Archivio del Tag ‘contrabbando’
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Vittima del caso Epstein anche Andrea, lo chef di Cipriani?
E’ collegato al caso Epstein lo strano omicidio dello chef italiano di Cipriani Dolci a New York? Conosceva verità imbarazzanti il giovane Andrea Zamperoni, ritrovato (o fatto ritrovare) privo di vita in un ostello malfamato, frequentato da prostitute e spacciatori, cinque giorni dopo la sua scomparsa? Il cadavere era al primo piano del Kamway Lodge, un ostello del Queens, scrive il “Corriere della Sera” il 23 agosto. Lo stesso quartiere dove Zamperoni, 33 anni, abitava. Era il capo chef del ristorante Cipriani della Grand Central. Enorme lo stupore per la tragedia: la vittima è descritta come un ragazzo serio, corretto, straordinariamente mite e cordiale. Qualcuno temeva che potesse rivelare dettagli esplositivi agli investigatori che stanno ricostruendo i retroscena dell’impero criminale del finanziere pedofilo Jeffrey Epstein, trovato morto il 10 agosto nella sua cella del carcere di Manhattan? L’accostamento tra Epstein e il marchio Cipriani, ricorda la ricercatrice italiana Lara Pavanetto, emerge dall’agenda dello stesso Epstein. Ma c’è di più: Ghislaine Maxwell, la factotum del finanziere amico dei potenti, ha lanciato uno strano messaggio: esibendo il volume “Il libro dell’onore, vite e morti segrete degli agenti della Cia”, lascia capire che Epstein, ricattando uomini di Stato per le loro “debolezze”, probabilmente svolgeva un ruolo cruciale per l’intelligence.Inseguita inutilmente in tutta l’America, la Maxwell s’è fatta fotografare in un fast food di Los Angeles con un libro aperto sul tavolo: si tratta di “The book of The Book of Honor”, sottotitolo “The Secret Lives and Deaths of Cia Operatives”, scritto da Ted Gup e pubblicato da Paperback nel 2001. Sulla pagina Amazon, compare una recensione postata il 15 agosto a firma G.Maxwell: «Un mio caro amico – si legge – è morto di recente in circostanze molto tragiche». A parlare è Ghislaine Maxwell? «Ho acquistato questo libro su consiglio di un amico e non sono più riuscita a smettere di leggerlo», continua il messaggio: «Lo leggo anche mentre porto a spasso il cane e mentre mangio al fast food». Ad avvalorare l’identità della commentatrice sembra essere la Maxwell stessa, che si è fatta ritrarre – in posa, dal “New York Post” – proprio ai tavoli di un ristorante di quel genere. «Questo libro – continua il testo su Amazon – mi ha aiutata a capire che il mio amico credeva davvero in qualcosa, e che dare la vita per la Cia, l’Nsa, l’Fbi, il Mossad o altre agenzie di intelligence è davvero una vocazione più elevata, e non qualcosa per cui piangere».La 57enne, figlia minore del magnate dell’editoria Robert Maxwell, era la “migliore amica” di Epstein. Protagonista dei salotti newyorkesi, era conoscente di Trump, dei Clinton e del principe Andrea. Laureata a Oxford, era stata fotografata con l’ex sindaco di New York,Michael Bloomberg e con Elon Musk. Tre sono state le ragazze che l’hanno accusata di aver fatto da tramite con Epstein per gli abusi, offrendo loro un lavoro come assistente personale per poi trasformarle in schiave sessuali. «Nell’agenda di Epstein sono venuti fuori anche nomi di imprenditori italiani: il solito Briatore, poi il magnate della ristorazione Cipriani, il fondatore e presidente della Investindustrial Andrea Bonomi», dice Lara Pavanetto nella trasmissione web-radio “Forme d’Onda”. La stessa Pavanetto però precisa: «La cosa è indicativa fino a un certo punto, perché nell’agenda del finanziere ci sono moltissimi nomi: era in tutti gli ambienti, Epstein, e forse frequentando certi ambienti era impossibile non incontrarlo, a quanto pare, malgrado fosse segnalato dal 2007 e condannato per abusi sessuali su minori».Certo, colpisce che in quell’agenda compaia anche il nome di Cipriani, e che proprio lo chef di Cipriani a New York possa aver fatto una fine così tragica e così strana, a pochi giorni dalla “comoda” scomparsa di Epstein (ufficialmente archiviata come suicidio) alla vigilia di un processo che si sarebbe trasformato in una bomba per politici di mezzo mondo. Non si è dunque suicidato, Epstein? Si è “sacrificato” per «dare la vita per la Cia, l’Nsa, l’Fbi, il Mossad o altre agenzie di intelligence», come scrive “G.Maxwell”? Strano poi che Ghislaine si sia fatta fotografare in un ristorante, proprio mentre a New York non si parlava che della scomparsa di un personaggio legato anch’esso alla ristorazione. Pare che il corpo di Andrea Zamperoni fosse avvolto in una coperta, scrive il “Corriere”. «La polizia è stata avvisata da una telefonata di un informatore. Secondo le prime ricostruzioni, gli agenti al loro arrivo sarebbero stati accolti da una donna nuda che gridava indicando il corpo: “È lì”». Alcuni ospiti dell’ostello, secondo la “Cbs” era un luogo noto nel giro della droga e della prostituzione, hanno raccontato alla polizia di una lite scoppiata al primo piano.Testimonianze, rileva sempre il “Corriere della Sera”, che fanno a pugni con quello che tutti raccontano di Andrea: «Era un ragazzo dolcissimo». La polizia sta indagando sulle cause della morte e sul perché il giovane si trovasse lì, ed è stata disposta l’autopsia. Parlando con il “New York Post”, il general manager di Cipriani, Fernando Dallorso, aveva definito Zamperoni uno “sweetheart”, un cuore d’oro, ben diverso da tanti chef «rinomati per il brutto carattere». Al ristorante Cipriani della stazione newyorkese lo descrivono così: «Non lo si è mai sentito alzare la voce: non era fuori di testa, era un uomo semplice. Un capo in cucina, ma un amico fuori». Ha avuto la disgrazia di inciampare, incidentalmente, in qualche segreto connesso al caso Epstein? Lara Pavanetto ricorda che Ghislaine Maxwell, accusata dalle vittime di essere procacciatrice di minorenni per Jeffrey Epstein, aveva il controllo dei conti dell’ingombrante miliardario, e finanziò personalmente la campagna di Hillary Clinton per le presidenziali di tre anni fa.Suo padre, Ian Robert Maxwell, era un personaggio famosissimo ma pieno di ombre. Misteriosa la sua morte, nel novembre del ‘91. Fu ritrovato morto in mare, al largo delle Canarie: si disse era annegato incidentalmente, dopo essere caduto di acqua mentre era a bordo del suo yacht. Già a capo dell’impero editoriale del Mirror, in stretto contatto con Lehman Brothers e Goldman Sachs, Robert Maxwell – di origine cecoslovacca – era sospettato dal Foreign Office di essere un agente del Kgb, oltre che del Mossad. Parlamentare laburista negli anni Sessanta, aveva ottime relazioni coi regimi comunisti dell’Est Europa, e fece anche un’intervista estremamente benevola, agiografica, con il dittatore rumeno Nicolae Ceaucescu. Fu accusato di aver sviluppato contatti col Mossad già dal 1948, quando la Cecoslovacchia armò Israele sottobanco in occasione della prima guerra arabo-israeliana. Già nel ‘48, infatti, Maxwell avrebbe contrabbandato aerei sovietici, tramite Praga, per dotare Israele di un’aviazione militare. Al suo funerale, a Gerusalemme, l’allora premier Yitzhak Shamir disse di lui: «Per Israele, Robert Maxwell ha fatto più di quanto oggi si possa dire».E’ collegata al caso Epstein la strana morte dello chef italiano di Cipriani Dolci a New York? Conosceva verità imbarazzanti il giovane Andrea Zamperoni, ritrovato (o fatto ritrovare) privo di vita in un ostello malfamato, frequentato da prostitute e spacciatori, cinque giorni dopo la sua scomparsa? Il cadavere era al primo piano del Kamway Lodge, un ostello del Queens, scrive il “Corriere della Sera” il 23 agosto. Lo stesso quartiere dove Zamperoni, 33 anni, abitava. Era il capo chef del ristorante Cipriani della Grand Central. Enorme lo stupore per la tragedia: la vittima è descritta come un ragazzo serio, corretto, straordinariamente mite e cordiale. Qualcuno temeva che potesse rivelare dettagli esplositivi agli investigatori che stanno ricostruendo i retroscena dell’impero criminale del finanziere pedofilo Jeffrey Epstein, trovato morto il 10 agosto nella sua cella del carcere di Manhattan? L’accostamento tra Epstein e il marchio Cipriani, ricorda la ricercatrice italiana Lara Pavanetto, emerge dall’agenda dello stesso Epstein. Ma c’è di più: Ghislaine Maxwell, la factotum del finanziere amico dei potenti, ha lanciato uno strano messaggio: esibendo il volume “Il libro dell’onore, vite e morti segrete degli agenti della Cia”, lascia capire che Epstein, ricattando uomini di Stato per le loro “debolezze”, probabilmente svolgeva un ruolo cruciale per l’intelligence.
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Scandalosi Clinton: 50 testimoni morti, Epstein è l’ultimo
Sabato scorso, il miliardario Jeffrey Epstein, il detenuto di più alto profilo in custodia negli Stati Uniti, è stato trovato morto nella sua cella di Manhattan. Questo è avvenuto il giorno dopo che erano state rese pubbliche duemila pagine di documenti giudiziari, precedentemente secretati, riguardanti il procedimento contro Jeffrey Epstein per atti di violenza sessuale su minori. I documenti descrivevano come Bill Clinton avesse partecipato a feste private sull’isola del pedofilo Jeffrey Epstein. Clinton aveva volato almeno 27 volte sull’aereo privato di Jeffrey Epstein. Nella maggior parte di quei voli era stato accompagnato da ragazze minorenni. Nonostante un precedente tentativo, appena tre settimane fa, di togliersi la vita, le guardie carcerarie, la notte di venerdì, avevano saltato i controlli previsti ogni 30 minuti alla cella di Epstein. Nelle prime ore del mattino lo avevano trovato morto. Jeffrey Epstein è l’ultimo di un lungo elenco di collaboratori e frequentatori della famiglia Clinton che sono morti misteriosamente o si sono suicidati prima della loro testimonianza pubblica. Nel 2016 la “Cbs” di Las Vegas aveva pubblicato un elenco degli associati Bill e Hillary Clinton che sarebbero morti in circostanze misteriose. Ecco quella lista.1. James McDougal – Il socio dei Clinton condannato per il caso Whitewater era morto per un apparente attacco cardiaco mentre si trovava in isolamento. Era un testimone chiave nelle indagini di Ken Starr. 2. Mary Mahoney – Una ex stagista della Casa Bianca, era stata assassinata nel luglio 1997 in una caffetteria Starbucks a Georgetown. L’omicidio era avvenuto subito prima che rendesse di pubblico dominio il fatto di avere subito molestie sessuali alla Casa Bianca. 3. Vince Foster – Ex consigliere della Casa Bianca e collega di Hillary Clinton presso lo studio legale Rose di Little Rock. Era morto per una ferita da arma da fuoco alla testa, risolta come suicidio. 4. Ron Brown – Segretario al Commercio ed ex presidente del Dnc [Comitato Nazionale Democratico]. La causa ufficiale della morte era stata impatto da incidente aereo. Un patologo che aveva partecipato alle indagini aveva riferito che c’era un buco nella parte superiore del cranio di Brown molto simile ad un ferita da arma da fuoco. Al momento della sua morte, Brown era sotto indagine e non aveva fatto segreto della sua volontà di concludere un accordo con gli inquirenti. Erano morti anche tutti gli altri passeggeri dell’aereo. Pochi giorni dopo, il controllore del traffico aereo si era suicidato.5. C. Victor Raiser, II – Raiser, uno dei principali responsabili dell’organizzazione per la raccolta fondi dei Clinton, era morto nella caduta di un aereo privato, nel luglio 1992. 6. Paul Tulley – Direttore politico del Comitato Nazionale Democratico era stato trovato morto in una stanza d’albergo a Little Rock, nel settembre 1992. Descritto dai Clinton come “caro amico e consigliere fidato”. 7. Ed Willey – Responsabile della raccolta fondi per i Clinton, era stato trovato morto nel novembre 1993 in un bosco della Virginia, con una ferita da arma da fuoco alla testa. Risolto come suicidio. Ed Willey era morto lo stesso giorno in cui sua moglie, Kathleen Willey, aveva affermato che Bill Clinton l’aveva palpeggiata nello Studio Ovale della Casa Bianca. Ed Willey era stato coinvolto in numerosi eventi di raccolta fondi per i Clinton. 8. Jerry Parks – Capo della squadra di sicurezza governativa di Clinton a Little Rock. Ucciso con un’arma da fuoco mentre era in macchina in un incrocio deserto fuori Little Rock. Il figlio di Parks aveva riferito che il padre stava allestendo un dossier su Clinton. Aveva presumibilmente minacciato di rendere pubbliche queste informazioni. Dopo la sua morte, i documenti erano misteriosamente spariti dalla sua abitazione.9. James Bunch – Deceduto per suicidio da arma da fuoco. Sembra possedesse un “libro nero” contenente i nomi di persone influenti che frequentavano prostitute in Texas ed Arkansas. 10. James Wilson – Era stato trovato morto nel maggio 1993, apparentemente si era suicidato impiccandosi. Sembra avesse legami con il caso Whitewater. 11. Kathy Ferguson – Ex moglie del poliziotto dell’Arkansas Danny Ferguson, era stata trovata morta nel maggio 1994 nel salotto di casa sua, uccisa con un colpo di pistola alla testa. Era stato considerato un suicidio, anche se c’erano diverse valigie piene, come se la donna fosse stata in procinto di recarsi altrove. Danny Ferguson era un co-imputato, insieme a Bill Clinton, nella causa intentata da Paula Jones. Kathy Ferguson era una possibile testimone a favore di Paula Jones. 12. Bill Shelton – Agente della polizia di Stato dell’Arkansas e fidanzato di Kathy Ferguson. Scettico sul suicidio della sua fidanzata, era stato trovato morto nel giugno 1994 per una ferita da arma da fuoco e si era stabilito che si era suicidato sulla tomba della sua fidanzata. 13. Gandy Baugh – Avvocato dell’amico di Clinton, Dan Lassater, era morto nel gennaio 1994 lanciandosi da una finestra di un alto edificio. Il suo cliente era un distributore di droga già condannato.14. Florence Martin – Ragioniera e subappaltatrice per la Cia, era legata al caso Barry Seal, Mena, Arkansas, un caso di traffico di droga all’aeroporto. Era morta per tre ferite da arma da fuoco. 15. Suzanne Coleman – Secondo quanto riferito, aveva avuto una relazione con Clinton quando quest’ultimo era procuratore generale dell’Arkansas. Era morta per una ferita da arma da fuoco alla nuca, risolta come suicidio. Al momento della morte era incinta. 16. Paula Grober – Traduttrice simultanea di Clinton per i non udenti, dal 1978 fino alla sua morte, il 9 dicembre 1992. Era morta in un incidente automobilistico. 17. Danny Casolaro – giornalista investigativo, indagava sull’aeroporto di Mena e sull’organo per il finanziamento dello sviluppo dell’Arkansas. Si era tagliato i polsi, apparentemente nel bel mezzo della sua indagine. 18. Paul Wilcher – L’avvocato che indagava sulla corruzione all’aeroporto di Mena con Casolaro e sula “sorpresa di ottobre” del 1980, era stato trovato morto in bagno, il 22 giugno 1993, nel suo appartamento di Washington Dc. Aveva consegnato un rapporto a Janet Reno tre settimane prima della sua morte.19. Jon Parnell Walker – Investigatore del caso Whitewater per la Resolution Trust Corporation. Era morto gettandosi dal balcone del suo appartamento di Arlington, in Virginia, il 15 agosto 1993. Stava indagando sullo scandalo Morgan Guaranty. 20. Barbara Wise – Collaboratrice del Dipartimento del Commercio. Aveva lavorato a stretto contatto con Ron Brown e John Huang. Causa del decesso: sconosciuta. Era morta il 29 novembre 1996. Il suo corpo nudo e pieno di lividi era stato trovato chiuso a chiave nel suo ufficio, presso il Dipartimento del Commercio. 21. Charles Meissner – Sottosegretario al Commercio, che aveva concesso a John Huang il nulla osta di sicurezza, era morto poco dopo in un incidente aereo. 22. Dr. Stanley Heard – Presidente del Comitato Consultivo Nazionale per la Terapia Chiropratica era morto con il suo avvocato, Steve Dickson, in un incidente aereo. Il dottor Heard, oltre a prestare servizio nel consiglio consultivo dei Clinton, aveva curato personalmente la madre, il patrigno e il fratello di Clinton. 23. Barry Seal – Un pilota della Twa che contrabbandava droga dall’aereoporto di Mena, Arkansas, la sua morte non è stata casuale [assassinato il 19 febbraio 1986].24. Johnny Lawhorn, Jr. – Meccanico, aveva trovato un assegno intestato a Bill Clinton nel bagagliaio di un’auto lasciata nella sua officina. Era stato trovato morto dopo che la sua macchina aveva colpito un palo della luce. 25. Stanley Huggins – Indagava sulla Madison Guaranty Savings and Loan Association. La sua morte era stata dichiarata un presunto suicidio e il suo rapporto non era mai stato pubblicato. 26. Hershell Friday – Avvocatessa e responsabile della raccolta fondi per Clinton, era morta il 1° marzo 1994, quando il suo aereo era esploso. 27. Kevin Ives e Don Henry – Noto come il caso dei “ragazzi che avevano trovato una pista”. I rapporti dicono che due i ragazzi potrebbero essersi imbattuti nel traffico di droga dell’aeroporto di Mena, Arkansas. Un caso controverso, secondo il rapporto iniziale della morte, i due ragazzi si sarebbero addormentati sui binari della ferrovia. Rapporti successivi avevano stabilito che i due giovani erano stati uccisi prima di essere messi sulle rotaie. Molte persone legate al caso erano morte prima che la loro testimonianze potessero arrivare davanti al Gran Giurì.Queste persone avevano informazioni sul caso Ives/Henry: 28 – Keith Coney: era morto quando, con la sua moto, aveva tamponato un camion, luglio 1988. 29 – Keith McMaskle: deceduto, pugnalato 113 volte, novembre 1988. 30 – Gregory Collins: morto per una ferita da arma da fuoco nel gennaio 1989. 31 – Jeff Rhodes: ucciso con un’arma da fuoco, mutilato e trovato bruciato in una discarica nell’aprile 1989. 32 – James Milan: trovato decapitato. Tuttavia, il medico legale aveva stabilito che la sua morte era dovuta a “cause naturali”. 34 – Richard Winters: uno dei sospettati nelle morti di Ives/Henry. Ucciso in una rapina organizzata nel luglio 1989. Anche queste guardie del corpo di Clinton sono morte: 35 – Maggiore William S. Barkley, Jr. 36 – Capitano Scott J. Reynolds. 37 – Sergente Brian Hanley. 38 – Sergente Tim Sabel. 39 – Maggiore Generale William Robertson. 40 – Colonnello William Densberger. 41 – Colonnello Robert Kelly. 42 – Specialista Gary Rhodes. 43 – Steve Willis. 44 – Robert Williams. 45 – Conway LeBleu. 46 – Todd McKeehan. E il più recente, Seth Rich, il collaboratore del Comitato Democratico, assassinato e “derubato” (di niente) il 10 luglio 2016. Il fondatore di Wikileaks, Assange, afferma che Rich era in possesso di informazioni sullo scandalo della posta elettronica del Dnc. In questa lista non sono inclusi i 4 eroi uccisi a Bengasi. Ed ora potete aggiungere all’elenco il multimilionario Jeffrey Epstein…(Jim Hoft, “L’elenco completo delle persone collegate ai Clinton morte in circostanze misteriose o ‘suicidatesi’ prima di testimoniare”, da “Gateway Pundit” dell’11 agosto 2019, post tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Sabato scorso, il miliardario Jeffrey Epstein, il detenuto di più alto profilo in custodia negli Stati Uniti, è stato trovato morto nella sua cella di Manhattan. Questo è avvenuto il giorno dopo che erano state rese pubbliche duemila pagine di documenti giudiziari, precedentemente secretati, riguardanti il procedimento contro Jeffrey Epstein per atti di violenza sessuale su minori. I documenti descrivevano come Bill Clinton avesse partecipato a feste private sull’isola del pedofilo Jeffrey Epstein. Clinton aveva volato almeno 27 volte sull’aereo privato di Jeffrey Epstein. Nella maggior parte di quei voli era stato accompagnato da ragazze minorenni. Nonostante un precedente tentativo, appena tre settimane fa, di togliersi la vita, le guardie carcerarie, la notte di venerdì, avevano saltato i controlli previsti ogni 30 minuti alla cella di Epstein. Nelle prime ore del mattino lo avevano trovato morto. Jeffrey Epstein è l’ultimo di un lungo elenco di collaboratori e frequentatori della famiglia Clinton che sono morti misteriosamente o si sono suicidati prima della loro testimonianza pubblica. Nel 2016 la “Cbs” di Las Vegas aveva pubblicato un elenco degli associati Bill e Hillary Clinton che sarebbero morti in circostanze misteriose. Ecco quella lista.
