberi antichi, venerati dalla popolazione.Nelle catacombe della storia cristiana, con l’aiuto di archivisti, Giovagnoli ha scovato le carte dello sconosciutissimo Concilio Namnetense, vero e proprio “fantasma” persino su Google, prima che uscisse “La messa è finita”, libro-denuncia nel quale il Folletto marchigiano riesuma lo sconcertante anatema lanciato dal Vaticano contro gli alberi più vetusti, ovviamente associati a misteriosi dèmoni. Altrettanto sconcertante il trattamento che vescovi e preti medievali si impegnarono a riservare alle maestose piante: dovevano essere segate e abbattute, poi addirittura sradicate, fatte a pezzi e infine bruciate – come fossero eretici in carne e ossa, e non monumenti (viventi) del mondo vegetale. Il sommo Guido Ceronetti, scrittore atipico e coltissimo traduttore, ha spiegato cosa c’è nella testa del piromane, quando non è un semplice incendiario a pagamento, reclutato dalla mafia della speculazione edilizia. E’ vero, il maniaco del fuoco prova sempre un segreto piacere nel veder divampare le fiamme, preparandosi poi a godersi di nascosto l’altro “spettacolo”, quello dei soccorsi. Ma c’è altro, in fondo alla sua mente: e cioè il gusto (probabilmente inconsapevole) della dissacrazione, della profanazione sacrilega. Perché i boschi, da che mondo è mondo – ricorda Ceronetti – sono sempre stati la dimora dei dèi. Ovvero: il tempio naturale di una sorta di patto sacro, tra l’uomo e l’universo.Giovagnoli collega le cose in modo diretto, persino brutale: la stessa mano che ci ha privato degli alberi millenari, dice, è quella che ha incatenato il mondo occidentale per 1700 anni, inaugurando la raffinata schiavitù psicologica della fede. Come Machiavelli, lo scrittore-alchimista la considera un sopraffino “instrumentum regni”: la sottomissione spinge gli uomini a mettersi in ginocchio e a chiedere assurdamente perdono – a umanissimi burocrati della religione – per non si sa quali peccati. «Ai romani servivano le catene, ai cristiani bastò il crocifisso». Un simbolo potentissimo e onnipresente, persino sulle cime dei monti: in molte conferenze, ora disponibili su YouTube, Giovagnoli propone un impetoso parallelo tra l’emblema cristico scelto dai cattolici – l’uomo in agonia sulla croce, atrocemente torturato – e «l’altro modello cristico, il meraviglioso Uomo Vitruviano di Leonardo, con tutti i suoi “centri di potere” liberi di esprimersi: la testa non cinta dalla corona di spine, mani e piedi non trafitti da chiodi ma in contatto con terra e cielo, e poi il sesso – i genitali tranquillamente esposti, non “bannati” come quelli del Gesù cattolico, nascosti da un panno». Citando il drammaturgo Alejandro Jodorowsky e il filologo-esegeta Igor Sibaldi, Giovagnoli sintetizza: «L’eros è la nostra maggiore forza creativa, quella che ci rende capaci di ribellarci; imprigionarlo e mortificarlo significa voler produrre generazioni di servi».Nella veemente invettiva anticattolica di Giovagnoli – fiero di essersi “sbattezzato” – c’è spazio anche per le entusiasmanti frontiere scientifiche dell’epigenetica, che studia i mutamenti “alchemici” che avvengono nel corpo umano di fronte a particolari sollecitazioni emotive. «Recenti studi esaminano l’effetto deprimente del suono delle campane: a chi le ascolta, in ultima analisi, ricordano l’onnipresenza di un potere superiore, insuperabile. Sono le stesse campane, dal suono grave, che venivano suonate per ammonire i fedeli: stai attento e vedi di rigare dritto, se non vuoi fare la fine degli eretici o degli ultimi sacerdoti pagani, appesi ai loro alberi sacri e lasciati morire lentamente, con il ventre squarciato». Campane e crocifissi, libertà di pensiero: opinioni, interpretazioni. Ma gli alberi? «In tutte le culture del mondo, l’albero rappresenta da sempre un cardine imprescindibile della spiritualità, un punto di riferimento visivo e simbolico, un’espressione viva che unisce Terra e Cielo. In tutte, tranne che in quella cattolica». Baobab immensi in Africa, sequoie millenarie in America, foreste incontaminate in Asia. Niente di simile, purtroppo, in Europa: tranne rarissimi casi – come quello degli olivastri sardi, vecchi anche di tremila anni – da noi i grandi alberi generalmente non superano i 2-3 secoli di vita.Niente a che vedere con le maestose querce meravigliosamente raccontate da Plinio il Vecchio, nella sua “Naturalis Historia” scritta al seguito delle legioni romane: sul Baltico, le querce millenarie erano così immense da formare archi grandiosi, sotto i quali potevano transitare squadroni di cavalleria. Certo, ammette Giovagnoli, la rivoluzione industriale ha dato il colpo di grazia alle foreste madri europee. Ma la “guerra” contro i grandi alberi nasce prima, ed è squisitamente culturale: qualcosa di molto più sottile e profondo delle mere istanze economiche. Notare: «Più ci si allontana geograficamente dal fulcro del dominio cattolico, quindi da Roma, e maggiore è la probabilità di incontrare esemplari di dimensioni straordinarie», insieme a popoli «con tradizioni che riconoscono all’albero un potere super partes nel vissuto spirituale». Non è un caso, aggiunge, se l’Italia si è data una legge-quadro sui parchi naturali solo negli anni ‘90. C’è stata una «evidentissima reticenza politica» nel concedere al verde la propria naturale importanza, in un paese cresciuto al suono dei campanili. «Al Grande Parassita – scrive Giovagnoli, alludendo al cattolicesimo – la natura selvatica non è mai piaciuta tanto; anzi, l’ha sempre considerata un intralcio», forse anche perché «chi conosce la natura selvatica comprende meglio e più velocemente anche la propria».A lui è accaduto anni fa, racconta, quando era alle prese con un dramma: nessun medico sembrava in grado di curarlo. «Mi sono allora comportato da alchimista», dice a Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Ho cercato volutamente lo stato di “nigredo”, la dissoluzione dell’Io, calandomi da solo nella cosa che più mi faceva paura: il bosco di notte». Scendere nel proprio buio: come Dante, che la sua resurrezione iniziatica la comincia proprio dalle tenebre dell’Inferno. «A un certo punto – racconta Michele – ho sentito un gran caldo alla pancia, e sono crollato in un pianto dirotto, fino all’alba. Tornato a casa, sono andato dal medico e ho scoperto che ero guarito». Come? Mistero: «Posso solo dire che l’albero è il nostro più grande alleato, sulla Terra». Inutile chiedere a un poeta di fare un disegno. Meglio assecondare la sua vena: «Un bosco ti sente, ti ascolta, percepisce la tua energia vibrazionale. Può anche mutare all’istante la sua composizione chimica, producendo acido acetil-salicilico. E’ qualcosa di prodigioso, che cambia la qualità dell’aria e può entrarti nella pelle, per osmosi». Alchimista autodidatta ed entusiasta, “miracolato” dai suoi alberi, Giovagnoli fa notare come sarebbe bello, se oggi avessimo a portata di mano quelle piante millenarie, oscenamente distrutte nel medievo. «Erano un pezzo della memoria vivente del mondo: avevano respirato la stessa aria di Gesù». E a proposito di aria: «Non potremmo vivere, senza gli alberi: sono loro a fabbricare l’ossigeno che ci tiene in vita».In tutte le tradizioni autenticamente esoteriche, inclusa quella ben conosciuta dal citato Leonardo, lo specchio è un simbolo principe: capovolgendo l’immagine, offre la visione integrata e complementare dell’insieme. Tradotto in “giovagnolese”: «Fateci caso: gli organi che respirano l’ossigeno prodotto dal bosco sono come alberi rovesciati: i polmoni la chioma, e sopra di loro i bronchi, le radici, ramificate in modo frattale esattamente come i rami delle piante». Serve altro, per capire come mai i grandi alberi erano sacri? «C’erano prima di noi, sono la storia della Terra. Sono stati i primi a uscire dall’acqua, creando un’atmosfera respirabile per gli esseri umani». Di più: «E’ come se gli alberi entrassero in noi, a partire dalla nascita: quella che respiriamo è la loro aria, il loro ossigeno». Gli alberi, poi, non conoscono frontiere: «Pensate a quando vanno in amore, in primavera: il polline di un noce greco può volare sul mare, per andare a “corteggiare” un noce cresciuto in Puglia». Aprite gli occhi, ripete Giovagnoli: «Non c’è una croce a congiungerci con l’universo: c’è un albero. Per questo, chi ha diffuso croci ha voluto abbattere gli alberi. E il più delle volte, le chiese sono state erette proprio là dove prima sorgevano alberi millenari». Teologia: la visione trascendente “sfratta” la divinità dal mondo: Dio c’è, ma è altrove. Non è immanente, nella natura. «Tutto falso», assicura il Folletto. «Non ci credete? Provate. Il bosco vi aspetta. Ed è pronto ad aiutarvi, come ha fatto con me».(Il libro: Michele Giovagnoli, “La messa è finita. Come liberarsi dal più subdolo dei parassiti. Gli acutissimi strumenti di dominio in dotazione al clero”, Uno Editori, 174 pagine, euro 12,90. Giovagnoli ha inoltre scritto “Alchimia selvatica. La via del riveglio attraverso le arti magiche del bosco”, Macro Edizioni, mentre con Uno Editori ha appena pubblicato “Imparare a parlare con gli alberi. Manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire con il bosco”).Solo questo, oggi, possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Era il manifesto poetico e politico di Eugenio Montale, sotto il fascismo. Letteratura a suo modo eroica, da Premio Nobel: ermetismo, frammentismo. Bandire le convenzioni letterarie, le leziosità, i virtuosismi formali e accademici. La verità, innanzitutto. Da allora, la poesia si è frantumata in un “solve et coagula” decisamente alchemico, che a volte l’ha fatta anche risorgere, sotto mentite spoglie, persino nell’universo mercenario degli spot pubblicitari. Di alchimia si occupa un poeta dei nostri giorni, molto sui generis: si chiama Michele Giovagnoli e faceva la guida naturalistica sui monti delle Marche, tra le ultime foreste di cerro. Poi si è ammalato, ed è entrato in crisi. Un problema al colon: incurabile, per la medicina ufficiale – ma non per il bosco: «Sono entrato nel bosco di notte, e il bosco mi ha guarito», racconta, ai microfoni di “Border Nights”. «Già l’indomani, i medici hanno constatato la mia completa guarigione. Mi hanno chiesto se fossi stato a Lourdes: ma quello è l’ultimo posto dove sarei andato». Già, perché il poetico alchimista Giovagnoli – un folletto, dalla chioma che ricorda quella di Branduardi – ha intrapreso una battaglia personale contro il potere che, racconta, ha condannato a morte le foreste primordiali, quelle degli alberi millenari. Pochi lo sanno, ma fu proprio la Chiesa di Roma – nel nono secolo dopo Cristo – a decretare la distruzione sistematica degli alberi antichi, venerati dalla popolazione.
