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Polizia violenta? L’Italia può ringraziare i suoi politici
«Quel poliziotto è un cretino, va punito», dice il capo della polizia, Alessandro Pansa, commentando l’immagine dell’agente in borghese che calpesta una ragazza a terra, alla manifestazione dei movimenti per la casa il 12 aprile a Roma. «E’ terribile, gli agenti non possono picchiare così», rincara la dose Filippo Bubbico, viceministro dell’interno. Altri invece difendono gli agenti: impossibile criminalizzare poliziotti bersagliati dal lancio di bottiglie e bulloni, biglie e sampietrini. «Non sono contro la polizia, ne ho solo paura». Parola di Alfred Hitchcock. «E se lo diceva lui, riconosciuto maestro del brivido, qualcosa vorrà pur dire», scrive Rossella Guadagnini. «Possiamo fidarci della polizia e di quella italiana in particolare?». Taglia corto il criminologo Francesco Carrer: «Ogni paese ha la polizia che si merita, la polizia che è stato capace di darsi: il che sarà democratico, ma garantisce risultati prevedibili».Censura e condiscendenza, rabbia e difesa corporativa, sconcerto e meraviglia: sono le emozioni che, dopo gli ultimi scontri di piazza, hanno scosso l’opinione pubblica stavolta in prima fila per via dei filmati resi pubblici, scrive Guadagnini su “Micromega”. «Le immagini nitide ed esplicite sono passate e ripassate in tv, in rete, sui social network», e la foto-shock dei ragazzi schiacciati per terra «ha fatto il giro del mondo». Le “cose” si sono viste, eccome: «I pestaggi, la violenza, l’intimidazione, la forza, la rabbia, la paura». Per Luigi Manconi, presidente della Commissione parlamentare sui diritti umani, «sono troppe le illegalità commesse negli ultimi 15 anni da militari chiamati a gestire l’ordine pubblico». Lo dicono i nomi di Giuliani, Uva, Sandri, Cucchi, Aldrovandi e Shalabayeva. «Raccontano una storia fatta di sopraffazioni e violenze ingiustificate a opera di chi è chiamato a difenderci», scrive la Guadagnini. «Una storia di abusi coperti da falsità e bugie nel tentativo di nascondere e proteggere i veri colpevoli».Indossare una divisa non significa essere autorizzati a travestirsi da giustizieri armati. «La polizia ha sempre funzionato come termometro della democrazia», spiega Marco Preve, autore di un saggio appena uscito per “Chiarelettere”, intitolato “Il partito della Polizia”. «Più è presente in una società, meno quella società è libera e democratica». Nessuno Stato può fare a meno della polizia, ammette Preve, perché ad essa sono affidati l’ordine pubblico, la difesa della proprietà privata, l’incolumità delle persone. Dunque, «il sacrificio di una piccola porzione di libertà individuale vale la pena se, in cambio, tutti si sentono più sicuri. A patto che, attraverso le istituzioni, la società sia in grado di controllare l’operato dei poliziotti e riesca a intervenire laddove emergano degli abusi. Nessun abuso, infatti, può essere commesso contro cittadini inermi. Se non è così – aggiunge Preve – i responsabili devono saltare, ma in Italia ciò non è avvenuto. E continua a non avvenire, dai tempi delle torture alle Br fino alle morti di Cucchi, Aldrovandi, Uva e molti altri: la polizia non garantisce la sicurezza, la politica non sorveglia, la stampa non sempre denuncia, la magistratura non sempre indaga».Il perché questa anomalia lo rivela Filippo Bertolami, vicequestore e sindacalista di polizia. «Negli ultimi anni si è assistito al paradosso di un sistema capace da un lato di coprire e premiare i colpevoli di violenze e insabbiamenti, dall’altro di punire chi ha “osato” mettersi di traverso». Imputati, condannati, premiati: a vincere è la paura, riassume Rossella Guadagnini. Il “partito della polizia” è «troppo forte», conta su «troppe protezioni politiche a destra e a sinistra», ricorda Preve, «da Berlusconi a Prodi, da Violante a Renzi». De Gennaro, capo della polizia al G8 di Genova? «E’ diventato presidente di Finmeccanica e i suoi collaboratori non si toccano. Troppe onorificenze, troppe amicizie, anche tra i media. Intanto le auto rimangono senza benzina e gli agenti continuano ad avere stipendi da fame, mentre vengono assegnati appalti miliardari».Il “partito della polizia” è anche un partito degli affari: «Se non c’è una cultura del diritto in chi orienta il pensiero collettivo – sostiene il criminologo Francesco Carrer – mi chiedo come possa nascere in un corpo di polizia i cui vertici sono più attenti ai desiderata dei politici che alle esigenze di chi è in prima linea». Un ragionamento che, volenti o nolenti, secondo Guadagnini non fa una piega. Per Preve, i gruppi che hanno controllato e controllano i vertici del Dipartimento della pubblica sicurezza «hanno potuto permettersi, o consentire ai loro fedelissimi, comportamenti al di sopra delle regole e delle istituzioni». E questo, precisa Preve, nonostante una “base” «sicuramente non collusa, in molti casi insofferente e addirittura vittima di questa gestione». Il giornalista fissa un discrimine: tutto questo è potuto accadere a partire dal 21 luglio 2001, la notte della “macelleria messicana” della scuola Diaz.«Quel poliziotto è un cretino, va punito», dice il capo della polizia, Alessandro Pansa, commentando l’immagine dell’agente in borghese che calpesta una ragazza a terra, alla manifestazione dei movimenti per la casa il 12 aprile a Roma. «E’ terribile, gli agenti non possono picchiare così», rincara la dose Filippo Bubbico, viceministro dell’interno. Altri invece difendono gli agenti: impossibile criminalizzare poliziotti bersagliati dal lancio di bottiglie e bulloni, biglie e sampietrini. «Non sono contro la polizia, ne ho solo paura»: parola di Alfred Hitchcock. «E se lo diceva lui, riconosciuto maestro del brivido, qualcosa vorrà pur dire», scrive Rossella Guadagnini. «Possiamo fidarci della polizia e di quella italiana in particolare?». Taglia corto il criminologo Francesco Carrer: «Ogni paese ha la polizia che si merita, quella che è stato capace di darsi: il che sarà democratico, ma garantisce risultati prevedibili».