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Rapporto Onu: crimini Usa contro l’umanità in Venezuela
Il rapporto dell’esperto Onu che ha visitato il Venezuela nel 2017, Alfred De Zayas, propone di deferire gli Stati Uniti alla Corte Penale Internazionale per i crimini contro l’umanità perpetrati in Venezuela dopo il 2015. Lo ricorda il sociologo Pino Arlacchi, vicesegretario generale delle Nazioni Unite dal 1997 al 2002, in un intervento sul “Fatto Quotidiano” riguardo alla crisi umanitaria nel quale è stato sprofondato il Venezuela. Colpa dell’imbelle e corrotto governo Maduro? No, putroppo: se Maduro certo non brilla, a rovinare i venezuelani sarebbero stati soprattutto gli Usa. Per Arlacchi, il caso-Venezuela «si configura nei termini di una gigantesca truffa informativa, volta a coprire la sopraffazione di un popolo e la spoliazione di una nazione». Il principale mito da sfatare, scrive Arlacchi, riguarda le cause di fondo del dramma venezuelano: «I media occidentali non hanno avuto dubbi nell’additare gli esecutivi succedutisi al potere dopo l’elezione del “dittatore” Chávez alla presidenza nel 1998 come unici responsabili della crisi, nascondendone la matrice di gran lunga più importante: le barbare sanzioni americane contro il Venezuela decise da Obama nel 2015 e inasprite da Trump nel 2017 e nel 2018».
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Chavez fu ucciso, ma ora è Maduro a uccidere il Venezuela
Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il Pil è franato, togliendo al paese la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.Rifiutarsi di leggere con lucidità la storia recente del Venezuela, scrive Angiuli nella sua accurata ricostruzione, significa innanzitutto fare un torto ai venezuelani, oggi alla fame. Un affronto alla memoria dello stesso Chavez, strenuo difensore del suo popolo. E’ stato grande, Chavez, ma inevitabilmente imperfetto: proprio i suoi errori ottici, secondo Angiuli, hanno creato le premesse di una crisi spaventosa, che oggi – senza più il carisma e l’onestà di fondo del leader – stanno mettendo in pericolo il Venezuela. Il paese perde milioni di cittadini, ridotti a profughi. Mancano cibo e medicinali, e c’è anche il rischio concreto che le sue frontiere vengano violate da un intervento militare ispirato dagli Usa e condotto da paesi come la Colombia e l’inquietante Brasile di Bolsonaro. La domanda che sfugge, nel derby delle opposte tifoserie italiane ed europee, è la seguente: com’è possibile che sia finito nella disperazione di massa uno dei paesi virtualmente più ricchi del mondo? Quella del Venezuela è considerata la prima riserva petrolifera del pianeta: e da parte degli Usa, certamente ostili al regime chiavista, non c’è però mai stato nessun embargo del greggio venezuelano. Al contrario: proprio grazie all’export dell’oro nero, a Caracas negli ultimi vent’anni sono circolati fiumi di petrodollari. Che fine hanno fatto?All’inizio, miliardi di dollari sono serviti a finanziare il grandioso welfare ideato da Chavez per allievare le storiche sofferenze dei poveri. Ma non un soldo è stato investito nell’economia non-petrolifera. In compenso, grazie al controllo centralizzato della gestione dei cambi, è fiorito il contrabbando di valuta estera. E oggi si mangia acquistando alla borsa nera i generi alimentari che i gerarchi di Maduro – che controllano i petrodollari – fanno sparire all’ingresso del paese, prima che possano raggiungere i supermercati, dove i prezzi sarebbero calmierati per legge. Ma l’attuale tragedia del Venezuela – umanitaria, sociale, politica – non può impedire di guardare col necessario distacco (e col rispetto che merita) a quello che è stato il più clamoroso fenomeno sudamericano degli ultimi decenni: la “rivoluzione bolivariana” di Chavez, per 14 anni alla guida del paese caraibico. Un quasi-capolavoro, fondato su una scommessa di tipo socialista: nazionalizzare il petrolio per finanziare grandiosi programmi di assistenza e liberare la popolazione della piaga cronica della povertà, generata dallo spietato sfruttamento delle multinazionali occidentali.Nella sua meticolosa ricostruzione sulla crisi venezuelana pubblicata da “L’Intellettuale Dissidente”, Angiuli scrive che la morte di Chavez, nel marzo 2013, è «quasi certamente avvenuta per avvelenamento radioattivo, messo in atto da non ben identificati servizi segreti di qualche paese nemico». Magari gli Usa, che a Chavez non avevano mai perdonato il coraggio e l’indipendenza politica. O qualche entità sudamericana allineata alla Dottrina Monroe, secondo cui l’America Latina deve restare sottomessa a Washington. Il Venezuela di Chavez – poi letteralmente tradito da Maduro – ha rappresentato una grande speranza per tutto il Sud del mondo. Ma sarebbe sbagliato trasformarlo in un culto, osserva Angiuli: perché Chavez ha commesso l’errore (fatale) di basare il riscatto economico nazionale solo sul petrolio, mortificando l’industria e l’agricoltura. Ancora oggi, ridotto alla fame, il Venezuela continua a dividere: da una parte le destre neoliberiste che hanno sempre criminalizzato il chavismo fin dall’inizio, e dall’altra la vecchia sinistra terzomondista, che arriva a perdonare un dittatore come Maduro pur di non ammettere i gravi errori della politica venezuelana, che hanno messo nei guai il paese ben prima che scattasse l’accerchiamento geopolitico neoliberista che ha isolato il governo di Caracas.Il pensiero unico mainstream «tende a demonizzare alla radice l’intera vicenda del socialismo venezuelano, relegandola nell’ambito del caudillismo alla sudamericana». Per contro, gli epigoni delle residuali correnti marxiste-leniniste si erano illusi di poter finalmente riscattare, in Venezuela, «la tragica sconfitta del comunismo novecentesco», seppellito dalle macerie del Muro di Berlino. All’intera vicenda del “socialismo bolivariano” inaugurato da Hugo Chavez, Angiuli ammette di essersi accostato con emozione, sperando di trovarvi «un nuovo laboratorio politico capace di ripensare l’idea stessa e la pratica del socialismo». Angiuli è stato spesso in Venezuela, a stretto contatto con la società e con gli ambienti filogovernativi. Dopo l’entusiasmo, però, è subentrata l’amara disillusione. Beninteso: a prescindere dall’orrendo regime militare di Maduro, «resta in ogni caso intangibile – precisa Angiuli, a scanso di equivoci – il diritto del popolo venezuelano di costruire il suo futuro in condizioni di libertà, sovranità e autonomia rispetto a qualsiasi intervento di destabilizzazione esterna, a cominciare dalle esplicite minacce di invasione che ultimamente provengono dai governi dell’ultradestra insediatisi al potere delle nazioni vicine, con lo scontato supporto degli Usa che da sempre considerano quella parte del mondo come il proprio cortile di casa».Detto questo, ammette Angiuli, «è triste giungere alla conclusione di dover affermare che il socialismo venezuelano ha purtroppo tradito una buona parte dei suoi propositi, e oggi non può più costituire un modello positivo di giustizia e di benessere per i popoli oppressi di tutto il mondo». Cionondimeno, il “bolivarismo” di Chavez era partito con le migliori intenzioni. Analizzarne i difetti è indispensabile: provare a capire «cosa non ha funzionato in Venezuela» è fondamentale, per tentare di spiegarsi la drammatica situazione in cui oggi versa il paese che dette i natali al “libertador” Simon Bolivar, «un personaggio passato alla storia quale nemico giurato del colonialismo ispanico». Anche Hugo Chavez ha fatto la storia: la sua presa del potere a Caracas, a cavallo tra il 1998 e il 1999, ha simboleggiato per l’intero continente di Neruda e Garcia Marquez «la più grande sfida di discontinuità storico-politica rispetto alla lunga notte neoliberista, vissuta per alcuni decenni dall’America Latina». Micidiali le dittature militari filo-Usa degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Per questo, è naturale che il chavismo abbia suscitato «una grande ondata di legittime speranze fra tutti i popoli».Ex ufficiale paracadutista dell’esercito venezuelano, tradizionalmente “popolare” anche nei suoi ranghi più alti, Hugo Chavez – autore di un fallito tentativo di colpo di Stato del 1992 ai danni dell’allora presidente in carica Carlos Andres Perez – era riuscito in pochi anni a far coagulare attorno a sé «i migliori sentimenti e le aspirazioni di riscatto delle fasce sociali medio-basse del suo paese, fino a quel momento escluse dal godimento dei profitti della “Venezuela Saudita”». L’ideologia di Chavez? Un mix originale e composito, «che attinge tanto al panamericanismo di Simon Bolivar quanto all’umanesimo socialista di ispirazione massonica caro a Giuseppe Garibaldi e a Salvador Allende». Innegabili le influenze esercitate dal pensiero di Antonio Gramsci e dalla prassi rivoluzionaria di Ernesto Che Guevara e Fidel Castro. «Cuba rivoluzionaria, la piccola isola che da decenni resiste ad un crudele embargo degli Usa, per Chavez costituiva un esempio di dignità e un prototipo da emulare, soprattutto sotto il profilo dell’indipendenza nazionale e della lotta all’imperialismo a stelle e strisce». E proprio a partire dagli accordi di mutua assistenza con la Cuba di Fidel – petrolio in cambio di medici – Hugo Chavez, appena insediatosi alla presidenza, iniziò a «costruire sapientemente il suo modello di integrazione politica latinoamericana attorno ai principi generali di cooperazione, equità e solidarietà».Lo stesso Che Guevara, nei suoi scritti, aveva ben individuato la “maledizione” dei paesi dell’America Latina, «storicamente condannati a programmare le loro economie non in base ai propri bisogni interni, bensì in rapporto agli appetiti famelici dei loro paesi dominanti». Fin dall’epoca del colonialismo ispano-portoghese, gli europei avevano imposto a quei territori un modello “rentista” o monoculturale, «tutto basato sull’estrazione a costo zero di materie prime»: un “prelievo forzoso” grazie a cui sarebbero state edificate le basi dell’impero industriale e capitalistico dell’Occidente. A partire dal suo esordio, ricorda Angiuli, «uno dei principali meriti politici di Hugo Chavez è stato quello di sottrarre il controllo dell’oro nero del Venezuela a quella ristretta borghesia “compradora” fortemente compromessa col capitalismo a stelle e strisce». Una borghesia che «per decenni, dopo essersi appropriata della rendita petrolifera, era stata abituata a delocalizzare sistematicamente i suoi profitti a Miami, umiliando il paese estrattore con delle infime royalties e con dei contratti-capestro». Fino a quel momento, gli immensi giacimenti petroliferi non avevano mai consentito al Venezuela di trarre risorse per investimenti sociali. A questo ha provveduto proprio Chavez, all’inizio del suo mandato, con una nossa clamorosa: nazionalizzare la compagnia petrolifera Pdvsa, per poi tenere alto il prezzo del greggio premendo sull’Opec – insieme all’Iraq di Saddam e alla Libia di Gheddafi – al fine di contenere i volumi di estrazione.Destinare la rendita petrolifera alla spesa assistenziale finalizzata ad appianare le gravi diseguaglianze sociali del suo popolo – prosegue Angiuli – ha costituito indubbiamente l’atto più rivoluzionario compiuto da Hugo Chavez. Interventi imponenti, per garantire servizi sanitari anche nei “barrios” più poveri e alfabetizzare milioni di venezuelani, compresi i gruppi indigeni. Diritti: la nuova Costituzione varata da Chavez nel 1999 «contiene sulla carta alcuni principi inediti che possono fare da insegnamento anche alle democrazie più avanzate». E’ fondata su una netta separazione fra i poteri e contempla molteplici strumenti di democrazia diretta: c’è anche l’istituto del “referendum revocatorio”, che consente perfino di far dimettere il presidente a metà mandato, mediante una consultazione popolare indetta dal basso. La nuova Carta, poi, decreta l’intangibilità di Madre Natura quale soggetto titolare di diritti. E in più tutela l’identità etnoculturale delle comunità dei nativi amerindi, «facendosi così portatrice di un generale messaggio di rinascita dell’orgoglio indigeno», dopo secoli di sottomissione ai “conquistadores” e ai “gringos”.Il primo decennio del chavismo, riconosce Giuseppe Angiuli, è stato contrassegnato «da un risveglio delle coscienze del popolo venezuelano e da una straordinaria voglia di partecipare a riscrivere la storia del proprio paese da parte di milioni di persone, fino ad allora del tutto escluse dalla scena politica e incapaci perfino di intendere lo stesso concetto di cittadinanza». Solo gli osservatori più prevenuti, sottolinea l’analista, possono avere finto di non accorgersi della reale genuinità che ha connotato i primi anni del processo politico “bolivariano”, contraddistinti da un fermento rivoluzionario autentico, addirittura emozionante. E contro l’imperialismo mercantile “yankee”, Chavez s’è mosso anche a livello geopolitico: ha dato vita all’Alba (Alianza Bolivariana para los pueblos de nuestra America), reclutando Cuba, la Bolivia del leader sindacale Evo Morales, l’Ecuador dell’economista Rafael Correa, il Nicaragua sandinista, l’Honduras di Manuel Zelaya e vari piccoli Stati insulari caraibici. Checché ne dicessero i media occidentali, sottolinea Angiuli, il governo di Chavez – fino alla sua rielezione nel 2012 – è sempre stato largamente supportato dal popolo venezuelano. Ma oggi, ribadisce, il Venezuela non sarebbe in crisi nera, se lo stesso Chavez non avesse commesso clamorose ingenuità sul piano economico.Dopo aver distribuito soldi a pioggia per «contrastare la povertà più estrema di una parte significativa della popolazione», il chavismo ha mancato l’appuntamento con lo sviluppo, nonostante la felice congiuntura petrolifera, col prezzo del barile rimasto sopra gli 80 dollari fino al novembre 2014. Nonostante il fiume di valuta forte, piovuto su Caracas per almeno un decennio, il governo «non ha mai messo in campo alcuna seria misura per provare a debellare il vero cancro comune a tutti quei paesi la cui economia, come quella del Venezuela, si basa su un modello “rentista”», ovvero: «La dipendenza dalla estrazione della materia prima quale unica risorsa del proprio modello di sviluppo». Nonostante i tanti proclami, non è mai riuscito a diversificare le attività produttive: anzi, i governi chavisti hanno attuato «una massiccia politica di disincentivo al lavoro delle piccole e medie imprese», determinando così una contrazione drammatica del Pil, in quei settori, «con la conseguenza che la classe media è progressivamente scomparsa». Paradossale: «Oggi i venezuelani conducono in media un tenore di vita clamorosamente più basso di quello che si ricordi anche negli anni più bui della notte neoliberista dell’America Latina». E scontano «una diffusa scarsità di prodotti di prima necessità che oggi forse non si riscontra nemmeno a Cuba, paese ininterrottamente sotto embargo da più di mezzo secolo».Pessimo il bilancio dall’agricoltura: buona l’idea di una riforma agraria per smantellare i latifondi improduttivi. Ma poi è subentrata «una deriva ideologica di tipo estremistico velleitario, che ha condotto ad una espropriazione generalizzata delle terre anche di media dimensione». Terre assegnate «a improvvisate cooperative di lavoratori che non si sono mai realmente dimostrate all’altezza del loro compito», e con incarichi direzionali «troppo spesso affidati obbedendo unicamente a meri criteri di fedeltà politica». Risultato: la produzione agricola è crollata, ricorda Angiuli, persino per i più tipici prodotti alla base della dieta venezuelana: riso e farina di mais, frutta e verdura, polli d’allevamento, uova e caffè. Stessa sorte ha colpito l’industria: «Una analoga degenerazione demagogica del chavismo, nel segno del collettivismo spinto – scrive Angiuli – ha condotto negli anni a una diffusa e capillare occupazione delle fabbriche», da parte di «settori disinvolti delle forze armate». I militari, «arrogandosi il diritto di agire sempre e comunque nell’interesse del “pueblo” e contro l’odiata borghesia nazionale», si sono spesso impadroniti «con modalità arbitrarie e violente» dei mezzi di produzione, «lasciandoli cadere quasi sempre e molto presto in malora e facendo così crollare la produzione anche in quei settori nei quali – prima del chavismo – il Venezuela riusciva tranquillamente a soddisfare il suo fabbisogno interno, raggiungendo perfino l’obiettivo di esportare una discreta quantità di merci all’estero: ferro, acciaio, automobili, caffè».L’aspetto più inquietante di questo fallimento economico di dimensioni catastrofiche, scrive Angiuli, non risiede neppure nella pianificazione centralistica stile Urss e Cina maoista: il paradosso sta nella pessima gestione dell’oceano di petrodollari. Fino al 2013, il petrolio rappresentava ancora il 95% dell’export. Anziché sfruttare quell’enorme massa di