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La stampa vile e bugiarda sulla vergogna di Israele a Gaza
«Ho appena sentito il Gr2 della Rai chiedere ad un “esperto” dell’università privata Luiss il suo autorevole parere sulla strage di palestinesi. Costui ha spiegato che i palestinesi, soprattutto quelli legati ad Hamas, fanno troppi figli e poi li mandano al massacro alle frontiere di Israele che, magari con qualche eccesso, si difende. Questo schifo è ciò che gran parte di stampa e Tv italiane dicono sulla strage». Così Giorgio Cremaschi commenta, su “Contropiano”, l’ultima mattanza commessa da Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza, insorta dopo il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, neo-proclamata capitale dello Stato ebraico: 55 dimostranti uccisi e centinaia di feriti, abbattuti dai cecchini dell’esercito. «Se un massacro di ben lunga inferiore a questo ci fosse stato in uno dei paesi che l’Occidente considera nemici dei diritti e della democrazia – scrive Cremaschi, già leader sindacale Fiom e ora vicino a “Potere al Popolo” – noi saremmo bombardati da titoli di giornali e servizi tv di condanna. Invece Israele per la nostra stampa ha licenza di uccidere. Se uccide quotidianamente senza troppo clamore, allora si censura. Se il sangue deborda e la strage è colossale allora si mistifica».Per la stampa italiana, che Cremaschi definisce «vile e bugiarda», la colpa di tutto è la rabbia dei palestinesi, «naturalmente senza altre spiegazioni che la loro naturale cattiveria, fomentata dai terroristi di Hamas». Un orrore filmato, fotografato: «I soldati vili e criminali che dal sicuro dei loro nascondigli con fucili di precisione assassinano i manifestanti, adulti e bambini, non sono terroristi, ma “tutori dell’ordine”. Le bombe d’artiglieria e degli aerei, i gas, sì i gas sulla popolazione civile sono “legittima difesa”. I volti sorridenti nel mare di sangue della famiglia Trump e di Netanyahu non fanno orrore, essi sono “diplomazia amica”». Inutile sperare che un po’ di giustizia affiori, dal racconto mediatico quotidiano: «Tutto viene falsato, distorto, coperto. La stampa italiana diventa complice degli assassini di Israele nel modo più disgustoso. E tacciono i difensori di regime dei diritti umani, i Saviano e compagnia, che qui si tappano bocca, occhi, orecchie». Era già accaduto con la carneficina di “Cast Lead”, l’Operazione Piombo Fuso scatenata da Israele a cavallo tra 2008 e 2009, con bombe al fosforo bianco (armi illegali di distruzione di massa) lanciata sulla popolazione di Gaza: 1400 morti, secondo l’Onu, e settimane di inaudito silenzio da parte dei media mainstream.«Tutto questo a me provoca il vomito», protesta Cremaschi. «Per questo mi tappo la bocca, lo faccio contro la vergogna della stampa italiana e dei suoi maestri di pensiero». E aggiunge: «Nessuno che abbia coperto o attenuato i crimini di Israele ha più ragione morale di parlare di diritti e democrazia. Falsi e ipocriti, vergognatevi». Una condanna senza appello: «Mi tappo un attimo la bocca davanti al vostro schifo, ma poi riprenderò ad urlare: abbasso l’apartheid assassino di Israele, viva la Resistenza del popolo di Palestina». Artisti internazionali come Brian Eno e Roger Waters dei Pink Floyd hanno lanciato rumorose campagne civili contro “l’apartheid” israeliano che discrimina i palestinesi, ma nemmeno le rockstar sono riuscite a perforare il muro di omertà che protegge i crimini del governo di Tel Aviv, denunciati anche dall’isolato eroismo del movimento dei Refuseniks, gli obiettori militari israeliani (soldati che preferiscono il carcere alle missioni di bombardamento contro i quartieri della Striscia). Non c’è speranza che i Refuseniks – ultimo caso eclatante, quello del ventenne Udi Segal – possano “bucare” il piccolo schermo italiano, dominato da telegiornali-camomilla e talkshow occupati militarmente (quelli sì) dai cantori della nientologia politica corrente, asservita al regime che assegna ai banchieri della Bce l’unica sovranità rimasta all’ex Europa dei popoli, quella che esisteva prima dell’Unione Europea.«Ho appena sentito il Gr2 della Rai chiedere ad un “esperto” dell’università privata Luiss il suo autorevole parere sulla strage di palestinesi. Costui ha spiegato che i palestinesi, soprattutto quelli legati ad Hamas, fanno troppi figli e poi li mandano al massacro alle frontiere di Israele che, magari con qualche eccesso, si difende. Questo schifo è ciò che gran parte di stampa e Tv italiane dicono sulla strage». Così Giorgio Cremaschi commenta, su “Contropiano”, l’ultima mattanza commessa da Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza, insorta dopo il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, neo-proclamata capitale dello Stato ebraico: 55 dimostranti uccisi e centinaia di feriti, abbattuti dai cecchini dell’esercito. «Se un massacro di ben lunga inferiore a questo ci fosse stato in uno dei paesi che l’Occidente considera nemici dei diritti e della democrazia – scrive Cremaschi, già leader sindacale Fiom e ora vicino a “Potere al Popolo” – noi saremmo bombardati da titoli di giornali e servizi tv di condanna. Invece Israele per la nostra stampa ha licenza di uccidere. Se uccide quotidianamente senza troppo clamore, allora si censura. Se il sangue deborda e la strage è colossale allora si mistifica».
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Morte di David Rossi, Fracassi: colpa di Draghi il crollo Mps
Siena, 6 marzo 2013. Un uomo precipita dalla finestra, ma non muore sul colpo. Si muove ancora, quando due uomini comparsi dal nulla, nel vicolo sotto la sede centrale del Montepaschi, gli si avvicinano per verificarne le condizioni, prima di sparire. Chi sono? Mistero. «Sappiamo invece chi ha fatto pervenire quel filmato al “New York Post”: è stata la Cia», afferma il reporter Franco Fracassi, ai microfoni di “Border Nights”, a proposito del video (sconvolgente) sulla morte di David Rossi, poi ripreso anche dalle “Iene” e ora disponibile sul web. Insieme a Elio Lannutti, Fracassi è autore del saggio “Morte dei Paschi”, ovvero: dalla drammatica fine di Rossi ai risparmiatori truffati, “ecco chi ha ucciso la banca di Siena”. Suicidio all’italiana? Sappiamo solo che la magistratura ha rinunciato a indagare nella direzione dell’omicidio, dice Fracassi, avendo rapidamente archiviato il caso come, appunto, suicidio. «Certo, resta il fatto che Rossi è volato dalla finestra del suo ufficio appena due giorni dopo l’email in cui annunciava di voler parlare con i magistrati, riguardo al suo ruolo nella banca finita nella bufera». Indagini a parte, per Fracassi il vero colpevole ha un nome preciso: Mario Draghi. «E’ stato lui a far crollare la banca di Siena», determinando il disastro che poi ha portato anche alla morte di David Rossi.Il primo a puntare il dito contro il presidente della Bce è stato Gioele Magaldi, leader del Movimento Roosevelt e autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che svela il ruolo di 36 Ur-Lodges nel “back office” del massimo potere mondiale. Superlogge sovranazionali potentissime, come le 5 organizzazioni di stampo neo-aristocratico alle quali, secondo Magaldi, è affiliato Draghi: sono la “Edmund Burke”, la “Pan-Europa”, la “Der Ring”, nonché due autentiche colonne del mondo supermassonico di segno reazionario, la “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e la “Three Eyes”, il club di Kissinger, Rockefeller e Brzesinski. «Quando era governatore di Bankitalia – sostiene Magaldi – Draghi avrebbe dovuto vigilare sulla spericolata acquisizione di Antonveneta da parte della banca senese. Ma non lo fece, così come Anna Maria Tarantola, all’epoca alta funzionaria della Banca d’Italia». La vicenda Mps-Antonveneta è nota: il “Sole 24 Ore” la definisce «la più grande rivalutazione della storia». Il prezzo di Antonveneta, riassume il quotidiano di Confindustria, nel 2007 schizzò in pochi mesi dai 6,6 miliardi pagati dal Banco Santander per comprare l’istituto ai 9,3 (più oneri vari che hanno fatto salire il prezzo definitivo a 10,3 miliardi circa) tirati fuori da Mps.Oltre 10 miliardi, dunque, ai quali «vanno aggiunti almeno altri 7,9 miliardi di debiti di Antonveneta, che l’istituto senese si è accollato». In soli 11 mesi – dal 30 maggio 2008 al 30 aprile 2009 – il Monte dei Paschi «ha effettuato bonifici per oltre 17 miliardi». Soldi che, scrive il “Sole”, «sono finiti ad Amsterdam, Londra e Madrid». Oggi, Franco Fracassi la definisce «la più grande operazione bancaria della storia», avendo coinvolto anche gli olandesi di Abn-Amro, gli inglesi e la Banca Mondiale. «Draghi – insiste Fracassi, a “Border Nights” – ha avuto un ruolo di primo piano, nel disastro del Monte dei Paschi, perché non ha permesso controllo ma, a mio giudizio, ha premuto per la cosa: è stato lui a spingere il Monte dei Paschi nel baratro, perché la banca senese era un tassello fondamentale di questa operazione – che Draghi ha voluto a tutti i costi, e che ha portato alla grande crisi economica, quella che sta devastando tutta l’Europa da ormai dieci anni». Questa crisi, aggiunge Fracassi, è figlia del crack di alcune delle più grandi banche d’Europa, «frutto di un’operazione voluta da Draghi in un momento in cui non bisognava farla, e soprattutto non in maniera così scellerata, come se si avesse voluto gettare l’Europa nel baratro».Perché è successo? «Non credo che Draghi non sapesse che cosa sarebbe potuto accadere», dice sempre Fracassi a “Border Nights”. «Non credo l’abbia fatto per leggerezza. E’ una persona molto intelligente, che sa il fatto suo. E so anche che Draghi è uno dei campioni del neoliberismo: è colui che, quando stava in Goldman Sachs, ha gettato nel baratro la Grecia». Conoscendo l’ideologia neoliberista e le strategie normalmente adottate dall’élite finanziaria euro-atlantica, aggiunge Fracassi, «presumo che ci sia stata la volontà di gettare l’Europa nella crisi». Draghi? «In questo ha avuto un ruolo di primo piano, e il Monte dei Paschi è stata la chiave di volta: quantomeno, quindi – conclude – Draghi ha delle responsabilità morali, per questa vicenda», su cui ora incombe anche il giallo della morte di David Rossi. E quello strano video, che Fracassi attribuisce alla Cia? Proprio la fonte di quelle immagini terribili «dà la dimensione della cosa», aggiunge il giornalista. «E’ un filmato che non dovrebbe esistere, e che teoricamente non dovrebbe avere nulla a che vedere con loro: cosa può importare, alla Cia, di un italiano che si suicida?». Vai a sapere. Sempre Fracassi, a “ByoBlu”, ha rivelato che «il Montepaschi è una delle banche che in questi ultimi 7 anni hanno garantito l’acquisto e la vendita di armi a tutte le parti in conflitto in Siria».Nel libro scritto con Lannutti, Fracassi cerca di capire «chi siano gli assassini di quella che è stata la banca più grande d’Europa». Si parla di armi, di politica, di criminalità organizzata. «Anche il mondo sommerso del crimine, alla fine, passa dalle banche: non è che esiste la Criminal Bank e poi le banche pulite, le banche son banche», dice ancora Fracassi a “Border Nights”. «Tranne forse rari casi virtuosi, la maggior parte delle banche fa queste cose. Il problema è: a che livello, quanto consapevolmente, e quanta ingerenza hanno, questi aspetti, nella gestione complessiva della banca». La crisi di Mps sembra consonante con le recenti notizie sull’assorbimento delle Bcc, le banche di credito cooperativo, raggruppate – per volere della Bce – sono l’ombrello di un unico grande soggetto finanziario, che si teme sarà fatalmente meno attento all’economia dei territori e invece più aperto (come il Montepaschi dopo la fatale svolta) al mercato finanziario internazionale dei titoli tossici. «Il fallimento del Montepaschi, dovuto alla responsabilità quantomeno morale di Mario Draghi – aggiunge Fracassi – ha portato uno sconquasso in tutto il sistema economico e creditizio europeo. E quindi anche nelle banche italiane, che a differenza di altre erano più fragili, trovandosi in una situazione di grande esposizione, per aver fatto fusioni con altre banche e investimenti in Borsa sbagliati, ma soprattutto per la quantità di crediti inesigibili».Di per sé, precisa il giornalista, i crediti inesigibili non fanno crollare una banca, se non molto raramente. «Se però il sistema salta, quei crediti inesigibili diventano insostenibili: durante una crisi econonica, chi ha preso soldi in prestito non riesce a restituirli. E’ una sorta di catena: più banche falliscono, e più rischiano di fallirne». Elementare: «Quando un sistema va in crisi, i più deboli sono i primi a soccombere». E mentre una grande banca ha i suoi paracadute, oltre a essere “too big to fail” (troppo grande per poter fallire), le banche piccole «non hanno quasi protezione, da parte della politica e del sistema finanziario: si appoggiano a piccole realtà locali, che possono entrare in crisi coinvolgendo le banche stesse». E’ la storia recente dell’Unione Europea, sintetizza Fracassi, a rendere esplicita la condanna (non giudiziaria, certo, ma storico-politica) dei super-tecnocrati alla Mario Draghi, onnipotenti registi di una crisi abilmente pilotata per organizzare uno smisurato trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto. Un fenomeno spaventosamente spettacolare, senza eguali nella storia moderna. Il sociologo Luciano Gallino lo chiamava “lotta di classe dei ricchi contro i poveri”. E in attesa che venga alla luce la verità definitiva sulla fine di David Rossi – esecutori e mandanti dell’eventuale omicidio – Franco Fracassi insiste: almeno moralmente, la colpa è di Draghi. Distruggere Mps faceva parte di un piano preciso, che l’ex governatore di Bankitalia, poi promosso alla Bce, non ha certo ostacolato.(Il libro: Elio Lannutti e Franco Fracassi, “Morte dei Paschi. Dal suicidio di David Rossi ai risparmiatori truffati. Ecco chi ha ucciso la banca di Siena”, PaperFirst editore, 280 pagine, 12 euro).Siena, 6 marzo 2013. Un uomo precipita dalla finestra, ma non muore sul colpo. Si muove ancora, quando due uomini comparsi dal nulla, nel vicolo sotto la sede centrale del Montepaschi, gli si avvicinano per verificarne le condizioni, prima di sparire. Chi sono? Mistero. «Sappiamo invece chi ha fatto pervenire quel filmato al “New York Post”: è stata la Cia», afferma il reporter Franco Fracassi, ai microfoni di “Border Nights”, a proposito del video (sconvolgente) sulla morte di David Rossi, poi ripreso anche dalle “Iene” e ora disponibile sul web. Insieme a Elio Lannutti, Fracassi è autore del saggio “Morte dei Paschi”, ovvero: dalla drammatica fine di Rossi ai risparmiatori truffati, “ecco chi ha ucciso la banca di Siena”. Suicidio all’italiana? Sappiamo solo che la magistratura ha rinunciato a indagare nella direzione dell’omicidio, dice Fracassi, avendo rapidamente archiviato il caso come, appunto, suicidio. «Certo, resta il fatto che Rossi è volato dalla finestra del suo ufficio appena due giorni dopo l’email in cui annunciava di voler parlare con i magistrati, riguardo al suo ruolo nella banca finita nella bufera». Indagini a parte, per Fracassi il vero colpevole ha un nome preciso: Mario Draghi. «E’ stato lui a far crollare la banca di Siena», determinando il disastro che poi ha portato anche alla morte di David Rossi.
