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Archivio del Tag ‘Consiglio d’Europa’

  • Gli scienziati: 5G e cancro. Il voto alla Camera: fermiamolo

    Scritto il 05/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Cancro, danni al Dna, riduzione della fertilità. «Fermate il 5G, potenzialmente pericoloso per la salute, in attesa che la scienza ne chiarisca il reale impatto sul nostro corpo». In vista del voto alla Camera il 7 ottobre, lo chiedono Sara Cunial del gruppo misto e quattro colleghi, le grilline Gloria Vizzini e Veronica Giannone più Silvia Benedetti (gruppo misto) e Manfred Schullian (minoranze linguistiche). Per la prima volta, annuncia Sara Cunial, ai parlamentari sarà sottoposto «un testo importantissimo», con cui si chiede di impegnare il governo a «sospendere qualsiasi forma di sperimentazione tecnologica del 5G nelle città italiane, in attesa della produzione di sufficienti evidenze scientifiche per giudicarne l’innocuità». Il governo viene anche invitato a «mantenere gli attuali valori-limite previsti dalla legge», riguardo alla soglia d’irradiazione elettromagnetica (che il 5G farebbe salire alle stelle). All’esecutivo “ecologista” di Giuseppe Conte, che annuncia un “green new deal”, si chiedono «iniziative per minimizzare il rischio» e anche l’introduzione di clausole di risarcimento, nei contratti delle aziende incaricate di predisporre la potentissima rete wireless di quinta generazione. Si chiede inoltre uno studio sugli effetti biologici delle radiofrequenze presso un ente indipendente che non sia l’Icnirp, accusato di conflitto d’interessi.
    Forti di una petizione sottoscritta da 11.000 cittadini, grazie all’alleanza italiana “Stop 5G” che ha coinvolto parlamentari e consiglieri regionali, sindaci, avvocati, scienziati e medici, nonché tecnici, giornalisti, movimenti e partiti, associazioni di malati e comitati civici, Sara Cunial e colleghi pretendono anche «una commissione di vigilanza permanente, per un monitoraggio finalmente serio e attendibile degli effetti che i campi elettromagnetici possono avere sulla salute umana». E’ allarme: con il 5G la nostra esposizione aumenterebbe in modo abnorme, grazie ad antenne collocate ovunque, a poche centinaia di metri l’una dall’altra. Più di 200 scienziati di tutto il mondo hanno rivolto un appello all’Ue per chiedere il blocco della tecnologia 5G a causa delle crescenti preoccupazioni per l’aumento delle radiazioni da radiofrequenza e dei relativi rischi per la salute. Un altro appello, sottoscritto da 54.000 cittadini, ha raccolto le adesioni di ricercatori e organizzazioni di 168 paesi al mondo e mette a disposizione una bibliografia ricchissima che attesta numerosi rischi biologici da elettrosmog. In Italia è stata avviata una prima sperimentazione nelle città di Prato, L’Aquila, Matera, Bari e Milano, a cui si sono aggiunte Roma, Torino e in ultimo Genova e Cagliari. Sono poi stati individuati 120 piccoli Comuni italiani in cui è prevista l’estensione della fase sperimentale del 5G.
    A insospettire decine di cittadini è stato il taglio improvviso dei grandi alberi nei parchi cittadini, in tutta la penisola: strano fenomeno, segnalato nei mesi scorsi al video-reporter Massimo Mazzucco. Due documenti ufficiali del governo inglese, conferma Mazzucco, certificano che «alberi e arbusti con un denso fogliame provocano un disturbo nella propagazione del segnale». Il 5 G è una rete veloce, capillare ed efficiente: può consentire di gestire ogni sorta di dispositivo. Il suo uso non sarà limitato alla navigazione ultra-veloce su Internet via smartphone e tablet, ma consentirà di creare una rete istantanea a cui ogni singolo dispositivo elettronico, anche domestico, sarà collegato. Le “smart city” del futuro saranno tutte collegate con il 5G: la nuova rete permetterà di gestire tutti i servizi e i dispositivi urbani. Viabilità e gestione del traffico, servizi per il cittadino, sensori di sicurezza e videosorveglianza: tutto sarà connesso e gestibile da remoto attraverso questa rete veloce e “a bassa latenza”, cioè onnipresente. Come si può immaginare, ci troviamo davanti ad un enorme giro d’affari: introiti che nel 2026 si aggireranno sui 1.307 miliardi di dollari.
    Saranno letteralmente rivoluzionati settori-chiave come l’agricoltura e la sanità, ma anche i trasporti e i media, l’intrattenimento, l’automotive e il commercio, i servizi finanziari e l’industria manifatturiera. Le infrastrutture del 5G vedono protagonisti colossi come Nokia, Ericsson, Cisco e Zte, ma anche Huawei. «Ben si comprende perché proprio quest’ultimo colosso cinese possa trovarsi al centro di un braccio di ferro con gli Usa, fortemente contrari alla presenza di Huawei all’interno del mercato delle infrastrutture “mobile” a causa di un possibile spionaggio internazionale da parte della Cina», scive il blog giuridico dello studio Cataldi. Secondo alcuni analisti politici, tra i motivi alla base della rottura del governo gialloverde ci sarebbe proprio il ruolo di Huawei in Italia: alla Lega di Salvini, anche convocando Giorgetti a Washington, gli Usa avrebbero inutilmente chiesto di far annullare gli impegni presi con il gigante cinese per la gestione della rete 5G. «In Italia – aggiunge lo studio Cataldi – la sfida per la copertura 5G è stata vinta da Tim e Vodafone, seguite da Wind-Tre e Iliad: le prime sperimentazioni sono attese per metà 2019, ma il debutto ufficiale è previsto nel il 2020. I primi telefonini dovrebbero essere sul mercato già dall’estate».
    Sara Cunial e colleghi ora chiedono al Conte-bis di «promuovere la ricerca di tecnologie più sicure, meno pericolose e alternative al wireless, come il cablaggio». Il governo italiano è invitato a farsi promotore, in sede Ue, di una revisione complessiva di tutta la normativa europea in materia. Quella ispirata dalle raccomandazioni dell’Icnirp, la “Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti”, contiene disposizioni inattendibili perché «in evidente conflitto di interessi, causa riconosciuti legami con le lobby delle telecomunicazioni». Quella sottoposta alla Camera è una mozione supportata da evidenze scientifiche di peso internazionale. Da quest’anno, le radiofrequenze del wireless di quinta generazione sono considerate pericolose dallo Scheer, il Comitato scientifico sui rischi sanitari e ambientali dell’Ue, fino a ieri “negazionista” sugli effetti biologici dei campi elettromagnetici. Lo Scheer afferma che il «5G lascia aperta la possibilità di conseguenze biologiche». I campi elettromagnetici a radiofrequenza (Cem-Rf) promuovono lo stress ossidativo, una condizione implicata nello sviluppo del cancro, in diverse malattie acute e croniche e nell’omeostasi vascolare. Recenti studi – si legge nel testo integrale della mozione parlamentare – hanno anche suggerito effetti sulla riproduzione, metabolici e neurologici in grado di alterare la resistenza batterica agli antibiotici.
    Quest’anno, l’Alleanza contro il cancro (fondata nel 2002 dal ministero della salute e di cui fa parte l’Istituto superiore di sanità) ha ufficializzato un progetto di studio sul glioblastoma, tumore maligno del cervello, per il quale sono ipotizzate correlazioni con le onde elettromagnetiche. La legge 36 del 2001, in teoria, protegge gli italiani “dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici” anche mediante la promozione dalla ricerca scientifica. Obiettivo: valutare gli effetti e sviluppare l’innovazione tecnologica finalizzata a minimizzare l’intensità dell’esposizione. Lo stesso articolo 168 del Trattato di Lisbona impegna gli Stati a «proteggere la popolazione dai potenziali effetti nocivi dei campi elettromagnetici». Sebbene alcune evidenze scientifiche siano tuttora controverse, scrive la relazione sottoposta alla Camera, già nel 2011 l’Oms ha classificato i Cem-Rf come «possibile cancerogeno per l’uomo». Proprio in questi giorni, lo Iarc ha ufficializzato una rivalutazione della classificazione generale sulla cancerogenesi, che potrebbe comportare l’innalzamento delle radiofrequenze come «probabile agente cancerogeno». Problema: l’esito finale della riclassificazione è previsto entro i prossimi cinque anni. Inoltre, un ampio studio del 2018 a cura del programma nazionale di tossicologia degli Usa (National toxicology program), ha dimostrato un aumento significativo dell’incidenza del cancro cerebrale e del tumore al cuore negli animali esposti a campi elettromagnetici anche a livelli inferiori a quelli fissati nelle attuali linee-guida dell’Icnirp.
    «Peraltro, le linee-guida del monitoraggio si limitano per ora ad analizzare i soli “effetti termici a breve termine” simulati su manichini riempiti di gel», affermano Sara Cunial e gli altri parlamentari in allarme per il 5G. Impossibile fidarsi dell’Icnirp, «organismo privato con sede in Germania, già al centro di numerose polemiche e attacchi da parte di scienziati, medici e ricercatori di mezzo mondo». L’icnirp è stato spesso accusato di «conflitti d’interesse, contiguità con la lobby delle telecomunicazioni e scarsa trasparenza nell’operato». Inoltre, sempre secondo i firmatari della mozione italiana, l’Icnirp è «fermo su parametri obsoleti e superati dalla letteratura biomedica più recente», nonché «sostenitore di una tesi negazionista sui cosiddetti effetti non termici a medio-lungo termine dei Cem-Rf». Nel 2017, il medico svedese Lennart Hardell (il ricercatore più eminente al mondo sui rischi di tumore del cervello connessi all’uso a lungo termine dei telefoni cellulari) ha pubblicato sulla rivista scientifica “International Journal of Oncology” una dura critica all’Icnirp, avallata da alcuni esponenti politici del Consiglio d’Europa: non ci sono prove, sostiene Hardell, che l’Icnirp sia un’associazione di scienziati indipendenti e che sia l’interlocutore giusto per valutare gli effetti delle radiofrequenze.
    Martin Pali, professore emerito di biochimica e scienze mediche di base della Washington State University, nel 2018 ha denunciato «il pericolo per la salute umana derivabile dalle radiofrequenze e dal 5G», puntando il dito su «storture, falle metodologiche e grossolani limiti di contenuto evidenziati nel controverso documento diffuso dell’Icnirp». Secondo Pali, le raziazioni del 5G ci espongono ad almeno otto pericoli dimostrati: danni cellulari al Dna con rottura dei filamenti e ossidazione delle basi, diminuzione della fertilità maschile e femminile, aumento di aborti spontanei, abbassamento di ormoni come estrogeni, progesterone e testosterone, abbassamento della libido. E ancora: danni neurologici e neuropsichiatrici, apoptosi e morte cellulare; stress ossidativo e aumento dei radicali liberi (responsabili della maggior parte delle patologie croniche), nonché effetti ormonali, aumento del calcio intracellulare e infine “effetto cancerogeno” sul cervello, sulle ghiandole salivari e sul nervo acustico. Olle Johansson, neuroscienziato del Karolinska Institute (che assegna il Premio Nobel per la fisiologia e la medicina) ha affermato che la prova del danno causato dai campi elettromagnetici a radiofrequenza «è schiacciante».
    Un altro scienziato, Ronald Powell, fisico laureato ad Harvard e che ha lavorato presso la National Science Foundation e l’Istituto nazionale degli standard e della tecnologia, condivide preoccupazioni simili riguardo al potenziale danno diffuso dalle radiazioni a radiofrequenza. Recenti studi pubblicati nel 2018, realizzati dal Centro per ricerca sul cancro dell’Istituto Ramazzini, evidenziano poi «un aumentato rischio, sia per i tumori alla testa sia per gli schwannomi, il più pericoloso dei quali è il tumore cardiaco». Sono risultati «basati sulla sperimentazione animale su cavie uomo-equivalenti», che si sommano agli ultimi studi epidemiologici sugli utilizzatori di cellulari condotti dall’oncologo Lennart Hardell. Tutte ricerche che «fanno concludere agli studiosi che è tempo di aggiornare la classificazione Iarc». La stessa Ue ammette che i campi elettromagnetici «sono altamente focalizzati dai raggi, variano rapidamente con il tempo e il movimento», e proprio per questo «sono imprevedibili». Il problema, aggiunge Bruxelles, è che al momento «non è possibile simulare o misurare accuratamente le emissioni di 5G al di fuori del laboratorio, nel mondo reale».
    Altro rischio per la salute, l’elettrosensibilità accentuata dal 5G: già nel 2004 l’Oms denunciato a Praga questa «sindrome altamente invalidante e fortemente in crescita nei paesi occidentali e industrializzati». Una malattia definita come «un fenomeno in cui gli individui avvertono gli effetti avversi sulla salute quando sono in prossimità di dispositivi che emanano campi elettrici, magnetici o elettromagnetici». I ricercatori stimano che circa il 3% della popolazione mondiale ha gravi sintomi associati alla elettrosensibilità, mentre un altro 35% della popolazione ha sintomi moderati come «deficit del sistema immunitario o malattie croniche». In Italia, dal 2013, la sindrome è stata riconosciuta dalla Regione Basilicata e inclusa nell’elenco delle malattie rare. «In questo scenario in evoluzione, sebbene gli effetti biologici dei sistemi di comunicazione 5G siano scarsamente studiati (mancando uno studio preliminare degli effetti sulla salute), è iniziato un piano d’azione internazionale per lo sviluppo di reti 5G con un prossimo incremento nel numero di dispositivi e nella densità di piccole celle e con l’uso di onde millimetriche», avvertono Cunial, Vizzini, Giannone, Benedetti e Schullian.
    Non c’è da stare tranquilli: «Osservazioni preliminari hanno mostrato che le onde millimetriche aumentano la temperatura della pelle, alterano l’espressione genica, promuovono la proliferazione cellulare e la sintesi di proteine legate allo stress ossidativo». Le microonde del 5G, inoltre, causano «processi infiammatori e metabolici, possono generare danni oculari e influenzare le dinamiche neuromuscolari». Per questo «sono necessari ulteriori studi per esplorare meglio e in modo indipendente gli effetti sulla salute dei Cem-Rf in generale e delle onde millimetriche in particolare», insistono i cinque parlamentari. Secondo diversi scienziati, sono necessari ulteriori studi per esplorare in modo migliore e indipendente gli effetti sulla salute (dei campi elettromagnetici a radiofrequenza in generale, e delle microonde millimetriche del 5G in particolare). «Tuttavia, i risultati disponibili appaiono sufficienti per dimostrare l’esistenza di effetti biomedici, per invocare il principio di precauzione, per definire i soggetti esposti come potenzialmente vulnerabili e per rivedere i limiti esistenti». I promotori si augurano che la mozione alla Camera metta fine «alla svendita dei nostri diritti sanitari e ambientali, ceduti per soddisfare interessi economici». Chiosa Sara Cunial: «Confidiamo che il voto in aula sia unanime e che riacquistino priorità il principio di precauzione, i diritti dei cittadini e la nostra stessa Costituzione, che prescrive la tutela della salute pubblica».