denaro per rendere il Venezuela più autonomo economicamente, i governi socialisti «hanno finito per accentuare oltre ogni limite il tradizionale carattere “rentista” dell’economia venezuelana, legandone le sorti in modo irreversibile alla ciclicità dell’andamento del prezzo degli idrocarburi». Gli effetti di questa politica sono esplosi a partire dal 2015, con il crollo della quotazione del greggio: di colpo, il Venezuela ha incassato meno soldi, sia per il welfare che per pagare l’enorme volume di importazioni, cresciuto negli anni col progressivo calo della produzione interna di beni primari. Risultato: «La scarsità di prodotti sugli scaffali dei supermercati si è manifestata in modo crescente e irrimediabile». Ecco perché, osserva Angiuli, sta semplicemente mentendo, Maduro, quando si sforza ogni giorno di attribuire l’odierna crisi alla guerra economica orchestrata dall’odiato imperialismo yankee. Le sanzioni americane – varate da Obama e inasprite da Trump – non bastano a spiegare la catastrofica penuria di generi di prima necessità.Le stesse sanzioni, peraltro, non hanno impedito alle grandi banche d’affari statunitensi, prima fra tutte la Goldman Sachs, di investire copiose somme nell’acquisto di buoni obbligazionari emessi dalla compagnia petrolifera Pdvsa: «Un elemento che smaschera tanto l’ipocrisia del capitalismo a stelle e strisce quanto quella della retorica antimperialista così tanto sbandierata dal governo di Caracas». Inoltre, sebbene Trump abbia proibito nel 2018 l’acquisto di titoli del colosso petrolifero venezuelano, «nessun embargo commerciale petrolifero è mai stato decretato da Washington verso Caracas». Lo confermano i numeri delle esportazioni, che ora – non a caso – Maduro ha addirittura proibito di diffondere, roprio per non compromettere il suo vittimismo retorico che attribuisce al nemico imperialista la causa di ogni male. L’altra verità che Maduro nasconde, continua Angiuli, è che il suo Venezuela ha affidato a una ristretta oligarchia – società riconducibili all’establishment militare – l’intera gestione del cambio dei dollari necessari per accedere al mercato delle importazioni di beni dall’estero. Sono questi privilegiati ad accedere ai dollari, e in modo truffaldino, cioè con un cambio alterato sopravvalutando il bolivar: se la moneta venezuelana era stimata 1.000 a 1, rispetto al dollaro, l’élite governativa monopolista ha invece intascato 10 bolivar per ogni dollaro destinato ad acquistare beni dall’estero.Una volta che gli importatori della ristretta cerchia governativa hanno acquisito i dollari ad un cambio preferenziale e privilegiato, quella valuta forte, «ufficialmente necessaria per pagare le merci che si dovrebbero importare dall’estero», ha finito in realtà per alimentare «un circuito vorticoso e perverso, con cui gli stessi importatori filogovernativi sono troppo spesso riusciti ad occultare clandestinamente sia la valuta che le stesse merci importate». Una colossale frode valutaria, insomma, «che ogni giorno sottrae ricchezza al paese caraibico», e oggi costringe i venezuelani a lasciare le loro case. Elementare: «Se la moneta venezuelana viene scambiata sui mercati ad un valore reale spesso anche di 100 volte inferiore a quello con cui viene scambiata dagli organismi governativi, tutti coloro i quali sono nelle condizioni di mettere le mani sulla rendita petrolifera, una volta ottenuti i dollari col sistema del cambio preferenziale, ne investono effettivamente solo una parte nell’attività di importazione». E al contempo, aiutandosi con sovrafatturazioni fittizie (di merci mai effettivamente acquistate) occultano facilmente grandi quantità di valuta forte, trasferendole dei paradisi fiscali, «ovvero alimentando il mercato nero del dollaro all’interno degli stessi confini del Venezuela». Lo si capisce già all’aeroporto, appena si sbarca a Caracas: si viene assaliti da “agenti del cambio in nero” che offrono disinvoltamente i bolivar in cambio di dollari (o euro) secondo un rapporto di cambio molto distante da quello ufficiale.Per questo, aggiunge Angiuli, da quando si è diffusa la pratica governativa di sopravvalutare artificiosamente il bolivar, «il traffico di valuta è diventato di gran lunga il business più redditizio per chiunque riesca a venire in possesso di una certa quota della rendita petrolifera incamerata dal Venezuela». Negli anni, il fenomeno ha acquisito dimensioni impressionanti e incontrollabili. E il suo principale effetto nefasto sull’economia del paese è il generale disincentivo verso l’avvio di qualsiasi genere di attività produttiva. L’ex ministro per la pianificazione economica Jorge Giordani, grande amico di Chavez (dimessosi nel 2014 da ogni incarico governativo in polemica con Maduro) ha pubblicamente denunciato il furto, attraverso questo meccanismo fraudolento, di qualcosa come 25 miliardi di dollari dall’organismo governativo addetto alle operazioni di cambio su larga scala. E oltre al mercato nero di valuta, c’è anche la piaga che colpisce gli approvvigionamenti: il cibo, i medicinali e i prodotti manifatturieri che dovrebbero entrare in Venezuela a prezzo calmierato vengono in gran parte intercettati e rivenduti clandestinamente. Borsa nera: «Un formidabile, gigantesco contrabbando di merci vendute al mercato nero a prezzi molto più alti di quelli che il governo si sforza inutilmente di imporre nelle catene dei supermercati popolari», nei quali ormai scarseggia di tutto, dallo shampoo al dentifricio, dal sapone alla carta igienica.Giuseppe Angiuli lo descrive come «il disastro di una economia nazionale ormai strutturalmente e capillarmente fondata sul malaffare, sulla frode valutaria e sulla speculazione parassitaria, con un sistema di complicità e protezioni che purtroppo investe anche le sfere più alte del potere centrale». A questo si aggiunge l’iper-inflazione scatenata irresponsabilmente dalla banca centrale del Venezuela, «ricorsa in questi anni in misura sempre più massiccia alla stampa di cartamoneta priva di ogni copertura e valore reale». Tra il 1999 e il 2016, la massa monetaria circolante nel paese è cresciuta di circa il 33.000%. Inflazione folle: nel 2017 si è attestata al’830%, per poi raggiungere l’anno seguente il 4.684,3 percento, vero e proprio record mondiale. Secondo il Fmi, si viaggia ormai verso il “milione per cento” su base annua. Una catastrofe: paralisi economico-produttiva, l’iper-inflazione, crollo del valore reale dei salari. Generale impossibilità di procurarsi da vivere lavorando. Collasso del sistema sanitario nazionale, scarsità di viveri e medicinali, drammatico aumento della mortalità neonatale e della denutrizione infantile. Tutto questo sta oggi facendo vivere al Venezuela «un esodo di proporzioni bibliche dei suoi cittadini verso l’estero, come non si era mai visto nella storia recente del paese».Un fallimento così apocalittico, osserva Angiuli, avrebbe dovuto obbligare da tempo il governo Maduro ad adottare misure radicali, in forte discontinuità rispetto alle politiche suicide fin qui condotte. Di fronte all’esperazione popolare, sfociata in drammatiche proteste, Maduro ha risposto violando la Costituzione, truccando le elezioni e ordinando all’esercito di sparare sulla folla. Hugo Chavez non l’avrebbe mai fatto. Anzi: il “comandante” accettò lealmente il verdetto del referendum perduto, attraverso cui i venezuelani avevano bocciato la sua proposta di riforma costituzionale in senso presidenzialista. Maduro è solo, spelleggiato esclusivamente dai militari. Diversi dirigenti chavisti storici della prima ora – come l’ex ministro dell’ambiente Ana Elisa Osorio, l’ex ministro dell’economia Jorge Giordani, lo storico presidente della Pdvsa Rafael Ramirez e l’ex procuratrice generale Luisa Ortega Diaz – sono stati delegittimati ed emarginati. Qualcuno è riparato all’estero «per sottrarsi alla furia vendicatrice della cricca di potere vicina a Maduro».Non sappiamo quale futuro attende il Venezuela, conclude Angiuli, ma dopo vent’anni di chavismo «i risultati dell’economia del paese parlano un linguaggio implacabile, che non ammette repliche». Un fallimento di dimensioni così catastrofiche dimostra «l’evidente sconfitta politica del gruppo dirigente cresciuto all’ombra di Chavez, che non si è dimostrato all’altezza dei propri compiti storici». I meriti dell’azione ispiratrice dei primi anni del chavismo «andrebbero rivalorizzati e recuperati», ripensando le radici dottrinali del socialismo “bolivariano”, «che andrebbero rinforzate e vivificate». Attenzione: a livello geopolitico, il Venezuela resta «un attore decisivo per la possibile formazione di un nuovo mondo multipolare». E infatti, sottolinea Angiuli, «attorno alla tenuta dell’indipendenza del paese da eventuali aggressioni militari esterne si gioca gran parte del suo futuro». Certo, la catastrofe sociale potrebbe sfociare in esiti terribili. E se il Venezuela «dovesse progressivamente subire delle aggressioni militari da parte degli Usa o di paesi vicini governati dall’ultradestra, come la Colombia o il Brasile», secondo Angiuli occorrerà battersi «a difesa della sacrosanta intangibilità dei suoi confini e della sua legittima sovranità». Quello che non serve, per aiutare il Venezuela a uscire dall’incubo, è continuare a «fornire un sostegno acritico e fideistico al governo di Maduro». Meglio rileggere con onestà la grande storia di Hugo Chavez e anche i suoi limiti, onde avviare al più presto «quegli interventi indifferibili e vitali che il popolo venezuelano si attende, e di cui oggi non può più fare a meno».Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il paese ha perso la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.
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Maduro o Guaidò, cioè peste o colera: guerra civile in vista
Come era prevedibile e previsto, la crisi venezuelana è arrivata al punto di precipitazione e siamo ad un passo da una sanguinosissima guerra civile. Le responsabilità maggiori sono senza dubbio quelle di Maduro: quando uno dei massimi produttori mondiali di petrolio è alla fame, ma quella vera, dove non si mangia, dove la mortalità infantile è cresciuta in 5 anni del 30%, dove non si trovano medicinali e un salario mensile basta a comprare 2 chili di farina, non ci sono dubbi di sorta: la responsabilità è del governo che ha fatto una politica economica da dementi. All’inizio c’è l’errore storico di Chavez: aver dimensionato un welfare sostenibile solo con il barile di petrolio a 90-100 dollari. Non venne speso nulla dei profitti sia per rinnovare ed aggiornare gli impianti e meno ancora per avviare altre produzioni che potessero compensare il ribasso del petrolio, esportazione pressoché unica del paese, salvo modestissime entrate garantite da Rum e cioccolata. Pochissimo tempo dopo venne il prevedibile crollo del prezzo del petrolio che, già a quota 65, costringeva ad emettere sempre nuove quote di debito pubblico, e il debito costa. Altro errore storico di Chavez fu la sottovalutazione di fenomeni come la corruzione e il contrabbando, che minavano il paese. Ma furono errori che probabilmente lui, persona fondamentalmente onesta e di fede democratica, avrebbe cercato di correggere, facendo leva sul suo carisma e non certo mandando l’esercito in piazza a sparare sulla gente.Ma la prosecuzione su questa strada, dopo la sua morte, fu un crimine. E le scelte economiche di Maduro (a cominciare dal delirante accordo sottoscritto con le banche americane per il rinnovo dei titoli di debito che ha svenduto le esportazioni petrolifere, e a proseguire con la demenziale politica monetaria che ha superato di slancio il precedente di Weimar) hanno peggiorato drammaticamente la situazione. Maduro è un incapace privo del benché minimo carisma, di nessuna tempra morale e interessato solo al mantenimento del potere, per il quale non ha esitato a far sparare sul suo popolo. Di fatto, man mano, la base vera del suo potere sono stati esercito e polizia, entrambi corrottissimi e in stretti rapporti d’affari con il contrabbando. Questo non vuol dire che il regime non abbia un suo consenso: ci sono i beneficiati, poi i seguaci ideologicamente fedeli al chavismo e incapaci di vedere i guasti del governo e il sostanziale tradimento dell’eredità di Chavez. E poi, ovviamente la malavita, i contrabbandieri e i corrotti del partito e dell’amministrazione. E su questa base, e con una buona dose di brogli, Maduro è riuscito a mantenersi al potere, non arretrando neppure di fronte al colpo di Stato segnato dalla cosiddetta riforma costituzionale che ha abbattuto la Costituzione bolivariana voluta da Chavez.Maduro è indifendibile perché è un piccolo dittatorello latinoamericano, un incapace alla testa di una banda di corrotti e di delinquenti che, al bisogno, sono pronti a fare da squadristi. Dunque nessun rimpianto per una sua augurabile caduta. Il guaio è che l’alternativa è rappresentata da questo giovanotto di belle speranze che è Guaidò. Del personaggio sappiamo poco e l’aspetto e l’eloquio ce lo presentano come il fratello meno intelligente di Macron, che a sua volta è il fratello meno intelligente di Renzi. Ma, detto questo, non ci vuole molto a capire che è la marionetta dietro cui ci sono gli Usa. Washington ha sempre riservato uno speciale odio al Venezuela sin dai tempi di Chavez, e ora aspira a due cose: la caduta dell’ultima roccaforte di sinistra del continente meridionale (salvo Uruguay e Bolivia) e la privatizzazione dei pozzi petroliferi del paese (e indovinate chi li acquisterebbe…). Quindi, Guaidò non è affatto una alternativa desiderabile. Occorrerebbe un governo di transizione affidato né a Guaidò né tantomeno a Maduro, capace di raffreddare il clima, consentire la riorganizzazione del sistema politico del paese con una sinistra non madurista e una destra nazionale non serva degli Usa, per far fronte alle urgenze alimentari e sanitarie del paese con un adeguato piano di aiuti internazionali, e poi andare a votare entro un anno o un anno e mezzo. E magari la mediazione potrebbe essere svolta dalla Chiesa che, sin qui, è il soggetto che si è comportato con maggior equilibrio nel paese.Beninteso: Maduro dovrebbe andare in esilio e farsi dimenticare. Ma, se questa potrebbe essere la soluzione più auspicabile, non è il caso di farsi illusioni e, di fatto, le alternative più probabili sono due: il passaggio dei militari armi e bagagli dalla parte di Guaidò (i corrotti non sono difficili da convincere, se gli si garantisce di poter continuare nei loro traffici) oppure una guerra civile fra le milizie maduriste e l’esercito da una parte e le milizie dell’opposizione debitamente armate, magari con l’appoggio di una forza multinazionale di “interposizione” fatta da brasiliani, colombiani e altri sudamericani. E in questo caso, chiunque vinca, dobbiamo sapere che seguirà uno spaventoso bagno di sangue. Poco male se questo significasse la fucilazione di Maduro e dei suoi gerarchi (che il tiranno sia fucilato è cosa piuttosto comune, e tutto sommato positiva); il guaio è che il massacro si estenderebbe alla base dei perdenti, di qualunque schieramento si tratti. E’ triste dirlo, ma temo che le speranze di una soluzione diversa siano ridotte al lumicino.(Aldo Giannuli, “Maduro o Guaidò? Come scegliere fra peste e colera, ma ormai la guerra civile è alle porte”, dal blog di Giannuli del 5 febbraio 2019).Come era prevedibile e previsto, la crisi venezuelana è arrivata al punto di precipitazione e siamo ad un passo da una sanguinosissima guerra civile. Le responsabilità maggiori sono senza dubbio quelle di Maduro: quando uno dei massimi produttori mondiali di petrolio è alla fame, ma quella vera, dove non si mangia, dove la mortalità infantile è cresciuta in 5 anni del 30%, dove non si trovano medicinali e un salario mensile basta a comprare 2 chili di farina, non ci sono dubbi di sorta: la responsabilità è del governo che ha fatto una politica economica da dementi. All’inizio c’è l’errore storico di Chavez: aver dimensionato un welfare sostenibile solo con il barile di petrolio a 90-100 dollari. Non venne speso nulla dei profitti sia per rinnovare ed aggiornare gli impianti e meno ancora per avviare altre produzioni che potessero compensare il ribasso del petrolio, esportazione pressoché unica del paese, salvo modestissime entrate garantite da Rum e cioccolata. Pochissimo tempo dopo venne il prevedibile crollo del prezzo del petrolio che, già a quota 65, costringeva ad emettere sempre nuove quote di debito pubblico, e il debito costa. Altro errore storico di Chavez fu la sottovalutazione di fenomeni come la corruzione e il contrabbando, che minavano il paese. Ma furono errori che probabilmente lui, persona fondamentalmente onesta e di fede democratica, avrebbe cercato di correggere, facendo leva sul suo carisma e non certo mandando l’esercito in piazza a sparare sulla gente.