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Ma fa davvero paura a qualcuno, il subcomandante Di Maio?
I partiti di governo della Prima Repubblica facevano i congressi anche “coi morti”, cioè non depennando i militanti nel frattempo defunti dal computo rissoso delle correnti, e dunque delle rispettive poltrone. La notizia? I congressi, i partiti di oggi non li fanno proprio più, nemmeno “con i vivi”. Sono tutti morti? Ovvero: è vivo, il Pd che non ha ancora osato guardare in faccia Matteo Renzi e la sua catastrofe a rate, dal referendum 2016 alle politiche 2018? E’ viva Forza Italia, che dopo tanti anni non sa ancora cosa voglia dire mettere in discussione il verbo del fondatore-padrone? Ed è il vivo il Movimento 5 Stelle, che non ha mai celebrato un congresso – nemmeno per sbaglio – in tutta la sua vita? E’ vivo, un partito-marketing nato via web senza neppure una vera sede e i cui iscritti ed eletti non sono nemmeno legittimi comproprietari, pro quota, della sovranità politica simbolica del marchio sotto cui si presentano alle elezioni? Il mondo è in mano a multinazionali, imperi finanziari e potentissimi tecnocrati, signori della proprietà assoluta intesa come religione. Che idea si possono esser fatti, di una nazione politicamente nullatenente? Cosa devono pensare dell’Italia che sceglie di votare per partiti i cui iscritti e militanti non contano niente? Gli attuali partiti-fantasma sembrano lo specchio perfetto di un paese ideale, per il sommo potere: un paese in cui sono i cittadini a non contare nulla.Dalle catacombe della fu sinistra, è l’ex viceministro bersaniano Stefano Fassina ad avvertire il Quirinale: «Preoccupa che anche Mattarella affronti la questione della sovranità popolare con scomunica di “sovranismo”», scrive Fassina su Twitter. «L’alternativa all’Ue liberista fondata sulla svalutazione del lavoro non è autarchia o ritorno all’800, ma patriottismo costituzionale». Eppure, per il mainstream è giusto, sacrosanto, che il capo dello Stato pretenda di “suggerire” personalmente i ministri chiave, dagli esteri all’economia. Lo ripetono a reti unificate personaggi come il filosofo televisivo Massimo Cacciari e il giornalista Massimo Giannini: guai, se i titolari di quei dicateri dovessero esser scelti da politici avventati e pericolosamente populisti come Di Maio e Salvini. Guai, se a comporre davvero il cuore del futuro governo fossero le due forze – 5 Stelle e Lega – che hanno stravinto le elezioni. Vorrebbe dire che l’Italia potrebbe trovarsi di colpo, per la prima volta dopo molti anni, di fronte al grave pericolo di scegliere il proprio destino in modo democratico. Guai, quindi, se a comporre il toto-ministri fossero proprio i due partiti che hanno raccolto oltre il 50% dei consensi degli italiani. L’altra metà della verità può sembrare altrettanto sgradevole: siamo sicuri che Salvini, ma soprattutto Di Maio, rappresentino davvero un fondato motivo di allarme per l’establishment bancario ed eurocratico?Quantomeno, il leader della Lega ha eletto al Senato un economista keynesiano come Alberto Bagnai, nemico storico del rigore di Bruxelles, e ha promesso di demolire l’austerity facendo crollare la tassazione. Salvini ha anche condannato le sanzioni alla Russia e i missili Nato sulla Siria, ma Di Maio? Al contrario, ha graziosamente visitato i santuari massonici della finanza angloamericana e ha “sbianchettato” dal programma pentastellato i passaggi pro-Russia, tacendo sulla guerra siriana. Ha sventolato il totem del reddito di cittadinanza evitando però di spiegare esattamente come attuarlo, senza violare le regole-capestro imposte dall’Ue. Ha dovuto pure digerire l’insolenza di chi gli rinfacciava l’ex lavoro di steward allo stadio, anziché domandarsi chi fosse davvero, Luigi Di Maio, e perché mai è stato incoronato leader dei 5 Stelle (senza un vero programma) dopo primarie-burla, vinte in solitaria. Di chi è, il Movimento 5 Stelle? Che fine farebbe, un militante (o peggio, un eletto) che osasse esprimere dissenso? Undici milioni di voti, elargiti non si sa esattamente a chi, né per fare cosa. Il tutto tra i moniti di Mattarella e la platea d’élite, che guarda l’Italia votare in massa contro l’euro anzi per l’euro, per la Nato o meglio per la Russia, per i vaccini obbligatori o forse contro, non si sa. E’ davvero così malconcio, il super-potere, da inquietarsi al cospetto del minuscolo Di Maio?I partiti di governo della Prima Repubblica facevano i congressi anche “coi morti”, cioè non depennando i militanti nel frattempo defunti dal computo rissoso delle correnti, e dunque delle rispettive poltrone. La notizia? I congressi, i partiti di oggi non li fanno proprio più, nemmeno “con i vivi”. Sono tutti morti? Ovvero: è vivo, il Pd che non ha ancora osato guardare in faccia Matteo Renzi e la sua catastrofe a rate, dal referendum 2016 alle politiche 2018? E’ viva Forza Italia, che dopo tanti anni non sa ancora cosa voglia dire mettere in discussione il verbo del fondatore-padrone? Ed è il vivo il Movimento 5 Stelle, che non ha mai celebrato un congresso – nemmeno per sbaglio – in tutta la sua vita? E’ vivo, un partito-marketing nato via web senza neppure una vera sede e i cui iscritti ed eletti non sono nemmeno legittimi comproprietari, pro quota, della sovranità politica simbolica del marchio sotto cui si presentano alle elezioni? Il mondo è in mano a multinazionali, imperi finanziari e potentissimi tecnocrati, signori della proprietà assoluta intesa come religione. Che idea si possono esser fatti, di una nazione politicamente nullatenente? Cosa devono pensare dell’Italia che sceglie di votare per partiti i cui iscritti e militanti non contano niente? Gli attuali partiti-fantasma sembrano lo specchio perfetto di un paese ideale, per il sommo potere: un paese in cui sono i cittadini a non contare nulla.