    Cancro, danni al Dna, riduzione della fertilità. «Fermate il 5G, potenzialmente pericoloso per la salute, in attesa che la scienza ne chiarisca il reale impatto sul nostro corpo». In vista del voto alla Camera il 7 ottobre, lo chiedono Sara Cunial del gruppo misto e quattro colleghi, le grilline Gloria Vizzini e Veronica Giannone più Silvia Benedetti (gruppo misto) e Manfred Schullian (minoranze linguistiche). Per la prima volta, annuncia Sara Cunial, ai parlamentari sarà sottoposto «un testo importantissimo», con cui si chiede di impegnare il governo a «sospendere qualsiasi forma di sperimentazione tecnologica del 5G nelle città italiane, in attesa della produzione di sufficienti evidenze scientifiche per giudicarne l’innocuità». Il governo viene anche invitato a «mantenere gli attuali valori-limite previsti dalla legge», riguardo alla soglia d’irradiazione elettromagnetica (che il 5G farebbe salire alle stelle). All’esecutivo “ecologista” di Giuseppe Conte, che annuncia un “green new deal”, si chiedono «iniziative per minimizzare il rischio» e anche l’introduzione di clausole di risarcimento, nei contratti delle aziende incaricate di predisporre la potentissima rete wireless di quinta generazione. Si chiede inoltre uno studio sugli effetti biologici delle radiofrequenze presso un ente indipendente che non sia l’Icnirp, accusato di conflitto d’interessi.

  • Orban, gattopardo neoliberista: stampella Ue con Salvini?

    Scritto il 19/9/18 • nella Categoria: idee • (31)

    Viktor Orban e Matteo Salvini? Campioni, «eroi del nostro tempo liquido e fautori della tanto discussa “internazionale populista”, che raccatta tutta la galassia nazionalista a partire da Trump, Putin, fino al gruppo di Visegrad». Il politico ungherese e quello italiano «appaiono agli occhi del mondo come due pericolosi eversori degli equilibri europei, capaci di far deflagrare l’Ue con la facilità di due Boeing 767 lanciati a razzo contro le Twin Towers». Ma se fossimo in grado di aguzzare meglio la vista e l’ingegno, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, «potremmo scorgere dietro le vesti tigrate nazional populiste, due gattopardi collusi col sistema neoliberista, che hanno la precisa missione di salvare le élites della destra europea da se stesse». Con la loro insistenza ossessiva sul tema immigrazione, e per le loro critiche sovraniste alla “dittatura” finanziaria di Bruxelles, secondo la Spadini i due «gattoni pardati» si sono guadagnati il titolo di paladini della  rivoluzione nazionalista. Ma in realtà, dietro la reputazione da ribelli alimentata dall’isteria della stampa “liberal”, si nascondono «due politici legati a doppio filo proprio con quel sistema di potere europeo che dicono di volere abbattere».

  • Juncker, Barroso, Draghi, Selmayr: l’opaca superlobby Ue

    Scritto il 13/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (37)

    Scarsa trasparenza dei processi decisionali, attività lobbistiche senza un vero controllo, porte girevoli, organi di garanzia e codici etici debolissimi e permeati da influenze politiche e del settore privato. Questi sono solo alcuni dei problemi di questa Europa denunciati dal Mediatore Europeo, quella figura che si occupa di monitorare che le istituzioni europee non inciampino nella cosiddetta “cattiva amministrazione”. 

E infatti, puntuale come un orologio, il report annuale dell’attività del Mediatore Europeo elenca le numerose gravi criticità che segnano il lavoro delle istituzioni europee e fotografa un’Europa che sembra allontanarsi sempre di più da ciò che doveva essere, la casa comune di tutti i cittadini europei.

 La Commissione Petizioni è l’unica commissione del Parlamento Europeo che ha il compito di analizzare il report del Mediatore e commentarlo. Quest’anno il compito è stato affidato al gruppo Efdd – Movimento 5 Stelle e, in quanto relatrice, ho cercato di dare ampio supporto all’importante e apprezzabile lavoro di indagine svolto nel 2017 dal Mediatore. Ecco il link al report. Abbiamo sottolineato alcune tra le problematiche più gravi che continuano a gravare sulle istituzioni europee: la scarsa trasparenza dei processi decisionali, le gravissime problematiche etiche che hanno coinvolto anche commissari europei in carica, l’ex presidente della Commissione Europea e l’attuale presidente della Bce.
    Poi, il quadro giuridico fortemente lacunoso nel prevenire e sanzionare la violazione del dovere di integrità, discrezione e piena indipendenza dall’influenza lobbistica posto in capo ai rappresentanti delle istituzioni Ue. Infine, il diniego di accesso ai documenti delle istituzioni Ue opposto ai cittadini, impedendo loro di esercitare appieno i propri diritti democratici.

 Su questi temi il Mediatore, al termine delle sue indagini, ha spesso avanzato rilievi critici e raccomandazioni costruttive alle istituzioni europee coinvolte, ma, purtroppo, le risposte sono state troppo spesso insoddisfacenti quando non deprecabili. Tutto questo proprio in un momento in cui l’Ue continua a precipitare in un abisso di discredito e sfiducia agli occhi dei propri cittadini, incapace di cambiare registro sul piano etico, economico e nel complesso politico. Il caso Selmayr è emblematico di come funziona male questa Europa. Questo super-burocrate tedesco è stato voluto da Jean-Claude Juncker col metodo che ormai conosciamo, tanto caro alla Commissione Europea: l’imposizione. Nessuna regola è stata rispettata e il Mediatore Europeo lo ammette, sconfessando di fatto la linea morbida del Parlamento Europeo.
    Noi eravamo stati gli unici con un emendamento a chiedere il tedesco Selmayr mettesse nero su bianco le sue dimissioni con effetto immediato. Questo per garantire alla successiva Commissione Europea la possibilità di sostituire il segretario generale secondo una procedura legale e più trasparente. Eloquente è il “caso Barroso”: al termine del suo mandato decennale di presidente della Commissione Europea, viene nominato presidente non-esecutivo e “advisor” della banca d’affari Goldman Sachs, tra le più implicate nello scoppio della crisi economica del 2008. La Mediatrice riscontrava all’epoca “cattiva amministrazione” da parte della Commissione Europea sulla gestione del caso. Il Comitato Etico, interno alla Commissione – evidentemente gravato da un deficit di indipendenza dal livello politico – concluse che non vi fossero elementi sufficienti per individuare una violazione di obblighi giuridici da parte di Barroso, tenendo semplicemente conto di una dichiarazione scritta di Barroso stesso nella quale affermava che non era stato ingaggiato da Goldman Sachs per svolgere attività di lobbying.
    Il 25 settembre 2017 si scopre, invece, che si è svolto un incontro tra Barroso e l’attuale vice-presidente della Commissione Europea, Katainen, registrato come incontro ufficiale con Goldman Sachs, la cui esatta natura, come indicato dalla stessa Mediatrice nella sua indagine, non è apparsa per nulla chiara, sottolineando le comprensibili preoccupazioni circa il fatto che l’ex presidente Barroso utilizzi il suo precedente status e i suoi contatti per esercitare la propria influenza ed ottenere informazioni, ovvero per svolgere attività di lobbying a vantaggio di Goldman Sachs. Altro caso emblematico del 2017 è quello del presidente della Banca Centrale Europea (Bce) e la sua adesione al cosiddetto “Gruppo dei 30”, un’organizzazione privata che annovera tra i membri i rappresentanti di banche sottoposte alla vigilanza diretta o indiretta della Bce. La Mediatrice in merito ha raccomandato al presidente della Bce di sospendere la propria adesione al Gruppo dei Trenta ma a tale richiesta le viene ancora oggi opposto un netto rifiuto a pregiudizio ulteriore dell’immagine di un’istituzione, quale la Bce, che dovrebbe non solo essere ma anche apparire integralmente indipendente da interessi finanziari privati.
    Sul fronte del processo decisionale a livello Ue, permane il grave deficit di trasparenza riscontrabile nei “triloghi”, ancora completamente inaccessibili al pubblico, nonché nelle procedure seguite in Consiglio, presso il quale continuano a non registrarsi le posizioni assunte dagli Stati membri sui file legislativi e si oppongono ripetuti rifiuti ai cittadini nell’accesso ai documenti. La Mediatrice nel 2017 non ha mancato di qualificare esplicitamente tali condotte da parte del Consiglio come espressione di “cattiva amministrazione”, cui ha fatto seguito nel 2018 la sua relazione speciale focalizzata sui complessivi problemi di trasparenza del processo legislativo del Consiglio. 