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Carne macinata per l’universo: la vera rivoluzione italiana
Sono tornato in via Filippo Buonarroti, sono tornato in via Ferrari, in piazza Garibaldi e dove ho fatto le scuole, in via Ugo Bassi. Qualcuno di voi si ricorda di chi era Filippo Buonarroti? Un anarchico rivoluzionario? No, non era proprio un anarchico, perché allora, quando lui era in vita, l’anarchia non si era ancora compiuta in un qualche pensiero. Ma in tutte le città d’Italia c’è una via intitolata a Filippo Buonarroti. Qualcuno ha avuto la forza, il desiderio di intolargliela. Intorno agli anni ‘20 del 1800, Filippo Buonarroti è stato considerato, dai giornali conservatori di tutta Europa, il più grande rivoluzionario europeo vivente. Filippo Buonarroti ha fatto una cosa che nessun altro uomo ha osato compiere, nella storia dell’umanità. Ha fondato e costituito un paese a totale regime comunista: Oneglia. Lui, come prefetto robesperriano della Rivoluzione Francese, è stato mandato a governare Oneglia – sapete, Oneglia, in fondo alla Liguria, che allora era francese. E lì costituì un paese totalmente comunista, con l’estinzione della proprietà privata e il ricalcolo dei beni, a tutti. Guardate che i paesi che noi chiamiamo comunisti non si sono mai chiamati comunisti, si chiamavano “paesi socialisti verso il comunismo” (verso il baratro, poi). A Oneglia, invece: redistribuzione delle terre e istruzione obbligatoria fino al più alto grado, per tutti. E’ stato un paese comunista che è durato 9 mesi.Poi è arrivato il Direttorio, Robespierre ha fatto la fine che ha fatto, Buonarroti è stato richiamato a Parigi e messo in galera, e chi s’è visto s’è visto. Gli onegliesi, da allora, non si sono mai più ripresi. Perché è stata un’esperienza che ha sconvolto la loro vita, ha rivoluzionato ovviamente le loro vite, e da allora – fino a oggi – votano sempre e solo a destra. E’ dal collegio di Oneglia che è uscito fuori questo fiore della repubblica, il ministro Scajola. Se Buonarroti è ancora vivo, in qualche universo parallelo, forse si rende conto che avrebbe dovuto rivedere un po’ le sue posizioni. Ma il punto è un altro. Il titolo di questa conferenza dovrebbe essere questo: carne macinata per l’universo. E “carne macinata per l’universo” è il giudizio che dà Carlyle – il grande poeta, drammaturgo, uomo di cultura e anche politico, inglese – quando gli chiedono chi fosse Giuseppe Mazzini. Carlyle risponde: «Nessun uomo come Giuseppe Mazzini è, per me, carne macinata per l’universo». Quello che io so, di quello che è stato chiamato Risorgimento, è che ci sono state due generazioni di giovani europei, e in particolare due generazioni di giovani italiani, che hanno speso la loro vita e null’altra ambizione hanno avuto, per la loro vita, se non quella di farsi carne macinata per l’universo.Due generazioni di uomini e di donne che allora non si sono nemmeno poste il problema del sesso, maschile o femminile. E’ una cosa che noi forse non riusciamo a capire. Tutta l’Europa e gran parte del mondo (intendo le Americhe, soprattutto), per cinquant’anni hanno pensato all’Italia, a ciò che noi oggi chiamiamo Italia e che allora si chiamavano “gli Stati del territorio italiano”. E hanno guardato a ciò che accadeva, in quello che adesso è questo paese. Vi hanno guardato con la speranza, il timore, l’angoscia, la promettenza universale di chi pensava e dichiarava, sui giornali consevatori e progressisti, nelle riunioni dei gabinetti dei ministri inglesi o danesi o tedeschi o francesi: ciò che accade in Italia, come disse un giornalista del consevatore “Times”, è «il più grande teatro della storia a cui noi possiamo assistere: ciò che accade in Italia condizionerà la storia d’Europa e del mondo». Questo pensavano l’opinione pubblica, i politici, gli ambasciatori di tutta Europa e delle Americhe, osservando ciò che accadeva in Italia. Era straordinariamente più vasto, più grande e più radicale di ciò che comunque accadeva nel resto d’Europa – in alcune nazioni, almeno: nella Germania baltica, in Ungheria, in Polonia, in Grecia, in Francia. Due generazioni che hanno dedicato la loro vita alla rivoluzione.Ciò che essi chiamavano Risorgimento è stato un continuo susseguirsi di rivoluzioni territoriali. Guardate, ci sono stati moti rivoluzionari e insurrezioni dal 1821 al 1878 (e io sostengo fino al 1884, e poi spiego perché). E’ accaduto in Italia, ma anche nel resto d’Europa: certamente in Grecia, e in Francia fino al 1870. Rivoluzioni in nome di cosa? Quando studiamo il Risorgimento, leggiamo “Risorgimento, uguale: Unità d’Italia”. Ma c’erano quelle due generazioni di rivoluzionari, a vario titolo e in vario modo: Giuseppe Mazzini era un repubblicano, Giuseppe Garibaldi era repubblicano e socialista, Orsini era un anarchico repubblicano, Filippo Buonarroti era comunista, i fratelli Bandiera erano repubblicani e socialisti, Pisacane era forse comunista, chi lo sa. Ma non si davano etichette: avevano un pensiero, ciascuno il suo. Condividevano quel pensiero con altri, lo discutevano. E’ straordinaria la libertà di pensiero e di movimento del pensiero generata nell’incontro di queste due generazioni, in un paese come quello: il paese degli Stati componenti il territorio italiano, in nessuno dei quali era consentita la libertà di espressione.E’ straordinario come in questa servitù, in questa schiavitù, in questi Stati oppressivi (in un modo che la stessa regina Vittoria, conservatrice e reazionaria, considerava vergognoso) si ebbe una diffusione di opinioni e di libero pensiero – una diffusione libera, ricca, forte e, a volte, anche di grande contrasto. Non solo opinioni: opinioni che formano pensiero. Si sono formati dei pensieri che sono rimasti, e che sono stati pensieri costituenti la modernità e la contemporaneità del Novecento. Ciò che le due generazioni di giovani italiani e di giovani europei hanno costruito, dal punto di vista del pensiero, è la base a fondamento del pensiero ottocentesco, novecentesco e, per quanto ne so io, è ancora oggi strumento di valutazione e di comprensione della contemporaneità. La critica che faceva Giuseppe Mazzini al comunismo nel 1852 è una critica che oggi condivido totalmente – io, che vado a dire in giro di essere un anarchico, e che mi sento profondamente legato a un modo del pensiero libertario anarchico. Mazzini dibatte senza diffamare nessuno, senza sporcare il suo pensiero con nessuna menzogna – e questo è importante, perché il pensiero oggi tendiamo sempre a sporcarlo, e non riesco a capire perché. C’è una parola, che io metto assieme a quelle due generazioni di giovani rivoluzionari: uomini e donne casti, di casto pensiero (e vita). Un agire e un pensare privo di malizia, candidamente casto.La prima cosa che Mazzini dice, sul comunismo, è: attenzione, perché l’abolizione delle classi, così come concepita nel pensiero comunista, genererà una nuova classe, e quella nuova classe sarà oppressiva quanto la vecchia classe dei capitalisti, e forse di più. E se non sarà oppressiva dal punto di vista economico, lo sarà dal punto di vista politico e culturale. Questo scriveva, Mazzini. Abbiamo da discutere, su questo. Ma pensate che sia infondata, come critica? Direi che è estremamente moderna, forse. Ma non è questo il punto. Mi piacerebbe raccontare di Mazzini, di Garibaldi. E mi piacerebbe anche raccontare di Carmine Crocco. Era un uomo del Risorgimento, che si è fatto bandito – fuorilegge – perché giustamente trovava intollerabile, insieme a una massa di contadini, di pastori e di artigiani, il fatto di aver sperato con tutta l’anima e con tutto il cuore, dal 1831 (i primi grandi moti siciliani e calabresi), in una rivoluzione sociale che avrebbe finalmente rotto le catene medievali della proprietà privata concepita nel latifondo, e avrebbe dato finalmente un minimo di equità sociale.Due generazioni di siciliani, calabresi e napoletani hanno pensato a questo: hanno pensato di aver finalmente coronato il loro sogno impossibile, quando Garibaldi arriva coi suoi volontari e, per prima cosa, dopo aver preso possesso dei palazzi comunali e di governo, emana ordinanze che riducono le tasse, ridistribuiscono le terre ai senza terra (per quanto possibile, attraverso la riforma catastale) e garantiscono un minimo di istruzione per tutti. Ecco, per prima cosa Garibaldi fa questo. Se ne va a Teano, e lì il Piemonte (Vittorio Emanuele) prende possesso dei territori conquistati dai volontari repubblicani e socialisti di Garibaldi, diventati da mille a sessantamila con i volontari siciliani, calabresi e campani. E nel giro di 6 mesi vengono abolite tutte le ordinanze, intese alla giustizia sociale, alla libertà di espressione e a un minimo di redistribuzione delle terre – tutte abolite. Nel giro di due anni, i territori meridionali dell’Unità d’Italia hanno una tassazione, per le fasce basse della popolazione, che è il doppio della tassazione imposta dai borbonici. Non solo: le popolazioni dell’Italia meridionale si devono pagare le spese dello stato d’assedio, perché in due anni le terre liberate vengono assoggettate alla legge marziale.Questo perché le rivoluzioni, le insurrezioni e le rivolte cominciate nel 1831 per la giustizia sociale continuano, perché la giustizia sociale non c’è. Quando oggi ci poniamo la questione cosiddetta meridionale, vogliamo ricordarci di quelle due generazioni? Generazioni di giovani uomini e giovani donne, che altro non hanno vissuto se non per un po’ di giustizia e di libertà. E sono state distrutte, letteralmente distrutte, dal regno unitario. Carmine Crocco era un bandito – come altri cento, duecento banditi. Ma lo voleva con una forza che è calabrese, contro la quale non c’è niente da fare. Finché tutto non è finito: nell’eccidio, nella violenza, nella strage. Se sfogliate i tomi fotografici della storia d’Italia editi da Einaudi, scoprite che la più grande quantità di documenti fotografici relativi al paese immediatamente post-unitario riguarda le fotografie degli uomini uccisi in Campania, in Basilicata, in Calabria e in Sicilia. Mettevano in posa 10-20 morti ammazzati, e i carabinieri se li fotografavano – fotografavano le teste mozzate. Non solo: prima di fucilarli, li mettevano in posa coi loro schioppi e li fotografavano. C’era molta modernità, nello stato d’assedio. C’era molta intuizione, nella nuova società – nella legge marziale. Carne macinata per l’universo.L’Unità d’Italia? Certo, questi uomini e queste donne pensavano all’Unità d’Italia. Ma cosa significava, per loro, l’Unità d’Italia? Lo dicono, lo hanno scritto. Sapete quante lettere ha scritto, Giuseppe Mazzini, nella sua vita? Nessuno ne ha idea. Pare che fossero almeno 8-900.000, per quello che si sa. Non ne sono rimaste che 70-80.000. Le altre sono state tutte bruciate da chi le riceveva o confiscate dalla polizia, ma soprattutto bruciate, perché chi aveva una lettera di Mazzini veniva arrestato e finiva in galera. Come forse sapete, Giuseppe Mazzini ha vissuto tre quarti della sua vita nascosto, perché perseguito da due, tre, quattro polizie. E’ stato condannato a morte in contumacia. Andate a vedere a Londra dove ha vissuto, in quali case d’appartamento, in quali stanze, quasi sempre con le finestre chiuse o le tende tirate. Alla fine, vecchio, non lo hanno arrestato anche se si sapeva che “forse” era a Pisa, dove ha vissuto gli ultimi mesi prima di morire, nascosto in una casa, potendo uscire solo per dieci minuti, di notte. L’unica cosa che ha chiesto, una settimana prima di morire – e per poterla realizzare sono state spese le energie di 30-40 uomini, suoi amici – è che fosse portato a Firenze, di notte, e che si riuscisse ad aprirgli Santa Croce: prima di morire, Mazzini voleva vedere la tomba di Ugo Foscolo. E Ugo Foscolo è uno di quei ragazzi di quelle due generazioni. Se n’era andato a di casa a 18 anni, per non tornarci più: esule. Ugo Foscolo è uno di loro.L’Unità d’Italia, certo: perché comunque, per tutti, gli ideali rimanevano quelli – libertà, giustizia e solidarietà. Gli Stati territoriali di ciò che oggi chiamiamo Italia erano tutti, direttamente o indirettamente, proprietà e comproprietà di paesi stranieri: la Francia, la Germania, la Spagna. Da secoli, erano così. Ed erano tutti a regime strettamente, rigidamente oppressivo. Nessuno di quei giovani pensava, ragionevolmente, di poter ottenere una vera Costituzione, un vero suffragio universale, un vero piano di giustizia e un vero piano di equità, se non attraverso la cacciata dei regimi stranieri, coloniali, e l’instaurazione di un regno che non poteva appartenere a nessuna delle casate che mantenevano un regime di spietato egoismo dinastico. Questa era l’Italia unita. L’unico modo per raggiungere questo ideale era quello: un anno via l’altro c’erano insurrezioni, sommosse e rivoluzioni. E quando si dice che è stata una minoranza, a volere l’Unità d’Italia, si dice la più grande menzogna – ma si dice anche una verità: perché la gran parte di quei rivoluzionari erano ragazzi, che poi sono diventati uomini. A 18 anni si partiva, sulla strada che avrebbe portato all’esilio, o alla morte.Due generazioni: 1821, i primi segni di rivolta; 1828, le grandi rivolte; 1831, le rivoluzioni al meridione d’Italia, in particolare in Sicilia. Se avete letto un po’ di storia, alle scuole medie, non vi viene in mente una cosa? Tre anni prima, a Vienna, tutti i potenti d’Europa si mettono d’accordo per stabilizzare il continente, in modo tale da assicurare a se stessi la garanzia che quello sarà un sistema di equilibri che durerà in eterno. Al Congresso di Vienna si chiude – per sempre, dicono: definitivamente – un’epoca di rivoluzioni, l’epoca della Rivoluzione Francese, e si instaura il Nuovo Ordine d’Europa, basato su equilibri così stabili che potrà durare in eterno. Questo dicono gli uomini riuniti a Vienna. Tre anni dopo, cominciano i casini. Dieci anni dopo siamo in pieno casino. Trent’anni dopo, in Europa succede una cosa che ricordiamo ancora adesso, volenti o nolenti: succede il ‘48, è successo un Quarantotto. Cioè: nel 1848, nessuno dei principi, nessuna delle illusioni, nessuna delle certezze di Vienna stava ancora in piedi – finito, tutto. Niente, nel ‘48, aveva più senso, di quello che sembrava avere senso in eterno.Io incontro tanta gente, ogni giorno, e vedo sguardi e occhi avviliti, scorati, depressi. E’ lo scoramento di chi dice: non c’è niente da fare, non c’è nessuna possibilità. E io penso a quanto erano tronfi, tranquilli