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Scie chimiche in tribunale, ma resta il silenzio sul fenomeno
Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nessuno sa o vuole spiegare come mai i cieli non sono più azzurri, ma a strisce bianche. Eppure la colpa è dei “complottisti”, non dei governi che tacciono sul fenomeno. Non fa eccezione la reporter Silvia Bencivelli, letteralmente bombardata da «un crescendo di insulti e minacce sui social (spesso a sfondo sessuale)», dopo un articolo scritto per “La Stampa” nel 2013, dal titolo: “Scie chimiche, la leggenda di una bufala”. Un assedio intimidatorio che, scrive ora su “Repubblica”, «mi ha costretto a vivere nella paura» da quando un “branco” di ostinati “cospirazionisti” l’ha presa di mira. Ora è stato condannato quello che Silvia Bencivelli definisce “il capobranco”: si tratta di Rosario Marcianò, del blog “Tanker Enemy”: otto mesi, per diffamazione a mezzo web. «La sentenza è di quelle storiche, capaci di creare un precedente», scrive Giorgia Marino sulla “Stampa”, che saluta «forse anche un cambio di rotta, in tempi in cui odio digitale ed esacerbata violenza verbale impediscono troppo spesso un pacato e civile dialogo online». Tutto nasce nel 2013, quando Bencivelli scrive un articolo che la stessa Marino definisce “di giornalismo scientifico”. «Dopo appena mezz’ora dalla pubblicazione online, sulla casella di posta elettronica della giornalista arriva una email di Marcianò: “Non ti vergogni?”. Da quel momento – scrive Giorgia Marino – comincia un vero e proprio mail-bombing da parte dei seguaci di Marcianò, a cui segue una valanga di messaggi aggressivi su Facebook, incitati dallo stesso guru delle scie chimiche».«Una bufera a cui non ero minimamente preparata», sostiene Silvia Bencivelli: «Io mi occupo di neutrini e balene, mai avrei pensato di poter suscitare un tale odio con un mio scritto». Si occupa di neutrini e balene, ma ha affrontato anche il tema delle scie chimiche. Come? Definendo il fenomeno “la leggenda di una bufala”. Sicurezza tolemaica, esibita già a partire dal sottotitolo: “Come una storia inventata da due truffatori americani nel 1997, per colpa dell’irrazionalità e dell’antiscienza, è diventata un articolo di fede”. Dunque quelle scie bianche sono rilasciate “dall’irrazionalità e dall’antiscienza”, non dagli aerei? Nell’articolo, la Bencivelli rievoca la storia di due statunitensi, Richard Finke e Larry Wayne Harris, che per reclamizzare la Lwh Consulting, società di consulenza contro gli attacchi terroristici, nel 1997 «cominciarono a spammare email in cui annunciavano l’imminenza di un attacco», con il batterio della peste bubbonica nebulizzato in atmosfera. A seguire, un “mailing” aggressivo sulla presunta irrorazione con sostanze tossiche mescolate al carburante degli aerei: «Le linee che riempiono i nostri cieli non sono scie di condensazione: vengono disperse e possono durare ore, rilasciando lentamente il flagello». La bufala cominciò così a volare, scrive Bencivelli, approdando sui media americani grazie al giornalista William Thomas, che ha lanciato “Skyder Alert”, il primo social network per appassionati di “chemtrails”: scaricato su smartphone, permette di inviare direttamente ai propri politici di riferimento le foto del cielo solcato da strisce bianche.«Sì, perché le principali prove dell’esistenza del fenomeno sono, al momento, fotografie del cielo», aggiunge Silvia Bencivelli nel suo articolo del 2013, citando “leggende” come quella degli “elicotteri neri” e “arei invisibili” che rilascerebbero veleni. Ma, a parte le dicerie sui vettori-fantasma, che dire delle scie che infestano lettaralmente il cielo da una quindicina d’anni? «Nella loro versione tradizionale», scrive la giornalista, «le scie chimiche vere e proprie sarebbero bianche e si riconoscerebbero dalle normali scie di condensazione degli aerei perché più spesse, più durature e genericamente insolite e sospette». Sarebbero? Certo: si usa il condizionale, di fronte alle scie bianche, come se chiunque non le potesse vedere. «Sarebbero anche recenti, cose degli ultimi vent’anni», aggiunge Bencivelli, «a dispetto di documenti fotografici risalenti alla guerra civile spagnola e alla seconda guerra mondiale che mostrano il cielo striato dalle tracce dei bombardieri». Qui bisogna ricorrere a Orwell: a meno di non metter mano a Photoshop, infatti – tra le foto scattate, a miliardi, sul pianeta Terra – è praticamente impossibile vedere (in tempo di pace) cieli striati di bianco, prima del Duemila. Oggi, viceversa, come chiunque può constatare – chiunque, ma non il giornalismo “scientifico” – non esiste più alcun orizzonte interamente blu, se non in giorni di forte vento: l’atmosfera è letteralmente coperta dalla griglia candida stesa in cielo ogni giorno dai “pittori” alati.Come da copione, in questi casi il mainstream si rivolge al Cicap, il think-tank fondato alla fine degli anni ‘80 su impulso di Piero Angela. L’iniziale Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale, proprio nel 2013 ha cambiato pelle: il suo “controllo” si è concentrato sulle Affermazioni sulle Pseudoscienze. L’uomo Cicap immancabilmente citato da Silvia Bencivelli nel suo celebre articolo sulla “Stampa” è Simone Angioni, chimico dell’università di Pavia. Lo schema è ripetitivo: Angioni si limita a parlare delle innocue scie di condensazione, quelle che “seguono” l’aereo per pochi chilometri, dissolvendosi rapidamente. Un giornalista, “scientifico” o no, a questo punto dovrebbe fare domande. Per esempio: le scie sono aumentate? Da quando sono comparse le scie “persistenti”? Sono provocate dal carburante degli aerei o da mutate condizioni atmosferiche? C’è da preoccuparsi o possiamo stare tranquilli? In altre parole: cosa sono, tutte quelle scie che ormai velano il sole e che vent’anni da non c’erano? Ma niente: non se ne parla proprio, laddove si svela “la leggenda di una bufala”. Il chimico Angioni preferisce un altro tema: la descrizione delle dicerie comuni, a cura del “complottismo”, sulla composizione delle scie. «Per qualcuno, di recente – aggiunge il tecnico del Cicap – c’è anche il sospetto di un complotto internazionale per indurre modifiche climatiche con microparticelle metalliche o cose simili, che nasce dalla confusione con esperimenti veri, e pubblici, di modifica di microcondizioni climatiche».Esperimenti veri, e pubblici, di modifica di microcondizioni climatiche? Questa sì che è una notizia, ma a quanto pare è fuori dalla portata dal nostro giornalismo “scientifico”. Il report “owning the weather” diffuso dal generale Fabio Mini, già a capo della missione Nato in Kosovo, è rimasto per lo più confinato nel recinto “cospirazionista” del web, così come le tesi sulla geoingegneria esposte a Erice dallo scienziato americano Edward Teller, il primo a parlare di “aerosol” nei cieli. «Ma in sostanza, niente di dimostrato e niente, alla fine, di veramente spaventoso», si legge nell’articolo della Bencivelli sulle scie, rassicurante solo per i ciechi. «Solo una bufala che vola», insiste, nonostante le innumerevoli interrogazioni parlamentari sul tema e il riprovevole spazio concesso alle ipotetiche “chentrails” da trasmissioni come “Voyager” e da emittenti come “Radio Deejay”. Ma attenzione: «Non è un vero business», precisa il chimico Angioni, improvvisandosi esperto di comunicazione: «Piuttosto serve ad avere l’attenzione dei media e del pubblico, fino alla prima serata in tv», quando finalmente si parlerà di cose più serie. «Nonostante tutto, la bufala delle scie chimiche continua a viaggiare indisturbata». Perché? Secondo Angioni, per una ragione umanissima: «La convinzione di essere i salvatori del mondo è appagante, soprattutto se si può diventare eroi restando comodamente seduti alla propria scrivania».Al contrario, «rivedere le proprie convinzioni significa tornare alla dura realtà», sostiene il chimico del Cicap. «Così molti preferiscono rimanere nel mondo delle cospirazioni globali». Il mondo dei complotti: «Quello in cui le bufale volano, per esempio», chiosa Silvia Bencivelli, il cui caso – le minacce, ora sanzionate dalla magistratura – torna ad alimentare la campagna di stampa contro il web. Silenzio assoluto, invece, sulle fake news che i grandi media continuano a fabbricare: solo “Pandora Tv” ha raccontato la storia di Hassan Djab, 11 anni, trasformato – in cambio di un po’ di cibo – in “comparsa” per il video girato dagli Elmetti Bianchi per simulare le conseguenze del presunto attacco chimico a Douma, servito da pretesto per il bombardamento missilistico ordinato da Trump. Giornali e televisioni? Hanno parlato dei “gas di Assad”, poi hanno voltato pagina. «I Caschi Bianchi tentano di corrompere anche il mondo dello spettacolo», denuncia Roger Waters in un concerto a Barcellona, dopo che qualcuno aveva cercato di ingaggiare l’ex Pink Floyd per la “crociata” contro la Siria. E’ vero, sui social media circola molto odio, protetto dall’anonimato dei nickname. Le menzogne veicolate dalla grande stampa, invece, fanno volare i missili. Le scie chimiche? Sembrano una piccola palestra di deformazione della realtà. Non viene in mente, al Cicap, che per dissipare le più fervide fantasie “complottistiche” basterebbe un pizzico di verità? Chi si azzarderebbe ancora a romanzare ipotesi fantasiose, se finalmente un governo si decidesse a spiegare cosa sono, quelle scie bianche che tutti (tranne il giornalismo “scientifico”) vedono invadere il cielo, da una ventina d’anni?Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nessuno sa o vuole spiegare come mai i cieli non sono più azzurri, ma a strisce bianche. Eppure la colpa è dei “complottisti”, non dei governi che tacciono sul fenomeno. Non fa eccezione la reporter Silvia Bencivelli, letteralmente bombardata da «un crescendo di insulti e minacce sui social (spesso a sfondo sessuale)», dopo un articolo scritto per “La Stampa” nel 2013, dal titolo: “Scie chimiche, la leggenda di una bufala”. Un assedio intimidatorio che, scrive ora su “Repubblica”, «mi ha costretto a vivere nella paura» da quando un “branco” di ostinati “cospirazionisti” l’ha presa di mira. Ora è stato condannato (in primo grado) quello che la Bencivelli definisce “il capobranco”: si tratta di Rosario Marcianò, del blog “Tanker Enemy”: otto mesi, per diffamazione a mezzo web. «La sentenza è di quelle storiche, capaci di creare un precedente», si compiace Giorgia Marino sulla “Stampa”, che saluta «forse anche un cambio di rotta, in tempi in cui odio digitale ed esacerbata violenza verbale impediscono troppo spesso un pacato e civile dialogo online». Tutto nasce nel 2013, quando Bencivelli scrive un articolo che la stessa Marino definisce “di giornalismo scientifico”. «Dopo appena mezz’ora dalla pubblicazione online, sulla casella di posta elettronica della giornalista arriva una email di Marcianò: “Non ti vergogni?”. Da quel momento – scrive Giorgia Marino – comincia un vero e proprio mail-bombing da parte dei seguaci di Marcianò, a cui segue una valanga di messaggi aggressivi su Facebook, incitati dallo stesso guru delle scie chimiche».
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Carpeoro: ma Stati e mafie vivono di trattative, da sempre
«Colpevoli per essere scesi a patti con Cosa Nostra. Colpevoli per aver trattato in nome di uno Stato che mai avrebbe dovuto trattare». Così Saverio Lodato definisce la storica sentenza del tribunale di Palermo sulla famigerata trattativa Stato-mafia che inguaia Marcello Dell’Utri (condannato a 8 anni), braccio destro di Berlusconi dalla fondazione di Forza Italia. Gli imputati eccellenti, esponenti dello Stato – scrive Lodato su “Antimafia Duemila” – sono colpevoli di avere fatto pervenire a Silvio Berlusconi e al suo governo le richieste avanzate dalla mafia per porre fine allo stragismo del biennio ‘92-93. «Colpevoli, in altre parole, di intelligenza con il nemico». Pene pesantissime anche per Mario Mori, allora a capo del Ros, e per Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, cioè «i carabinieri che aprirono il canale con Cosa Nostra», onde far pervenire al governo Berlusconi i “desiderata” dei killer stragisti. L’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, non si unice però al trionfalismo della stampa antimafia. Intanto, osserva, è stato assolto un referente politico di primo piano come l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino, esponente del centrosinistra: «Come al solito – dichiara – le inchieste giudiziarie italiane hanno obiettivi sensibili e obiettivi non sensibili. E così è andata».Quello di Palermo, scrive Lodato, era un processo che faceva paura: «Lo si capiva dall’isolamento che per anni e anni aveva circondato quella che era diventata la figura simbolo di questo processo, il pubblico ministero Nino Di Matteo». Per Carpeoro, in live streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, la clamorosa sentenza palermitana certifica solo che «c’è stata probabilmente una trattativa come ce ne sono state migliaia, in tutto il mondo, tra gli organi di polizia, i servizi segreti e le associazioni criminali». Trattative purtroppo “ordinarie”, che l’ipocrisia del potere polico non può ammettere: patti segreti, «diretti a gestire determinati momenti di particolare tensione», in Italia anche con drammatici risvolti terroristici. «Credo che l’unico politico coinvolto sia stato assolto», dichiara Carpeoro, riferendosi a Mancino. «Una trattativa condotta a livello Ros (e probabilmente servizi segreti) non avrebbe potuto non coinvolgere il ministro degli interni», sostiene l’avvocato, massone iper-critico verso la massoneria, già a capo della più antica comunione massonica del Rito Scozzese italiano nonché autore dello scomodo saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione, 2016).Stato-mafia e massoneria? Un fior d’investigatore come il giudice Nicola Gratteri, in prima linea contro la ‘ndrangheta, ha parlato di «magistrati ancora in servizio che intrallazzano con il potere mafioso massonico». Gratteri? «Una volta indagava in grande silenzio, adesso insegue obiettivi anche di comunicazione», rileva Carpeoro, ricordando che – quand’era a capo della sua obbedienza massonica (da lui stesso poi disciolta) – ne vietava espressamente l’ingresso a magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine, proprio per evitare di suscitare sospetti e contiguità improprie. Per lo stesso motivo, aggiunge Carpeoro, l’accesso ai politici era consentito a una condizione: che dichiarassero apertamente la loro identità massonica. Nessuna meraviglia, aggiunge Carpeoro, se il mafioso si rivolge alla politica: anche il “Padrino”, il protagonista del romanzo di Mario Puzo e della leggendaria saga cinematografica «sa di non essere libero, perché anche lui deve rispondere al potere». Oggi il “boss dei boss” è Matteo Messina Denaro, «un mafioso 2.0 che certo non sta più chiuso in una cantina a mangiarsi caciotte». Ma attenzione, «il suo potere è forte in Sicilia, molto meno sui mercati internazionali. E’ protetta, la sua latitanza? Non c’è dubbio».«Colpevoli per essere scesi a patti con Cosa Nostra. Colpevoli per aver trattato in nome di uno Stato che mai avrebbe dovuto trattare». Così Saverio Lodato definisce la storica sentenza del tribunale di Palermo sulla famigerata trattativa Stato-mafia che inguaia Marcello Dell’Utri (condannato a 8 anni), braccio destro di Berlusconi dalla fondazione di Forza Italia. Gli imputati eccellenti, esponenti dello Stato – scrive Lodato su “Antimafia Duemila” – sono colpevoli di avere fatto pervenire a Silvio Berlusconi e al suo governo le richieste avanzate dalla mafia per porre fine allo stragismo del biennio ‘92-93. «Colpevoli, in altre parole, di intelligenza con il nemico». Pene pesantissime anche per Mario Mori, allora a capo del Ros, e per Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, cioè «i carabinieri che aprirono il canale con Cosa Nostra», onde far pervenire al governo Berlusconi i “desiderata” dei killer stragisti. L’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, non si unice però al trionfalismo della stampa antimafia. Intanto, osserva, è stato assolto un referente politico di primo piano come l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino, esponente del centrosinistra: «Come al solito – dichiara Carpeoro – le inchieste giudiziarie italiane hanno obiettivi sensibili e obiettivi non sensibili. E così è andata».