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Piano Manhattan: banche, guerra segreta contro Putin
«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.Juan Zarate, il “cervello” del Tesoro che ha contribuito a ridisegnare la politica della Casa Bianca dopo l’11 Settembre, la definisce «un nuovo tipo di guerra, una specie di insurrezione finanziaria strisciante, con l’intento di incidere senza precedenti sulla linfa vitale finanziaria dei nostri nemici». Una strategia «più efficiente e sottile di qualsiasi altro confronto geopolitico del passato, ma non meno spietato e distruttivo», scrive nel suo libro “La guerra del Tesoro: lo scatenamento di una nuova era di guerra finanziaria”. Obiettivo: stringere il cappio intorno al collo della Russia di Vladimir Putin, chiudendo lentamente l’accesso al mercato per banche, le aziende gli enti statali russi, scrive Evans-Pritchard in un intervento sul “Telegraph” ripreso da “Come Don Chisciotte”. L’arma invisibile è una disposizione contenuta nel Patriot Act: se una banca si macchia di mancato rispetto delle norme previste – se viene accusata di riciclaggio di denaro o di sovvenzionare attività terroristiche o reati collaterali – diventa “radioattiva” e viene catturata nell’abbraccio mortale di Wall Street. Il suo valore crolla e gli azionisti fuggono.«Questa può essere una condanna a morte, anche se il creditore non svolge nessuna operazione negli Stati Uniti», annota Evans-Pritchard. «Le banche europee non hanno il coraggio di sfidare le autorità di regolamentazione Usa e rompono tutti i loro rapporti con la vittima». Così, finora, hanno fatto anche i cinesi: nel 2005 gli Usa colpirono il Banco Delta Asia (Bda) di Macao, accusandolo di essere stato un canale di pirateria commerciale verso la Corea del Nord. La Cina staccò la spina e il Bda fallì entro due settimane. Zarate, lo stratega della guerra finanziaria contro Mosca, sostiene che gli Usa potrebbero procedere anche da soli con le sanzioni, senza neppure attendere gli alleati europei. Il nuovo arsenale, continua Evans-Pritchard, è stato schierato contro l’Ucraina già nel 2002, quando gli Usa accusarono le banche di Kiev di riciclare i fondi della mafia russa, facendole capitolare.«Si sta facendo una guerra segreta su scala globale di lungo termine», conferma Zarate. EPutin sa esattamente che cosa possono fare gli Usa con le loro armi finanziarie. Secondo Zarate, la Casa Bianca di Obama ha aspettato anche troppo a lungo per fare sul serio, aggrappandosi alla speranza che Putin avrebbe smesso presto di infrangere le regole. Non sono bastati gli “avvertimenti” inviati alle banche russe che sostenevano il regime siriano. Per lo stratega di Washington, gli americani ora «dovrebbero togliersi i guanti: più aspettano, più dovranno muoversi pesantemente». Sempre secondo Zarate, potrebbe essere già troppo tardi per mantenere il controllo dell’Ucraina orientale, ma non troppo tardi per far pagare ai russi un prezzo molto caro. «Se il Tesoro degli Stati Uniti affermasse che tre banche russe sono coinvolte in preoccupanti operazioni di riciclaggio – dice – siamo sicuri che Ubs o Standard Chartered non ci rimetterebbero niente?».Questo potrebbe far emettere sanzioni progressive alle imprese della difesa russa e alle esportazioni di minerali e di energia: basterebbe una stretta su Gazprom, per far crollare tutto il sistema. Per Evans-Pritchard, invece, è meglio che alla Casa Bianca non si facciano illusioni: la Russia ha 470 miliardi di dollari di riserve estere, con le quali la banca centrale combatte la fuga dei capitali e difende il rublo. Il professor Harold James, di Princeton, ricorda la vigilia della Prima Guerra Mondiale: Gran Bretagna e Francia pensavanodi scatenare una guerra finanziaria per controllare la potenza tedesca. Ma attenzione: rompere gli equilibri che sostengono la finanza mondiale significa che niente potrà più contenerla. Le sanzioni? Rischiano solo di innescare reazioni a catena simili allo shock del 2008. «Lehman era solo un piccolo istituto, se lo dovessimo confrontare con le banche austriache, francesi e tedesche che sono oggi altamente esposte al sistema finanziario della Russia. Un congelamento dei beni russi – scrive James “Project Syndicate” – potrebbe essere catastrofico per i mercati finanziari europei, anzi per i mercati globali».Secondo Evans-Pritchard, è molto serio il rischio di una «replica asimmetrica» dal Cremlino: «Gli esperti russi di guerrra cibernetica sono tra i migliori, e fecero un giro di prova sull’Estonia nel 2007. Un fermo cibernetico di un sistema idrico dell’Illinois nel 2011 è stato attribuito a fonti russe. Non sappiamo se la Us Homeland Security possa essere in grado di contrastare un attacco in piena regola che preveda un blocco dei servizi alle reti elettriche, ai sistemi idrici, al controllo del traffico aereo o peggio ancora al New York Stock Exchange, o a Washington stessa». Se scoppiasse una guerra cibernetica oggi, «gli Stati Uniti perderebbero: siamo semplicemente un paese molto dipendente e vulnerabile», disse nel 2010 il capo del servizio di spionaggio Usa, Mike McConnell. E nel 2012 il segretario alla difesa Leon Panetta lanciò l’allerta per un possibile cyber-attack tipo Pearl-Harbour, capace di paralizzare tutti i sistemi di logistica e di erogazione dei servizi vitali.«Potrebbero bloccare la rete elettrica di vaste zone del paese, potrebbero far deragliare treni passeggeri o, ancor più pericolosamente, far deragliare treni carichi di sostanze chimiche letali», o addittura «contaminare la fornitura d’acqua nelle grandi città». Solo una boutade esagerata, quella di Panetta, magari per chiedere più fondi al Congresso? Evans-Pritchard resta prudente: non è saggio provocare la Russia in modo tanto grave e pericoloso. «Le sanzioni sono vecchie come il mondo, così come le lezioni salutari», conclude il notista del “Telegraph”, ricorrendo all’insegnamento dell’antica Grecia. «Pericle cercò di spaventare la città-stato di Megara nel 432 a.C. bloccando tutti i suoi commerci con i mercati dell’impero ateniese e cominciarono così le guerre del Pelopenneso che portarono la fanteria oplita di Sparta ad abbattersi su Atene e distruggere tutto. Il sistema economico della Grecia cadde in rovina e in balia della Persia. Quello fu un assaggio di asimmetria».«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.
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Baranes: la finanza sta sabotando l’economia dell’umanità
Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi cacciavite o cambi casa? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».Da trent’anni, scrive Baranes in una riflessione ripresa da “Micromega”, siamo immersi in un pensiero economico che si fonda sull’idea dell’efficienza dei mercati, da cui discende la necessità di rimuovere vincoli e controlli pubblici che possano ostacolarne il funzionamento. In realtà, «la finanza ha dimensioni decine di volte superiori all’economia di cui dovrebbe essere al servizio». Si sospetta che la quasi totalità delle operazioni finanziarie sia pura speculazione: «Nessun rapporto con l’economia reale, ma unicamente soldi che inseguono soldi per fare altri soldi». La seconda possibilità, ancora peggiore, è che «la finanza lavori con un’efficienza intorno al 1%». Non si tratta solo di risorse economiche, ma anche di risorse umane. I migliori studenti di economia, matematica, informatica e statistica sono attratti dagli alti stipendi verso i centri finanziari, «per creare prodotti sempre più complessi, incomprensibili e rischiosi».Avvertiva il Premio Nobel James Tobin già negli anni ‘80: «Stiamo gettando sempre più risorse, inclusa la crema della nostra gioventù, dentro attività finanziarie lontane dalla produzione di beni e servizi, attività che generano alte remunerazioni private, sproporzionate rispetto alla loro produttività sociale». Il sistema finanziario, dice Baranes, ha «moltiplicato i rischi» in modo esplosivo, sabotando l’economia, «all’esasperata ricerca del massimo profitto nel minor tempo possibile». La finanza? «Dovrebbe essere il mercato dei soldi, per fare incontrare chi ha un risparmio da investire con chi ne ha bisogno per le proprie attività». Oggi, invece, «abbiamo da un lato una montagna di denaro alla disperata ricerca di sbocchi di investimento, e dall’altro una montagna altrettanto alta di bisogni che non sono soddisfatti». Nonostante il vortice di trilioni in costante movimento, è praticamente impossibile ottenere un mutuo: piccole imprese e artigiani sono strangolati dalla mancanza di accesso al credito. La finanza non risolve problemi, crea solo disastri. Salvo poi tentare di incolpare il sistema pubblico: scuola, sanità e acqua potabile da privatizzare, facendo vincere il profitto. Se parliamo di bisogni essenziali dell’umanità, la finanza «ha dimostrato un’assoluta incapacità di operare nell’interesse generale».Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi casa o cambi cacciavite? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».