e sicuri i re, gli imperatori, le regine, le troie di regime, i chierici e i cardinali di corte, nel 1818. E come potessero essere frustrati, i reduci della Rivoluzione Francese e quelli di Napoleone (che anche lui i suoi vizi li aveva, in fatto di assolutismo). Ma son bastati pochi anni: cosa vuol dire, “non c’è niente da fare”? Pensate a come poteva essere più oppressivo di oggi, il clima europeo del 1819, ‘20, ‘21 e ‘22. Eppure, già dieci anni dopo, tutta l’Italia e gran parte dell’Europa erano in movimento. Una generazione nata lì – sedicenni, diciassettenni, diciottenni – era già in movimento. E perché questo non può più accadere? Chi lo dice? Loro non avevano contro la televisione, è vero, però avevano altro: avete idea di che lavoro facessero, dal punto di vista “televisivo”, i 300.000 sacerdoti sparsi per l’Italia, nel 1818, 1819 e 1820? Non tutti, certo. Ma pensate a Garibaldi, che in punto di morte disse: fatemi di tutto, ma non mettetemi davanti un prete. Lo scrisse: non fatemi vedere un prete un punto di morte. Eppure, lui doveva la sua vita a un prete.Garibaldi doveva la vita a Don Verità. E conoscete Ugo Bassi? Io ci avevo la scuola, in via Ugo Bassi. Sapete chi era? Era un prete che in Romagna, insieme a Don Verità, aiutò Garibaldi a sfuggire all’accerchiamento delle truppe papali e austriache. Don Verità è riuscito a cavarsela, dopo essersi portato Garibaldi in spalla, per mezza nottata. Bassi non se l’è cavata: è stato fucilato dagli austriaci, per aver aiutato Garibaldi. Certo, se l’Unità d’Italia è quello Stato che, per prima cosa, ha come effetto il raddoppio e la triplicazione degli affitti dei fondi agricoli, che significa mettere alla fame i contadini; se è quello Stato dove i parlamentari che fanno le leggi vengono eletti soltanto dai grandi proprietari terrieri e dell’esigua grande borghesia cittadina, cioè appena l’1,8% dei potenziali aventi diritto al voto; se è l’Italia che stabilisce la legge marziale al meridione contro le sommosse per la terra e aumenta la tassa sul macinato, quella è l’Italia voluta da quei proprietari terrieri. Gli aventi diritto al voto erano quelli: una piccola minoranza, che è diventata la classe dirigente unitaria. Ma l’Unità d’Italia come baluardo, come certezza contro qualunque regime oppressivo e totalitario, come autodeterminazione di un popolo che non c’era ma che andava facendosi, “dagli atrii muscosi, dai fori cadenti”, come unica chance in nome della giustizia, della libertà e dell’equità, ebbene, quell’Italia la voleva la stragrande maggioranza della gente.E la Repubblica Romana? Lo so, al Nord abbiamo dei romani l’impressione di gente, come dire, poco attiva – sbagliato, sbagliatissimo. Andatevi a leggere le corrispondenze dei giornali francesi, americani, inglesi. Andatevi a leggere i rapporti degli ambasciatori, dei viaggiatori, dei turisti che erano a Roma nel ‘49. E’ straordinario, dicono: non avremmo mai creduto che la Repubblica avesse così tanta popolarità tra i ceti inferiori della società. Non avremmo mai immaginato che potesse essere governata in modo così equo e così tollerante. Scrive il “Times”: «Ci dice il nostro primo ministro che Giuseppe Mazzini è un sanguinario rivoluzionario, ma nei suoi atti e nei suoi decreti si trova più tolleranza che nel nostro paese, che pure è democratico dal 1.000 dopo Cristo». La Repubblica Romana era vista da tutta Europa come un esperimento straordinario di autodeterminazione del popolo. C’erano i danesi, che venivano a vedere la Repubblica Romana: volevano capire come poter fare. C’erano gli ungheresi, c’erano i polacchi. Perché c’erano i greci, gli ungheresi e i polacchi a cercare di dare una mano alla Repubblica Romana? Perché avrebbero voluto anche loro poter sviluppare una cosa così incredibile e grandiosa come l’autodeterminazione democratica. Sapete qual è la prima legge emanata dalla Repubblica Romana? La libertà di espressione religiosa. E la sera dell’emanazione della legge, vengono aperte le porte del ghetto ebraico.Quanti traditori ha avuto il Risorgimento? Quanti delatori? Quante spie? Mazzini aveva costantemente due spie alla porta. Metternich affermava di aver speso più soldi per le spie dietro a Mazzini che per i suoi servizi segreti personali. Metternich e Pio IX hanno letto, finché le ha scritte, tutte le lettere d’amore di Mazzini. Oggi ci lamentiamo della privacy, diciamo basta al gossip – ma era Pio IX, che si leggeva le lettere d’amore di Mazzini! E Mazzini ha avuto una sola storia d’amore, nella sua vita. E quella donna, Giuditta, l’avrà incontrata in tutta la sua vita forse dieci volte. Si sono solo scritti lunghe lettere d’amore: lunghe, bellissime, caste lettere d’amore. Giuditta aveva marito, ma allora c’era la rivoluzione. A 18 anni, Pisacane era già in galera per adulterio. E’ straordinario come, nel liberarsi dell’energia, della forza intellettuale, politica, ideale, si liberino anche un sacco di altre energie. Il Sessantotto ha portato questo? Ma c’era già nel Quarantotto, ragazzi. Quante donne hanno abbandonato i loro mariti, per arruolarsi volontarie nella Repubblica Romana o nella spedizione dei Mille? La Della Torre s’era vestita da ammiraglio per andare a Calatafimi (e ha finito la sua vita in manicomio, perché poi tutto è stato “messo via”).Tutto è stato “messo via” perché era intollerabile che potesse essere permesso il sopravvivere di una memoria collettiva – che ci fu. Fino al 1880, i siciliani e i calabresi venivano “sparati” quando cercavano di andarsi a prendere un pezzo di terra da un latifondo. Sapete cosa pensavano? Che Garibaldi sarebbe tornato. E quando Garibaldi morì, nessuno ci credette: perché Garibaldi era il Redentore, e il Redentore non muore. Il Redentore non può abbandonare. Il Redentore torna: questo pensavano. E’ ingenuo. E’ stupido, forse. E’ una follia stupida. Ma guardate, nella leggenda nazionale della Fiandra, che adesso è metà olandese e metà belga – la leggenda di Thyl Ulenspiegel, il contadino che da solo combatte contro il Duca d’Alba, contro la grande oppressione papista, spagnola, delle Fiandre – quest’uomo viene bruciato, alla fine, insieme alla sua donna. Però la leggenda finisce dicendo: ma lui non è morto, tornerà. Ecco, questo è stato spento. Questa memoria è stata spenta. E chi ha fatto l’operazione più geniale è stato certamente Benito Mussolini – che se l’è ripreso, il Risorgimento, per spegnerlo definitivamente. Ma la memoria è stata spenta ancora prima, quando il Regno d’Italia appena unito è stato diviso in due dalla legge marziale.Sapete cos’è la legge marziale? Si può sparare a chiunque. I carabinieri sparavano e tagliavano le teste, poi le mettevano nelle gabbie e le appendevano all’ingresso dei paesi. Certo, teste di banditi e di assassini – tanti lo erano. Quando si fa una rivolta di contadini, bisogna sapere (parafrasando Mao) che i contadini non sanno nemmeno cos’è, un invito a cena. Quanto è stato rubato, di tutto questo? Sapete qual è stata l’attività principale di Giuseppe Mazzini, oltre a scrivere lettere? Quello che ha fatto più a lungo, per tutta la vita, è stato il maestro. Giuseppe Mazzini, carne macinata per l’universo, ha fondato alla fine degli ‘40, in Inghilterra, una scuola popolare per i bambini-schiavi italiani. Negli anni ‘40 dell’800, a Londra, era calcolato che ci fossero migliaia di bambini venduti in Italia – venduti come schiavi – e portati dagli scafisti italiani a Londra, dov’erano trattati da schiavi (tutti morivano prima della maggiore età) e giravano per Londra. Si chiamavano “i bambini dell’organetto”: chiedevano l’elemosina suonando l’organetto. Quando Mazzini apre la sua scuola, tutti gli dicono: non è possibile, non verrà nessuno, quei bambini hanno troppa paura dei loro padroni. Quella scuola verrà incendiata decine di volte, e risorgerà sempre. Uno dei suoi costanti finanziatori è stato Charles Dickens – e chi, se non lui, poteva avere in simpatia una scuola popolare per bambini schiavi?Un mese dopo l’apertura, in quella scuola c’erano 200 bambini. Si reggeva sul volontariato: chiunque avesse titoli, andava a insegnare. Tutte le domeniche, Giuseppe Mazzini – per trent’anni – è andato a insegnare in quella scuola: carne macinata per l’universo. Giuseppe Garibaldi sapete di cosa viveva? Viveva del soldo militare, che prendeva una volta sì e l’altra no. Il suo soldo militare, Garibaldi l’ha speso per la sua follia. Tutti erano uomini folli. La sua follia era poter vivere in un posto dove sentirsi, sempre e comunque, libero. La sua follia era vivere in un posto di granito, battuto dai venti, dove poter far crescere la vigna e il grano e le greggi. Non c’è mai riuscito. Ci ha messo tutto quello che aveva, e non ci è mai riuscito. Andate a Caprera, a vedere com’è possibile. Eppure, mangiava solo di quello che coltivava e di quello che pescava. E sua figlia lo sgridava sempre: perché veniva gente, e a pranzo si mangiava due gamberi crudi sopra un foglio di giornale. Bene, Garibaldi è diventato ricco in fin di vita. E’ diventato ricco perché gli è stato imposto – da Depretis, che era un suo amico: Depretis, il fondatore della vergogna politica nazionale, un uomo tra i più spregevoli della storia nazionale, quello che ha inventato (da primo ministro) il trasformismo – prima, da ragazzo, era un garibaldino. Depretis è andato da Garibaldi a dirgli: per favore, prendi la pensione. Perché Garibaldi non aveva mai voluto la pensione del re. Alla fine l’ha presa, perché il re d’Italia aveva paura di essere svergognato in tutta Europa, perché a Garibaldi stavano pignorando l’isola, per debiti.Il 2 agosto, a Cesenatico, c’è un’esplosione di fuochi d’artificio, ci sono stormi di piade e piadine che a migliaia sorvolano tutto il paese, ripiene di salsiccia, di formaggio e di prosciutto, tra lo scoppiare delle orchestre, della bande musicali e dei fuochi d’artificio. Non è la festa del turista, è la festa della Trafila. La “trafila” è passarsi oggetti di mano in mano, come quando una casa brucia e ci si mette in fila passandosi i secchi d’acqua. Il 2 agosto, in quella piccola comunità di Cesenatico, ci si ricorda di una delle storie più belle, più affascinanti, più ricche e più straordinarie, una delle diecimila meravigliose storie delle rivoluzioni che chiamiamo Risorgimento italiano. Ed è la storia di tutto un popolo, il popolo romagnolo – contrabbandieri fluviali, contadini braccianti, notai, preti (Don Verità e Don Bassi), custodi delle chiuse polesane, cavallari. Tutti: tutto il popolo di Romagna che, per 13 giorni e 13 notti, si è passato di mano in mano Giuseppe Garibaldi, sua moglie Anita e il colonnello Leggero – un sardo che a 12 anni si era arruolato come mozzo in marina e a 16 anni aveva già disertato per andare con Garibaldi, per questo condannato a morte. Era il suo luogotenente: “leggero”, perché era alto un metro e venti. Morirà credo a 90 anni, con una moglie di 60 anni più giovane di lui – perché i garibaldini, sapete…Dicevo, la Trafila: per 13 giorni e 13 notti, Garibaldi, Anita e il “minuto” vengono passati di mano in mano per sfuggire all’accerchiamento dell’esercito papista e austriaco. Garibaldi, 1849: la Repubblica Romana è persa. Lui scappa, ma non torna a casa. Non torna a Montevideo, dove già allora è considerato eroe nazionale. Se ne va a Venezia, perché la Repubblica Veneziana resiste (“sul ponte sventola bandiera bianca”). Ma lì non c’era ancora, la bandiera bianca. E Garibaldi, con la moglie incinta di sei mesi, vuole andare a combattere per la repubblica veneta. A San Marino viene circondato. E’ spacciato? No. Tutto il popolo di Romagna si organizza clandestinamente, e Garibaldi e sua moglie – con una fatica immensa: siamo in pieno agosto – riescono in 13 tappe ad essere portati, di mano in mano, come figli. Tra le tante cose orrende della cultura popolare c’è un catechismo garibaldino. Nel catechismo a un certo punto c’è la domanda: chi è la santissima trinità? La risposta garibaldina è: nella persona di Giuseppe Garibaldi si “sustanziano” il padre della patria, il figlio del popolo, lo spirito della libertà. Portato di mano in mano, come un figlio. Muore Anita – per la sete, la fatica, lo sfinimento. Muore in una capanna, in mezzo al Polesine. Ma negli stessi giorni, in un vallone lucano, tutto il popolo (diretto ancora oggi da Michele Placido) si mette in costume e rappresenta l’ultima grande battaglia – e l’ultima sconfitta – di Carmine Crocco e degli altri briganti (figli del popolo, spirito di libertà) distrutti dall’esercito unitario sabaudo.(Maurizio Maggiani, dichiarazioni rilasciate nell’ambito della conferenza “Risorgimento senza memoria” al Salone del Libro di Torino, 16 maggio 2010. Autore di bestseller come “Il coraggio del pettirosso”, “La regina disadorna” e “Il viaggiatore notturno”, Premio Strega 2005, Maggiani ha scritto “Quello che ancora vive”, dedicato alla memoria garibaldina della Trafila romagnola, mentre opere più recenti come “I figli della Repubblica” e “Il romanzo della nazione” sviluppano personalissime riflessioni sul carattere del popolo italiano).Sono tornato in via Filippo Buonarroti, sono tornato in via Ferrari, in piazza Garibaldi e dove ho fatto le scuole, in via Ugo Bassi. Qualcuno di voi si ricorda di chi era Filippo Buonarroti? Un anarchico rivoluzionario? No, non era proprio un anarchico, perché allora, quando lui era in vita, l’anarchia non si era ancora compiuta in un qualche pensiero. Ma in tutte le città d’Italia c’è una via intitolata a Filippo Buonarroti. Qualcuno ha avuto la forza, il desiderio di intitolargliela. Intorno agli anni ‘20 del 1800, Filippo Buonarroti è stato considerato, dai giornali conservatori di tutta Europa, il più grande rivoluzionario europeo vivente. Filippo Buonarroti ha fatto una cosa che nessun altro uomo ha osato compiere, nella storia dell’umanità. Ha fondato e costituito un paese a totale regime comunista: Oneglia. Lui, come prefetto robesperriano della Rivoluzione Francese, è stato mandato a governare Oneglia – sapete, Oneglia, in fondo alla Liguria, che allora era francese. E lì costituì un paese totalmente comunista, con l’estinzione della proprietà privata e il ricalcolo dei beni, a tutti. Guardate che i paesi che noi chiamiamo comunisti non si sono mai chiamati comunisti, si chiamavano “paesi socialisti verso il comunismo” (verso il baratro, poi). A Oneglia, invece: redistribuzione delle terre e istruzione obbligatoria fino al più alto grado, per tutti. E’ stato un paese comunista che è durato 9 mesi.