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Soldi e potere: è antica la guerra alla medicina naturale
In questi tempi c’è una guerra dichiarata tra la medicina naturale e quella ufficiale, che evidenzia le falle di quest’ultima mettendone in risalto i limiti palesi (basti pensare che nonostante le spese immense per la ricerca sui tumori, questa malattia sta aumentando vertiginosamente) e la medicina tradizionale allopatica, che schiera dalla sua parte i vari soloni a colpi di radiazione dei medici eretici. Recenti sono i casi di Gabriella Mereu, di Tullio Simoncini, di Ryke Geerd Hamer, di Paolo Rege-Gianas. Pochi giorni fa è stata radiata dall’ordine la dottoressa Gabriella Lesmo, rea di aver preso posizione contro i vaccini (settore che ha iniziato a studiare con particolare attenzione per via del fatto di avere un figlio reso autistico proprio a seguito della somministrazione di vaccini). Pochi mesi prima era stato radiato per lo stesso motivo un altro medico, Dario Miedico. E sempre recentemente è stato radiato dall’ordine Paolo Rossaro, per aver prescritto una cura alternativa alla chemioterapia in un caso di tumore. In realtà, la lotta tra medicina naturale e medicina tradizionale ufficiale esiste da secoli, e può individuarsi il punto di origine nel Medioevo, ad opera dapprima della Chiesa cattolica, e successivamente ad opera della scienza ufficiale, che ha preso il testimone dell’oscurantismo cattolico. Vediamo come e perché nasce questa battaglia, e perché essa è identica ai giorni nostri, come nel Medioevo, e in tutti i secoli intermedi.
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Stalinismo e 5 Stelle: il partito bara, ma ha sempre ragione
Il partito ha sempre ragione. Se sbaglia si ha l’obbligo religioso di tacere, per non danneggiare la sua lunga marcia. Teoria e pratica dello stalinismo, oltre mezzo secolo dopo la morte di Stalin e la dolorosa destalinizzazione avviata da Khrushev (e a ruota, da tutti i partiti comunisti del mondo). Il partito è sacro, la sua parola è legge. La sua missione va oltre la politica, prevede una palingenesi dell’umanità. Guai, quindi, a chi osa contestarne l’illuminata guida: sarà espulso, condannato, bollato a vita come come un volgare traditore, magari anche diffamato come opportunista e in ogni caso isolato, alla stregua di un appestato. Gli iscritti assisteranno impassibili al rituale di lapidazione, al sacrificio pubblico, cercando di non domandarsi se per caso la vittima non avesse qualche ragione. E senza mininamente sospettare che quello stesso destino, che oggi tocca al malcapitato di turno, domani potrebbe travolgere ogni altro membro del club. Nell’Unione Sovietica delle fucilazioni sommarie era in gioco la vita, mentre nel movimento fondato da Grillo e Casaleggio si rischia al massimo la pubblica gogna dell’ostracismo. Il meccanismo però è analogo: la platea degli iscritti non deve solo tacere, approvando in silenzio il verdetto del vertice; deve anche assistere alla cerimonia, drammaticamente istruttiva: chi rifiuta il dogma teologico del partito perde ogni dignità politica.La dannazione è la sorte che il cattolicesimo medievale riservava agli eretici. Su di essi veniva fatta calare una maledizione, a scopo intimidatorio: era pericoloso anche solo rievocarne la memoria. Certe strutture gerarchiche utilizzano deliberatamente il metodo brutale dell’Inquisizione: il silenzio-assenso generale di fronte alla violenza del verdetto è il cemento con cui si costruisce un potere autoritario, che – dall’indomani – potrà contare sull’assoluta impunità del vertice, sempre investito (per autodefinizione) di una missione superiore, altissima, quasi mistica, certo non sindacabile dai comuni mortali, quantunque aderenti fin dall’inizio al sacro patto escatologico verso la Terra Promessa. L’ostinato silenzio dei dirigenti dell’Ottobre – muti, di fronte ai fulmini che si abbattevano su di loro, uno alla volta – rese più facile, al dittatore, eliminarli tutti, uno dopo l’altro. Si tratta di un principio duro a morire, anche se la pratica democratica dell’aborrita e corrotta partitocrazia, in Italia e nel mondo, ha comunque evitato il ripetersi della fenomenologia staliniana. Se i partiti della Prima Repubblica vivevano di correnti in perenne lotta tra loro, quelli della Seconda hanno comunque celebrato congressi e primarie, dando vita a dinamiche di aperta concorrenzialità interna: Bossi e Maroni, Berlusconi e Fini, Bersani e Renzi. Col Movimento 5 Stelle, attraverso il totem della Rete (controllata dall’onniveggente Casaleggio) si è tornati all’antico: “uno vale uno”, in teoria, ma alcuni sono “più uguali” degli altri.In modo quasi unanime, i meriti dei 5 Stelle sono considerati indiscutibili, nell’aver aggregato milioni di italiani attorno alla speranza di un mondo migliore. L’impegno: leggi da riscrivere da cima a fondo per ridisegnare una comunità socio-economica unita dal bisogno di valori condivisi. Fin dall’inizio, ingenerosamente, c’è chi ha considerato il Movimento come un mero “gatekeeper”, uno sfiatatoio del dissenso abilmente allestito al solo scopo di canalizzare la rabbia della società verso obiettivi innocui per l’establishment. Qualcuno si stupisce se Di Maio “sbianchetta” il programma elettorale dei 5 Stelle, laboriosamente assemblato con il lavoro collettivo degli iscritti? Eppure è lo stesso Di Maio che ha sparato contro “la massoneria” dopo aver bussato ai santuari massonici della finanza di Londra e di Washington, rassicurandoli sulle sue reali intenzioni. E’ lo stesso Di Maio che non ha fatto barricate contro l’obbligo vaccinale della legge Lorenzin, che non ha mai detto una parola chiara sull’euro, e che oggi si rivolge con disinvoltura al Pd dopo averlo definito abominevole, disgustosamente corrotto e mafioso, catastrofico per l’Italia.Non è Di Maio, a fare notizia, ma il perdurante silenzio-assenso dei grillini. Se le circostanze lo richiedessero, lo stesso Di Maio verrebbe rottamato all’istante. L’importante, per i sovragestori, è che – ancora e sempre – la platea approvi, ribadendo che il partito ha sempre ragione. I dirigenti stalinisti dei vari partiti comunisti europei erano leggendari per la loro celebrata doppiezza, spacciata per acume machiavellico: il dire il contrario di quello che si pensava era contrabbandato per sopraffina virtù. Un’astuzia genialmente tattica, in vista delle “magnifiche sorti e progressive”. Un riverbero di questa pratica, fondata sulla non-trasparenza, lo si è percepito nelle parole di Beppe Grillo di fronte al tragicomico infortunio del tentato trasloco, al Parlamento Europeo, nelle file degli ultra-euristi dell’Alde: come se i 5 Stelle fossero stati agenti speciali sotto copertura, un temibile cavallo di Troia introdotto tra le schiere nemiche. La “rete”, naturalmente, era stata lasciata all’oscuro della manovra. Del resto, quanto contino davvero gli iscritti lo di vede anche dall’assoluta tranquillità con cui Di Maio ne ha “bonificato” il programma.Segnali di ribellione? Non pare. Il sistema, del resto, funziona benissimo. I 5 Stelle sono il primo partito italiano. I parlamentari, selezionati via web a volte con poche decine di voti. E impegnati a pagare di persona una multa, nel caso cambiassero casacca. E’ aberrante? Di nuovo: la notizia non sta nel diktat, ma nella sua accettazione – un vulnus costituzuionale subito dai candidati e approvato dalla base, che immagina di controllarli, evidentemente non fidandosi completamente di loro. Giornalisti e commentatori, che per anni di sono esercitati nella più gratuita denigrazione del Movimento 5 Stelle, oggi tendono a incensare Luigi Di Maio come abile tattico, dimenticando di averne ripetutamente denunciato le fragilità, le incertezze, l’impreparazione. Meno è autorevole, un politico, e più è facilmente manovrabile. I caimani dell’Europa finanziaria guardano all’Italia con inquietudine, temendo che da uno dei maggiori contraenti fondativi dell’Unione Europea possa scoccare la scintilla del cambiamento, la messa in discussione dello status quo fondato sul rigore, il rifiuto del pareggio di bilancio. Possono continuare a dormire sonni tranquilli, sembra avvertirli lo “sbianchettatore” Di Maio: con lui al governo, niente di sostanziale cambierebbe. Con buona pace dei quasi 11 milioni di italiani che l’hanno votato.Il partito ha sempre ragione. Tu non sai perché, ma lui sì. E se sbaglia hai l’obbligo religioso di tacere, per non danneggiare la sua lunga marcia. Teoria e pratica dello stalinismo, oltre mezzo secolo dopo la morte di Stalin e la dolorosa destalinizzazione avviata da Khrushev (e a ruota, da tutti i partiti comunisti del mondo). Il partito è sacro, la sua parola è legge. La sua missione va oltre la politica, prevede una palingenesi dell’umanità. Guai, quindi, a chi osa contestarne l’illuminata guida: sarà espulso, condannato, bollato a vita come come un volgare traditore, magari anche diffamato come opportunista e in ogni caso isolato, alla stregua di un appestato. Gli iscritti assisteranno impassibili al rituale di lapidazione, al sacrificio pubblico, cercando di non domandarsi se per caso la vittima non avesse qualche ragione. E senza minimamente sospettare che quello stesso destino, che oggi tocca al malcapitato di turno, domani potrebbe travolgere ogni altro membro del club. Nell’Unione Sovietica delle fucilazioni sommarie era in gioco la vita, mentre nel movimento fondato da Grillo e Casaleggio si rischia al massimo la pubblica gogna dell’ostracismo. Il meccanismo però è analogo: la platea degli iscritti non deve solo tacere, approvando in silenzio il verdetto del vertice; deve anche assistere alla cerimonia, drammaticamente istruttiva: chi rifiuta il dogma teologico del partito perde ogni dignità politica.