Lo status quo contrasta, peraltro, con l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia Ue giunta a ribadire, in ultimo nella sentenza De Capitani, che i principi di pubblicità e trasparenza sono inerenti alle procedure legislative dell’Unione. La Corte ha asserito, inoltre, che la mancanza di informazioni e di dibattito in merito al processo legislativo, oltre a rappresentare una chiara violazione dei diritti democratici dei cittadini, ne accresce la loro sfiducia.
    E’ inaccettabile che ancora oggi non venga adottato un Registro di Trasparenza obbligatorio e giuridicamente vincolante per il settore privato e per tutte le istituzioni ed agenzie dell’Ue per garantire piena trasparenza delle attività di lobbying effettuate.

 E’ inammissibile che non sussista ancora piena trasparenza sulle informazioni relative ai casi di “porte girevoli”, impedendo di conoscere tempestivamente i nomi di funzionari Ue che all’improvviso lasciano le istituzioni e vengono assunti in ruoli apicali in realtà influenti del settore privato. 

E’ censurabile che non sussista piena trasparenza e piena indipendenza dal settore privato nella raccolta e valutazione delle prove scientifiche che tanto sdegno hanno suscitato tra i cittadini europei quando si è giunti in sede Ue ad autorizzare e rinnovare l’uso di glifosato, Ogm e pesticidi. Su quest’ultimo aspetto, ho richiesto espressamente che la Mediatrice proceda all’avvio di una specifica indagine strategica.
    (Elonora Evi, “Raccomandazioni, favori ad amici e conflitti di interessi: ecco le prove di come Juncker amministra (male) l’Ue”, dal “Blog delle Stelle” del 7 settembre 2018. La Evi è un’europarlamentare del gruppo Efdd – Movimento 5 Stelle Europa. L’avvocato tedesco Martin Selmayr, capo di gabinetto della Commissione Europea di Juncker, è considerato il tecnocrate burocrate più potente di Bruxelles, addirittura il vero “presidente ombra”. Emilio De Capitani è invece il docente universitario che pretese dal Parlamento Europeo l’accesso ai documenti contenenti informazioni riguardo alle posizioni delle istituzioni sulle procedure co-legislative in corso, nello specifico sui “triloghi”, i negoziati tra Parlamento e Consiglio Ue con la mediazione della Commissione Europea. La richiesta del professor De Capitani è stata approvata dalla Corte di Giustizia Ue, secondo cui serve più trasparenza da parte delle istituzioni europee sui documenti riguardanti le procedure legislative, che devono essere accessibili a chi ne fa domanda).

    Scarsa trasparenza dei processi decisionali, attività lobbistiche senza un vero controllo, porte girevoli, organi di garanzia e codici etici debolissimi e permeati da influenze politiche e del settore privato. Questi sono solo alcuni dei problemi di questa Europa denunciati dal Mediatore Europeo, quella figura che si occupa di monitorare che le istituzioni europee non inciampino nella cosiddetta “cattiva amministrazione”. 

E infatti, puntuale come un orologio, il report annuale dell’attività del Mediatore Europeo elenca le numerose gravi criticità che segnano il lavoro delle istituzioni europee e fotografa un’Europa che sembra allontanarsi sempre di più da ciò che doveva essere, la casa comune di tutti i cittadini europei.

 La Commissione Petizioni è l’unica commissione del Parlamento Europeo che ha il compito di analizzare il report del Mediatore e commentarlo. Quest’anno il compito è stato affidato al gruppo Efdd – Movimento 5 Stelle e, in quanto relatrice, ho cercato di dare ampio supporto all’importante e apprezzabile lavoro di indagine svolto nel 2017 dal Mediatore. Ecco il link al report. Abbiamo sottolineato alcune tra le problematiche più gravi che continuano a gravare sulle istituzioni europee: la scarsa trasparenza dei processi decisionali, le gravissime problematiche etiche che hanno coinvolto anche commissari europei in carica, l’ex presidente della Commissione Europea e l’attuale presidente della Bce.

  • Bavaglio al web in Europa: ce l’hanno fatta, ora sarà legge

    Scritto il 12/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (47)

    Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.
    «Con la scusa della riforma del copyright, il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato la censura preventiva. Una pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini», protesta Isabella Adinolfi, europarlamentare 5 Stelle. «Il testo approvato oggi dall’aula di Strasburgo contiene l’odiosa “link tax” e filtri ai contenuti pubblicati dagli utenti. È vergognoso, ha vinto il partito del bavaglio». Purtroppo, aggiunge la Adinolfi, sono stati respinti tutti gli emendamenti che il Movimento 5 Stelle aveva presentato, «in particolare l’articolo 11, che prevede l’introduzione della cosiddetta “link tax”, e il 13, che mira a introdurre una responsabilità assoluta per le piattaforme, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti», conclude. Che tirasse brutta aria, a Strasburgo, lo si capiva dalle premesse, anticipate di prima mattina dal “Blog delle Stelle”: «L’Europa dei banchieri e dei lobbisti ha scelto la sua preda: il web libero. Anziché scardinare i paradisi fiscali e salvare in modo serio il diritto d’autore, il Parlamento Europeo rischia di usare il copyright come una mannaia dei diritti dei cittadini».
    Non sono in pochi a ritenere che la riforma – avanzata nel 2016 dall’allora commissario Ue alla Digital Economy Günther Oettinger – potrebbe «distruggere Internet per come lo conosciamo». Per gli europarlamentari rappresentati da Julia Reda, relatrice per il Parlamento Europeo del dossier sulla riforma del copyright e membro del Partito Pirata tedesco, «il progetto limita la libertà di espressione online e mette in difficoltà i piccoli editori e le startup innovative». Di fatto, il divieto di citare liberamente le fonti (con l’introduzione della “link tax”) equivale alla censura preventiva sul web: fine della libera circolazione di contenuti, come finora è stato nella Rete. Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, punta il dito contro lo stesso Oettinger, il tedesco secondo cui sarebbero stati “i mercati” a “insegnare agli italiani come votare”. Proprio quell’Oettinger, dice Magaldi, milita nei circuiti supermassonici reazionari che hanno trasformato l’Ue in un mostro giuridico, gestito da tecnocrati al soldo di interessi privatistici che mirano a svuotare le democrazie e privatizzare Stati non più sovrani, a cui viene impedito di investire (sotto forma di deficit) per creare occupazione.
    Comunque lo si legga, l’attacco al web finisce per colpire uno strumento di comunicazione potentissimo, cercando di riportarlo sotto il completo controllo dei media mainstream, spesso protagonisti di un uso pressoché criminale di autentiche “fake news”. Il voto del Parlamento Europeo è stato salutato con soddisfazione da Antonio Tajani, coinvolto – secondo il saggista Gianfranco Carpeoro – nell’operazione che ha portato (premendo su Berlusconi) a bloccare la nomina, alla presidenza della Rai, di Marcello Foa, autorevole giornalista, autore del volume “Gli stregoni della notizia”, che smaschera le tante imposture del mainstream. Secondo Carpeoro, la manovra anti-Foa è nata dalle parti dell’Eliseo: Jacques Attali (mentore di Macron ed esponente della superloggia reazionaria “Three Eyes”) si sarebbe rivolto al massone Tajani e poi allo stesso Berlusconi, dopo essersi consultato con Giorgio Napolitano, che nel libro “Massoni” lo stesso Magaldi presenta come esponente della “Three Eyes”, la medesima superloggia nella quale milita Attali, contigua al mondo supermassonico di cui fa fa parte, da molti anni, il tedesco Oettinger, vero e proprio “architetto” del bavaglio europeo imposto al web.
    E’ noto a tutti che le oligarchie al potere, in Europa e non solo, hanno sviluppato un’enorme diffidenza nei confronti della Rete: un network che si ritiene abbia avuto un ruolo assai rilevante in tutti i “dispiaceri” che gli elettori hanno rifilato, negli ultimi anni, all’establishment – la Brexit e il referendum di Renzi, quindi l’elezione di Trump e infine il boom dei “gialloverdi” in Italia. «Se Grillo vuole fare politica fondi un partito, se ne è capace», disse Piero Fassino, non immaginando che l’ex comico non solo ce l’avrebbe fatta, ma sarebbe finito praticamente al governo, scalzando il Pd. Il Movimento 5 Stelle è stato creato proprio via web, a partire dalle candidature. Colpire il web in Europa, proprio oggi, significa predisporre contromisure in vista delle elezioni europee 2019, in cui i grandi poteri economici e oligarchici che si nascondono dietro la tecnocrazia Ue temono l’exploit dei partiti “sovranisti” e “populisti”, o meglio democratici. Mentre le televisioni sono letteralmente “militarizzate” dall’establishment, le vendite dei giornali sono in caduta libera. Ecco dunque la necessità, per gli oligarchi, di silenziare in ogni modo il web.

    Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.

  • Crisi-migranti: fratture e minacce, ora l’Ue può esplodere

    Scritto il 23/6/18 • nella Categoria: segnalazioni • (18)

    I paesi di Visegrad le voltano la schiena. Il falco di Baviera Horst Seehoofer è pronto a scavarle la fossa sotto i piedi. L’Italia per la prima volta prova a rivoltarlesi contro. E il Trattato di Schengen sembra a un passo dalla rottamazione. Insomma, «la cancelliera Angela Merkel e l’Europa disegnata a sua immagine e somiglianza tremano, traballano e si sgretolano». Il tutto, scrive Gian Micalessin sul “Giornale”, a meno di una settimana da un Consiglio Europeo in cui l’Unione «dovrà decidere come uscire da quella crisi dei migranti che rischia di distruggerla». Ma la resa dei conti, aggiunge Micalessin, inizia dal peccato originale: anzi, dalla “peccatrice”, cioè «da quella Angela Merkel colpevole di aver spalancato le porte a un fenomeno migratorio di cui non comprese la devastante portata». Tre anni dopo, la prima a subirne le conseguenze è proprio lei: Seehofer attacca a muso duro una cancelliera pronta a licenziarlo pur di frenare il “masterplan” anti-immigrazione con cui il falco della Csu bavarese vorrebbe respingere alla frontiera chiunque si è visto rifiutare l’asilo in un altro paese o non è in grado di esibire un documento. «Sarebbe la prima volta al mondo che uno licenzia un ministro soltanto perché si preoccupa e si prende cura della sicurezza e dell’ordine del suo paese», dichiara Seehofer.
    «Io sono presidente della Csu, uno dei tre partiti della coalizione di governo, e guido il mio partito con totale sostegno», aggiunge Seehofer: «Se qualcuno nella cancelleria è insoddisfatto del lavoro del ministro dell’interno, allora deve porre fine alla coalizione». Ma mentre la cancelliera si arrovellava per tenere in piedi la sua stessa casa, osserva Micalessin, a oriente veniva giù un altro pezzo d’Europa: i paesi del blocco di Visegrad, Ungheria in testa, guidavano la rivolta contro il vertice preparatorio tra Italia, Spagna, Francia, Germania e Austria (ma forse anche Bulgaria, Olanda e Belgio) che domenica dovrebbe segnare le tappe d’avvicinamento al Consiglio d’Europa del 28 giugno sul tema migranti. Il pomo della discordia capace d’innescare la sollevazione di Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca è come sempre la ripartizione dei richiedenti asilo. Un argomento considerato una sorta d’inviolabile tabù dai quattro paesi dell’Est europeo. «Apprendiamo che ci sarà un mini-summit, ma noi non vi parteciperemo perché questo è contrario alle abitudini dell’Ue», annuncia il premier ungherese Viktor Orban, spiegando che il responsabile dell’organizzazione dei summit «è il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk e non la Commissione Europea».
    Prima ancora che succedesse tutto questo, annota sempre il “Giornale”, le linee guida della Merkel erano state messe in dubbio anche da un Giuseppe Conte «costretto a confrontarsi con l’ignobile bozza di lavoro sottopostaci in vista dello stesso vertice preparatorio». Una bozza che ribadiva l’obbligo di riprenderci, con tante scuse, i migranti sbarcati sulle nostre coste e poi «acciuffati al confine di altri paesi dopo esser sgusciati tra le maglie dei controlli». Non illudiamoci, insiste Micalessin: la rivolta di Conte, «prontissimo nel rispedire al mittente la bozza minacciando il ritiro dell’Italia», è una nota più che positiva ma «non è certamente una vittoria definitiva». Lo scontro tra Seehofer e la cancelliera? «Dimostra inequivocabilmente come dietro la sopravvivenza di quella clausola iniqua ci fosse il tentativo della Merkel d’abbassare il livello dello scontro con il proprio ministro dell’interno». E la reazione dell’Italia, con la cancellazione della clausola? «Ha dato fuoco alle polveri – chiosa Micalessin – ma anche messo a nudo lo stato di decomposizione in cui versa ormai l’Unione».