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Istat: l’economia sommersa in Italia vale oltre 200 miliardi
La ricchezza prodotta nel 2016 da economia sommersa e attività illegali è salita a 210 miliardi dai 208 del 2015, anche se il suo peso sul Pil è lievemente calato dal 14,4 al 12,6%. Le sole attività illegali, cioè produzione e traffico di droga, prostituzione e contrabbando di tabacco, che dal 2014 sono inserite nei conti nazionali e contribuiscono al prodotto interno lordo, hanno generato un valore aggiunto di quasi 18 miliardi in aumento dai 17,2 del 2015. La spesa delle famiglie per questo tipo di “prodotti” è salita da 19 a 19,9 miliardi come conseguenza di “un aumento dei prezzi degli stupefacenti a fronte di una sostanziale stabilità dei volumi”. Sono i dati dell’annuale rapporto dell’Istat sul nero e l’illegalità, da cui emerge anche che i lavoratori irregolari sono 3,7 milioni (in lievissimo calo rispetto al 2015) contro i 20 milioni in regola. Chi lavora in nero, emerge dalle tabelle dell’istituto, viene contato nelle statistiche ufficiali degli occupati. Il valore aggiunto generato dall’economia sommersa, che va dalle sotto-dichiarazioni fiscali all’impiego di lavoro irregolare agli affitti in nero, ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i quasi 18 miliardi dell’illegalità e del suo indotto.Le stime «confermano la tendenza alla discesa dell’incidenza della componente non osservata dell’economia sul Pil dopo il picco del 2014», quando il valore totale era salito a 211 miliardi di euro. Per quanto riguarda le attività illegali, l’Istat segnala che l’incremento complessivo è determinato dal traffico di stupefacenti il cui valore aggiunto è salito di 0,8 miliardi per effetto dell’aumento dei prezzi. Per i servizi di prostituzione si stima un valore aggiunto pari a 3,7 miliardi di euro e consumi per 4 miliardi, sostanzialmente invariati rispetto al 2015. Anche le attività di contrabbando di sigarette mantengono un livello analogo all’anno precedente, con un valore aggiunto pari a 0,4 miliardi e un ammontare di consumi di 0,6 miliardi. L’indotto connesso alle attività illegali, riferito per la maggior parte al settore dei trasporti e del magazzinaggio, si è mantenuto costante, generando un valore aggiunto pari a circa 1,3 miliardi di euro. Quanto alla composizione dell’economia non osservata, la sotto-dichiarazione pesa per il 45,5% del valore aggiunto (-0,6 punti percentuali rispetto al 2015) e il resto è attribuibile per il 37,2% all’impiego di lavoro irregolare (37,3% nel 2015), per l’8,8% alle altre componenti (fitti in nero, mance e integrazione domanda-offerta) e per l’8,6% alle attività illegali (rispettivamente 9,6% e 8,2% l’anno precedente).Per quanto riguarda la ripartizione tra i settori economici, il sommerso pesa di più nei servizi, in cui l’incidenza è del 33,3%, nel comparto commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (23,7%) e nelle costruzioni (22,7%). Anche il peso della sotto-dichiarazione sul complesso del valore aggiunto risulta è più rilevante in quei settori. Nell’industria, l’incidenza è relativamente elevata nella produzione di beni alimentari e di consumo (7,5%) e molto contenuta in quella di beni di investimento (2,3%). Le unità di lavoro irregolari nel 2016 erano 3,7 milioni, in calo di 23mila unità rispetto al 2015. Lavorano in nero 2,7 milioni di dipendenti e 1 milione di autonomi. Il tasso di irregolarità, calcolato come incidenza delle unità di lavoro non regolari sul totale, è pari al 15,6%, 0,3 punti in meno rispetto all’anno precedente. L’incidenza del lavoro irregolare è particolarmente rilevante nel settore dei servizi alle persone (47,2% nel 2016, in calo di 0,4 punti percentuali rispetto al 2015), ma è significativo anche nell’agricoltura (18,6%), nelle costruzioni (16,6%) e nel comparto commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (16,2%).(“Economia sommersa, nel 2016 è salita a 210 miliardi: 18 da attività illegali. Sono 3,7 milioni gli occupati irregolari”, da “Il Fatto Quotidiano” del 12 ottobre 2018).La ricchezza prodotta nel 2016 da economia sommersa e attività illegali è salita a 210 miliardi dai 208 del 2015, anche se il suo peso sul Pil è lievemente calato dal 14,4 al 12,6%. Le sole attività illegali, cioè produzione e traffico di droga, prostituzione e contrabbando di tabacco, che dal 2014 sono inserite nei conti nazionali e contribuiscono al prodotto interno lordo, hanno generato un valore aggiunto di quasi 18 miliardi in aumento dai 17,2 del 2015. La spesa delle famiglie per questo tipo di “prodotti” è salita da 19 a 19,9 miliardi come conseguenza di “un aumento dei prezzi degli stupefacenti a fronte di una sostanziale stabilità dei volumi”. Sono i dati dell’annuale rapporto dell’Istat sul nero e l’illegalità, da cui emerge anche che i lavoratori irregolari sono 3,7 milioni (in lievissimo calo rispetto al 2015) contro i 20 milioni in regola. Chi lavora in nero, emerge dalle tabelle dell’istituto, viene contato nelle statistiche ufficiali degli occupati. Il valore aggiunto generato dall’economia sommersa, che va dalle sotto-dichiarazioni fiscali all’impiego di lavoro irregolare agli affitti in nero, ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i quasi 18 miliardi dell’illegalità e del suo indotto.
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Moni Ovadia: accuso Israele, infame chiamarmi antisemita
Chi critica la politica di Israele e in particolare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi viene spesso tacciato di anti-semitismo. Come si può sfatare questa accusa? Innanzitutto denunciandola per quello che è: un’infamia, una bieca propaganda per tappare la bocca degli uomini liberi. Una viltà per impedire qualsiasi discorso sull’ingiustizia subita dal popolo palestinese e anche una forma di corto-circuito psicopatologico, di paranoia. E’ come se chi la formula vivesse nella Berlino del 1935 e non in un paese armato fino ai denti, dotato anche di armi nucleari e alleato non solo degli Stati Uniti, ma anche di fatto dell’Egitto, della Giordania e dell’Arabia Saudita. L’unico paese che fa quello che vuole e ignora le risoluzioni dell’Onu senza che la comunità internazionale muova un dito. Io stesso ho subito questa infamia. Siccome l’antisemitismo in Italia è un reato, ho sfidato i miei accusatori a trascinarmi in tribunale, così vedremo come stanno davvero le cose. Inoltre li ho invitati a farsi vedere da uno psichiatra per una lunga terapia. Come giudico la legge approvata un mese fa dal Parlamento israeliano, che dichiara Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”? La considero una legge che istituisce “de iure” l’apartheid e il razzismo, che esisteva già “de facto”, ed esprime una logica e una mentalità colonialista. E’ una follia, quando il 20% della popolazione è arabo-palestinese e dunque Israele è già uno stato bi-nazionale.Non sto dicendo che tutti gli israeliani abbiano questa mentalità: ci sono quelli attanagliati dalla paura e preda del mito dell’accerchiamento, quelli che preferiscono non vedere la realtà e quelli che criticano questa politica e pagano le conseguenze del loro coraggio. Purtroppo questi ultimi sono una minoranza, ma nella storia sono state spesso le minoranze a redimere e salvare. La maggioranza ha il diritto di governare, ma non quello di avere ragione. Organizzazioni come “Combatants for Peace” riuniscono israeliani e palestinesi passati alla nonviolenza dopo aver partecipato ad azioni militari gli uni contro gli altri. La Marcia delle Madri ha coinvolto migliaia di donne ebree, musulmane e cristiane per esigere una soluzione nonviolenta del conflitto accettabile dalle due parti. Sono iniziative coraggiose e ammirevoli, portate avanti da persone che vengono boicottate dal governo e accusate di essere contro gli interessi di Israele. Vorrei citare anche i giovani obiettori di coscienza che preferiscono andare in carcere, piuttosto che servire come militari nei territori occupati, e associazioni per i diritti umani come B’Tselem.Due anni fa il suo direttore Hagai El-Ad ha auspicato “azioni immediate” contro gli insediamenti di Israele durante una sessione speciale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’occupazione e ha denunciato «l’invisibile, burocratica violenza quotidiana» che i palestinesi subiscono «dalla culla alla tomba». Cosa possiamo fare, come europei e in particolare italiani, per contribuire a una soluzione pacifica del conflitto tra Israele e Palestina? La prima cosa è il lavoro culturale di cui parlavo prima: non smettere mai di ribadire che la denuncia delle ingiustizie e delle sopraffazioni subite dai palestinesi non c’entra niente con l’antisemitismo e la Shoà. In secondo luogo, fare pressione sui governi perché prendano posizione ed esigano il rispetto delle risoluzioni dell’Onu sempre violate da Israele. Terzo, appoggiare il movimento Bds, una campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, chiedendo all’Europa di sequestrare (in quanto illegali) le merci prodotte nei territori occupati e negli insediamenti dei coloni. Il messaggio è semplice, ma molto forte: “Non sono terre vostre, pertanto queste sono merci di contrabbando, fuorilegge, e noi non le vogliamo”.(Moni Ovadia, dichiarazioni rilasciate ad Anna Polo per l’intervista “Accusare di antisemitismo chi critica la politica di Israele è un’infamia”, pubblicata da “Pressenza” e ripresa da “Contropiano” il 9 settembre 2018).Chi critica la politica di Israele e in particolare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi viene spesso tacciato di antisemitismo. Come si può sfatare questa accusa? Innanzitutto denunciandola per quello che è: un’infamia, una bieca propaganda per tappare la bocca degli uomini liberi. Una viltà per impedire qualsiasi discorso sull’ingiustizia subita dal popolo palestinese e anche una forma di corto-circuito psicopatologico, di paranoia. E’ come se chi la formula vivesse nella Berlino del 1935 e non in un paese armato fino ai denti, dotato anche di armi nucleari e alleato non solo degli Stati Uniti, ma anche di fatto dell’Egitto, della Giordania e dell’Arabia Saudita. L’unico paese che fa quello che vuole e ignora le risoluzioni dell’Onu senza che la comunità internazionale muova un dito. Io stesso ho subito questa infamia. Siccome l’antisemitismo in Italia è un reato, ho sfidato i miei accusatori a trascinarmi in tribunale, così vedremo come stanno davvero le cose. Inoltre li ho invitati a farsi vedere da uno psichiatra per una lunga terapia. Come giudico la legge approvata un mese fa dal Parlamento israeliano, che dichiara Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”? La considero una legge che istituisce “de iure” l’apartheid e il razzismo, che esisteva già “de facto”, ed esprime una logica e una mentalità colonialista. E’ una follia, quando il 20% della popolazione è arabo-palestinese e dunque Israele è già uno stato bi-nazionale.
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Pornografia e feticismo, la postmodernità delle anime morte
La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.Schiavitù economica contrabbandata come libertà per i singoli, ma fino a un certo punto, perché si mina alla base il concetto di uguaglianza (perché dovremmo essere uguali? L’individuo non deve essere uguale a nessun altro) per favorire l’individualismo thatcheriano. Negli ultimi 10 anni si sono diffuse in Europa vari tipi di forze politiche, che sono state definite dal potere “populismi”: Indignados, Sovranisti, Podemos, M5S. Ma secondo l’ordine simbolico e linguistico imposto dal potere, con il solo obiettivo di rinsaldare il proprio dominio sui dominati, è necessario controllare la popolazione, e mantenere la massa schiavizzata in una condizione di subalternità, in modo tale che la neolingua possa diventare veicolo di potenziamento dei valori del neoliberismo. Dal 1989 il capitale ha adottato una nuova neolingua, e chiunque metta in discussione il potere oligarchico viene demonizzato come disfattista, complottista, o populista. La categoria di populista serve esattamente a diffamare ogni prospettiva che assuma la parte del Servo e non del Signore (“Fenomenologia dello spirito”, W. Friedrich Hegel).Oggi viene diffamato chiunque prenda la difesa dei lavoratori precarizzati e schiavizzati, perché ciò contraddice il potere, che vuol contrabbandare i propri dogmi ideologici come fossero interessi universali: concorrenza, competitività, globalizzazione, delocalizzazione, cancellazione dell’articolo 18, licenziabilità senza giusta causa, flessibilità. Chiunque abbia il coraggio di svelare il vero significato oscurato della neolingua viene silenziato come populista e complottista, incapace di accettare la mera ricostruzione dei fatti e degli eventi prospettata dalla mediatizzazione della realtà, che il potere ci mostra quotidianamente sugli schermi televisivi. Il termine “populismo” o “antipolitica”, viene quindi usato dal potere con toni spregiativi e diffamatori, è diventato una specie di parolaccia. E i media ci presentano una realtà confusa e distorta, Grillo come Trump, Raggi come Obama, l’imperatore buono, Premio Nobel per la pace, in realtà ha sostenuto 7 guerre in contemporanea (Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria).Modernità e Postmodernità. Termini che indicano lo spirito di una civiltà, nel suo divenire storico, antropologico e culturale. La distinzione va ricercata secondo un’analisi marxista, l’aforisma di Marx, per cui «la cultura dominante coincide perfettamente con la cultura della classe dominante» (Karl Marx, “Ideologia tedesca”). Le realtà virtuali, l’iperrealtà, sono la matrice della Postmodernità, strettamente correlate all’uso di macchine creatrici di virtualità: Pc, Tablet, iPhone… Se la “produzione” è la cifra della Modernità, la “simulazione” è quella della Postmodernità. La Postmodernità ridimensiona la produzione per favorire la simulazione, sposta ingenti masse di salariati dalle fabbriche al terziario o oltre, azzera quella middle class che era il volano dell’economia dei consumi, chiude impianti produttivi. La disoccupazione di massa è la vera piaga della postmodernità: felicità virtuale e disperazione reale.L’Illuminismo aveva concentrato l’attenzione sull’impatto politico della nuova mentalità scientifica, che inneggiava all’“Homo faber fortunae suae”, e aveva indotto i nuovi uomini a sostenere le prime grandi rivoluzioni della storia, Rivoluzione Americana 1776, Rivoluzione Francese 1789. Il background filosofico culturale entro cui nasce il populismo è dunque l’età postmoderna, che propone una narrazione sempre più inquieta e socialmente devastante, dove le solide narrazioni della modernità si sono frantumate contro il nonsense di un sistema sociale globalizzato, sfilatosi verso una remota periferia a-ideologica. Diversi autori hanno percepito in anticipo l’avvento del postmoderno, e lo hanno interpretato attraverso la loro acuta sensibilità, a partire dagli anni ’70: Jean-François Lyotard, Guy Debord, Jean Baudrillard, Marc Augé, Zygmunt Bauman. Al popolo postmoderno non interessa la “verità” dei fatti né il senso degli eventi, perché vuole ascoltare solo le narrazioni, favole illusionistiche, simulacri evanescenti, emersi direttamente dal nuovo oscuro inconscio collettivo, e dalla società dello spettacolo.Le nuove minacce metropolitane sono: migranti e clandestini che invadono il paese, offrendo manodopera a basso costo, ingrossando le file della microcriminalità e minando così la serenità sociale; grottesche crociate contro l’Islam; politiche di austerity che massacrano l’economia dell’Italia, divenuta il Sud Europa. La “notizia” della postmodernità è una fake news, consiste nella negazione stessa dell’informazione, perché non mira a informare sulla “verità” dei fatti, ma li reinterpreta deformandoli, proprio per oscurarli completamente (Marco Travaglio, “La scomparsa dei fatti”). Jean-François Lyotard, nel suo testo “La condizione postmoderna” (1979), conia il nuovo termine di “postmoderno” per definire l’epoca attuale. Il termine designa uno sviluppo tecnologico e scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. Lo sviluppo tecnologico diventa sempre più invasivo per il benessere neurovegetativo umano (“Psyche e Techne”, Umberto Galimberti). La pornografia dei media produce la molteplicità dei linguaggi, la contaminazione degli stili, un citazionismo ossessivo (film di Quentin Tarantino), tipico di un’epoca che non ha più nulla da dire, se non ripetere all’infinito, in modalità sempre diverse, le stesse tematiche.Ne è derivata la perdita di centralizzazione nell’organizzazione dello Stato (federalismo), la perdita di sovranità (euro, Ue), un aumento dei “processi di disgregazione dello Stato Nazione”. L’Occidente sta vivendo una stagione sconcertante, attraversata dalle rapidissime trasformazioni scientifico-tecnologiche. Con grande lucidità, Lyotard propone una partizione storiografica tra l’epoca moderna (secoli XVII e XX) e l’epoca post-moderna, che si è affermata compiutamente nel tardo Novecento. I moderni e i postmoderni professano una visione dell’uomo, della società e in genere della realtà, antitetiche nei loro aspetti più essenziali. L’idea forte dei moderni è il progresso umano, essi concepiscono la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo realizza e arricchisce le proprie facoltà. L’idea forte della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Ciò che definisce l’essenza della condizione post-moderna, invece, è proprio la negazione della capacità umana di produrre il progresso, una sorta di nichilismo dei valori. Ne segue la negazione della scuola e dell’università come agenti di socializzazione e orientamento di valori. La perdita di potere e di funzione sociale dell’intellettuale, che a partire dall’età dei Lumi era stato la coscienza della modernità. Tutto molto strano per quella che viene definita la «società della conoscenza».Guy Debord, di formazione hegeliana e marxista, è stato uno dei critici più importanti delle società occidentali avanzate. L’incipit della “Società dello Spettacolo” (1967) riprende a un secolo di distanza quello del “Capitale” (1867) di Marx: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci». L’incipit dell’opera di Debord è: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (“La Società dello Spettacolo”). Secondo Debord, La caratteristica principale del capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale, nell’espansione delle tecnologie della comunicazione, e nel «feticismo delle merci». Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente «la sua manifestazione sociale più opprimente» («Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini»). Tuttavia lo spettacolo è necessariamente falso ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una parte della società.«Per il fatto stesso che lo spettacolo è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza». Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. E poi, giacché la comunicazione dei media è unilaterale, il Potere giustifica se stesso attraverso un incessante discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte. «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere». Lo spettacolo del capitalismo presuppone quindi l’assenza di dialogo, poiché è solo il potere a parlare. «Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento». Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il quale ha esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. In questo modo lo spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato.È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini l’alienazione del consumatore: «Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio». In una società mercificata, sostiene Debord, è la merce ad avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.Questo modello impregna di sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo il prototipo di ogni competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce, e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”. Alle regionali siciliane Vittorio Sgarbi si presenta con un movimento, “Rinascimento siciliano”, insieme a Morgan e Giulio Tremonti, proponendo un trinomio decisamente bizzarro, composto da vecchi arnesi della politica spettacolo, camuffati da nuova proposta rinascimentale. La società è completamente dominata da immagini falsificate che sostituiscono la realtà, facendo scomparire qualsiasi verità al di là della falsificazione continua. Ciò determina una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo e quindi anche della democrazia. La finzione di democrazia è mantenuta in vita solo attraverso la costruzione di un nemico comune, il quale consente una falsa unità che ricopre la realtà della separazione gerarchica tra dirigenti ed esecutori. È questo il ruolo del terrorismo. «Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati».La mondializzazione dell’economia è l’apogeo di questo processo che si distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo elemento, ma d’importanza decisiva. «Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza». Si può quindi affermare che «l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo». Nella comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato dovrebbe riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto che l’economia è il vero motore della storia. A questa presa di coscienza si oppone lo spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia.Jean Baudrillard poi, altro acuto osservatore del postmoderno, ha illustrato la frammentazione dell’identità e l’immagine frammentata del mondo e dell’uomo, confezionata dai mass media contemporanei, i quali trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare. Per lo spettatore dei media tutto si riduce ad apprezzare l’intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di proiezione nei confronti di personaggi e caratteri. Baudrillard inizia con la critica polemica verso il capitalismo. Smantellate le grandi teorie che guardavano alla realtà come un sistema complesso ma ordinato e descrivibile (“Idealismo o Positivismo”), il presente diventa ora un insieme di segni. Oggi predomina una iperrealtà virtuale, fatta di segni e simulacri (“Simulacri e simulazioni”, 1981). Ad essere messo in discussione è il concetto di realtà, non di verità, come spesso era accaduto in passato. Lo sguardo di Baudrillard che si proietta sul quotidiano è pessimistico, per non dire tragico e drammatico. La cultura produce qualcosa senza significato, e la sola branca del reale che è in grado di tenere in mano le sorti dell’uomo è l’industria, la società dei consumi.I nuovi media hanno giocato un ruolo cruciale nella fabbricazione del significato o finto valore della realtà. Nel suo libro “Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?” (1996), Baudrillard ha spiegato come la televisione abbia sostituito la realtà. Tutto ciò che vediamo attraverso lo schermo è una comunicazione artificiale, un reale contraffatto, che diventa la vera realtà. Consideriamo Disneyland, Las Vegas, dove tutto è incastrato in un meccanismo di funzionamento invidiabilmente impeccabile, un mondo finto che però funziona alla perfezione. Ci rechiamo volontariamente in tali luoghi perché attratti dalla spettacolarità magnetica della ri-creazione, della meraviglia, del simulacro. Siamo assorbiti dalla manipolazione dei media, dei programmi informatici e delle psicologie commerciali. Qual è l’originale realtà per noi? Viviamo di segni e simulacri realtà virtuali o siamo in grado di coglierne la differenza con criticità? Viviamo nei non-luoghi, definiti così da Marc Augé nel libro “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”. Gli spazi privi di identità, relazioni e storia: autostrade, svincoli e aeroporti, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, sale d’aspetto, ascensori… ecc ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione, senza entrare in contatto, senza discutere, parlare, guardarsi, dialogare… l’esatto contrario dell’agorà di Atene, culla della democrazia. Sospinti solo dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare viaggi e percorsi.I nonluoghi sono prodotti della società della postmodernità, dove i luoghi della memoria sono confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Le differenze culturali sono massificate, in ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto racchiuso lì. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente, caratterizzato dalla precarietà assoluta dalla provvisorietà, dal viaggio, dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. Nel film “The Terminal” di Steven Spielberg, il protagonista, Tom Hanks, un cittadino di un immaginario Stato dell’Europa orientale, atterra a New York e dopo aver scoperto che nel suo paese è avvenuto un colpo di Stato, diviene improvvisamente un uomo senza nazionalità, e perciò impossibilitato sia a uscire nella tanto agognata New York, sia a fare ritorno a casa, quindi resta prigioniero e si integra perfettamente nel nonluogo. I nonluoghi sono presenti anche sulla moneta Euro, con l’effigie di edifici e monumenti privi di identità e di storia, a differenza delle immagini presenti sulla Lira di Caravaggio, Verdi, Montessori, Galileo, Marconi, Colombo…Gli utenti si accontentano della sicurezza di poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Da qui un paradosso: il viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri nonluoghi (“Villaggio globale”, Marshall McLuhan). Il rapporto fra i nonluoghi e i suoi abitanti avviene solitamente tramite simboli, parole o voci preregistrate. L’esempio lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non superare la linea bianca davanti agli sportelli. L’individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche di cittadino e i suoi ruoli personali per continuare a esistere solo ed esclusivamente come cliente o utente. Non vi è un riconoscimento delle classi sociali, come siamo abituati a pensare nel luogo antropologico. Si è socializzati, identificati e localizzati solo in occasione dell’entrata o dell’uscita dal nonluogo; per il resto del tempo si è soli e simili a tutti gli altri utenti/ passeggeri/ clienti/ consumatori che si ritrovano a recitare una parte che implica il rispetto delle regole.La società che si vuole democratica non pone limiti all’accesso ai nonluoghi. Farsi identificare come consumatori solvibili, attendere il proprio turno, seguire le istruzioni, fruire del prodotto e pagare. Anche il concetto di “viaggio” è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: i grandi “nonluoghi” posseggono ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici. Il più grande centro commerciale degli Stati Uniti d’America, il “Mall of America”, richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno. Scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: «Si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland». Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L’identità storica delle città è stata ridotta a stereotipo di richiamo turistico. Nell’Europa che tenta di fermare l’ingresso dei migranti, si crea un’ambivalenza dei nonluoghi: quelli dell’abbondanza, e quelli della miseria, come campi profughi, centri di detenzione dei migranti et similia. In essi però l’identità è pericolosa per chi ci si trova, poiché espone al rischio di espulsione o incarcerazione.Zigmunt Bauman è stato forse il pensatore, che ha meglio interpretato il disorientamento contemporaneo. Molti saggi di grande successo, a partire da “Dentro la globalizzazione” del 1998, o “Modernità liquida” del 2000, lo hanno decretato il guru del pensiero della postmodernità. La modernità liquida, concetto fra i più noti del sociologo, ci dice che con la fine delle grandi narrazioni del secolo scorso sono finite anche le certezze del passato in ogni ambito, dal welfare al lavoro fisso, dalla sanità pubblica alle pensioni, la postmodernità le ha smontate tutte, dissacrandole e mescolandole a pulsioni nichilistiche. L’unica comunità dell’individuo è diventata il consumo, la sua unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui nuotiamo tutti noi senza più una missione comune (“Amore liquido”, 2003 o “Vita liquida”, 2005). La fase che viviamo è propizia alla nascita dei populismi, che nascono dall’indignazione. Dagli Indignados ad Occupy Wall Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito viene fortemente contestato, con istanze naturalmente diverse ma sempre antisistema. La modernità poggiava sull’etica del lavoro, perché il capitalismo produttivo aveva bisogno di quadri dirigenziali, che facessero funzionare le industrie, fonte del proprio profitto, quindi c’era necessità di welfare, scuola pubblica, benessere per la collettività destinata a gestire le fabbriche.Al contrario, la postmodernità esalta l’estetica del consumo, che trasforma il mondo in un “immenso campo di sensazioni sempre più intense”. Un mondo spesso investito dalla pubblicità o dal venditore di turno. L’esasperazione della soggettività, trova anche incredibili attuazioni tecnologiche come la realtà virtuale (“La solitudine del cittadino globale”, 1999). Bauman in particolare nel libro “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida” del 2014, parla di un approccio del tutto diverso rispetto alle strutture di potere. Jeremy Bentham e Michel Foucault avevano parlato di Panopticon, inteso come carcere centralizzato che controlla migliaia di detenuti, e in cui bastano pochi agenti di sicurezza per la custodia, metafora evidente del potere centralizzato della modernità e del suo controllo sulla società moderna. Bauman invece parla di un modello di società in cui le forme di controllo assumono le fattezze dell’intrattenimento e dunque del consumo, in cui sotto l’attenzione delle organizzazioni transnazionali finiscono i dati e le persone, o meglio le loro emanazioni digitali, i cui rischi più elevati sono la privacy, la libertà di azione e di scelta. La novità postmoderna è che questo spazio del controllo ha perso i muri, e a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto che le “vittime” contribuiscono a collaborare al loro stesso controllo. Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti per individuare l’aspetto oscuro nascosto sotto a quello seduttivo.La globalizzazione è dunque un processo intimamente legato alle forze di mercato che ha ripercussioni su molti altri settori della vita, in pratica è una nuova forma d’imperialismo finanziario, impadronirsi dell’economia degli Stati, della loro moneta e della loro sovranità. Le forze economiche, infatti, hanno trasceso la dimensione nazionale, hanno perso ogni legame col territorio, dettano legge e non si prefigurano più come sistema produttivo dell’uomo per l’uomo, ma come sistema auto-referenziale, fine a se stesso. Le corporation trasnazionali muovono in uno spazio extraterritoriale, volano sopra i confini dello Stato nazionale, fino ad oggi strumento di rappresentazione delle identità sociali, eludendo ogni sorta di controllo politico e collettivo, ignorando le differenze economiche, politiche, culturali, etniche e religiose delle singole nazioni. Il potere della globalizzazione economica è ormai senza volto e senza luogo, introduce la flessibilità come dogma e preannuncia l’incertezza delle esistenze, vissute nell’affannosa rincorsa per rimanere nella società dei consumi. Il potere ci tiene in scacco lasciandoci soli, levandoci qualsiasi capacità di autodeterminazione e programmazione futura.Nascere in Italia 40 anni fa significava avere buone probabilità di vivere la propria vita in quegli stessi luoghi, avere la speranza di trovare un lavoro vicino a casa, di conoscere i propri concittadini, la possibilità di fare previsioni verosimili sul proprio futuro. Oggi, si nasce in luoghi che mediamente vengono lasciati nella prima adolescenza, i giovani seguono opportunità di lavoro fugaci, sempre più volatili ed evanescenti, i lavoratori vengono assunti in aziende che da un momento all’altro potrebbero delocalizzare. Le spinte all’individualismo e alla competizione determinano questo stile di vita veloce che porta con sé nuova alienazione: quella dell’uomo e dei suoi rapporti. Per il cittadino globale la leggerezza e la velocità di spostamento sono caratteristiche fondamentali, meno vincoli si hanno e più si è pronti alla sopravvivenza nella selva-mondo virtuale, senza barriere né confini. Anche le relazioni umane, dice Bauman, si adeguano e si plasmano sulla base di un consumo ipertrofico, sono sempre più numerose ma sempre più brevi e superficiali. E così, la nostra situazione affonda in un mare di indifferenza, che è l’unica arma di difesa valida a breve termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno.Nella postmodernità è nata una nuova immagine di società, come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più divisi e soli nelle proprie vite. Aumenta poi costantemente il divario tra la condizione dei poveri e quello dei ricchi. Il populismo, in modo particolare il M5S, per quanto riguarda la situazione italiana, è quindi la reazione culturale e politica rispetto alle condizioni sociali drasticamente mutate nel tempo della postmodernità, dopo il golpe messo in atto dalla nuova classe sociale dominante, quell’aristocrazia finanziaria che mira a distruggere i diritti del lavoro, a proletarizzare la middle class, a desovranizzare gli Stati, ad americanizzare l’Europa. Data la potenza propagandistica dei media, riuscirà veramente a vincere le prossime elezioni politiche e a prendere il potere? Oppure sarà costretto inevitabilmente ad abbandonare istanze essenziali delle proprie battaglie, soggiogato dalla potenza della restaurazione liberista?(Rosanna Spadini, “Populismi e postmodernità”, da “Come Don Chisciotte” del 28 settembre 2017).La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.
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Proibizionismo: è il vero paradiso (mafioso) della droga
Sino alla fine degli anni Cinquanta le sostanze stupefacenti (essenzialmente oppiacei e derivati della coca) erano in vendita nelle farmacie dietro presentazione di ricetta medica. Mio cognato era medico e ricordo di aver visto nel suo studio il ricettario per questo tipo di prodotto, che erano di color rosa per distinguerle dalle ricette ordinarie che erano di colore bianco. Ovviamente c’erano una serie di limiti e una parte del mercato passava per il canale del contrabbando. Ma, nel complesso, i traffici di droga erano una parte molto ridotta dei traffici di malavita, che piuttosto si dirigevano verso la prostituzione, il gioco d’azzardo, i furti d’appartamento e le rapine. Ma, a partire dagli anni Sessanta, venne l’idea geniale di proibire ogni forma legale di vendita di stupefacenti e configurare il reato sia di vendita che di consumo di sostanze stupefacenti, la cui lista andava ingrossandosi di giorno in giorno (hashish, marijuana, mescalina, Lsd, eccetera) mentre si diffondevano leggende metropolitane, la più diffusa delle quali voleva che l’assunzione di queste sostanze avesse funzione afrodisiaca e di potenziamento sessuale. Salvo poi scoprire che la quasi totalità di quelle sostanze hanno effetto, semmai, depressivo – e anche la coca, che sul momento ha effettivamente capacità eccitanti, poi può provocare impotenza!Nel frattempo il clima di rivolta libertaria degli anni Sessanta-Settanta (ma anche ruolo attivo dei servizi segreti americani nel promuovere la diffusione dell’eroina per disgregare il Black Panters Party) favorì la diffusione di questi consumi. A distanza di mezzo secolo, il bilancio è questo: le tossicodipendenze non sono affatto diminuite ma, al contrario, sono esplose, di conseguenza il traffico di droga è diventato il super-affare di mafia del secolo. Mai la criminalità organizzata ha incassato tanto denaro quanto ne è venuto da questo traffico. Pertanto, la criminalità è diventata uno dei grandi attori economici della scena; molti consumatori sono diventati piccoli spacciatori, con un effetto moltiplicatore: le tossicodipendenze sono diventate uno dei principali problemi sociali, portando con sé l’affollamento delle carceri, il sovraccarico investigativo per le forze di polizia molti problemi sanitari specificamente legati al consumo di droghe (dall’Aids alle epatiti croniche), senza calcolare i decessi per overdose e consumo di sostanze tagliate con la stricnina.Con un bilancio del genere, non dovrebbero esserci troppi dubbi a dichiarare fallito l’esperimento e passare ad altra strategia di contrasto al fenomeno, diversa dal proibizionismo. Cosa lo impedisce? Solo l’ottusità della maggior parte del ceto politico e l’azione interessata degli altri politici, quelli legati alla mafia? Non è solo questo. C’è una dimensione propriamente ideologica che ritiene che, per debellare un fenomeno indesiderato, bisogna sanzionarlo penalmente, e questa è la condizione necessaria e sufficiente per farlo finire o, quantomeno, arginarlo. Peccato che non sia sempre così; e proprio il caso delle tossicodipendenze, cresciute a dismisura nonostante il proibizionismo, lo dimostra ad abbundantiam. Ma a sostegno di esso c’è un’altra convinzione altrettanto ideologica: quel che è moralmente illecito non può essere legalizzato, perché peccato è uguale a reato. Sono i postumi dell’ideologia cattolica conservatrice. E magari poi vi dicono che quelli “ideologici” siete voi.(Aldo Giannuli, “Sostanze stupefacenti e ideologia”, dal blog di Giannuli del 25 luglio 2017).Sino alla fine degli anni Cinquanta le sostanze stupefacenti (essenzialmente oppiacei e derivati della coca) erano in vendita nelle farmacie dietro presentazione di ricetta medica. Mio cognato era medico e ricordo di aver visto nel suo studio il ricettario per questo tipo di prodotto, che erano di color rosa per distinguerle dalle ricette ordinarie che erano di colore bianco. Ovviamente c’erano una serie di limiti e una parte del mercato passava per il canale del contrabbando. Ma, nel complesso, i traffici di droga erano una parte molto ridotta dei traffici di malavita, che piuttosto si dirigevano verso la prostituzione, il gioco d’azzardo, i furti d’appartamento e le rapine. Ma, a partire dagli anni Sessanta, venne l’idea geniale di proibire ogni forma legale di vendita di stupefacenti e configurare il reato sia di vendita che di consumo di sostanze stupefacenti, la cui lista andava ingrossandosi di giorno in giorno (hashish, marijuana, mescalina, Lsd, eccetera) mentre si diffondevano leggende metropolitane, la più diffusa delle quali voleva che l’assunzione di queste sostanze avesse funzione afrodisiaca e di potenziamento sessuale. Salvo poi scoprire che la quasi totalità di quelle sostanze hanno effetto, semmai, depressivo – e anche la coca, che sul momento ha effettivamente capacità eccitanti, poi può provocare impotenza!