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Bestie di Satana, depistaggi: ridono i satanisti che contano
Quella delle Bestie di Satana è una delle vicende giudiziarie più importanti al mondo, in materia di satanismo. La “Bbc” definì questa storia una delle più scioccanti della storia d’Italia del dopoguerra. E’ importante per tanti motivi. Innanzitutto per il numero di omicidi attribuiti all’organizzazione: 4, per i quali ci sono state varie condanne, anche all’ergastolo, e altri 18 omicidi e/o sparizioni che, a torto o ragione, vengono attribuiti dai media, giornali e Tv, e dalla letteratura specifica, alla setta. Rilevante è anche il numero delle persone coinvolte: 9 persone, 9 condanne. Ergastolo per Paolo Leoni; due ergastoli per Nicola Sapone; 27 anni per Eros Monterosso e 29 per Marco Zampollo, 16 per Pietro Guerrieri, 20 ad Andrea Volpe, 16 a Mario Maccione e 23 ad Elisabetta Ballarin. La vicenda assume una rilevanza mondiale perché è uno dei pochissimi casi in cui viene condannata una setta satanica al completo. L’altro caso, anch’esso di rilevanza mondiale, fu il cosiddetto caso Manson, risalente al 1969. In altre parole, l’importanza di questo processo, già notevole di per sé, aumenta a maggior ragione se si tiene presente che chiunque si occupi di satanismo deve comunque avere a che fare con le “Bestie di Satana”, che entrano a buon diritto nella storia ufficiale del satanismo e dei serial killer, contribuendo a dare una fisionomia e un contorno a tutto questo settore specialistico.In tutti i libri specialistici su sette e serial killer c’è sempre uno spazio considerevole dato a questa organizzazione e ai suoi componenti. Le Bestie di Satana sono studiate da criminologi, esperti di satanismo, docenti, semplici appassionati, ma compaiono anche in testi che parlano di religione; ad esempio il “Dizionario delle religioni in Italia”, a cura di Massimo Introvigne e Pierluigi Zoccatelli, un’enciclopedia monumentale e dettagliatissima, dedica uno spazio abbastanza ampio alle Bestie di Satana; accanto quindi ai movimenti buddisti, induisti, e ovviamente cattolici, protestanti e ortodossi, e accanto ai gruppi di cosiddetta magia cerimoniale, o esoterici, come Templari, Golden Dawn, Oto, ecc., compaiono le Bestie di Satana. Peraltro, a seguito della rilevanza di questi fatti, si è aperto in tutto il mondo un dibattito sul rapporto tra satanismo e musica metal; psicologi, educatori, comitati di genitori, la Chiesa stessa tramite personaggi famosi come Padre Amorth, si sono mobilitati in dibattiti, manifestazioni, approfondimenti sul tema.Numerosi sono anche i libri dedicati alla setta: “I ragazzi di Satana”, di Offeddu e Sansa, pubblicato nel 2005; “Le Bestie di Satana”, a cura di Gabriele Moroni (il libro è uscito nel 2004, quando ancora il processo di primo grado non si era concluso, e in esso già si davano per colpevoli Monterosso, Zampollo e Leoni); “L’inferno tra le mani”, di Stefano Zurlo e Mario Maccione (il libro, uscito nel 2011, è la storia delle Bestie di Satana vista dalla personale ottica di uno dei “pentiti” della setta); “Le sette di Satana”, di Mario Spezi (altro libro curioso, uscito nel 2004; la particolarità del libro è data dal fatto che anch’esso esce prima della sentenza di primo grado; nel titolo la T della parola Satana è più grande delle altre, di color oro, e circondata da un’aura rossa, ciò che ricorda un po’ il simbolo dell’“Ordine della Rosa Rossa e della Croce d’Oro”). Tantissimi anche i programmi Tv, da “Chi l’ha visto” a “La linea d’ombra”, fino al recente “Mistero” su Italia Uno.Quando iniziai a occuparmi delle Bestie di Satana, ero già abituato a processi farsa in cui il colpevole additato dai media non c’entra assolutamente niente con le accuse che gli vengono addebitate e il responsabile è addirittura il magistrato inquirente, d’accordo con giornalisti e avvocati coinvolti a vario titolo nell’incastrare i malcapitati di turno (fenomeno, questo, che parte da Jack lo Squartatore e arriva fino al recente caso nostrano del Mostro di Firenze; ma ulteriori casi di innocenti assolutamente inconsapevoli sono il caso Cogne e quello di Erba) e pensavo che non mi sarei stupito di niente. Eppure anch’io sono partito con un preconcetto, purtroppo frutto del condizionamento mediatico: cioè sono partito dalla convinzione che almeno i ragazzi che avevano confessato, ovverosia Volpe, Maccione e Guerrieri, fossero responsabili. Il dubbio, se c’era, per me riguardava solo gli altri, a cui non era stata attribuita alcuna partecipazione materiale ai delitti, ma esclusivamente un concorso morale: Monterosso, Zampollo e Leoni. A parte invece deve essere considerata la figura di Sapone, che viene additato da Volpe e Maccione come l’esecutore e il mandante di tutti i delitti (tanto che lui si beccherà addirittura due ergastoli); ma mentre Leoni, Monterosso e Zampollo si dichiarano innocenti, Sapone semplicemente dichiara di “non ricordare nulla”.Misi quindi le mani alle carte processuali con questa idea di base e iniziai a scartabellare gli atti, a parlare con alcuni testimoni, e inoltre a dialogare con Paolo Leoni, oltre che con Marco Zampollo via lettera. Via via che procedevo con lo studio degli atti e dell’intera vicenda, mi rendevo conto che i fatti erano completamente diversi da come appaiono sui media. Di più. Tutta la vicenda è una completa montatura, ove i media hanno provveduto a romanzare e falsare una realtà processuale già falsa di per sé. Il che ha come risultato una conclusione molto semplice, ma al tempo stesso terrificante: nessuno dei ragazzi è coinvolto davvero in questa vicenda, perlomeno non nei termini in cui vengono presentati sui media. Alcuni sono completamente innocenti. Altri forse non lo sono del tutto, ma comunque non hanno commesso i fatti dei quali si autoaccusano. Non esisteva alcune setta satanica denominata Bestie di Satana, che è un’invenzione giornalistica. Non c’era alcun gruppo organizzato. Tutta la vicenda insomma è un immenso teatrino, che ha visto dei ragazzi completamente innocenti in carcere, mentre i veri colpevoli sono liberi; e, come accade nei migliori casi di cronaca nera di rilevanza mondiale, i veri colpevoli andrebbero ricercati altrove, tra persone altolocate, politici, magistrati, avvocati, e non tra una banda di ragazzi con un titolo di studio di terza media e senza né arte né parte. Esattamente, né più né meno, come accadeva nei delitti di Jack lo Squartatore, del Mostro di Firenze, e del femminicidio di Ciudad Juarez.Vediamo di raccontare quindi quello che molti di questa vicenda non sanno, precisando che la versione ufficiale, quella raccontata da tutti i media, la diamo per conosciuta. Chi non la conoscesse può consultare la voce di Wikipedia o uno qualsiasi dei siti in cui viene riassunta la storia delle Bestie di Satana, sempre uguale in ogni sito specialistico, senza mai alcuna voce discordante. Qui, in sintesi, ci limitiamo a dire che nel 2004 Andrea Volpe, Mario Maccione e Pietro Guerrieri, confessarono 4 omicidi: quelli di Fabio Tollis e Chiara Marino nel 1998; quello di Andrea Bontade sempre del 1998; e quello di Mariangela Pezzotta nel 2004. Questi tre ragazzi con le loro confessioni accusarono anche altri: Nicola Sapone, Paolo Leoni, Eros Monterosso e Marco Zampollo. Il primo fu accusato di aver partecipato a tutti e quattro i delitti come esecutore e mandante. Gli altri furono accusati di aver partecipato moralmente, di aver approvato l’operato della setta e di avere in qualche modo concordato i primi due omicidi. La verità? Quello che i media non hanno detto, e che mai diranno, è ciò che segue.La caratteristica più eclatante di tutto il processo è data dalla constatazione che l’intera versione di Maccione e Volpe è falsa. Anche nella parte in cui i due “pentiti” si autoaccusano dei delitti di Chiara Marino e Fabio Tollis, infatti, il racconto è platealmente inattendibile. Si evince dalla narrazione che la notte del delitto del 1998, Fabio Tollis e Chiara Marino vennero uccisi a colpi di coltello e di badile, in modo barbaro; non risulta però dai loro racconti che dopo l’omicidio i ragazzi si siano cambiati di abito e lavati dal sangue; secondo i loro racconti, invece, dopo aver seppellito i cadaveri, sarebbero rientrati in auto e tornati a casa, e i loro familiari non si sarebbero accorti di nulla. Di più. Mario Maccione, interrogato durante il processo, dirà che si era solamente macchiato i pantaloni; ma siccome indossava due paia di pantaloni, si limitò a levarsi il pantalone sporco (senza ricordare se lo avesse buttato o portato con sé). La versione viene confermata sempre da Maccione nel suo ultimo libro, “L’inferno tra le mani”, ove il ragazzo specifica che l’indomani si era svegliato al mattino con gli abiti puliti e il giubbotto di pelle intatto. Una cosa impossibile da realizzare, in un bosco, di notte. Uccidere barbaramente due persone in quel modo, infatti, significa imbrattarsi di sangue dalla testa ai piedi; significa che gli abiti sono non semplicemente sporchi, ma completamente inzuppati di sangue tanto da poterli strizzare come se fossero stati lavati. Quindi è impossibile rientrare in auto senza sporcare i sedili il volante, le portiere, in modo tale da non essere notati poi da chiunque.Di conseguenza, dopo un delitto simile, è necessario avere un luogo dove potersi lavare e cambiare degli abiti, che devono poi essere fatti sparire in una discarica o un altro posto simile, perché è difficilissimo mandare via il sangue dagli abiti. Già questo particolare basterebbe per invalidare tutta la ricostruzione di Volpe e Maccione, e per capire che è tutto assolutamente falso. Ma non è finita qui. Che la versione dei due “pentiti” sia falsa è dimostrato anche dall’incredibile numero di particolari discordanti nelle loro versioni dei fatti; entrambi infatti non sono d’accordo quasi su nulla, e forniscono versioni differenti su chi sedeva davanti e chi dietro, su chi avrebbe sferrato il primo colpo, sul momento in cui avrebbero indossato i guanti di lattice che furono poi trovati nella fossa di Chiara Marino e Fabio Tollis, sulle modalità con cui convinsero Fabio e Chiara a salire in auto, ecc. Addirittura non sono d’accordo neanche sul movente dei primi due omicidi. Inverosimile poi è che i ragazzi abbiano potuto trovare la strada per arrivare alla tomba precedentemente scavata, nel bosco e di notte, e che Fabio e Chiara non si siano insospettiti a vedere i loro “amici” portare con loro coltelli, guanti, pale.Infine, pochi sanno che nell’ansia accusatoria, e a processo finito, Andrea Volpe accuserà Nicola Sapone e Paolo Leoni di un altro omicidio, quello di Andrea Ballarin avvenuto nel 2004, autoaccusandosi dello stesso reato; si scoprirà che Sapone il giorno del delitto era in vacanza a Cuba e Volpe verrà processato per calunnia, perché confesserà di essersi inventato tutto. Risultato: sparisce la cassetta con la registrazione dell’interrogatorio di Volpe. E Volpe viene assolto. E nessuno, né giornalisti né magistrati, si interrogano sul motivo