    I paesi di Visegrad le voltano la schiena. Il falco di Baviera Horst Seehoofer è pronto a scavarle la fossa sotto i piedi. L’Italia per la prima volta prova a rivoltarlesi contro. E il Trattato di Schengen sembra a un passo dalla rottamazione. Insomma, «la cancelliera Angela Merkel e l’Europa disegnata a sua immagine e somiglianza tremano, traballano e si sgretolano». Il tutto, scrive Gian Micalessin sul “Giornale”, a meno di una settimana da un Consiglio Europeo in cui l’Unione «dovrà decidere come uscire da quella crisi dei migranti che rischia di distruggerla». Ma la resa dei conti, aggiunge Micalessin, inizia dal peccato originale: anzi, dalla “peccatrice”, cioè «da quella Angela Merkel colpevole di aver spalancato le porte a un fenomeno migratorio di cui non comprese la devastante portata». Tre anni dopo, la prima a subirne le conseguenze è proprio lei: Seehofer attacca a muso duro una cancelliera pronta a licenziarlo pur di frenare il “masterplan” anti-immigrazione con cui il falco della Csu bavarese vorrebbe respingere alla frontiera chiunque si è visto rifiutare l’asilo in un altro paese o non è in grado di esibire un documento. «Sarebbe la prima volta al mondo che uno licenzia un ministro soltanto perché si preoccupa e si prende cura della sicurezza e dell’ordine del suo paese», dichiara Seehofer.

  • L’agenda politica dei nostri nemici: commissariare l’Italia

    Scritto il 30/11/17 • nella Categoria: idee • (14)

    «C’è una campagna in atto che prelude a un commissariamento dell’Italia nei prossimi mesi. Da qui la necessità di preparare l’opinione pubblica alla svolta che ci attende: un commissariamento del paese per via finanziaria». Lo afferma Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’università Cattolica di Milano. Esplicito l’editoriale di Antonio Polito il 23 novembre sul “Corriere della Sera”: è un vero e proprio manifesto di rinuncia a quel poco che resta della nostra sovranità, sottolinea Federico Ferraù, che ha intervistato il professor Mangia per “Il Sussidiario”. «A che serve votare, se la politica è quella che vediamo? Forse è meglio rinunciarvi, e farsi governare da altri». Un articolo importante, soprattutto per cvia della testata che lo ospita. Perché votare? «Dovremmo piuttosto chiederci perché oggi si può dire ormai apertamente che votare non serve», replica Mangia. «Che senso ha esercitare un diritto, se questo esercizio non produce nessuna scelta reale?». Si inceppa perfino la democrazia tedesca, nota il “Corriere”, quella che noi avremmo dovuto imitare. E poi la Brexit, la Catalogna, l’Italia dove le urne non daranno una maggioranza. Un panorama desolante, per tutte le democrazie europee: «L’elettore esprime il suo voto scegliendo all’interno di una pluralità di liste, ma i programmi politici che possono essere realizzati da queste liste sono praticamente identici».
    Giova ricordare perché, aggiunge il giurista: tutti i partiti «sono condizionati da un’agenda politica comune alla quale non si può sfuggire», quella «scritta nei Trattati europei». Ormai si parla, senza più imbarazzo, di “emigrazione della sovranità” verso “consessi internazionali” che, per loro natura, “non possono decidere democraticamente”. Parlare di emigrazione della sovranità è sbagliato, protesta il professor Mangia: «E’ da un pezzo che nelle dichiarazioni dei nostri politici, da Napolitano in giù, si continua a ripetere che l’Italia per risolvere i suoi problemi deve cedere sovranità. E magari non sappiamo nemmeno di che cosa stiamo parlando. Convincere le persone che la sovranità va ceduta – dichiara il giurista dell’ateneo milanese – significa convincerle a rinunciare alle proprie libertà politiche». Eppure, la legge dice solo che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia”. Limitare l’esercizio di un diritto non significa cederlo: «Semplicemente, se cedo un diritto quel diritto non è più mio, ma di un altro. Non credo ci voglia una laurea in giurisprudenza per capire questa cosa».
    Purtroppo, però, l’Ue scavalca la politica: «Tutte le scelte politiche sono già cristallizzate nei Trattati e al massimo si tratta di vedere come queste scelte politiche di fondo possano essere attuate, con quali tempi e con quali meccanismi». A questo si limitano il Consiglio d’Europa e la Commissione Europea. Sul “Corriere”, Polito rilancia l’allarme populismo? «Populismo rinvia, per opposizione, alla nozione di élite: e populista è il modo in cui le élites qualificano chi contesta il loro ruolo. Se qualcuno, disgraziatamente per lui, mette in dubbio l’utilità o la legittimità di un sistema nettamente oligarchico come quello che si è andato realizzando in Europa, è pronta l’etichetta che lo squalifica». Per Alessandro Mangia, «stiamo assistendo al ritorno degli argomenti cari alla vecchia politica antiparlamentare che l’Italia ha conosciuto negli anni Venti, e che dall’Italia sono transitati in Germania prima del ‘33. Con l’aggiunta al vecchio antiparlamentarismo della teoria nata negli anni Settanta del sovraccarico democratico: troppa democrazia fa male a se stessa e alla “governabilità”.
    Gli argomenti sono sempre gli stessi: l’inefficienza della classe politica, la sua corruzione, l’incapacità di prendere decisioni». Stiamo già facendo i nostri “compiti”, ma non abbastanza: l’Italia – ha detto Napolitano – dovrebbe dar retta a Draghi su ordine fiscale e debito. «Ecco l’agenda politica. E ogni agenda politica ha bisogno di un sostegno mediatico». Aggiunge il professore: «Il martellamento continuo sulla necessaria cessione di sovranità e sulla democrazia immatura, troppo incline al populismo e la squalificazione della politica e del Parlamento, preludono a un nuovo commissariamento finanziario del paese da parte dell’Ue. L’insistenza sul debito italiano, la pressione sul sistema bancario e sui problemi di ricapitalizzazione, alla fine generano l’idea che questa soluzione sia naturale e inevitabile». Come si attua una soluzione del genere? «Si rifinanzia il bilancio pubblico o il sistema bancario del paese in difficoltà in cambio di politiche interne imperniate su “strette condizionalità”, se si vuole essere precisi e usare il linguaggio dei Trattati. Beninteso, a fronte di una ulteriore “cessione” di sovranità a chi presta i soldi. E che sta a Bruxelles, a Berlino o altrove».
    Se si sbriciola lo Stato di diritto, si svuota anche la democrazia: «Io mi domando, e spero di non essere il solo, perché mai un’Italia governata dall’esterno secondo le logiche del diritto fallimentare dovrebbe essere meglio di un’Italia governata dagli italiani attraverso il voto. E, sinceramente, non so darmi una risposta». Da una parte i tecnocrati europei, che nessuno ha eletto, e dall’altra i loro “contoterzisti” nostrani, il mainstream politico e mediatico. «Quello che vedo avvicinarsi – avverte Alessandro Mangia – è un periodo di turbolenze e di operazioni simili a quelle che abbiamo sperimentato tra il 1991 e il ‘93, stavolta però condotte secondo le logiche della Rule of law e del diritto fallimentare applicato agli Stati». Aggiunge il giurista: «Faccio fatica a credere che campagne di delegittimazione della politica e inviti più o meno velati all’astensione,  sulla base dell’argomento “in fondo a cosa serve votare?”, siano fini a se stessi». C’è chi spera, dunque, il un vasto astensionismo. Per contro, nessuno dei raggruppamenti politici in lizza minaccia minimanente di intattare lo strapotere assoluto del dogma neoliberista del rigore di bilancio.

    «C’è una campagna in atto che prelude a un commissariamento dell’Italia nei prossimi mesi. Da qui la necessità di preparare l’opinione pubblica alla svolta che ci attende: un commissariamento del paese per via finanziaria». Lo afferma Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’università Cattolica di Milano. Esplicito l’editoriale di Antonio Polito il 23 novembre sul “Corriere della Sera”: è un vero e proprio manifesto di rinuncia a quel poco che resta della nostra sovranità, sottolinea Federico Ferraù, che ha intervistato il professor Mangia per “Il Sussidiario”. «A che serve votare, se la politica è quella che vediamo? Forse è meglio rinunciarvi, e farsi governare da altri». Un articolo importante, soprattutto per via della testata che lo ospita. Perché votare? «Dovremmo piuttosto chiederci perché oggi si può dire ormai apertamente che votare non serve», replica Mangia. «Che senso ha esercitare un diritto, se questo esercizio non produce nessuna scelta reale?». Si inceppa perfino la democrazia tedesca, nota il “Corriere”, quella che noi avremmo dovuto imitare. E poi la Brexit, la Catalogna, l’Italia dove le urne non daranno una maggioranza. Un panorama desolante, per tutte le democrazie europee: «L’elettore esprime il suo voto scegliendo all’interno di una pluralità di liste, ma i programmi politici che possono essere realizzati da queste liste sono praticamente identici».