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Gas: è scoppiata la Terza Guerra (mondiale) dell’energia
Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.Una precipitazione di eventi assai insolita, che profila tendenze di medio periodo suscettibili di mutare l’assetto strategico mondiale dell’energia. E ovviamente non dobbiamo stare a spendere parole sulla centralità dell’energia, sia dal punto di vista economico che politico, nell’ordine mondiale. A partire dagli anni novanta, si era determinato un quadro che possiamo descrivere come segue. Con la comparsa delle ingenti masse di gas russo, si produceva una accentuata diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico (ancora molto petrolio, ma anche gas, nucleare, carbone, etanolo da biomasse e fonti alternative) e, di conseguenza, delle tecnologie necessarie al trattamento delle varie fonti. La differenziazione di fonti e tecnologie induceva i vari paesi ad adottare diversi mix energetici, per così dire “personalizzati”, in base alle esigenze di ciascuno. E questo, a sua volta, dava luogo ad un accentuato policentrismo sia dei produttori che dei consumatori, assicurando un regime di relativa abbondanza energetica a basso costo.Questo accentuato policentrismo energetico, insieme all’affermarsi più rapido del previsto di nuove potenze economiche emergenti, determinava un più generale policentrismo dell’ordine mondiale. Un aspetto particolarmente importante di questa nuova situazione è stato rappresentato dal gas, rapidamente affermatosi fra le primissime fonti in ordine di importanza. Come si sa, esso è difficilmente trasportabile via mare (per i costi di liquefazione e poi rigasificazione del prodotto) e prevalentemente è distribuito attraverso gasdotti che hanno elevati costi di costruzione, per cui si privilegia lo scambio fra paesi limitrofi o, comunque, non eccessivamente distanti. Anche per questo motivo si è formato un mercato separato del gas che, cosa importante, non è necessariamente venduto in dollari ma in monete diverse. E questo è uno dei motivi della rapida ripresa russa dal 1998 in poi.In questo quadro, la diversificazione energetica ha avuto oggettivamente un ruolo di contrappeso al progetto di ordine mondiale monopolare degli Usa, alimentando le tendenze centrifughe verso un ordine policentrico. Le stesse guerre mediorientali degli Usa erano il tentativo di affermare il proprio progetto egemonico guadagnando una posizione di controllo della più importante area petrolifera mondiale. Ma, come è noto, le cose sono andate in modo diverso dal previsto e le tendenze dal policentrismo se ne sono rafforzate, garantendo il ritorno della Russia fra i grandi protagonisti della scena mondiale, insieme a Usa e Cina. Questo quadro ha subito una prima destabilizzazione fra il 2006-2010: in un primo momento si era temuto un rapido avvicinarsi del pick oil a causa dei forti consumi cinesi (quel che aveva fatti impazzire il prezzo del petrolio salito sino a 170 dollari al barile), ma dopo, per effetto della crisi bancaria del 2007-8 e delle prospettive offerte dal petrolio di scisti e dallo shale gas con la tecnica del fracking, la situazione si è in gran parte normalizzata, ma scontando nel frattempo un rafforzamento del gas e, pertanto, della Russia da cui la Ue, ormai, dipendeva largamente.Di qui partiva la “guerra dei gasdotti”, complicata dall’attraversamento ucraino dei gasdotti euro-russi. L’Ucraina, oltre che onerosi diritti di passaggio, esercitava massicci prelievi aggiuntivi, che peraltro non pagava. Di qui la decisione russa di costruire gasdotti che la aggirassero: Northstream, dalla Russia alla Germania via Baltico, e South Stream dalle coste russe meridionali all’Italia. Questo progetto fu sottoscritto dall’Eni nel 2009, sotto l’aperta protezione di Berlusconi (siamo nel momento della grande amicizia con Putin con lo scambio di regali come il famoso lettone ed altro). Gli americani non presero bene la cosa, anche perché stavano cercando di realizzare un progetto concorrente, Nabucco, che avrebbe portato il gas centroasiatico sulle sponde del mediterraneo e poi, di lì, in Europa che così sarebbe stata sottratta al temuto magnete russo. La guerra dei gasdotti venne vinta, in un primo momento, dai russi, e sembrò per un attimo che Europa e Russia fossero destinate ad una fatale integrazione crescente (“Eurussia: è il nostro destino?” si chiedeva una copertina di “Limes” del 2009).Oggi questo quadro subisce un attacco frontale a seguito dei fatti ucraini e dell’annessione della Crimea da parte dei russi. Gli Usa sono stati rapidi nell’approfittare dell’ondata (peraltro largamente strumentale) di condanna dell’iniziativa russa e nello spingere la Ue in rotta di collisione con Mosca, che, a sua volta, ha reagito minacciando ritorsioni proprio sul gas. Gli americani si sono fatti avanti offrendo la sostituzione delle forniture russe. In realtà, agli americani preme la creazione di un mercato del gas regolato in dollari, così come è per tutto il resto, e la manovra americana va capita insieme alla questione del negoziato per l’area di libero scambio Usa-Ue. Ovviamente, se gli americani riuscissero nel loro intento, ai russi non resterebbe che offrire il loro gas alla Cina ed, in prospettiva, all’India. Pertanto assisteremmo alla nascita di due blocchi energetici: da un lato la tradizionale alleanza euro-americana cui corrisponderebbe, per reazione, il blocco euro-asiatico cino-russo, suscettibile di diventare cino-russo-indiano. E la competizione fra i due blocchi si sposterebbe rapidamente sull’accaparramento dei mercati mediorientali dove, abbiamo detto, la Cina è già entrata e con tutti due i piedi.Peraltro, è ragionevole aspettarsi un comportamento non omogeneo dei paesi di quell’area: realisticamente l’Iran si orienterebbe verso il blocco asiatico, mentre l’Arabia Saudita resterebbe il tradizionale alleato degli americani, ma con la fastidiosa spina irritativa del Qatar. Sull’altro fianco, l’evolvere della situazione potrebbe portare alla “normalizzazione” del Venezuela chavista. La Cina, che ha trovato spazio in Iraq (e ha la prospettiva del gas russo) potrebbe essere sempre meno generosa con il suo debitore latinoamericano e perdere interesse alle sue forniture, anche in ragione della precaria situazione politica. Viceversa, gli Usa stanno palesemente certando di compattare l’asse ispano-pacifico del continente meridionale, lungo l’asse Messico-Cile per isolare il Brasile (ed eventualmente l’Argentina); il Venezuela è dalla parte dell’Atlantico, ma sarebbe una gran bella posizione da occupare per il controllo del Sud America. Dunque, è facile prevedere che gli Usa cercheranno di approfittare dell’attuale situazione per destabilizzare il regime chavista (motivo di più per comporre subito il conflitto in atto con la piazza, cercando una via di uscita politica).Si profilano, pertanto, mutamenti geopolitici di grande rilievo, ad esempio il ritorno ad una logica di blocchi tendenzialmente bipolare. Beninteso: la globalizzazione ci ha abituato a tendenze fortemente reversibili, per cui più di un disegno è abortito strada facendo (a cominciare da quello monopolare americano) ed è possibile che anche questa volta intervengano controtendenze che scombinino in tutto i in parte il gioco iniziato. Anche perché rivedere l’assetto energetico mondiale, rifare gasdotti nuovi ed abbandonarne di vecchi non sono cose che si fanno in pochi mesi, durante i quali di cose possono succederne. Ma è anche vero che questa situazione di forte reversibilità del quadro non può durare all’infinito e, prima o poi, in modo naturale o cruento, un qualche ordine stabile finirà con affermarsi. Sicuramente una parte di questa battaglia sarà combattuta in Italia e ne vedremo i segni molto presto, con la nuova governance dell’Eni e le conseguenti decisioni su South Stream, che ormai può saltare da un momento all’altro.(Aldo Giannuli, “Si sta profilando una frattura strategica nel campo dell’energia”, dal blog di Giannuli dell’11 aprile 2014).Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.