per cui Volpe avrebbe mentito su un fatto così grave; a nessuno viene il dubbio che se una persona mente in questo modo, forse potrebbe aver mentito anche sul resto. A nessuno viene in mente di ascoltare e interrogare gli altri condannati, per sentire la loro versione, che potrebbe essere importante per la ricostruzione dell’intera vicenda. No. Al contrario, Volpe continua a comparire in Tv, ad essere interrogato, e magari prima o poi scriverà un libro; le Tv mandano addirittura in onda un “confronto” tra il padre di una delle vittime, Michele Tollis, e lo stesso Volpe, che si incontrano per un colloquio davanti alle telecamere. Mentre continua a regnare il silenzio sulle versioni fornite da Leoni, Zampollo e Monterosso.Nessuno, soprattutto, si interroga per capire se dietro a tutto questo ci siano dei mandanti, ci sia una regia, non essendo possibile che una persona arrivi addirittura ad inventarsi un omicidio mai commesso per mera voglia di protagonismo, o per gioco. Sempre lo stesso Volpe in un’intercettazione dirà: «Se la gente mi infogna io tiro dentro un sacco di gente, mi invento nomi a palla… a quel punto credono a me». Nonostante ciò, Volpe verrà ritenuto “attendibile”. E ancora, dai vari mass media, continua ad essere ritenuto fonte attendibile sol perché si è autoaccusato. Attendibile viene ritenuto anche Maccione, nonostante nel suo libro “L’inferno tra le mani” dica a più riprese di non ricordare mai nulla perché era sempre strafatto di droga (cosa che invece negli atti processuali è stata smentita da Volpe, il quale dice che erano lucidissimi). Tutto il libro è, in pratica, un racconto con un unico leit motiv: io non volevo, e se ho partecipato è perché sono stato costretto, e in ogni occasione ero drogato, quindi non ricordo bene. Sempre Maccione dice che le Bestie di Satana hanno ucciso circa 18 persone tra Milano e Varese. Tra queste 18 persone ci sarebbero Doriano Molla (trovato ucciso con un filo elettrico al collo; la procura archivierà come suicidio quello che è un evidente omicidio), Christian Frigerio (scomparso e mai ritrovato), Andrea Ballarin (trovato impiccato), Stefano Longone e altri: 18 persone di cui non ricorda il nome, il luogo, le modalità della morte.Una delle cose più impotranti da sottolineare in tutta questa vicenda è che non è mai esistita nessuna setta satanica. Infatti il tribunale ha escluso l’associazione a delinquere e nessuno dei ragazzi è stato condannato in base all’articolo 416 del codice penale. Nel “Dizionario dei serial killer” a cura di Ruben De Luca, invece, viene presentata addirittura la struttura della setta e i metodi di reclutamento. La fonte dell’autore? Il “Corriere della Sera”. Anche il nome Bestie di Satana è un’invenzione. Racconta Maccione che il nome fu dato al gruppo un giorno che si trovarono a fare un rito in una casa abbandonata; un nome dato per caso, inventato lì per lì. Ma un gruppo organizzato, in particolare una setta satanica, che ha l’onore di comparire addirittura in un dizionario delle religioni, deve avere dei libri di testo, dei riti di iniziazione, delle regole precise, dei gradi. Altrimenti non è una setta, non è una religione, ma è solo, al massimo, un gruppo di sbandati senza un’ideologia. Nulla di nulla è emerso dagli atti del processo. Anzi, a domanda precisa, i “rei confessi” Volpe e Maccione hanno risposto che non ricordavano alcun rituale, alcuna formula e non avevano alcun libro di testo; anzi, non sapevano neanche la differenza tra plenilunio, novilunio, e luna piena.Messo alle strette, Maccione dirà che avevano un libro di testo, il “Necronomicon”; peccato però che questo libro sia un romanzo di Lovecraft, e non un testo satanico. Inoltre le decisioni di questa fantomatica setta venivano prese addirittura in luoghi aperti al pubblico, in mezzo alla folla; la decisione di uccidere Chiara Marino e Fabio Tollis, ad esempio, sarebbe stata presa alla Fiera di Sinigallia, un mercatino delle pulci, in stile Porta Portese, affollato più o meno come una metropolitana all’ora di punta. Non è mai esistito alcun capo. I giornali hanno riportato in genere come capo della setta Paolo Leoni. Ma nessuno dei ragazzi che hanno “confessato” ha mai additato Paolo Leoni come il vero capo. O meglio, di volta in volta è stato additato (ma dai giornali) Nicola Sapone, talvolta Maccione, mentre di recente, nel suo libro “L’inferno tra le mani”, lo stesso Maccione dice che “la mente del gruppo era Zampollo”, e sempre nello stesso libro Paolo Leoni viene indicato come una sorta di idiota che sbavava di invidia perché non partecipava mai agli omicidi in prima persona. In altre parole, Mario Maccione nel suo ultimo libro smentisce il ruolo di capo di Leoni.In alcuni articoli di giornale come capo della setta viene indicato Andrea Volpe. La verità è che negli atti processuali si legge che le decisioni venivano prese collegialmente e non c’era una vero capo. Una strana setta, quindi, senza un capo, se non per i giornali. Paolo Leoni riesce a dimostrare che il giorno in cui – a detta di Volpe e Maccione – venne presa la decisione di uccidere Fabio e Chiara, era in realtà al lavoro; ma i giudici riterranno irrilevante la circostanza. Ci sarebbe molto altro da dire, ma per gli approfondimenti rimandiamo alla lettura degli atti processuali. Brevemente: testimoni che cambiano versione continuamente; testimoni che si contraddicono a vicenda; testimoni a favore che non vengono considerati; prove a discarico non ammesse e non considerate; la mancanza di un movente per il delitto di Fabio e Chiara (di volta in volta verrà detto che il movente erano i soldi, o il fatto che Chiara fosse “la Madonna” e dovesse essere uccisa perché una setta satanica doveva sopprimere una figura così pura, o il fatto che Chiara forse volesse parlare; addirittura Maccione sostiene nel suo ultimo libro la bizzarra tesi secondo cui Chiara e Fabio volessero essere uccisi di loro spontanea volontà). E poi, immancabile in tutti i delitti di rilevanza mediatica, la mancanza dell’arma del delitto.Alla luce di tutto ciò non stupisce più di tanto che i libri usciti sulle Bestie di Satana siano tutti datati 2004 e 2005 – tranne l’ultimo scritto da Mario Maccione e Stefano Zurlo – cioè in un periodo antecedente al processo, quando le indagini erano ancora in corso. Il motivo è abbastanza semplice: qualunque giornalista dovesse oggi avvicinarsi a questo tema e leggere gli atti processuali, si troverebbe davanti una realtà completamente diversa rispetto a quella prospettata da giornali e Tv e inevitabilmente scoperchierebbe un calderone di proporzioni immani. Non a caso uno dei pochi giornalisti che hanno provato a proporre una tesi alternativa fu Alberto Ballarin, padre di Elisabetta, che scrisse un libro dal titolo “Satanisti della mutua”, ma morì prima che il libro potesse uscire in stampa. In conclusione, la vicenda delle Bestie di Satana è una delle tante farse giudiziarie che servono ad intrattenere gli spettatori della Tv, affinché non si informino mai sulla realtà attorno, e a depistare chi studia, o anche i semplici appassionati, da quello che è il vero satanismo. Il vero satanismo è un fenomeno organizzato e diffuso su scala mondiale; che coinvolge alti politici, imprenditori, avvocati, magistrati, giornalisti, professionisti di ogni risma; che vede ogni anno solo in Italia la morte di centinaia di bambini e la scomparsa nel nulla di tante persone.Alcune di queste organizzazioni sono addirittura ufficiali. Hanno dei loro siti, i loro libri di testo, i loro seguaci in ogni parte del mondo: la Chiesa di Satana di Anton La Vey; il Tempio di Seth di Michael Aquino. Queste organizzazioni sono serie, pericolose e organizzate, avendo appoggi nei presidenti americani o di Stati europei, potendo contare sull’appoggio di forze di polizia, carabinieri, magistratura; alcune indagini, come quelle relative al caso Dutroux, sono arrivate a lambire i reali del Belgio, famiglie nobili, cardinali, politici. I libri di queste organizzazioni sono talvolta in libera vendita nelle librerie esoteriche. Purtroppo, a fronte della disinformazione sul vero satanismo, l’informazione ufficiale continua a presentarci il satanismo come un fenomeno dovuto ad alcuni metallari con la terza media e senza un lavoro fisso, per continuare a nascondere quello che avviene ogni giorno sotto i nostri occhi. Per nascondere, ad esempio, un caso come quello del magistrato Paolo Ferraro, il Pm della procura di Roma che, incappato in una vera setta satanica, che aveva radici in ambito militare, è stato destituito nel giro di poche ore per infermità mentale dal suo lavoro di magistrato. Di Paolo Ferraro però i mass media non parlano. Di Paolo Leoni, Eros Monterosso e Marco Zampollo sì.(Paolo Franceschetti, estratto da “Le Bestie di Satana: la verità”, pubblicato su “Petali di Loto” sulla base di un post precedente, del 10 gennaio 2012. Franchetti studiò il caso dopo esser stato chiamato in causa, come legale, da alcuni dei ragazzi condannati: «Avvocato, ci aiuta a capire perché siamo in carcere? Non abbiamo ammazzato nessuno». Indagatore dei misteri italiani, Franceschetti ha anche ricostruito un quadro simbologico della vicenda: i cognomi di alcuni dei giovani arrestati – Leoni, Zampollo e Volpe, così come il nome di Tollis, Michele – richiamerebbero i personaggi dell’Apocalisse di Giovanni; Franceschetti rileva che l’anno di massima esposizione mediatica del caso, il 2004, fu quello segnato dalla firma del Trattato di Lisbona, la famigerata “Costituzione europea” redatta dall’oligarchia finanziaria e concepita come strumento di vessazione di massa, per mezzo dell’austerity).Quella delle Bestie di Satana è una delle vicende giudiziarie più importanti al mondo, in materia di satanismo. La “Bbc” definì questa storia una delle più scioccanti della storia d’Italia del dopoguerra. E’ importante per tanti motivi. Innanzitutto per il numero di omicidi attribuiti all’organizzazione: 4, per i quali ci sono state varie condanne, anche all’ergastolo, e altri 18 omicidi e/o sparizioni che, a torto o ragione, vengono attribuiti dai media, giornali e Tv, e dalla letteratura specifica, alla setta. Rilevante è anche il numero delle persone coinvolte: 9 persone, 9 condanne. Ergastolo per Paolo Leoni; due ergastoli per Nicola Sapone; 27 anni per Eros Monterosso e 29 per Marco Zampollo, 16 per Pietro Guerrieri, 20 ad Andrea Volpe, 16 a Mario Maccione e 23 ad Elisabetta Ballarin. La vicenda assume una rilevanza mondiale perché è uno dei pochissimi casi in cui viene condannata una setta satanica al completo. L’altro caso, anch’esso di rilevanza mondiale, fu il cosiddetto caso Manson, risalente al 1969. In altre parole, l’importanza di questo processo, già notevole di per sé, aumenta a maggior ragione se si tiene presente che chiunque si occupi di satanismo deve comunque avere a che fare con le “Bestie di Satana”, che entrano a buon diritto nella storia ufficiale del satanismo e dei serial killer, contribuendo a dare una fisionomia e un contorno a tutto questo settore specialistico.