  • Farmaco, Italia beffata: tutte al Nord Europa le agenzie Ue

    Scritto il 27/11/17 • nella Categoria: segnalazioni • (10)

    Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.
    A fare la parte del leone nel computo delle agenzie sono da un lato il Benelux, triangolo fondatore dell’Unione perno del Nord Europa e incardinato nell’asse franco-tedesco: Belgio, Olanda e Lussemburgo. Poi la Francia e il satellite mediterraneo della Germania, la Spagna, che con il suo tradimento nella votazione sull’Ema ha pregiudicato il successo di Milano. Le briciole finiscono all’Italia, agli altri paesi del Mediterraneo e all’Europa dell’Est. Il risultato è un’Europa sbilenca, sbilanciata a Nord. Sulla quale aleggia un ormai maturo «basta!». Le agenzie, in 24 dei 28 paesi, ci costano 1,2 miliardi di euro, pari allo 0.8 per cento del budget europeo. Ma regalano con l’indotto una torta miliardaria ai paesi che le ospitano. A Bruxelles, che già ospita Parlamento e Commissione, ce ne sono 9, comprese l’Agenzia europea per la Difesa (Eda) e il Comitato unico di risoluzione delle crisi bancarie. Hanno base nella capitale belga il grosso delle Agenzie esecutive a tempo, da quella per le Piccole e medie imprese (Easme) a quella per l’Educazione, audiovisivo e cultura, e per la Ricerca.
    Il Lussemburgo (che già esprime il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, tedesco di formazione, lingua e affinità politica, zavorrato a sua volta da un capo di gabinetto germanico, Martin Selmayr, da molti considerato il vero presidente, più potente dello stesso Juncker) ospita l’Agenzia esecutiva Ue per i Consumatori, salute, agricoltura e cibo. Ma anche la Banca europea di investimenti. E la Corte europea di giustizia, da non confondere con la Corte per i diritti dell’uomo con sede all’Aja, Olanda, emanazione del Consiglio d’Europa che travalica gli stretti confini europei. Nei Paesi Bassi ci sono, sempre all’Aja, gli uffici Europol e Eurojust, rispettivamente per la collaborazione tra le forze di polizia e giudiziaria. Adesso, ad Amsterdam, per fare l’en plein andrà pure l’Ema, anche se il primo mattone della nuova sede dev’essere ancora gettato (investimento previsto, 250-300 milioni). Altra mattatrice la Francia, con 5 agenzie tra cui l’Esma che regola il mercato borsistico, ora pure quella che fissa le regole bancarie dopo il suicidio brexistico del Regno Unito, attribuita tramite sorteggio a Parigi per lo spareggio con l’Irlanda (Dublino).
    Parigi non si fa mancare l’Agenzia spaziale europea e quella per le Ferrovie. A Copenaghen, Danimarca, l’Agenzia per l’Ambiente. In Germania, a prima vista, solo 2 agenzie: per la sicurezza aerea e l’Autorità per le assicurazioni e pensioni aziendali e professionali. Ma vale più agenzie, a Francoforte, la Banca centrale europea (Bce), guidata dall’italiano Mario Draghi. E una sezione del Tribunale unificato dei brevetti a Monaco, strappata proprio a Milano perché l’Italia, all’epoca, si era battuta per il mantenimento dell’italiano come lingua ufficiale dell’Unione. L’altra sezione si trova a Londra: potrebbe diventare il contentino per Milano a cui si riferiva l’altro ieri Maroni? Ad Alicante, Spagna, opera l’ufficio per i marchi, la proprietà intellettuale, con uno staff di 913 persone e un budget di oltre 384 milioni. Ed è uno dei tanti, troppi (in proporzione) enti europei che si è accaparrata Madrid con la sua politica ancellare rispetto all’asse franco-tedesco, con l’Agenzia per la Pesca a Vigo, quella per la sicurezza sul lavoro, il Centro satellitare europeo, e a Barcellona lo Sviluppo dell’energia atomica. Non proprio bazzecole.
    Paradossali per dislocazione le attribuzioni della cyber-sicurezza a Creta o l’agenzia Frontex per il controllo delle frontiere Ue a Varsavia, dove i boat-people sono una leggenda esotica. La Francia beneficia inoltre dello sdoppiamento del Parlamento tra Bruxelles e Strasburgo. A proposito, qui il segretario generale e il suo vice sono entrambi tedeschi. E tedesco è il maggior numero di direttori generali della Commissione. Raccontano i funzionari Ue che ci sono riunioni del lunedì tra capi di gabinetto che istruiscono la riunione dei commissari il mercoledì, in cui tra capi e vice i tedeschi arrivano a essere 15 su 28. Sono loro le figure chiave, quelle che gestiscono i fondi dell’Unione. Cruciale la casella occupata da Gunther Oettinger al bilancio e alle risorse umane. Dal 2014 il governo italiano ha puntato su un riequilibrio, arrivando a 2 capi di gabinetto e 4 vice, più 24 italiani nei gabinetti dei commissari. Quattro i direttori generali, anzi 3 dopo che uno, Kessler, si è dimesso. Parecchi, circa il 10 per cento, i vincitori italiani ai concorsi per entrare negli organismi della Ue. Segno che i nostri giovani si fanno valere. Ma la strada per riequilibrare gli assetti è in salita.
    Le figure di spicco della burocrazia europea che parlano italiano sono Marco Buti agli Affari economici e finanziari, Roberto Viola al Mercato unico digitale e Stefano Manservisi alla cooperazione allo Sviluppo. Scarsa la nostra presenza nei gabinetti dei portafogli economici. E veniamo agli scampoli. Per restare sul tema delle agenzie, l’Italia ne conta realmente solo due (e mezzo). La Sicurezza alimentare a Parma, risultato di una battaglia all’ultimo sangue con la Finlandia, e quella (poco rilevante) per la Formazione a Torino, più il Centro per la meteorologia che si sposterà dal Regno Unito a Bologna, forte di un mega-computer. E a Varese l’Ispra, Istituto superiore per la Protezione e la ricerca ambientale. Bruscolini. Secondarie le agenzie dislocate nel resto d’Europa, nel Sud e all’Est. Siamo 28, ma il cuore e il portafogli battono a Nord. Ma l’Europa si è ristretta al Grande Benelux?
    (Marco Ventura, “Ma cosa ci stiamo a fare in Ue se si pappa tutto l’Europa del Nord?”, dal “Messaggero” del 23 novembre 2017, articolo ripreso da “Dagospia”).

    Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.

  • Web, 10 milioni di voci libere: ecco perché il Ddl Gambaro

    Scritto il 06/3/17 • nella Categoria: segnalazioni • (15)