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Frantumare il mondo: a chi serve la macchietta Renzi
Se avete visto il magnifico e sconvolgente “The wolf of Wall Street”, di quel bimbo di Andersen (“Il re è nudo”) che è Martin Scorsese, avrete compreso l’affinità antropologica tra quei cannibali e il loro sottoprodotto al mandolino, Renzi. Ma, per capire il modello che stanno mettendo in opera, conviene fare un breve elenco dei tratti fisiognomici di una classe di criminali che ha imperversato sulle Americhe e poi sul mondo dalla Mayflower in qua. Dal genocidio degli indio-americani a oggi, gli Usa hanno superato qualsiasi altro Stato della storia per numero di guerre e vittime; in media una guerra all’anno, sempre portate, mai ricevute. Dal 1945 al 2014 sono intervenuti militarmente in 90 paesi. Attualmente sono impegnati con forze speciali, Ong, quinte colonne, bombardieri e droni, colpi di Stato effettuati o tentati, sanzioni, destabilizzazioni e mercenariato surrogato, in 135 paesi.I serial-mass-killer insediati nella Casa Bianca dal 1991 hanno ammazzato 3 milioni in Iraq, 40 mila in Afghanistan, 4000 in Serbia, 100 mila in Libia, 130 mila in Siria, migliaia in Pakistan, Yemen, Somalia. Altri milioni li hanno fatti uccidere da proconsoli e ascari in Ruanda (dove si sono confrontati Francia e Usa per chi facesse scannare più hutu), Congo, Mali, Rac, Latinoamerica. E abbiamo saltato Vietnam, Corea, Centroamerica. Con il 4% della popolazione mondiale contano per il 75% dell’inquinamento globale, l’80% del traffico e consumo di stupefacenti e il 65% dell’acqua dolce del mondo è stata avvelenata dagli agro-tossici Usa. Ogni anno la polizia Usa uccide più di 5.000 persone disarmate. Con 2,5 milioni di detenuti, sono il paese con il più alto tasso di carcerazione del mondo. Lo 0,01 più ricco possiede il 23% della ricchezza nazionale, il 90% più povero il 4%. La loro teoria economica chiamata “crisi” ha procurato al 3% un più 75% di ricchezza, alle multinazionali più 171%.Una macchina da devastazione, saccheggio, terrorismo e morte che, nel nostro paese, ha espettorato una serie di zombie addestrati a tirarsi uova marce di giorno e banchettare insieme di notte, come dal ‘700, sotto varie denominazioni, partito repubblicano e partito democratico nordamericani insegnano. E, come in ogni teatro di marionette che si rispetti, i pupi si scambiano i ruoli, a seconda delle temperie e delle urgenze di “cambiamento” e “innovazionie”, da Bertinotti a Renzi, da Occhetto a Letta, da Berlusconi ai fascisti dichiarati. Di questo avvicendarsi di parti in commedia oggi vediamo l’espressione più chiara, del tutto de-mimetizzata: il blob che si definisce centrosinistra, socialdemocrazia, rappresentante di classe operaia e ceti popolari, mette in campo un manipolo di trucidi e sciacquette che soffiano al finto avversario il modello Chiesa-Wall Street-Pentagono-mafia; gli altri, mutati da grassatori, puttanieri, ladri, in “moderati”, saltano il fosso e si pretendono a fianco di operai, ceti medi scarnificati, euroschifati e perfino Putin.Di tutto questo l’incarnazione più lineare è il capobastone del Colle, transitato dagli inni ai carri sovietici di Budapest a quelli agli F-35 Usa. E’ vero che il sangue nelle vene di costoro, se non intorbidito, si deve essere un bel po’ diluito, se riusciamo a resistere in poltrona davanti a certi vaudeville, oltre a tutto sempre più Grand Guignol. Con, per opposizione, solo una ruspa truccata da tanko di chi si vorrebbe fare lo stesso spettacolo tutto da solo. Lo stupefacente e agghiacciante fatto che un saltimbanco, incolto e abissalmente ignorante, spargitore di fuffa tossica, manifestamente imbroglione e bugiardo al solo sguardo volpino da pusher, al solo arricciarsi della boccuccia a culo di gallina, possa aver affascinato, interessato, anche solo incuriosito, questi vasti pezzi di società italiana (fuori se la ridono), è la dimostrazione di cosa ci hanno fatto vent’anni di vaudeville berlusconiana, con la stuoina “centrosinistra” a fargli strofinare le scarpe.Il volgare e mediocre Stenterello schiamazzone, accademico ineguagliato di populismo, restauratore mascherato da rottamatore, confezionato con un tweet di Bilderberg e carburato da euro-merda e cianuro, ha fatto meglio in pochi mesi di Andreotti in quarant’anni. Si permette di definirsi rullo compressore e, pur essendo di cartone, l’ignavia di massa gli consente di fare il lavoro dello schiacciasassi che tutto asfalta e sotto cui niente vive. Assimilata la pseudo-opposizione parlamentare sindacale e mediatica, quella residua delle istituzioni e dell’intelletto è considerata stravaganza di comici e, insistendo in piazza, eversione e terrorismo (vedi No Tav o No Muos). Nessun Mussolini, nessun Hitler e nemmeno i falsari elettorali delle democrazie borghesi avrebbero avuto la protervia di presentarci una legge elettorale così spudoratamente da roulette truccata con la calamita sotto. Una legge che vieta agli elettori di scegliere i loro rappresentanti, che, escludendo da ogni voce in capitolo milionate di cittadini, dà, alla tibetana, potere di vita e di morte sui sudditi a chi arriva al 20% del 50% di italiani che votano.Neanche la Gorgone Fornero, del rettilario bancario, avrebbe osato sognare la socialdemocratica riduzione in panico e schiavitù delle generazioni presenti e a venire, grazie ai 36 mesi a tempo determinato, a zompi intervallati di 4 mesi, dopodiché fuori dalle palle e sotto un altro. Infine, per elevare l’indispensabile tasso di criminalità, il bellimbusto pitocco fa passare una legge sulla custodia cautelare che esime dal gabbio quelli che, forse, si beccherebbero fino a 4 anni, cioè in prima fila i compari elettori e finanziatori dai colletti bianchi. Dopo l’avvenuta evirazione dei Comuni, abolizione delle provincie per collocare negli enti sostitutivi altri 30 mila clienti, come dimostrato dai Cinque Stelle, ma soprattutto per togliere di mezzo gli organismi intermedi di rappresentanza, potenzialmente più vicini al territorio e più distanti dalle cosche apicali. Obliterazione, grazie allo tsunami propagandistico dei “costi della politica”, di quell’istanza d’appello e di controllo che è il Senato. La sua scomparsa, per risparmiare, dicono, 300 milioni (fatti passare per 1 miliardo) ci costerà quanto costò alle libertà romane, nel passaggio dalla Repubblica al Principato, il Senato trasformato in innocua camera di compensazione di latifondisti e usurai. Riduzione delle pene per il voto di scambio, per chi si fa comprare – e obbligare – dai voti procurati dall’altra criminalità, a conferma dell’unità di gestione aziendale di Stato e mafia.Mascherine da festa cotillon che si agitano ai piani bassi dei palazzi dove, in alto, si scatenano i lupi mannari di Wall Street. Rispetto a quella realizzata nel ‘22, la loro dittatura in fieri parrebbe l’avanspettacolo di Bonolis a fronte di una tragedia di Euripide. Ma le cose stanno molto peggio. Rispetto ai triumviri e federali di Mussolini, ai gauleiter e feldmarescialli di Hitler, fenomeno assediato dal resto del mondo, questi sono i tentacoli di una piovra gigante che abbranca mezzo emisfero, tre quarti di tutte le bombe atomiche, mezzo patrimonio produttivo e finanziario, le tecnologie di controllo e soppressione più avanzate e la complicità del più potente istituto per la manipolazione religiosa di coscienze di tutti i tempi. A proposito di quest’ultimo, capeggiato oggi dal quasi-santo Francesco, a strappare i veli dall’umile buonismo esibito da costui basta la pronuncia della gerarchia cattolica del Venezuela, capeggiata dal nunzio nominato dal papa, Parolin, avverso al “despota” Maduro, e a sostegno delle bande di terroristi scatenati dalla Cia contro la nazione bolivariana. Oscenità imperialista che si affianca alla nomina a consigliere del papa di Oscar Maradiaga, primate dell’Honduras e complice di quei golpisti che proseguono nella strage di oppositori, contadini e indigeni. Fin dal suo primo “buonasera”, si sarebbe dovuto capire che il Bergoglio silente tra i generali argentini sarebbe stato l’anti-Chavez dell’America Latina.Del rilievo dato al burattino italiota dalla strategia del Nuovo Ordine Mondiale sono stati testimoni gli augusti visitatori che si sono precipitati a Roma a completare l’agenda che a Renzi era stata commissionata