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Skripal, tutto falso: Londra perde la faccia, Gentiloni pure
Non hanno solo accusato, isolato e punito Mosca, con sanzioni e rappresaglie diplomatiche, sulla base di menzogne. Per poterlo fare, qualcuno ha quasi ucciso l’ex spia Sergeij Skripal e sua figlia, due persone intossicate a tradimento con il gas nervino. Ora le loro condizioni stanno migliorando: i due non sono più in pericolo di vita. Ma la notizia è un’altra: l’accusa contro i servizi segreti di Putin sta crollando, rivelandosi una immane “fake news” di Stato, per coprire un auto-attentato “false flag” mal riuscito. Devastante l’ammissione del direttore di Porton Down, i laboratori militari britannici per le armi chimico-batteriologiche: non c’è prova che il Novichock usato (o che sarebbe stato usato) contro Skripal fosse di origine russa. Il punto è che il ministro degli esteri britannico Boris Johnson aveva assicurato, in un tweet del 22 marzo e subito diffuso nel mondo, che «analisi condotte al laboratorio di scienza e tecnologia bellica di Porton Down da esperti di livello mondiale hanno appurato che si tratta dell’agente nervino militare Novichok prodotto in Russia». Il governo, sottolinea Maurizio Blondet, aveva impegnato la parola dei suoi scienziati di fama mondiale senza averli interpellati, e prima ancora che conducessero le indagini. E non è tutto: lo stesso Johnson ha cercato di cancellare il tweet del 22 marzo, negando di aver sostenuto che il nervino fosse d’origine russa, benché sia ancora sul web una sua intervista a “Deutsche Welle” dove afferma «categoricamente» che Porton Down aveva riconosciuto il veleno come russo.Del resto, aggiunge Blondet sul suo blog, hanno ancora cancellato neppure la “dichiarazione di guerra” dell’ambasciatore britannico a Mosca, Laurie Bristow, che il 22 marzo aveva convocato la stampa estera per confermare l’accusa. «Boris Jonson ha molte domande a cui dovrà rispondere», dice ora detto Jeremy Corbyn, il leader dell’opposizione laburista, che da settimane era sotto un inverosimile uragano di attacchi e insulti da parte dei media britannici (da “traditore” ad “antisemita”) per essersi rifiutato di unirsi al coro di condanne senza prove. Adesso tutti vedono che Corbyn aveva ragione: il governo May cadrà? Ma intanto 28 Stati occidentali, fra cui 15 dell’Unione Europea, si sono uniti all’accusa del tutto infondata abbandonandosi ad espulsioni in massa di diplomatici russi. Per bocca di Donald Tusk e Federica Mogherini, l’Ue ha dichiarato il suo appoggio assoluto al Regno Unito nelle sue false accuse, e la stessa Nato ha espulso sette addetti russi e rifiutato l’accredito a nuovi membri dello staff. «In pratica – osserva Blondet – tutte le nazioni occidentali hanno trattato la Russia da Stato canaglia, Stato criminale, paria delle nazioni, da appestato; hanno comminato nuove e più gravi sanzioni. Senza mai dar credito, nemmeno per un attimo, alle proteste russe di estraneità».E’ andata in scena «una spaventosa prova di aggressività demente, di inciviltà nei rapporti internazionali, che non poteva che preludere a qualche gravissima azione o provocazione bellica, tanto era palesemente mal fondata fin dalle prime fasi». Tanto più spaventosa, aggiunge Blondet, «perché tutti i media mainstream si sono uniti alla canea di accuse, con la bava alla bocca». Uno spettacolo inquietante: «Abbiamo avuto qui una prova dal vivo della criminosa irresponsabilità e del delirio di cui sono capaci i poteri forti, della loro attitudine al pericoloso sragionare in coro dei nostri politici, come ad un segnale convenuto, obbedendo ad automatismi di cui non scorgiamo l’origine, e per questo fanno più paura». Scherza col fuoco, l’Occidente: il governo cinese ha esplicitamente giudicato con sdegno questo comportamento incivile, sul piano internazionale, da parte di europei e statunitensi. E che l’abbia giudicato allarmante lo conferma la visita a Mosca, il 3 aprile, di una delegazione cinese capeggiata dal ministro della difesa Wei Fenghe, il quale ha detto ad alta voce: «La parte cinese è venuta ad informare gli americani di quanto siano stretti i legami tra le forze armate russe e cinesi». Un linguaggio senza edulcorazioni, chiaro e netto: «Quello che Pechino giudica il solo adatto ai gangster occidentali», avverte Blondet.Il punto è che, adesso, nessuno in Europa si sta scusando con Putin per questa «delinquenziale falsità, di cui non sappiamo ancora lo scopo vero». Gentiloni e Alfano? Pur “uscenti”, si sono vilmente accodati: hanno espulso due diplomatici russi, in ossequio alle menzogne di Londra. «Mogherini e Donald Tusk, Macron e Stoltenberg, Merkel, sono in grado di ammettere pubblicamente il loro errore – peggio che errore, solidarietà in una menzogna e complicità in un “false flag”? Per aver inscenato tutti insieme, delinquenti, una provocazione gravissima che solo la fermezza e i nervi d’acciaio di Putin e Lavrov hanno evitato di far precipitare in un conflitto armato, come era probabilmente nei piani di lorsignori?». Blondet è pessimista: «Non credo sapremo mai a cosa mirassero questi delinquenti che ci governano, recitando questa scenata. Forse a preparare una rivincita in Siria? Forse ad allargare fino a rendere irreversibile la frattura fra Russia ed Europa, mira storica della “geopolitica” britannica da McKinder?». Purtroppo, aggiunge Blondet, ci sono dei precedenti «altrettanto inspiegati, risalenti al 1994.Su un aereo proveniente da Mosca, ricorda Blondet, il 10 agosto di quell’anno la polizia di Monaco di Baviera “trovò” 363 grammi di plutonio. «Ovviamente, si scatenò un attacco concertato, da parte dei politici e dei media, sul presunto “commercio del terrore” che veniva dai mal guardati reattori nucleari sovietici; da cui malviventi evidentemente trafugavano plutonio (plutonio!) da vendere sul mercato del terrore». Questo clamore, osserva il giornalista, contribuì a far vincere le elezioni ad Helmuth Kohl. Ci volle quasi un anno di tempo prima che lo “Spiegel” uscisse con la vera storia: sull’aereo russo, il carico di plutonio era stato “piazzato” dai servizi di spionaggio tedeschi (Bnd). A quale scopo? «Varie serie di “rivelazioni” e “gole profonde” non fecero altro che rendere più complesso, e infine indecifrabile, il movente: un classico metodo di insabbiamento a cui in Italia dovremmo essere abituati, da Ustica al caso Moro», scrive Blondet. «Ovviamente ed italicamente, fu messa insieme anche una commissione parlamentare d’inchiesta sul caso – dopotutto sarebbe bene sapere come mai 336 grammi di plutonio fossero nelle disponibilità del Bnd – e come potete già indovinare, finì nel nulla. Il capo del Bnd fu mandato in pensione anticipata, e fu tutto».Non hanno solo accusato, isolato e punito Mosca, con sanzioni e rappresaglie diplomatiche, sulla base di menzogne. Per poterlo fare, qualcuno ha quasi ucciso l’ex spia Sergeij Skripal e sua figlia, due persone intossicate a tradimento con il gas nervino. Ora le loro condizioni stanno migliorando: i due non sono più in pericolo di vita. Ma la notizia è un’altra: l’accusa contro i servizi segreti di Putin sta crollando, rivelandosi una immane “fake news” di Stato, per coprire un auto-attentato “false flag” mal riuscito. Devastante l’ammissione del direttore di Porton Down, i laboratori militari britannici per le armi chimico-batteriologiche: non c’è prova che il Novichock usato (o che sarebbe stato usato) contro Skripal fosse di origine russa. Il punto è che il ministro degli esteri britannico Boris Johnson aveva assicurato, in un tweet del 22 marzo e subito diffuso nel mondo, che «analisi condotte al laboratorio di scienza e tecnologia bellica di Porton Down da esperti di livello mondiale hanno appurato che si tratta dell’agente nervino militare Novichok prodotto in Russia». Il governo, sottolinea Maurizio Blondet, aveva impegnato la parola dei suoi scienziati di fama mondiale senza averli interpellati, e prima ancora che conducessero le indagini. E non è tutto: lo stesso Johnson ha cercato di cancellare il tweet del 22 marzo, negando di aver sostenuto che il nervino fosse d’origine russa, benché sia ancora sul web una sua intervista a “Deutsche Welle” dove afferma «categoricamente» che Porton Down aveva riconosciuto il veleno come russo.
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Veneziani: vi presento l’altro Pertini, iracondo e stalinista
Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. A quarant’anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l’altro Pertini. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’“Avanti!” e all’epoca capogruppo socialista, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l’“Avanti!”: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.Da presidente della Repubblica il compagno Pertini concesse appena fu eletto, la grazia al boia di Porzus, l’ex partigiano comunista Mario Toffanin, detto “Giacca”, nonostante questi non si fosse mai pentito dei suoi crimini per i quali era stato condannato all’ergastolo. Toffanin fu responsabile del massacro di Porzus, febbraio 1945: a causa di una falsa accusa di spionaggio, furono fucilati ben 17 partigiani cattolici e socialisti (la “Brigata Osoppo”), da parte di partigiani comunisti (Gap). Tra loro fu trucidato il fratello di Pasolini, Guido. Dopo la grazia di Pertini a Toffanin lo Stato italiano concesse al criminale non pentito pure la pensione che godette per vent’anni, insieme ad altri 30mila sloveni e croati “premiati” dallo Stato italiano per le loro persecuzioni antitaliane. Pertini partecipò poi commosso al funerale del presidente jugoslavo Tito (1980), il primo responsabile delle foibe, baciando quella bandiera che destava terribili ricordi negli esuli istriani, giuliani e dalmati.Pertini fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre in molte vicende. Per esempio, quella della coppia di attori Valenti-Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all’Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch. L’accusa si dimostrò infondata al vaglio di prove e testimonianze; lo stesso Vero Marozin, capo della brigata partigiana che eseguì la loro condanna a morte, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, pagarono la loro vita tra lussi e cocaina ma non avevano responsabilità penali o politiche tali da giustificarne la fucilazione per collaborazionismo. Nelle dichiarazioni rese da Marozin in sede processuale Pertini fu indicato come colui che aveva dato l’ordine di ucciderli: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: “Fucilali, e non perdere tempo!”». Si veda al proposito “Odissea Partigiana” di Vero Marozin (1966) “Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Ascesa e caduta di due stelle del cinema” di Odoardo Reggiani (Spirali, 2001).«Pertini si era rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva elaborato durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. La casa milanese di Valenti e della Ferida venne svaligiata pochi giorni dopo la loro uccisione. Fu rubato un autentico tesoro (cani di razza inclusi) di cui si perse ogni traccia». È famoso l’episodio accaduto all’arcivescovado di Milano nel ’45, quando Pertini incrociò sulle scale Mussolini, reduce da un colloquio col cardinale Schuster. Pertini disse poi di non averlo riconosciuto, «altrimenti lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella». Poi aggiunse: «Come un cane tignoso». Pertini sosteneva la necessità di uccidere Mussolini, non arrestarlo: se si fosse salvato, disse, magari sarebbe stato eletto pure in Parlamento. Delle responsabilità di Pertini nella strage di via Rasella a Roma, ne scrisse William Maglietto in “Pertini sì, Pertini no” (Settimo Sigillo, 1990).Al Quirinale, al di là dell’immagine bonaria del presidente che tifa Nazionale, gioca a carte, va a Vermicino per Alfredino, il bambino caduto nel pozzo, si ricorda il suo carattere permaloso. Ad esempio quando cacciò il suo capo ufficio stampa, Antonio Ghirelli, valoroso giornalista e galantuomo socialista. O quando chiese di cacciare Massimo Fini dalla Rizzoli in seguito a un articolo su di lui che non gli era piaciuto. Così ne parlò lo stesso Fini: «Immediata rabbiosa telefonata al direttore della “Domenica del Corriere” Pierluigi Magnaschi, un gentleman dell’informazione, il quale ricoperto da una valanga di insulti cerca di barcamenarsi alludendo all’autonomia delle rubriche dei giornalisti, allo spirito un po’ da bastian contrario di Massimo Fini. Il “nostro” San Pertini gli latra minacciosamente: “Non credere di fare il furbo con me, imbecille! Chiamo il tuo padrone Agnelli e vediamo qui chi comanda!” E infatti il giorno dopo mi si presenta il responsabile editoriale della casa editrice Lamberto Sechi…». Lo stesso Pertini disse a Livio Zanetti in un libro-intervista: «Cercai inutilmente di far licenziare uno strano giornalista italoamericano». Nenni nei suoi diari considerava Pertini un violento iracondo.Quando l’Msi celebrò il suo congresso a Genova nel 1960, fu proprio Pertini ad accendere il fuoco della rivolta sanguinosa dei portuali della Cgil col discorso del “brichettu” (il cerino). E vennero i famigerati “ganci di Genova”, coi quali un governo democratico di centro-destra, a guida Tambroni, con l’appoggio esterno del Msi, fu abbattuto da un’insurrezione violenta nel nome dell’antifascismo. Proverbiale era la poi sua vanità. Ghirelli riferì uno sferzante giudizio di Saragat: «Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la televisione». E i suoi abiti firmati, le sue scarpe Gucci mentre predicava il socialismo e il pauperismo… Fiorirono poi tante maldicenze su di lui, capo partigiano e poi leader socialista, che vi risparmio; circolavano giudizi dell’Anpi, di Marco Ramperti… Francesco Damato ricordò: «Nel 1973 Pertini mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per far posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita». Poi fu proprio l’onda emotiva dell’assassinio Moro e l’asse Dc-Pci sulla non-trattativa che portò a eleggerlo due mesi dopo al Quirinale. Infine va ricordato il Pertini che agli operai di Marghera, nel pieno infuriare del terrorismo rosso con larghe scie di sangue, disse: «Sono stato un brigatista rosso anch’io», per poi negare che le Br fossero rosse, giudicandoli solo «briganti», così da recidere il filo rosso tra Br e partigiani. Il presidente di una repubblica flagellata in quegli anni dal terrorismo rosso, si definiva orgoglioso «un brigatista rosso».(Marcello Veneziani, “Il presidente impertinente”, da “Il Tempo” del 14 marzo 2018; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. A quarant’anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l’altro Pertini. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’“Avanti!” e all’epoca capogruppo socialista, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l’“Avanti!”: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.