    Se carico filmati erotici su YouTube mi chiudono l’account, se li carico su YouPorn posso fare milioni di visionamenti. Se pubblicizzo medicine che possono avere effetti dannosi è Ok, se informo sulla relazione tra vaccini e casi di autismo fuorvio l’opinione pubblica. Se insulto il Capo dello Stato su una pagina Facebook che ho aperto in Italia rischio sanzioni e galera, se lo faccio da una pagina aperta in un’altra nazione deregolata non mi succede niente. C’è qualcosa che non va. Gli estensori del Ddl Gambaro non se ne rendono conto? Strano! Nessuno può ancora pensare che noi siamo qui a discutere questioni risolvibili con leggi nazionali. Credo che siate d’accordo. La libertà e il controllo nel web, le norme che dovrebbero regolarlo, i grandi soggetti che lo hanno costruito e lo animano… e così via, sono a ogni effetto questioni e soggetti globali, quindi è meglio alzare il punto di vista dell’osservatore, il più in alto possibile, per cercare di avere una visione d’insieme di un fenomeno molto esteso, molto dinamico e complesso.
    Alle Nazioni Unite, per esempio, sin dal 1995 si pose la questione delle norme nel web. Dieci anni dopo – a seguito del debutto di YouTube, nel 2005, e poi di Facebook – una delle agenzie Onu, la International Telecommunications Union di Ginevra, cominciò a convocare tutti i soggetti interessati agli Igf, “Forum sulla Governance di Internet”. Proprio ieri si sono avviate le prime consultazioni dell’Igf 2017 a Ginevra e i lavori, in questo momento, sono in corso. Quali sono le aspettative e i risultati dopo 12 anni di incontri? Scarsi. Perché? Per tanti motivi. La materia è in costante progresso, coinvolge centinaia di trattati internazionali e contrappone gli interessi dei governi (e dei militari) a quelli dei mercanti e a quelli dei popoli. I mercanti non amano il metodo di voto dell’Onu dominato dalla presenza dei governi, quindi rallentano e impediscono le decisioni in nome della libertà di commercio e della frenetica innovazione tecnologica, e hanno fatto adottare all’assemblea il sistema multi stake holder. Questo modello di misurazione delle volontà riconosce agli stake holders, ovvero i portatori di interessi, pari peso e dignità.
    Chi sono gli stake holders? Governi, aziende (sia commerciali che tecnologiche), accademie e la società civile. Quindi, quando si tratta di decidere rispetto alla governance di Internet, un governo ha pari peso e dignità di una multinazionale. È così. Al tavolo è chiamata ad esprimersi anche la società civile, ma le sue rappresentanze non hanno fondi e spesso sono organizzate in grandi sigle internazionali che vivono ufficialmente di donazioni, ma in realtà sono interlocutori senza voce mossi da lobbisti occulti. Risultato? A parte qualche modifica dell’Icann – l’anagrafe planetaria del web, voluta dal ministero del commercio Usa, che attribuisce nomi e domini – ciò che si è ottenuto in 12 anni è stato solo il mantenimento e l’esaltazione del dialogo. Un risultato apprezzabile – dicono i liberisti – che ha consentito alla Rete di crescere, espandersi e di non spezzarzi in “N” tronconi: una rete cinese, una araba, una occidentale e così via. È così! Lo stato del dibattito è molto alto e vivace, durante gli Igf, ma non si arriva a nulla se non a fotografare ciò che i giganti del web modificano incessantemente a loro vantaggio. In sostanza la Rete (di tutti) è nelle salde mani di pochi, cosiddetti Over the Top, che ne fanno ciò che vogliono. È strano che i firmatari del Ddl Gambaro non lo sappiano.
    Passiamo all’Europa. Nel nostro continente le istituzioni preposte alla creazione di regole per il web sono apparse molto distratte, che strano!, e hanno tollerato l’insediamento dei giganti in territori fiscalmente agevolati e deregolati, quali l’Irlanda e il Lussemburgo, fino ad accorgersi recentemente che: 1) i giganti Over the Top, guarda caso, tutti originati in Usa, non pagano in Europa le tasse che dovrebbero. Secondo “Forbes”, nel 2016, si tratterebbe di cifre comprese tra 50 e 70 miliardi di euro/anno sottratti al fisco da quegli stessi soggetti ai quali qualcuno vuole affidare il controllo delle “fake news” in Rete. Strano anche questo. 2) L’Europa si è accorta anche che la Rete può essere la sede di attività losche e violente. In qualche anno si è passati dall’indignazione per gli schiaffoni in classe filmati e caricati su YouTube, alla scoperta del traffico di organi nel cosiddetto deep web e dei siti che organizzano stragi. A quel punto le istituzioni europee hanno cercato di correre ai ripari, ma non risulta che ci sia alle viste un testo di norme condivisibile da tutti gli Stati membri, pertanto ogni governo locale sta agendo in modo autonomo e diverso dagli altri.
    La vicenda del Ddl Gambaro si inscrive in questa scena. Poco più di un mese fa, il 25 gennaio 2017, l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, un organismo internazionale privo di poteri e che non ha niente a che fare con il Consiglio Europeo, ha approvato il rapporto “Media online e giornalismo: sfide e responsabilità”, presentato dalla senatrice Gambaro. Obiettivo: promuovere la disciplina dell’informazione online come avviene per quella offline, usando gli strumenti già a disposizione negli ordinamenti giuridici nazionali… e consentendo ai giganti del web l’uso di selettori software (algoritmi) per «rimuovere i contenuti falsi, tendenziosi, pedopornografici o violenti». La senatrice è tornata a casa con questa missione e che ha fatto? Il 7 febbraio ha presentato un Ddl al Senato che: ha molto poco a che vedere con il suo rapporto presentato al Consiglio d’Europa, in cui si disegnava una scena ben più ampia e complessa; sembra scritto da sacerdoti della Verità di Stato; utilizza gli ordinamenti giuridici nazionali soprattutto in chiave di repressione locale; adombra infine un sogno: la soluzione è il rilancio di un immenso Ordine dei giornalisti, disclipinati da una legge di 60 anni fa!
    Il ruolo e le responsabilità dei giganti del web non vengono mai menzionati. Strano! Eppure, lo sanno tutti, i maggiori players della vicenda Internet sono un drappello di corporations targate Usa. Tra queste: Google-YouTube (confluita in Alphabet), Facebook, Amazon, e-Bay, Yahoo, PayPal. Ognuno di loro, è stato ampiamente dimostrato, chi più chi meno, lavora alacremente a raccogliere Big Data e li passa poi ai pubblicitari e ai servizi segreti. Addirittura, per legge (il Patriot Act), li passa alla Nsa statunitense. Queste sono le loro principali ragion d’essere. Il loro ruolo, dopo una stagione di seduzione, di promesse di libertà di espressione e di uguaglianza e dopo la nascita dei social network, si è rivelato per quello che è: sono megastrutture “pompate nelle Borse”, grandi evasori fiscali, al servizio dei mercanti globali, alleate con alcuni governi e in guerra con altri. Il loro fine ultimo è concedere visibilità in cambio della gestione e del controllo della privacy, degli spazi pubblicitari e dell’e-commerce. In pochi anni hanno mutato la vita sociale, la produzione della cultura, il commercio, e hanno creato stili di vita sempre più uniformi.
    Grazie all’immenso fenomeno dei “contenuti generati dagli utenti”, ai sistemi di cross selling in rete, all’impero delle carte di credito, l’alleanza Ott–mercanti, a partire dal 2009 ha prodotto enormi risultati. Tra questi è rilevante l’avvenuta sudditanza dei media mainstream al potere, che era già in latenza ma si è conclamata, grazie alla sottrazione di risorse pubblicitarie che sono state destinate al web. Oggi nessun editore è ormai più indipendente, tutti vengono usati a sostegno della visione di potere… e forse questo è anche il motivo per cui il Ddl Gambaro li esclude dalle sanzioni? E arriviamo ai “contenuti generati dagli utenti”, i Cgu (blogs, pagine Fb, canali Yt). Credo sia la prima volta che vengono menzionati con tale dicitura – all’articolo 8 – in un Ddl. Le sanzioni e le pene sono pensate soprattutto per loro. Questo imponente fenomeno che coinvolge nel mondo 2 miliardi di utenti solo su Fb e Yt, riguarda in Italia 50 milioni di accounts. E di questi il 10% è considerabile “antagonista”. Il fenomeno non è mai stato analizzato a fondo da giuristi, economisti e politici. I Cgu hanno scardinato negli ultimi 12 anni alla radice la comunicazione di massa e quindi anche la politica e il costume. Ma ora si stanno rivelando un boomerang. Perché?
    Avendo ridotto di molto l’autorevolezza dei media tradizionali ed essendosi sostituiti ad essi in occasioni altamente strategiche grazie a testimonianze scritte e filmate imprevedibili e non controllabili, i Cgu hanno consentito la misurazione di una mente collettiva tumultuosa, non conformista, populista e non riconducibile alla divisione classica destra/sinistra. Però molto reale, attiva e determinante per l’organizzazione del consenso non solo elettorale (vedi Brexit, No alla riforma costituzionale, Trump e il dibattito su Europa matrigna, euro, signoraggio bancario, debito predatorio). Quindi il potere cerca di correre ai ripari. La domanda è: perchè non c’è stato il setaccio alle origini? Perchè non ci doveva essere. Almeno nella fase in cui gli Ott hanno usato i Cgu per raggiungere alcuni obiettivi prima impensabili, tra i quali la sudditanza generalizzata. Per diventare sudditi e partecipare all’orgia digitale bastava e basta un semplice “I accept”… “Io accetto le norme di chi mi ospita”. Oggi, però, su pressione di alcuni governi e potentati, gli Ott stanno cominciando a “setacciare”… tanto, gli obiettivi delle origini sono per loro stati raggiunti, i Big Data sono stati accumulati, la pubblicità ingannevole dilaga a costi minimi per gli inserzionisti; il mainstream è asservito, centinaia di milioni di umani vengono veicolati all’acquisto di merci e servizi di massa, globalizzati e inquinanti. I mercanti hanno vinto, ora “selezionano” le truppe digitali che appaiono non ossequiose.
    Accenniamo ora all’evanescente concetto di “fake news”, bufale, notizie vero/falso… questo tipo di comunicazione esiste da sempre (dai tempi di Nerone, dai tempi di Giordano Bruno). La novità è che la rete è un enorme amplificatore di tutto, quindi anche di “fake news”, le sue caratteristiche di velocità e ubiquità e possibile anonimità, la rendono una dimensione in cui il vero e il falso possono coincidere nello stesso spazio tempo. Questo determina aspetti politici e sociali inaspettati. Quando il potere planetario, organizzato nelle sue diverse aree di influenza, nonostante abbia sottratto sovranità ai governi locali, si accorge che i media al suo servizio non sono in grado di raggiungere un’organizzazione del consenso per esso soddisfacente; quando si accorge che esistono sacche quali Wikileaks e Anonimous e milioni di Cgu che sono incontrollabili e destabilizzanti, il potere planetario si innervosisce e tira le orecchie ai governi locali lanciando una semplice parola d’ordine, “meno libertà e più controllo… datevi da fare, ognuno sul proprio territorio”. E così si mette in moto la macchina del controllo e talvolta, come nel caso del Ddl Gambaro, va fuori strada e diventa la macchina della repressione.
    I firmatari tentano di addolcire la pillola con le proposte di alfabetizzazione e promozione dell’uso critico dei media online. Bene! Oltre che nelle scuole secondarie (se mai la faranno) la facessero in prima serata sulle reti Rai, visto che tanto paghiamo sempre noi. Ma diciamoci una verità: perchè il Ddl Gambaro non menziona e reprime le bufale diffuse dalla pubblicità e dai media mainstream? Perchè non controlla e reprime le migliaia di “fake news” che ogni giorno circolano in Rete mascherate da suggerimenti per fare affari nelle Borse? O addirittura per salvare i risparmi di una vita, mettendoli in realtà a rischio? Queste sì che sono fake news destabilizzanti. Eccome! Noi però non possiamo dimenticare che «la democrazia punisce i fatti compiuti mentre è la dittatura che punisce le opinioni».
    (Glauco Benigni, “I grandi mercanti del web ora vogliono setacciare gli utenti”, da “Megachip” del 3 marzo 2017. Benigni è presidente di Wac, Web Activists Community).

    Se carico filmati erotici su YouTube mi chiudono l’account, se li carico su YouPorn posso fare milioni di visionamenti. Se pubblicizzo medicine che possono avere effetti dannosi è Ok, se informo sulla relazione tra vaccini e casi di autismo fuorvio l’opinione pubblica. Se insulto il Capo dello Stato su una pagina Facebook che ho aperto in Italia rischio sanzioni e galera, se lo faccio da una pagina aperta in un’altra nazione deregolata non mi succede niente. C’è qualcosa che non va. Gli estensori del Ddl Gambaro non se ne rendono conto? Strano! Nessuno può ancora pensare che noi siamo qui a discutere questioni risolvibili con leggi nazionali. Credo che siate d’accordo. La libertà e il controllo nel web, le norme che dovrebbero regolarlo, i grandi soggetti che lo hanno costruito e lo animano… e così via, sono a ogni effetto questioni e soggetti globali, quindi è meglio alzare il punto di vista dell’osservatore, il più in alto possibile, per cercare di avere una visione d’insieme di un fenomeno molto esteso, molto dinamico e complesso.

  • Ha vinto l’Ue, nemica dell’Europa. Non c’è più niente da fare

    Scritto il 16/8/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    La stanca riproposizione del mantra dell’unità politica del continente scansa accuratamente di misurarsi con l’esame clinico obiettivo delle condizioni del progetto. Si tratta di qualcosa di ancora vitale o no? Perché, a sessanta anni dal fallimento del primo progetto di unificazione politica dell’Europa, la Ced, si è sviluppata una crescente integrazione economica e poi monetaria, ma l’unificazione politica si è definitivamente insabbiata? Ci sono stati certamente fattori oggettivi (per tutti: l’irrisolto problema linguistico) ma ci sono stati anche ostacoli soggettivi. Ed allora, chi sono stati (e chi sono tutt’ora) i nemici dell’unione politica europea? Iniziamo dai nemici interni. In primo luogo, ovviamente, i ceti politici nazionali, a parole tutti europeisti ferventi (Inghilterra a parte), ma in concreto preoccupatissimi di perdere potere e ridursi al rango di ceto politico regionale. E al primo posto c’è il governo tedesco, che con questi equilibri fa quello che vuole, ma con un potere centralizzato vedrebbe fatalmente ridursi il suo potere e, soprattutto, a quel punto la moneta sarebbe davvero la moneta dell’Unione e non il marco in uno dei suoi più riusciti travestimenti.
    A partire dalla bocciatura della Comunità Europea di Difesa, decretata dal Parlamento francese nel 1955, le classi politiche nazionali hanno costantemente ostacolato qualsiasi progetto di integrazione politica e militare. Persino cose innocue e simboliche come la brigata franco-tedesca, sono state lasciate morire nel silenzio. In questo quadro i più attivi affossatori del progetto europeista sono stati i diplomatici, che hanno speso le loro migliori energie per costruire una cattedrale barocca priva di qualsiasi slancio vitale e la riprova venne con il cosiddetto Trattato che adotta una Costituzione Europea di cui si parlò come di “una Costituzione senza Stato” (quindi sempre con l’idea di non dare vita ad uno Stato europeo) che, se ci si pensa su, è una cosa di totale inutilità. Per di più era un testo illeggibile, lunghissimo (600 pagine: non esiste nessuna Costituzione così lunga in tutto il sistema solare), incoerente, complicato e fatto in modo che non avrebbe mai potuto funzionare. Un capolavoro di sabotaggio riuscitissimo.
    Poi la cosa fu completata dai referendum di Francia e Paesi Bassi. E si capisce perché: in una Europa unita politicamente, non ci sarebbe alcun bisogno di 27 ministeri degli esteri, centinaia di ambasciate reciproche e migliaia nel mondo, basterebbe un’unica diplomazia europea ed uffici di rappresentanza degli ex Stati membri. Cioè un trentesimo dell’attuale personale diplomatico. E gli altri 29 che fanno? E che dire dei comandi militari? Di 28 stati maggiori dovremmo farne uno, poi anche la distribuzione delle forze nazionali sfuggirebbe alle dinamiche delle singole corporazioni militari. E questi sono nemici particolarmente forti, perché trovano nella Nato uno strumento di condizionamento in più. Il minimo che ci si possa attendere è che anche loro cerchino di sabotare il sabotabile. Allora diciamo che questi sabotaggi sono stati un aspetto della nobile lotta in difesa dell’occupazione.
    Poi, dalla diplomazia e dagli apparati tecnocratici nazionali è sorta l’ “eurocrazia”, l’enorme e pagatissimo apparato che fra Bruxelles, Strasburgo e Francoforte, ha in mano gli affari dell’Unione. Un apparato che, naturalmente, non ha nessun interesse ad avere alcuna autorità politica che lo controlli e diriga la politica europea. La Commissione è praticamente ostaggio di questo apparato che fa il bello ed il cattivo tempo e del Consiglio, con le sue presidenze semestrali, non parliamo nemmeno. E questo apparato, ovviamente, è un altro nemico giurato dell’unità politica del continente. Poi c’è il caso particolare della Bce, un ente di natura privatistica che raccoglie le banche centrali che, a loro volta, hanno board in buona parte composti dai rispettivi grandi enti bancari. Insomma, la creme del ceto finanziario europeo che può fare quel che gli pare senza dar conto a nessuna autorità politica, salvo il governo di Berlino. E dunque, un altro ente interessatissimo a non avere fra i piedi un potere politico centrale.
    All’elenco, ovviamente, non può mancare quella specie di circo equestre del Parlamento di Strasburgo che se la spassa fra doratissimi ozi. Ma si può tenere un Parlamento che dedica il suo tempo a stabilire quale debba essere il diametro minimo delle vongole, quale la misura media dei cetrioli, o le misure standard e la posizione dei bagni delle case di civile abitazione in tutta Europa? Un Parlamento terreno di pascolo di tutte le lobbies continentali che decidono che si possa fare il cioccolato senza cacao e l’aranciata senza succo d’arancia e come debba essere la confezione dei farmaci, perché occorre fare favori alle grandi industrie alimentari tedesche e francesi, o alla lobby del design industriale. Ogni tanto si affaccia qualche scandalo, subito sopito perché non c’è una magistratura europea che possa vigilare sulla corruzione a Strasburgo, ma state tranquilli che il giorno in cui fosse possibile farlo, il centro del malaffare europeo sarebbe individuato a Strasburgo e persino le amministrazioni di Napoli o Marsiglia sembrerebbero fulgidi esempi di oculata amministrazione. A leggere l’elenco delle decisioni del Parlamento Europeo ci sarebbe da ammazzarsi dalle risate se non ci fosse da piangere.
    Dunque c’è una grande alleanza fra ceti politici nazionali, tedeschi e inglesi in testa, stati maggiori, tecnocrazia, Bce, Parlamento Europeo il cui grande nemico è l’unione politica europea, ma, siccome non sarebbe carino dirlo, tutti continuano a recitare la parte di ferventi fautori del sogno di Altiero Spinelli, di Cattaneo, di Mazzini, di Monnet… Tutto quello che è stato fatto è all’insegna del finto: come per l’“inno muto”, i disegni delle banconote che riproducono opere d’arte inesistenti, la finta integrazione universitaria, ecc. L’Unione Europea, oggi è solo un’immensa scenografia di tela e cartapesta. Poi ci sono i nemici esterni, in primo luogo gli americani, che hanno interesse ad una Europa immenso mercato unificato, utile ad operazioni come il Ttip, ma che ovviamente non hanno alcun interesse ad una Europa politica che si mette in testa di giocare la partita in proprio e magari scioglie la Nato. Credo possa bastare, questo è il quadro dei nemici che hanno fatto la guerra all’unità politica d’Europa. L’hanno fatta e l’hanno vinta. Non c’è più niente da fare.
    (Aldo Giannuli, “Perché l’Europa unita non si fa e non si farà? I nemici d’Europa”, dal blog di Giannuli del 1° agosto 2015).