nei giri per Londra, Berlino, Bruxelles e Parigi. Per Obama, d’intesa con il proconsole sul Colle, è stata la consueta intimazione-consacrazione del vassallo di turno. Per la regina Elisabetta è stato il rinnovo del patto tra classe dirigente italiana e la secolare loggia Rothschild-Windsor, sancito nel 1992 in forma definitiva sul suo yacht “Britannia”, quando emissari come Soros, Draghi, Andreatta e bancari vari, concordarono con Ciampi e poi Amato e Prodi la privatizzazione dell’Italia e la sua riduzione a piattaforma mediterranea di guerre d’aggressione e a hub del traffico di energia e stupefacenti, terra di rapina per multinazionali perfezionata nel Ttip, “Partneriato Transatlantico per Commercio e Investimenti”.Prima mossa domestica, capitoletto dell’ordine di servizio imperiale eseguito in Ucraina, Venezuela, Iran, Siria, non i soli F-35, ma la messa fuori gioco di Paolo Scaroni, ad dell’Eni. Non si tratta di compiangere un lestofante, con stipendio milionario, che s’è aperto la strada verso giacimenti e rotte petroliferi in tutto il mondo a forza di creste e tangenti. Così fan tutte ed è la condizione in questo mondo di merda per assicurare al tuo paese rifornimenti energetici. Specie se di fornitori incorrotti ne hai solo uno, il Venezuela e quell’altro onesto, la Libia, l’hai regalato ai terroristi Al Qaida. E per farcene prevedere la detronizzazione basterebbe la corifea delle banche (“basta col contante, tutto per via bancaria”), Milena Gabanelli, con la sua ossessiva denuncia delle malefatte del capo dell’Eni, in “profonda sintonia” con l’avversione al tipo da parte di governanti e petrolieri angloamericani, per le libertà che si prendeva nel saltare, insieme a russi, iraniani, africani e centroasiatici, i tubi del petrolio e del gas sotto controllo Usa. Per molto meno Enrico Mattei e Giorgio Mazzanti furono fatti fuori, uno per attentato, l’altro per scandalo.Sette sorelle, vecchie, ma sempre arrapate. In un sistema in cui i petrolieri texani devono tenere in mano il rubinetto dell’energia e neutralizzare, come predica Brzezinski, demonio all’orecchio di Obama, Bush, Clinton, Reagan e Nixon, la fisiologica tentazione europea verso l’orizzonte euroasiatico, uno come Scaroni risulta incompatibile. Ci vogliono, come per la Jugoslavia, quinte colonne imperiali che contribuiscano alla debolezza e subalternità del proprio continente e dei suoi singoli Stati. Renzi è perfetto. Il frenetico tour di Obama tra i valvassori europei e partner del Golfo va visto in sinergia con le mattanze in atto in Afghanistan, avamposto asiatico anti-russo, il caos creativo del terrorismo nel Pakistan nucleare, le stragi da droni in Somalia e Yemen, capisaldi geostrategici non normalizzati, lo sminuzzamento della Siria antisraeliana, come prima della Libia, le spedizioni degli ascari francesi nel Sahel dell’uranio e del petrolio, lo spolpamento dell’Ucraina dagli enormi terreni da assegnare alle multinazionali del cibo e dell’agrocombustibile e dei missili da piazzare sui piedi di Putin, lo scatenamento del naziterrorismo contro il Venezuela bolivariano.E’ in gioco una dittatura mondiale, fatta gestire agli Usa con stampelle anglosassoni che, attraverso il controllo del rubinetto dell’energia, regoli i rapporti di forza globali. Il Pakistan e l’Iran non devono realizzare l’oleodotto che li unirebbe. Iran, Iraq e Siria non si sognino di approvvigionare, con una nuova pipeline, l’Europa. Russia ed Europa non devono collegarsi tramite i due tubi “North Stream” e “South Stream”. Il Venezuela la deve smettere di assicurare a basso prezzo e con notevoli ricadute politiche e sociali i paesi poveri dell’area e, magari, domani l’Europa. I recentemente scoperti enormi giacimenti di gas nel bacino est del Mediterraneo devono essere sottratti a titolari come Siria, Libano, Gaza, Egitto (apposta paralizzati da costanti fibrillazioni indotte) e Cipro e messi tutti sotto controllo israeliano. Ovunque, in questi fastidi recati a “Big Oil”, c’è stata anche lo zampino dell’Eni di Scaroni (“Senza il gas russo siamo nei guai”). Tutti i percorsi indicati lacerano per il lungo e per il largo la rete sotto controllo anglo-franco-statunitense, solleticano l’insubordinazione dell’America Latina, legano Europa ai detestati Russia e Iran, garantiscono i rifornimenti alla secca Cina.Fratturare il mondo? Lo strumento si chiama scisti. Il metodo per estrarli dal sottosuolo, “fracking”, fratturazione idraulica. L’esito, la destabilizzazione del pianeta dalle profondità alla superficie, l’inquinamento delle falde e dei terreni attraverso l’immissione forzata di enormi quantità d’acqua mista a sostanze chimiche tossiche che spaccano la roccia e liberano le riserve fossili. E, come sperano, la graduale riduzione dei flussi dagli Stati indipendenti, sostituiti dal gas liquefatto che dai destinatari deve poi essere rigassificato. Costi di gran lunga superiori all’estrazione dai giacimenti e perfino alle energie rinnovabili (quelle che i petrolieri raccomandano a Sgarbi di demonizzare) e, perciò, uso della potenza militare, di cecchini nazisti, tagliagole jihadisti e vicerè obbedienti, per imporne l’inconveniente adozione.Il commercio tra Europa e Russia è 10 volte quello tra Europa e Usa. L’Europa orientale trae un terzo della sua energia dalla Russia e una bella fetta dall’Iran. L’Italia quasi metà, con il resto che arriva dall’Algeria, anche per questo in costante guerra di bassa intensità con le armate di complemento jihadiste, non più dalla Libia, e da fonti minori. Berlino ha 6.000 aziende operanti in Russia. Unica a far valere questa situazione è la Germania, che tenta una resistenza sia alle sanzioni a Mosca, sia alla deriva nazista dell’Ucraina favorita dagli Usa (il suo candidato al governo di Kiev era il “moderato” Klitschko, “fottuto”, nelle sue stesse parole, dalla sottosegretaria Usa, Nuland, con il candidato amerikano Jatseniuk). Renzianamente, Obama (vengono tutti dalla stessa caverna) ha promesso a noi e agli altri bischeri europei tanto gas dai suoi scisti da farci rinunciare a quello finora preso dalla Russia. E’ vero che le riserve nordamericane sembrano vaste e sono già fratturate da migliaia di trivelle (con altrettante rivolte della popolazione locale).Ma, se l’Europa ha un po’ di rigassificatori per il gas liquefatto negli Usa, questo paese non dispone neanche di un solo liquefattore. Nella migliore delle ipotesi il gas da scisti arriverà in Europa fra quattro anni, convogliato dal primo liquefattore costruito, capace di spedirci la miseria di 4 miliardi di Bcf di gas al giorno. Basta appena per il Belgio. E ricordiamo: il fracking per scisti incastrati tra rocce da far esplodere, e che dovrà col Ttip essere imposto a un’Europa che già si è dichiarata disponibile e ha iniziato a spaccare il sottosuolo (anche in Italia), sarà costosissimo e quindi provocherà ribellioni tra i consumatori. Sconvolge la pancia della Terra con l’immissione forzata di gigantesche quantità d’acqua – in prospettiva della guerra dell’acqua che si sta per scatenare in tutto il pianeta – e conseguente rottura verticale e orizzontale di ciò che stabilizza i nostri piedi e le nostre case. Scarseggerà l’acqua per bere, per irrigare, per tutto, e conflitti e mega-migrazioni sconvolgeranno quel che resta della stabilità globale.(Fulvio Grimaldi, estratti dall’intervento “Il fracking di Renzi e quello di Obama”, dal blog di Grimaldi dell’8 aprile 2014).Se avete visto il magnifico e sconvolgente “The wolf of Wall Street”, di quel bimbo di Andersen (“Il re è nudo”) che è Martin Scorsese, avrete compreso l’affinità antropologica tra quei cannibali e il loro sottoprodotto al mandolino, Renzi. Ma, per capire il modello che stanno mettendo in opera, conviene fare un breve elenco dei tratti fisiognomici di una classe di criminali che ha imperversato sulle Americhe e poi sul mondo dalla Mayflower in qua. Dal genocidio degli indio-americani a oggi, gli Usa hanno superato qualsiasi altro Stato della storia per numero di guerre e vittime; in media una guerra all’anno, sempre portate, mai ricevute. Dal 1945 al 2014 sono intervenuti militarmente in 90 paesi. Attualmente sono impegnati con forze speciali, Ong, quinte colonne, bombardieri e droni, colpi di Stato effettuati o tentati, sanzioni, destabilizzazioni e mercenariato surrogato, in 135 paesi.