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Laurenti: Ilaria Alpi e Carlo Giuliani, stessi killer (nostri 007)
«Fotografò un uomo, un carabiniere, mentre fracassava il cranio di Carlo Giuliani, già a terra, colpito ma ancora vivo. E poi ammise: ho avuto più paura a Genova che tra i miliziani in Somalia. Poi quella foto è scomparsa per sempre». Parola di Giulio Laurenti, scrittore, autore del romanzo d’inchiesta “La madre dell’uovo” che gli è costato minacce e pericolose intrusioni. Il sospetto: Carlo Giuliani è stato ucciso al G8 di Genova nel 2001 per ordine delle stesse persone che, sette anni prima, avevano fatto assassinare a Mogadiscio Ilaria Alpi, giornalista del Tg3. La traccia parte dalla confessione di quel fotografo, di cui Laurenti non fa il nome. «Ho saputo comunque che, prima di essere a piazza Alimonda al momento dell’omicidio Giuliani, aveva lavorato coi militari italiani in Somalia». Retroscena inquietanti, come quelli contenuti nel diario pubblicato nel 1997 dal maresciallo Francesco Aloi, del Sismi, allora in forza in Somalia: nel documento, poi secretato, Aloi accusa alcuni alti funzionari dei servizi, tra cui l’ufficiale dei carabinieri Claudio Cappello e il colonnello Giovanni Truglio, già a capo della polizia militare Msu in Iraq e ora alla guida, in Italia, di Eurogendfor, la misteriosa super-gendarmeria europea dotata di poteri illimitati, e di cui si sa pochissimo.Intervistato da Stefania Nicoletti ai microfoni di “Border Nights”, Laurenti ripercorre le tappe salienti del suo lavoro. «Non ho mai avuto tesi precostituite, mi sono limitato a verificare collegamenti, cercando di dar loro un significato». Nel suo memoriale, «che sembra far parte di una sorta di “guerra tra servizi”», il maresciallo Aloi accusa con inistenza alcuni ufficiali, come Truglio e Cappello: dice che potevano muoversi in territorio somalo come “fantasmi”, senza neppure essere controllati dalla Cia. La loro missione: tenere i contatti con i “signori della guerra”. Il veterano dell’intelligence attribuisce agli ex colleghi la “copertura” di svariate operazioni: contrabbando di armi e di avorio, traffico di scorie e rifiuti tossici. In più, imputa ad essi il ricorso sistematico alla tortura – e anche all’omicidio per chi, come Ilaria Alpi (e Miran Hrovatin) si avvicinasse troppo alla verità. «La cosa sorprendente è ritrovare quei nomi, quegli ufficiali, sette anni dopo a Genova, in piazza Alimonda, a pochi metri da Carlo Giuliani, durante il suo assassinio».Gli stessi uomini presenti sulla scena di due delitti: ma quale sarebbe il movente dell’omicidio Giuliani? «L’idea che mi sono fatto di piazza Alimonda – dichiara Laurenti a Stefania Nicoletti – è che è stata un’esercitazione, probabilmente per far fuori un carabiniere», in quel caso Mario Placanica, il militare accusato di aver sparato al manifestante No-Global. «A pensarla così è anche un magistrato romano come Alfonso Sabella», aggiunge Laurenti. E perché mai mettere nei guai un carabiniere? «Per eliminare la legge Calcaterra, che dagli anni ‘50 proibisce ai carabinieri di gestire l’ordine pubblico nei centri abitati oltre i 15.000 abitanti». La sua abrogazione, continua Laurenti, è stata inutilmente richiesta, più volte. «Ma ora c’è la gendarmeria europea, che rappresenta il superamento di quella norma. E lo stesso Truglio è a capo di Eurogendfor». Per il suo lavoro, Giulio Laurenti è stato pesantemente ostacolato e intimidito: telefoni isolati dopo le chiamate, pc inaccessibile, account Facebook violato.I “disagi” informatici, scrive Eleonora Bianchini sul “Fatto Quotidiano”, sono iniziati nel 2011, quando lo scrittore ha iniziato a indagare su Carlo Giuliani e Ilaria Alpi. Alcuni stralci dello scottante diario del maresciallo Aloi, 430 pagine, erano usciti nel ‘97 su “Panorama”, “L’Unità” ed “Epoca”. Accuse pesantissime, sottolinea il “Fatto”: si parla di «violenze sui somali, soprattutto donne», con prigionieri «torturati a morte». Eppure, dopo la denuncia, non accadde sostanzialmente nulla. A partire da quelle informazioni, Laurenti ha elaborato un’ipotesi diversa: e cioè che gli agenti a Mogadiscio non avrebbero solo depistato, ma piuttosto «agito per colpire deliberatamente Alpi e Hrovatin». Ma, appena Laurenti s’è messo al lavoro, sono cominciati i “problemi”: «Isolavano i telefoni di chiunque chiamassi. Ricevevo chiamate al cellulare mentre stavo guidando. Dall’altra parte della cornetta parlavano come se mi stessero seguendo. Sentivo solo che alcune voci dicevano: “Ma tu lo vedi?”. “Sì, sì, è un po’ più avanti”». E ancora: «Mi chiamavano a casa. Rispondevo. E sentivo le voci dei miei figli al piano di sopra. Dove, però, non c’è nessun telefono. Quindi non so se abbiano messo alcune microspie».Secondo Laurenti, gli uomini-ombra che lo hanno tallonato «fanno il gioco del gatto e del topo: sperano di fermarmi facendomi paura». Si è ritrovato anche l’auto danneggiata, e qualcuno ha “eliminato” dal suo computer uno stralcio di documento destinato a Heidi Giuliani, la madre di Carlo. «Credo che i responsabili di queste intimidazioni facciano parte del gruppo di potere che racconto nel libro», afferma l’autore, indicando «quella parte di servizi che ha firmato il patto di sangue nel 1994», all’epoca del drammatico passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, quando alti dirigenti del Sismi si ritrovarono privi delle vecchie coperture politiche. Una “guerra” misteriosa, di cui parla anche il maresciallo Aloi, che cita – fra le altre – la strana morte di un ex collega, il maresciallo Vincenzo Li Causi, insieme a quell del suo braccio destro, il parà Flaviano Mandolini, a suo tempo inquadrati nella struttura Gladio, o Stay Behind. Sempre secondo Laurenti, un «gruppo di potere» è riuscito a “sopravvivere” ai rivolgimenti politici degli anni ‘90. Di mezzo ci sarebbero anche le morti eccellenti di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e Carlo Giuliani. Fino a “chiudere il cerchio” con la creazione di Eurogendfor. Risolvere l’enigma? Servirebbe quella famosa foto scomparsa, che proverebbe la presenza a Genova degli stessi operatori presenti a Modadiscio. «Ma è impossibile», ammette Laurenti: «Me l’hanno fatto capire: quella foto non salterà fuori mai».(Il libro: Giulio Laurenti, “La madre dell’uovo”, Effigie, 258 pagine, 19 euro).«Fotografò un uomo, un carabiniere, mentre fracassava il cranio di Carlo Giuliani, già a terra, colpito ma ancora vivo. E poi ammise: ho avuto più paura a Genova che tra i miliziani in Somalia. Poi quella foto è scomparsa per sempre». Parola di Giulio Laurenti, scrittore, autore del romanzo d’inchiesta “La madre dell’uovo” che gli è costato minacce e pericolose intrusioni. Il sospetto: Carlo Giuliani è stato ucciso al G8 di Genova nel 2001 per ordine delle stesse persone che, sette anni prima, avevano fatto assassinare a Mogadiscio Ilaria Alpi, giornalista del Tg3. La traccia parte dalla confessione di quel fotografo, di cui Laurenti però non fa il nome. «Ho saputo comunque che, prima di essere a piazza Alimonda al momento dell’omicidio Giuliani, aveva lavorato coi militari italiani in Somalia». Retroscena inquietanti, come quelli contenuti nel diario pubblicato nel 1997 dal maresciallo Francesco Aloi, del Sismi, allora in forza in Somalia: nel documento, poi secretato, Aloi accusa alcuni alti funzionari dei servizi, tra cui l’ufficiale dei carabinieri Claudio Cappello e il colonnello Giovanni Truglio, già a capo della polizia militare Msu in Iraq e ora alla guida, in Italia, di Eurogendfor, la misteriosa super-gendarmeria europea dotata di poteri illimitati, e di cui si sa pochissimo.
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Londra: Cavour assassinato, l’Italia doveva restare docile
Cavour assassinato da un complotto e avvelenato dal medico personale del sovrano, Vittorio Emanuele II, con il quale lo stratega dell’unità nazionale era ormai in rotta. Lo dicono le carte rinvenute a Londra da Giovanni Fasanella, già autore di libri come “Colonia Italia” e “Il golpe inglese” (Chiarelettere, scritti con Mario Josè Cereghino). Già nel 2011, l’autore metteva in luce il ruolo occulto della Gran Bretagna nell’Unità d’Italia, a partire dalla protezione assicurata dalla flotta di sua maestà alla spedizione di Mille, con navi da guerra al largo della Sicilia, pronte a intervenire per dare manforte a Garibaldi. Robustissimo il movente geopolitico: se le élite risorgimentali del centro-nord avevano ormai deciso di spingere per l’unificazione del Belpaese, utilizzando il Piemonte e la massoneria, la nuova Italia doveva restare assolutamente sotto tutela inglese, dato il cantiere aperto nel 1859 per il Canale di Suez. La penisola sarebbe diventata la piattaforma-chiave del Mediterraneo per i traffici dell’Impero britannico. Per unire il centro-nord, Cavour aveva usato soprattutto l’arte dell’imbroglio. Il sud invece era stato colonizzato brutalmente, con il genocidio. “Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli italiani”? Cavour non fece in tempo. A liquidarlo però non fu la malaria, come si disse, ma il cianuro.Lo scrive Fasanella nel suo nuovo libro, “Intrighi d’Italia”, scritto con Antonella Grippo. Premessa: inutile stupirsi se così spesso, nella nostra storia recente, emergono strane “trattative” tra il potere istituzionale, attraverso settori dei servizi segreti, e la criminalità mafiosa. Quello era il metodo inaugurato proprio da Cavour, che reclutò la mafia in Sicilia e la camorra a Napoli per governare i nuovi terrori, largamente ostili all’unificazione e conquistati manu militari, dall’esercito piemontese. La resistenza dell’esercito meridionale (pur superiore) fu molto debole? Certo: l’intelligence di Cavour aveva “comprato” gli alti ufficiali delle Due Sicilie. A pagare il prezzo della conquista, con anni di legge marziale e stragi inaudite, fu la popolazione del Sud: mezzo milione di morti, si calcola, più 15 milioni di profughi, emigrati poco dopo, per lo più in America. «A Cavour non era piaciuta la modalità di conquista del Meridione», spiega Fasanella a Claudio Messora, in una video-intervista per il blog “ByoBlu”. «Si racconta infatti che arrivò a sollevare la scrivania, nell’ufficio del sovrano torinese, quasi volesse gettargliela addosso. Cavour non tollerava che i Savoia avessero concepito l’Unità d’Italia sul piano solo militare. Avrebbe voluto un progetto più graduale, federalista, basato sulla politica».Il sovrano non era l’unico nemico del primo ministro, racconta l’autore, brillante giornalista di “Panorama”. Cavour era in contrasto anche con Mazzini: non voleva lo scontro con il Vaticano per la conquista immediata di Roma, avrebbe preferito un accordo. Dal canto suo, con Cavour ce l’aveva anche Garibaldi, furioso per la cessione di Nizza alla Francia. E il primo ministro non piaceva neppure ai Rotschild, che miravano a lucrare sul finanziamento delle nuove infrastrutture italiane, mentre Cavour anche in quel caso avrebbe preferito giocare su più tavoli, per non dipendere da un solo potere. Abilissimo, astuto, geniale. E temuto: al punto da subire un complotto mortale? E’ quello che si evince dall’esame degli archivi inglesi, racconta Fasanella. Fonti autorevoli, finora sempre trascurate dagli storici. Una su tutte: le dettagliate relazioni dell’ambasciatore inglese a Torino, James Hudson. Un diplomatico decisivo: era stato lui ad assicurare a Cavour la protezione militare inglese per incoraggiare la spedizione di Garibaldi. Rivelazioni clamorose, da Hudson, sulle circostanze della morte dello statista italiano.Al ministro degli esteri britannico, John Russell, l’ambasciatore Hudson scrive che Cavour si è sentito male il 29 maggio 1961, poco più di due mesi dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia. Era a casa della sua amante, Bianca Ronzani, «che era anche una spia». Dalla Ronzani bevve qualcosa che lo mandò in crisi: spasmi addominali, accessi di vomito. Cavour riparò nella sua casa e si mise a letto. I medici accorsi, racconta sempre la fonte inglese, «lo salassarono come un vitello», estraendogli enormi quantità di sangue e indebolendolo in modo grave. A dargli il colpo di grazia, dopo una settimana di agonia, fu il dottore di corte, medico personale del re, insigne luminare della medicina torinese dell’epoca: «Gli fece bere un infuso di “lauroceraso”, cioè cianuro: il potentissimo veleno si ottiene proprio per infusione da quella pianta». Sulla morte di Cavour – che faceva comodo a troppi poteri – si è anche favoleggiato in modo complottistico, ammette Fasanella. Ma nessuno, prima d’ora, aveva individuato tracce concrete che avvalorino – via Londra, tanto per cambiare – l’ipotesi della cospirazione a scopo di omicidio politico.Noto per l’estrema disinvoltura, il cinismo e la spregiudicatezza con cui aveva guidato la politica del minuscolo Stato sabaudo per negoziare con i potentati europei la nascita della futura Italia, Camillo Benso – racconta Fasanella – non si era mai fatto scrupoli nel ricorrere alla malavita, attraverso i servizi segreti. Se ne accorse per prima la magistratura torinese, che incastrò un piccolo criminale: stranamente, il governo lo protesse a lungo. Non a caso: era il capo di una banda di malviventi utilizzata per il “lavoro sporco” commissionato da Filippo Curletti, famigerato capo dell’intelligence di Cavour. Un uomo che, s’è scoperto, aveva organizzato brogli in mezza Italia per truccare l’esito dei plebisciti a favore dell’annessione al Piemonte: «Emerge che, spesso, il numero di voti favorevoli era superiore addirittura a quello della totalità degli aventi diritto al voto», racconta Fasanella. E se nel centro-nord gli uomini di Curletti si occuparono soprattutto di aritmetica, nel Sud terrorizzato dalle truppe di Cialdini e La Marmora si bussò direttamente alla mafia: «In Sicilia, i picciotti prepararono il terreno allo sbarco di Garibaldi e alla sua marcia trionfale. E a Napoli, quando fu smantellata la polizia borbonica, chiamarono la camorra a dirigere i commissariati».Come dire: nessuno si stupisca se l’Italia è nata così male, unificata in modo truffaldino e spietato. E concepita – fin da subito – come “dependence” dei poteri forti d’Europa, decisi a non lasciarsi scappare il controllo sulla nostra penisola così strategica, vera chiave di volta nel Mediterraneo con l’apertura del Canale. Lungi dal sottovalutare l’importanza storica dell’unificazione, perfettamente coerente con il contesto storico e geopolitico dell’epoca, chiarisce Fasanella, è bene non dimenticare però che molte tappe del Risorgimento (su cui gli storici spesso sorvolano) maturarono in modo decisamente oscuro. Un giallo riguarda la misteriosa fine dello scrittore Ippolito Nievo, il “tesoriere” dei Mille: sapeva molte cose, avrebbe potuto raccontarle ai giudici che volevano interrogarlo. «Dopo lo sbarco – racconta ancora Fasanella – a Torino giunsero voci insistenti sui traffici dei garibaldini con la mafia: contrabbando d’armi, sperperi di denaro, arricchimenti improvvisi di garibaldini. Nievo fu richiamato nel capoluogo piemontese per riferire alla magistratura. Ma il piroscafo si inabissò al largo dell’isola di Capri. Ancora oggi non si conosce la causa dell’affondamento. Si parlò anche di una bomba a orologeria collocata a bordo. Forse quella è stata la prima strage di Stato della storia italiana».All’epoca, l’astuto Cavour era ancora al comando. Sapeva perfettamente che l’Italia neonata avrebbe dovuto vedersela con vicini potentissimi, decisi a dettar legge. Sperava, probabilmente, di tenerli a bada ancora una volta con la sua machiavellica diplomazia, in bilico tra Gran Bretagna e Francia? Se davvero è stato ucciso, come dicono gli inglesi, è probabile che gli autori del complotto temessero che potesse riuscire anche nell’impresa di fare dell’Italia un paese autonomo. Uno Stato pienamente sovrano, non infiltrato e dominato da potenze straniere. I documenti, conclude Fasanella, parlano chiaro: a Londra, la morte di Cavour fu archiviata come omicidio politico. «Era entrato in conflitto con troppi soggetti, italiani e stranieri». Il suo progetto, un’Italia davvero indipendente, sembra dunque sfumato quel giorno, il 6 giugno del 1861, con la pozione letale di cianuro somministrata dal medico personale del primo Re d’Italia. In compenso, i suoi “metodi” sono rimasti. E hanno fatto scuola: nel 1943 gli americani conquistarono la Sicilia con l’aiuto di Lucky Luciano e Calogero Vizzini, mentre a Napoli fu utilizzato Vito Genovese, emanazione della “famiglia” di Carlo Gambino, il boss di Brooklyn. Una storia “sbagliata”, che arriva fino ai mandanti delle stragi impunite e all’esplosivo che disintegrò Falcone e Borsellino.Cavour assassinato da un complotto e avvelenato dal medico personale del sovrano, Vittorio Emanuele II, con il quale lo stratega dell’unità nazionale era ormai in rotta. Lo dicono le carte rinvenute a Londra da Giovanni Fasanella, già autore di libri come “Colonia Italia” e “Il golpe inglese” (Chiarelettere, scritti con Mario Josè Cereghino). Già nel 2011, l’autore metteva in luce il ruolo occulto della Gran Bretagna nell’Unità d’Italia, a partire dalla protezione assicurata dalla flotta di sua maestà alla spedizione di Mille, con navi da guerra al largo della Sicilia, pronte a intervenire per dare manforte a Garibaldi. Robustissimo il movente geopolitico: se le élite risorgimentali del centro-nord avevano ormai deciso di spingere per l’unificazione del Belpaese, utilizzando il Piemonte e la massoneria, la nuova Italia doveva restare assolutamente sotto tutela inglese, dato il cantiere aperto nel 1859 per il Canale di Suez. La penisola sarebbe diventata la piattaforma-chiave del Mediterraneo per i traffici dell’Impero britannico. Per unire il centro-nord, Cavour aveva usato soprattutto l’arte dell’imbroglio. Il sud invece era stato colonizzato brutalmente, con il genocidio. “Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli italiani”? Cavour non fece in tempo. A liquidarlo però non fu la malaria, come si disse, ma il cianuro.