    La stanca riproposizione del mantra dell’unità politica del continente scansa accuratamente di misurarsi con l’esame clinico obiettivo delle condizioni del progetto. Si tratta di qualcosa di ancora vitale o no? Perché, a sessanta anni dal fallimento del primo progetto di unificazione politica dell’Europa, la Ced, si è sviluppata una crescente integrazione economica e poi monetaria, ma l’unificazione politica si è definitivamente insabbiata? Ci sono stati certamente fattori oggettivi (per tutti: l’irrisolto problema linguistico) ma ci sono stati anche ostacoli soggettivi. Ed allora, chi sono stati (e chi sono tutt’ora) i nemici dell’unione politica europea? Iniziamo dai nemici interni. In primo luogo, ovviamente, i ceti politici nazionali, a parole tutti europeisti ferventi (Inghilterra a parte), ma in concreto preoccupatissimi di perdere potere e ridursi al rango di ceto politico regionale. E al primo posto c’è il governo tedesco, che con questi equilibri fa quello che vuole, ma con un potere centralizzato vedrebbe fatalmente ridursi il suo potere e, soprattutto, a quel punto la moneta sarebbe davvero la moneta dell’Unione e non il marco in uno dei suoi più riusciti travestimenti.

  • Europa, la democrazia è finita: Draghi lo ricorda a Tsipras

    Scritto il 12/2/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Non chiamatele pressioni, sono ricatti. Non parlate di separazione di poteri, al vertice dell’Unione Europea non esistono. Sto parlando, ovviamente, del trattamento che “l’Europa” sta riservando alla Grecia. Quando la Banca centrale europea annuncia che non accetterà più i titoli pubblici greci a garanzia dei prestiti bancari, compie un gesto politico, dalla forza dirompente, paragonabile a un atto militare. Di fatto priva le banche di liquidità, ed è come se si riducesse l’ossigeno a un paziente reduce da una lunga malattia. Gli spin doctor della Bce hanno presentato la decisione alla stregua di “pressioni” sul governo greco; in realtà è una forma di ricatto, che dimostra, ancora una volta, come in questa Europa la democrazia sia più formale che sostanziale e come la volontà popolare non abbia possibilità di affermazione non appena contrasta con gli interessi e i piani delle élite europee. Fuor di metafora: Draghi ha messo Tsipras con le spalle al muro: se persiste sulla strada della rinegoziazione del debito, le banche greche, nel giro di poche settimane o forse di pochi giorni, si troveranno senza fondi, alcune chiuderanno, la gente assalirà, inutilmente, bancomat e sportelli, l’economia si fermerà.
    A quel punto Tsipras avrà di fronte a sé due alternative: rompere definitivamente e uscire dall’euro o chinare la testa. Secondo voi come finirà? L’effetto, se questo scenario dovesse realizzarsi, sarebbe disastroso per la nostra democrazia: dimostrerebbe che i vari Syriza, Podemos, eccetera non hanno alcuna possibilità di realizzare le proprie promesse elettorali e che ai popoli europei non resta in realtà che una scelta: applicare i diktat della Troika con un premier di centrosinistra o applicare i diktat della Troika con un premier di centrodestra. Cambia l’etichetta, non la sostanza. Nell’Europa di oggi, chi controlla la moneta, ovvero l’euro, di fatto rappresenta il potere più forte, condizionante in quanto ostativo, di tutte le istituzioni nazionali ed europee. Un potere che è assoluto. A chi risponde la Bce? A nessuno. Qual è il contropotere della Bce? Non esiste. Chi può giudicare la Bce? Nessun tribunale, la Banca centrale beneficia di fatto di un’immunità assoluta. Ma, vien da pensare, concetti che pensavamo sacri come la tripartizione dei poteri, la sovranità popolare? Spariti in un colpo.
    Non contano più, perché con la pretesa di proteggere la banca dalle interferenze dei politici, si è di fatto creato un feudo senza precedenti che ha potere di vita, di sofferenza (tanta sofferenza) e di morte su tutti i cittadini europei. Con la consueta dose di ipocrisia: all’indomani del voto in Grecia il presidente della Bce Mario Draghi, della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, del Consiglio Donald Tusk e dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem si sono riuniti per esaminare la situazione e coordinare la risposta. Scusate, sarò un po’ tonto: ma se la Banca centrale europea deve essere immune dall’influenza dei politici, perché deve coordinarsi con istituzioni politiche? Draghi non dovrebbe immischiarsi di questioni politiche e men che meno partecipare a decisioni che, in una vera democrazia, spetterebbero ai rappresentanti del popolo. E invece l’indipendenza vale solo verso i politici nazionali, non ai vertici dell’Unione Europea e non solo perché essi non hanno piena legittimità popolare. I leader politici, economici, monetari dell’Unione Europea condividono un disegno, un progetto, un metodo di gestione del potere. A quei livelli le barriere non contano. Bisogna mantenere la rotta. E dimostrare a tutti i cittadini europei che il destino è segnato.
    (Marcello Foa, “Grecia e Bce, avete capito o no chi governa davvero?”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 7 febbraio 2015).

    Non chiamatele pressioni, sono ricatti. Non parlate di separazione di poteri, al vertice dell’Unione Europea non esistono. Sto parlando, ovviamente, del trattamento che “l’Europa” sta riservando alla Grecia. Quando la Banca centrale europea annuncia che non accetterà più i titoli pubblici greci a garanzia dei prestiti bancari, compie un gesto politico, dalla forza dirompente, paragonabile a un atto militare. Di fatto priva le banche di liquidità, ed è come se si riducesse l’ossigeno a un paziente reduce da una lunga malattia. Gli spin doctor della Bce hanno presentato la decisione alla stregua di “pressioni” sul governo greco; in realtà è una forma di ricatto, che dimostra, ancora una volta, come in questa Europa la democrazia sia più formale che sostanziale e come la volontà popolare non abbia possibilità di affermazione non appena contrasta con gli interessi e i piani delle élite europee. Fuor di metafora: Draghi ha messo Tsipras con le spalle al muro: se persiste sulla strada della rinegoziazione del debito, le banche greche, nel giro di poche settimane o forse di pochi giorni, si troveranno senza fondi, alcune chiuderanno, la gente assalirà, inutilmente, bancomat e sportelli, l’economia si fermerà.

  • Voto europeo inutile, non ci sono alternative al regime

    Scritto il 18/5/14 • nella Categoria: idee • (4)