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Col Dottor Stranamore, l’austerity estesa fino al Don
Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».Non esistono dunque vincoli monetari, sottolinea Halevi: «Scuole, ospedali, ferrovie, pensioni, università e ricerca possono essere finanziate senza vincoli di bilancio». La banca centrale può sempre convalidare qualsiasi richiesta da parte del Tesoro, emettendo moneta per sostenere debito e deficit pubblici. Gli unici vincoli? Quelli reali, che dipendono dalle capacità produttive esistenti e utilizzabili. Ma senza più totem come quello del 3%. E’ ovvio, continua Halevi, che se alla banca centrale – in questo caso la Bce – viene impedito di alimentare i necessari flussi monetari, il circuito economico va in crisi. Verità notissime e persino banali, eppure fino a ieri taciute, un po’ come accadeva «durante l’età di Galileo Galilei, quando per la navigazione oceanica verso le Americhe la Chiesa permetteva l’uso da parte della Spagna della concezione copernicana della Terra, mentre in Europa, in Italia in particolare, imponeva la visione tolemaica, bruciando chi la confutava pubblicamente». Le ammissioni ufficiali della Banca d’Inghilterra sono dunque «un’ulteriore ragione per non dare alcun credito all’Ue», quando impone di tagliare la spesa perché “non ci sono soldi”.Il dramma, osserva Halevi, è che l’Unione Europea è una struttura burocratica non responsabile, non elettiva, non democratica. Bisognerebbe «cambiarne le fondamenta», il che implicherebbe «demolire e rifare la costruzione che su queste poggia». Peccato si vada nella direzione opposta: già prima di Mitterrand, sostiene Halevi, la Francia «ha preceduto Bruxelles di parecchi anni», con un turbo-presidenzialismo che ora, con Hollande, ha sottratto all’Assemblea Nazionale il controllo parlamentare della finanza pubblica, demandato all’Alta Autorità sulla spesa pubblica e il debito, creata dall’Eliseo. Elezioni sempre più inutili anche in Italia, dove «la dimensione extra-parlamentare del sistema di governo cresce a vista d’occhio». Il paese europeo che meglio riesce a difendere il suo ordinamento democratico è proprio la Germania: la sua politica potrà non piacere, ma certo rispetta – al contrario dell’Ue – la volontà popolare.Il guaio è che a Berlino oggi siedono ministri come Schäuble, sostenuti da ultra-conservatori che sognano una “moneta fissa” (ancora più rigida dell’oro) e influenti economisti come Werner Sinn, secondo cui l’export tedesco è «un sacrificio», anziché una fonte colossale di profitto per il grande capitale tedesco. Il conservatorismo economico, conclude Halevi, produce un pericoloso cortocircuito – sia il rigore che Schäuble impone all’Europa attraverso la Troika, sia la concezione del surplus di Sinn. «Ne consegue – scrive Halevi – che è estremamente importante assorbire ciò che hanno scritto gli economisti della Bank of England», i quali «non partono da una visione normativa, bensì analizzano come effettivamente funzionano la moneta e il sistema bancario, arrivando ad affermare cose che in Italia si trovavano già in Augusto Graziani», il grande economista napoletano, maestro di Emiliano Brancaccio. Se non altro, ora «la verità è venuta a galla», come ha affermato il “Guardian”: «A galla per il pubblico», certo, «ed è ciò che conta». Il testo della Banca d’Inghilterra «costituisce un’importante base di partenza per pensare se e – eventualmente – come rifare le fondamenta» dell’Unione Europea. Prima che i “Dottor Stranamore” – di Berlino e della Nato – arrivino davvero sulle rive del Don.Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».
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Castells: grazie a Internet, la libertà non è più utopia
Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.Lo spiega in un dialogo con Tomás Ibañez, a cui dobbiamo un ottimo “elogio del relativismo” pubblicato da Elèuthera nel 2012 (”Il libero pensiero”). Elèuthera ora ripropone anche questo botta e risposta informale, pubblicato in Spagna nel 2006. Titolo: “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”. Un libretto agile. Più che altro un’introduzione al tema. In cui si sostiene che l’era digitale ha creato le condizioni perché l’anarchismo (lui lo definisce “neoanarchismo”) e il pensiero libertario tornassero d’attualità. «Nella società attuale esiste un’esigenza di libertà» che va al di là dell’ideologia o delle battaglie condotte dai nuovi movimenti “alteromondisti”. E’ una questione empirica e strutturale. Ha a che vedere con la possibilità di costituire facilmente «reti di relazioni tra individualità», quindi non più individui atomizzati che subiscono passivamente il mercato anonimo e la comunicazione di massa.I movimenti si auto-organizzano e a volte riescono a darsi strutture autonome senza gerarchie stabilite, che lavorano in una sorta di assemblea permanente (una delle pratiche utopiche tipiche del pensiero anarchico). D’altra parte oggi è «la stessa struttura produttiva a richiedere, per essere più efficiente di prima, un funzionamento basato su strutture organizzative non gerarchizzate». Sta cambiando anche il modello di sviluppo, nel quale si intravvedono «modalità e relazioni che si allontanano dalle posizioni propriamente capitaliste e che si avvicinano al libertarismo». Nei tempi in cui viviamo, lo Stato, contro cui ha tradizionalmente lottato l’anarchismo, è diventato uno “strumento di dominio secondario”. La battaglia si è spostata sul piano della produzione e diffusione delle idee.E’ vero che le tecnologie informatiche non sono in grado di «promuovere, di per sé, un cambiamento sociale positivo», anche perché consentono alle autorità di avere un controllo senza precedenti sugli individui e le reti che li uniscono. Ma è pur vero che si tratta di “tecnologie di libertà” malleabili, flessibili: sono insomma un’occasione senza precedenti. Attraverso Internet ti possono sorvegliare, certo, ma potevano farlo anche prima, la differenza è che ora, grazie a Internet (a un suo utilizzo consapevole) «anche tu li puoi sorvegliare». Molto utile la postfazione di Andrea Staid, che mette i puntini sulle “i” e aggiorna il dialogo ai tempi (recentissimi) delle cosiddette “wikirivolte”, i nuovi movimenti insurrezionali che hanno spazzato via dittature longeve «nel più completo stupore delle democrazie occidentali».Non c’è rivoluzione che non abbia sfruttato il medium dell’epoca (una citazione di Foucault ci ricorda la funzione rivoluzionaria dei discorsi di Khomeini diffusi sotto forma di audiocassette) e quindi anche i social media possono essere uno strumento importante. Ma non potranno mai sostituire «la condivisione fisica delle emozioni» che avviene nelle strade e nelle piazze. Staid avverte: «Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che sarà la rete a salvarci… Non basterà Internet per risolvere il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sugli animali, sulla terra. La mutazione culturale libertaria deve essere in grado di penetrare nelle reti di rapporti reali fra esseri umani». Insomma, la cara vecchia battaglia per “decostruire il dominio”». Una cosa è certa: il pensiero libertario (l’anarchismo) non può che essere pluralista, “in divenire” e anti-dogmatico, si deve nutrire di una “concezione relativista critica”, quindi deve essere in grado di adattarsi ai contesti e alle circostanze, soprattutto oggi, in un’epoca in cui, come dice Castells, «il nodo problematico che caratterizza la società rimanda all’idea di libertà», che non può essere solo quella dell’individuo ma la «libertà di tutti».(Fabrizio Tassi, “Tecnologie di libertà”, da “Micromega” dell’11 marzo 2014. Il libro: Manuel Castells e Tomàs Ibañez, “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”, Eléuthera, 67 pagine, 7 euro).Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.