    «Chi vota avvelena anche te, digli di smettere». Antonio De Martini è fra quanti rivendicano il diritto all’astensione come gesto politico legittimo e significativo, in assenza di democrazia reale. «Non c’è italiano che abbia fino ad oggi avuto il coraggio di ammettere quel che tutti sanno, ossia che la Repubblica ha cessato di esistere trent’anni or sono, che siamo in un regime senza alternative da almeno vent’anni, e che il regime sta diventando monopartitico e consociativo da almeno tre anni». La verità? «Non sanno come uscirne: non c’è un solo personaggio, rispettabile», disposto ad ammettere che «questa è la caricatura di una democrazia, il fantasma di una repubblica, la parodia di uno Stato». Il solo movimento di opposizione? «La magistratura che continua a fare il suo dovere, con le note eccezioni». Che ci sia «una continuità transpartitica e criminale in questo regime – un fil rouge –  è stato dimostrato dai recentissimi arresti di Milano per corruzione, in pubblici appalti i cui protagonisti sono gli stessi della tornata di Tangentopoli 1992 (un nome imposto alla stampa per sdrammatizzare i reati)».
    In un intervento sul “Corriere della Collera”, ripreso da “Come Don Chisciotte”, De Martini accusa il presidente Napolitano, ricordando che all’epoca di Mani Pulite era a capo della corrente “migliorista” del Pci, quella «più colpita dalla Tangentopoli 1992», che affondò la dirigenza milanese del partito, capitanata da Barbara Pollastrini e Gianni Cervetti. Oggi, di fronte allo scandalo Expo, il capo dello Stato «usa il suo supremo magistero per rassicurare i cittadini che l’incidente non avrà conseguenze sull’afflusso degli elettori alle elezioni europee». Protesta De Martini: da Napolitano «non una parola sul reato, sulla mancanza di distinzioni politiche tra i ladri e non una parola sui ricettatori che sono impegnati nelle elezioni europee, non una parola per chiedere di rivedere i meccanismi di controllo. Non una promessa di giustizia». Uno scenario che denota «miseria morale e umana» e fotografa la «meschina preoccupazione» della casta politica, al timone dell’Italia che affonda dopo aver ceduto la sua sovranità ai “signori dello spread”, i padroni dei mercati finanziari.
    «Ormai – continua De Martini – le elezioni europee sono state scelte come elemento di disinformazione principale per distrarre gli elettori e come pretesto per condurre una campagna contro il movimento di Beppe Grillo», in cui peraltro De Martini non nutre fiducia: «La sua irrilevanza a livello europeo apparirà evidente dopo il risultato: anche se ottenesse tutti i seggi a disposizione dell’Italia (73), verrebbe annegato tra i rappresentanti degli altri 27 paesi che costituiscono l’Unione (750)». Marine Le Pen? Annunciata come grande moralizzatrice, secondo “Le Monde Diplomatique” non ha mai superato l’8% a livello nazionale. A monte, pesa la grande menzogna sulle elezioni europee, strombazzata da uno slogan pubblicitario martellante: “Scegli tu chi guiderà l’Europa”. «Niente di più falso», replica De Martini. «La tenzone tra Juncker e Schultz è falsa come un biglietto da tre euro. Il presidente della Ue non viene scelto dal Parlamento, bensì dal Consiglio, il quale può benissimo – l’ha già fatto – non tenere conto del risultato elettorale nella scelta del presidente».
    Mentre in tutta Europa «le elezioni europee vengono viste come un evento secondario, caratterizzato da una affluenza decrescente che non influisce sulla politica nazionale», in Italia invece si dice il contrario. Secondo De Martini, parlano i numeri: in Francia l’astensionismo è crescente dal 2009 in poi ed è previsto che aumenti ancora. In Italia, dal 14% di astensioni dal voto del 1976 siamo passati al 50 % delle scorse elezioni, per non parlare del 52% raggiunto alle elezioni siciliane. In Spagna, aggiunge il blogger, la crisi «non favorirà certo l’affluenza al voto», mentre l’Inghilterra l’anno prossimo «farà un referendum per andarsene dalla Ue», e nel frattempo «Romania e Bulgaria sono in stato di allarme per l’Ucraina». Da noi, aggiunge De Martini, le elezioni vengono richieste a furor di popolo solo alle comunali di Roma, perché il sindaco Marino «ha rifiutato di accettare il piano-mazzette proposto dalla sua maggioranza e pretende che nessuno rubi». Sicché esiste «una concordia da larghe intese per sostituirlo al più presto», tenendo conto che nella coalizione c’è anche «il principale quotidiano cittadino, di proprietà di un gruppo che avrebbe in appalto la costruzione del metrò su cui il sindaco ha avuto la pretesa di indagare».
    Per De Martini, «il risultato delle elezioni europee – previa martellante campagna statale per la partecipazione e previa elargizione di 80 euro al popolino – serve a consentire che  l’esperienza governativa di Matteo Renzi e compagnia possa definirsi democratica almeno nella versione rosé, utile a non incuriosire troppo qualche legalitario residuo». Secondo il “Corriere della Collera”, la scelta non esiste: «Berlusconi e Renzi sono tanto simili da sembrare padre e figlio», mentre un successo di Grillo non basterebbe a dare uno scossone al sistema. «La pura verità è che l’astensione dal voto è il solo strumento democratico utile da usare da parte dei cittadini che non vogliano ricorrere alla violenza per ristabilire la legalità e attirare l’attenzione del mondo». Votare alle europee? «Serve solo a legittimare cambiamenti di quote nella ripartizione del bottino». E se poi il dibattito si allarga ora anche agli euroscettici, il remie Ue «se ne avvantaggerebbe, e avrebbe la pretesa di rappresentare tutti, anche i contrari», acquisendo più forza nell’imporre «i suoi dogmi di austerity».

    «Chi vota avvelena anche te, digli di smettere». Antonio De Martini è fra quanti rivendicano il diritto all’astensione come gesto politico legittimo e significativo, in assenza di democrazia reale. «Non c’è italiano che abbia fino ad oggi avuto il coraggio di ammettere quel che tutti sanno, ossia che la Repubblica ha cessato di esistere trent’anni or sono, che siamo in un regime senza alternative da almeno vent’anni, e che il regime sta diventando monopartitico e consociativo da almeno tre anni». La verità? «Non sanno come uscirne: non c’è un solo personaggio, rispettabile», disposto ad ammettere che «questa è la caricatura di una democrazia, il fantasma di una repubblica, la parodia di uno Stato». Il solo movimento di opposizione? «La magistratura che continua a fare il suo dovere, con le note eccezioni». Che ci sia «una continuità transpartitica e criminale in questo regime – un fil rouge –  è stato dimostrato dai recentissimi arresti di Milano per corruzione, in pubblici appalti i cui protagonisti sono gli stessi della tornata di Tangentopoli 1992 (un nome imposto alla stampa per sdrammatizzare i reati)».

  • Voto inutile, D’Andrea: la truffa delle europee 2014

    Scritto il 31/3/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Vi hanno raccontato che queste elezioni europee saranno decisive per il futuro del continente prostrato dall’austerity? Sperare di cambiare le cose con il voto di maggio è una pia illusione, sostiene Stefano D’Andrea, perché chi esibisce propositi bellicosi contro Bruxelles in realtà non ha un vero programma, e perché – soprattutto – il Parlamento Europeo non conta niente. Boicottare le elezioni? Non occorrono appelli: l’astensionismo è in crescita costante. Se non altro, scrive D’Andrea su “Appello al popolo”, rinunciare alle urne può contribuire a delegittimare ulteriormente l’Unione Europea, in attesa che si “estingua” da sola, nell’unico modo possibile: cioè l’uscita unilaterale di uno dei paesi-cardine, come la Francia di Marine Le Pen o l’Inghilterra, che ha già messo in agenda un referendum per scegliere se restare o meno nell’istituzione comunitaria.
    Se appare ormai evidente l’insostenibilità economica e democratica dei trattati-capestro europei, da Maastricht al Fiscal Compact, il blogger ricorda che «sono gli Stati dell’Unione che possono modificare i trattati, non i cittadini attraverso i loro rappresentanti eletti in Parlamento», che ha poteri paragonabili a quelli del collegio sindacale di un’azienda, non certo dell’assemblea degli azionisti. Per l’approvazione del bilancio annuale dell’Ue, Strasburgo «non ha effettivi poteri, perché la richiesta unanimità dei membri del Consiglio impone di trovare l’accordo a livello intergovernativo». Idem per la funzione legislativa: «La regola è che “un atto legislativo dell’Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione, salvo che i Trattati non dispongano diversamente”. Quindi il Parlamento “legifera” ma ha una limitata iniziativa: in linea di principio legifera su impulso della Commissione. E comunque quando legifera, lo fa per per attuare i trattati».
    Quanto alle procedure di “revisione ordinaria”, oltre che dal Parlamento Europeo, un progetto di modifica «può essere presentato da qualsiasi Stato membro, dalla Commissione e dal Consiglio», il cui potere è invece vincolante: «Il Consiglio Europeo, a maggioranza semplice, decide se è opportuno procedere alle modifiche proposte: può quindi decidere che non sia opportuno. Basta dunque che la maggioranza degli Stati, ossia dei governi, sia contraria alla modifica proposta, che la procedura di revisione nemmeno inizia». E dato che l’Unione Europea è una organizzazione internazionale fondata sui trattati, «le modifiche dei trattati implicano sempre l’unanimità nel Consiglio europeo», ovvero «il consenso di tutti i governi o capi di Stato». Brutte notizie, dunque, per i “sovranisti”, cioè «coloro che intendono riconquistare la sovranità», per ridefinire su basi eque e democratiche la partnership tra Stati europei. Dunque: «Un partito che avesse una posizione politica chiaramente sovranista che si presenta a fare alle elezioni del Parlamento Europeo?».
    Sulle barricate contro Bruxelles c’è ad esempio la Lega Nord, ostile essenzialmente all’euro. Tesi: «Si può “recedere da alcuni articoli dei trattati” e segnatamente dalle norme che riguardano l’unione monetaria e assumere, secondo la propria volontà, la posizione che oggi hanno l’Inghilterra e la Danimarca, ovvero mutare la posizione dell’Italia da Stato con l’euro a Stato con deroga». Secondo D’Andrea, «se mai l’Italia assumesse unilateralmente questa decisione di rottura dell’ordine giuridico europeo, il rischio di conflitti diplomatici, commerciali e giurisdizionali sarebbe molto maggiore che non in caso di recesso dai trattati». In ogni caso, aggiunge il blogger, i partiti che sostengono questa posizione «non hanno alcuna ragione per candidarsi alle elezioni europee (salvo voler consolidare il potere, eleggere deputati e prendere rimborsi). In che modo, infatti, entrando nel Parlamento Europeo, la Lega agevolerebbe la realizzazione dell’obiettivo politico che essa dichiara di perseguire, il quale implica una decisione del governo nazionale? I deputati europei non potrebbero apportare alcun contributo all’obiettivo prefissato».
    Poi ci sono il Movimento 5 Stelle e la “Lista Tsipras”, che intendono candidarsi a Strasburgo per “modificare” i trattati. «Questi due gruppi politici non intendono né recedere dall’Unione Europea, né recedere dal solo euro, bensì modificare i trattati», a cominciare dal Fiscal Compact. Attenzione: anche nel caso (improbabile) in cui il Parlamento Europeo dovesse votare a maggioranza la richiesta di abolizione del “patto fiscale”, quel voto potrebbe essere «vanificato e mortificato dal Consiglio Europeo a maggioranza semplice, nonché modificato (nel contenuto del progetto) dalla Convenzione nella raccomandazione e stravolto discrezionalmente dalla Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri». L’assemblea degli eurodeputati – l’unica struttura democratica dell’Ue, eletta dai cittadini – non ha il potere di modificare i trattati. «Che senso ha, dunque, che un partito o movimento che è critico nei confronti dei trattati europei e voglia modificarli si candidi al Parlamento Europeo? Questo partito prende in giro gli elettori o è diretto da incompetenti. Eleggere parlamentari europei non serve assolutamente a nulla per raggiungere l’obiettivo dichiarato».
    «I trattati europei – conclude D’Andrea – saranno modificati soltanto quando la Francia, l’Italia, l’Inghilterra, la Germania o forse la Spagna recederanno e recedendo costringeranno le controparti ad addivenire a modifiche sostanziali dei trattati, sempre che lo Stato recedente desideri la modifica dei trattati». Rispetto all’Ue, gli Stati «cooperano come il lavoratore subordinato al datore di lavoro», perché a Bruxelles «la cooperazione è l’ideologia per ingannare gli ingenui». Quindi, non si scappa: chi vuol veramente modificare i trattati europei deve prima «conquistare il potere all’interno dello Stato nazionale». Meglio boicottare le elezioni, se poi i parlamentari europei saranno chiamati sostanzialmente ad attuare quei trattati. «L’unica vera ragione per la quale M5S, Lega e lista Tsipras si candidano alle elezioni europee è di ottenere visibilità, posti da deputato, finanziamenti e successo da spendere sul piano politico nazionale». Chi tifa per l’astensionismo ha di che sperare: nel 2009 votò solo il 43% dei cittadini europei, in Italia il 65%. Il vero successo dei sovranisti e di coloro che intendono modificare i trattati europei, dice D’Andrea, sarebbe abbassare ulteriormente l’affluenza italiana, al di sotto del 50%.

    Vi hanno raccontato che queste elezioni europee saranno decisive per il futuro del continente prostrato dall’austerity? Sperare di cambiare le cose con il voto di maggio è una pia illusione, sostiene Stefano D’Andrea, perché chi esibisce propositi bellicosi contro Bruxelles in realtà non ha un vero programma, e perché – soprattutto – il Parlamento Europeo non conta niente. Boicottare le elezioni? Non occorrono appelli: l’astensionismo è in crescita costante. Se non altro, scrive D’Andrea su “Appello al popolo”, rinunciare alle urne può contribuire a delegittimare ulteriormente l’Unione Europea, in attesa che si “estingua” da sola, nell’unico modo possibile: cioè l’uscita unilaterale di uno dei paesi-cardine, come la Francia di Marine Le Pen o l’Inghilterra, che ha già messo in agenda un referendum per scegliere se restare o meno nell’istituzione comunitaria.

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