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Sorvegliati e felici: è il capolavoro del Sesto Potere
Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la Nsa, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo “1984” di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo “Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida” (ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.Lyon, da sempre attento analista dei problemi della sorveglianza, e Bauman, il filosofo che ha sostituito il concetto di “modernità liquida” alla categoria di postmodernità, ribaltano gli scenari orwelliani e foucaultiani di cui sopra, ai quali contrappongono quattro tesi di fondo: 1) viviamo in un mondo post-panottico in cui le nuove forme di controllo e sorveglianza assumono le caratteristiche tipiche del consumo e dell’intrattenimento; 2) i principali oggetti al centro dell’attenzione dei sistemi di sorveglianza non sono le persone in carne e ossa, bensì i loro “doppi” elettronici, cioè i dati che li riguardano; 3) ciò che più dobbiamo temere non è la fine della privacy e dell’anonimato bensì l’inquadramento in categorie in grado di determinare a priori il nostro futuro di consumatori e cittadini; 4) la costruzione di questa macchina infernale procede con la collaborazione spontanea, se non gioiosa, delle sue vittime. Proverò ora a illustrare le quattro tesi nell’ordine appena enunciato.Il concetto di Panopticon, argomentano Lyon e Bauman, implicava la concentrazione dei soggetti sottoposti a sorveglianza in determinati luoghi – carceri, fabbriche, scuole, ospedali, ecc. – e sfruttava il “controllo delle anime” come strumento per cambiare comportamenti e motivazioni. Lo sguardo del controllore, temuto ma non visto e quindi presunto come costantemente presente, induce l’autodisciplina di lavoratori, prigionieri, pazienti e allievi che si adeguano alle aspettative del sistema di controllo per non subire sanzioni. Queste modalità punitive di controllo, osservano gli autori, riguardano ormai esclusivamente le “zone ingestibili” della società come le prigioni e i campi profughi, sono cioè riservate agli esseri umani dichiarati “inutili” ed esclusi nel senso pieno e letterale della parola. Viceversa il nuovo potere globale – che Lyon e Bauman contrappongono al potere politico tradizionale, confinato nel locale – non si esercita erigendo barriere, recinzioni e confini che vengono anzi considerati come ostacoli da superare e aggirare; esso deve poter raggiungere tutti in modo da poterli valutare e giudicare uno per uno e, a tale scopo, si impegna affinché tutti siano motivati a esporsi volontariamente al suo sguardo, a cercarlo avidamente più che a sottrarvisi.Passiamo alla seconda tesi. Qui Lyon e Bauman riprendono un tema che Stefano Rodotà ha già ampiamente sviscerato negli anni scorsi, analizzando il fenomeno del “doppio elettronico”. La costruzione di veri e propri “duplicati” delle persone è un processo costantemente in atto a partire dai frammenti di dati personali che ognuno di noi fornisce continuamente e quotidianamente al sistema di sorveglianza navigando in rete, usando la carta di credito, frequentando i social media, usando i motori di ricerca. Ciò di cui non siamo consapevoli è che questi frammenti di dati, estratti per scopi diversi, vengono poi remixati e utilizzati per altri scopi, sfuggendo completamente al nostro controllo (la sorveglianza tende così “a farsi liquida”, dice Bauman riproponendo la sua metafora favorita). Ma soprattutto ciò di cui non ci rendiamo sufficientemente conto è che questa informazione sganciata dal corpo finisce per esercitare un’influenza decisiva sulle nostre opportunità di vita e di lavoro. Il punto è infatti che i nostri duplicati divengono oggetto di analisi statistiche che servono a prevedere comportamenti futuri (Lyon e Bauman citano in merito il film “Minority Report”) e, sulla base di tali previsioni, a incasellarci in determinate categorie di consumatori appetibili o marginali e/o di cittadini buoni cattivi o “pericolosi”.Siamo così alla terza tesi, la più inquietante, secondo cui la nuova sorveglianza si propone di selezionare le persone allo stesso modo in cui, nei campi di concentramento nazisti, si selezionava chi doveva essere eliminato subito e chi poteva ancora tornare utile. Oggi è sparita la violenza omicida, ma non il principio della classificazione come presupposto di un trattamento differenziale per le diverse categorie di consumatori e cittadini. Il marketing ci valuta in base ai nostri “profili”, cioè ai nostri precedenti comportamenti di consumo; i sistemi di sicurezza non rivolgono più la loro attenzione ai singoli potenziali malfattori ma alle “categorie sospette” (vedi le disavventure delle persone di origine araba ai controlli negli aeroporti occidentali). Ecco perché la privacy non è più soltanto minacciata, ma diventa addirittura sospetta.Quante volte vi siete sentiti rispondere da qualcuno a cui ponevate il problema “che m’importa tanto non ho nulla da nascondere”? Come dire: se qualcuno tiene troppo alla propria invisibilità è automaticamente sospettato di avere commesso un crimine. Una mentalità che alimenta la tendenza alla delazione: per non essere classificati fra i sospettati, siamo infatti disposti a puntare il dito (o gli occhiali di Google) contro gli altri. Infine la quarta tesi: esporsi alla sorveglianza è oggi divenuto un gesto spontaneo, se non addirittura gratificante. Se il sorvegliato del Panopticon era ossessionato dall’incubo di non essere mai solo, il nostro incubo è diventato quello di non essere notati da nessuno; quello che vogliamo è non sentirci mai soli. Addestrati dai reality show televisivi e dall’esibizionismo dei social media, i nativi digitali considerano l’esibizione pubblica del privato come una virtù, se non come un dovere; “diventiamo tutti, al tempo stesso, promotori di merci e le merci che promuoviamo”, siamo costantemente impegnati a trasformare noi stessi in una merce vendibile.La seduzione sostituisce la polizia come arma strategica del controllo e ciò non riguarda solo consumi e sicurezza, ma anche la nuova organizzazione del lavoro: i manager si liberano del fardello di gestire e controllare una forza lavoro che ormai si autocontrolla h24 (come le lumache, scrivono Lyon e Bauman, ci portiamo sempre dietro quei Panopticon personali che sono cellulari, smart phone e iPad). In molti dei concetti del libro di Lyon e Bauman – e soprattutto in quest’ultima tesi della collaborazione volontaria delle vittime – ritrovo quanto io stesso scrivevo qualche anno fa (“Felici e sfruttati”, Ed. Egea). Tuttavia, pur condividendo questi argomenti, non posso fare a meno di provare un certo disagio, perché mi sembra che nell’analisi manchi qualcosa. Nella loro critica all’idolatria della tecnica risuonano infatti echi dei discorsi di un autore come Jacques Ellul, discorsi in cui l’autonomia della tecnica e la sua capacità di “spersonalizzare” i sistemi di dominio e controllo vengono presentati come assoluti: «La guerra d’indipendenza delle scuri contro i boia», si legge in un passaggio del libro, «ormai si è conclusa con la vittoria delle scuri, ormai sono le scuri a scegliere i fini, cioè le teste da tagliare».Qui il pensiero corre ai droni e alla loro capacità di “anestetizzare” il senso di colpa di chi li manovra (o, in futuro prossimo, di fare del tutto a meno di manovratori umani); ma per quanto inquietanti ci appaiano simili fenomeni, credo che non andrebbero mai dimenticati i fattori politici ed economici – leggi le relazioni di potere fra dominati e dominanti – che rendono possibili certi sviluppi tecnici e che, quindi, rappresentano l’unico terreno su cui si possa sperare di lottare per cambiare direzione. Altrimenti l’unica speranza di salvezza, come mi pare succeda nell’ultimo capitolo del libro, resta affidata alla fede (è il caso di Lyon) o a un’etica laica (è il caso di Bauman) che rinvia solo a sé stessa.(Carlo Formenti, “Felici e sorvegliati”, da “Micromega” del 5 marzo 2014. Il libro: Sygmunt Bauman e David Lion, “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida”, Laterza, 159 pagine, 16 euro).Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la Nsa, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo “1984” di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo “Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida” (ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.
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Democrazia: perché è essenziale mantenere il Senato
I compiti del Parlamento possono essere svolti bene e conformemente ai principi costituzionali solo se il Parlamento si compone di due camere: la Camera della governabilità e il Senato delle garanzie. In una repubblica parlamentare, il Parlamento ha due generi di funzioni: assicurare governi stabili e fare le leggi in tempi brevi; rappresentare in modo eguale tutti i cittadini, eleggere gli organi di garanzia (capo dello Stato, giudici costituzionali, autorità di controllo), aggiornare la Costituzione, etc. Questi due generi di funzioni non possono essere svolti da un’unica camera, perché il primo tipo di funzioni esige una camera con maggioranza certa e stabile, che è ottenibile solamente limitando la rappresentatività mediante soglie di sbarramento e premi di maggioranza, cioè limitando la sua capacità di rappresentare il corpo elettorale in modo corrispondente alla sua realtà, capacità che invece è l’essenza e il presupposto del secondo genere di funzioni, cioè della legittimazione democratica.Mediante due camere, è possibile, però, soddisfare entrambe le suddette esigenze, conciliare cioè governance e rappresentatività: basta riformare una camera in modo che soddisfi la prima esigenza e svolga bene il primo insieme di funzioni, e riformare l’altra in modo che soddisfi la seconda esigenza e svolga bene le funzioni corrispondenti a questa esigenza. Esattamente come noi conformiamo e usiamo il cucchiaio in modo diverso dalla forchetta, perché abbiamo bisogno di due funzioni diverse: il primo serve per i cibi liquidi e semiliquidi, la seconda per quelli solidi. Noi usiamo quindi due posate diverse, ciascuna adatta al suo scopo, e non cerchiamo di fare un’unica posata che combini i denti della forchetta col cavo del cucchiaio: sarebbe illogico, perché la monoposata farebbe male sia l’una cosa che l’altra.Propongo quindi di mantenere le due camere attuali, riformandole come segue (in linea di principio), e inserendo la riforma nella Costituzione. La Camera della governabilità e della legislazione: viene eletta ogni 4 anni con sistema maggioritario e premio di maggioranza assegnato mediante ballottaggio. Ha la funzione di votare la fiducia o sfiducia al governo, di votare le leggi ordinarie, comprese le leggi-delega e le conversione dei decreti-legge. Può essere sciolta dal Capo dello Stato. Il Senato della rappresentanza e delle garanzie: viene eletto ogni 5 anni con sistema proporzionale puro, su base regionale. Non può essere sciolto. Ha le funzioni di eleggere e mettere in stato di accusa e giudicare il capo dello Stato, di istituire le commissioni di inchiesta; di eleggere i magistrati della Consulta, i membri del Consiglio Superiore della Magistratura, i dirigenti delle autorità di sorveglianza sulla televisione di Stato, sulla Borsa e le banche, etc.; di fare le leggi costituzionali e di modifica della Costituzione, nonché le leggi in materia di cittadinanza, di elezioni popolari, e interessanti la sovranità nazionale; di decidere sulle questioni circa l’eleggibilità e la decadenza dei membri di ambo le camere.L’Italicum è invece illogico e incostituzionale, una vera porcheria dal punto di vista tecnico-giuridico, perché – a tacer d’altro: a)lascia senza rappresentanza milioni di elettori, nullificando i loro voti (mi riferisco a quelli che votano per partiti che non supereranno la soglia); b) nel caso di coalizioni in cui alcuni partiti minori non superino la soglia per eleggere loro candidati, trasferisce al partito forte della coalizione i voti dati a quei candidati; c) in tal modo non solo vi sono, oltre a voti nullificati, pure voti che pesano più di altri (anche per effetto del premio di maggioranza) e voti che vanno a candidati di altri partiti e a cui non erano destinati, senza un criterio di logica e prevedibilità. L’Italicum fa decisamente pensare a una volontà “europeista” e mercatista di sopprimere gli ultimi ambiti di partecipazione della società al proprio governo.(Marco Della Luna, “Bisogna mantenere il Senato”, dal sito di Della Luna del 7 marzo 2014).I compiti del Parlamento possono essere svolti bene e conformemente ai principi costituzionali solo se il Parlamento si compone di due camere: la Camera della governabilità e il Senato delle garanzie. In una repubblica parlamentare, il Parlamento ha due generi di funzioni: assicurare governi stabili e fare le leggi in tempi brevi; rappresentare in modo eguale tutti i cittadini, eleggere gli organi di garanzia (capo dello Stato, giudici costituzionali, autorità di controllo), aggiornare la Costituzione, etc. Questi due generi di funzioni non possono essere svolti da un’unica camera, perché il primo tipo di funzioni esige una camera con maggioranza certa e stabile, che è ottenibile solamente limitando la rappresentatività mediante soglie di sbarramento e premi di maggioranza, cioè limitando la sua capacità di rappresentare il corpo elettorale in modo corrispondente alla sua realtà, capacità che invece è l’essenza e il presupposto del secondo genere di funzioni, cioè della legittimazione democratica. -
Computer lento? Il malware della Nsa ci sta spiando
A volte il pc risulta estremamente lento, poi ci accorgiamo che sta faccendo uno dei soliti aggiornamento-dati di routine. Tutto normale? In genere sì. Ma non sempre, o almeno non sempre per tutti. La Nsa, l’agenzia di intelligence degli Stati Uniti, utilizza su larga scala dei software dannosi, dei malware con cui effettua attività di monitoraggio. L’agenzia, le cui attività di sorveglianza sono regolarmente fonte di rivelazioni, ha sviluppato dei malware informatici che vengono utilizzati su larga scala e che permettono di “piratare” i dati di milioni di computer, come dicono gli ultimi documenti di Edward Snowden. Secondo i nuovi report presentati dall’ex consulente della Nsa e pubblicati mercoledì scorso sul sito della Intercept, rivista online dall’ex giornalista del “Guardian” Glenn Greenwald, la Nsa ha impiantato in milioni di computer dei malware che vengono utilizzati per rubare i dati provenienti dalle reti telefoniche e dalla rete Internet all’estero.Questo software, originariamente destinato solo a qualche centinaio di obiettivi che non potevano essere controllati con i normali mezzi convenzionali, è stato esteso «su scala industriale», secondo i documenti pubblicati da Greenwald. Il sistema di raccolta automatica dei dati – tramite un dispositivo chiamato “Turbina” – permette alla Nsa un minimo utilizzo dell’intelligenza umana. I dati raccolti vengono elaborati negli uffici centrali della Nsa, in Maryland (Stati Uniti orientali), ma anche nel Regno Unito e in Giappone. L’agenzia di controllo britannica, la Gchq, sembra aver svolto un ruolo molto importante in questa operazione. Il candidato scelto da Barack Obama per dirigere la Nsa, Michael Rogers, ha spiegato di volere «più trasparenza» nelle azioni dell’agenzia di informazioni americana.In certi casi, la Nsa usa Facebook come esca per infiltrare dei virus o dei cookies nei computer dei “bersagli” per rubare i file. Il software, che può essere installato in soli 8 secondi, può anche registrare le conversazioni dal microfono del pc o scattare foto con la webcam dello stesso computer. Questo software esiste dal 2004, ma sembra che venga utilizzato su larga scala dal 2010. Alla domanda di un giornalista di “Apf”, un funzionario della Nsa ha detto che queste operazioni sono state condotte «al solo scopo di contro-spionaggio o di spionaggio effettuato all’estero su affari nazionali o dipartimentali, e nient’altro». Questo è il primo documento pubblicato da Glenn Greenwald da quando lavora nel gruppo mediatico “First Look Media”, lanciato dal fondatore di eBay, Pierre Omidyar.(“Quel malware fastidioso che piace alla Nsa”, post editato da “20Min.Cr/Ro” e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 14 marzo 2014).A volte il pc risulta estremamente lento, poi ci accorgiamo che sta faccendo uno dei soliti aggiornamento-dati di routine. Tutto normale? In genere sì. Ma non sempre, o almeno non sempre per tutti. La Nsa, l’agenzia di intelligence degli Stati Uniti, utilizza su larga scala dei software dannosi, dei malware con cui effettua attività di monitoraggio. L’agenzia, le cui attività di sorveglianza sono regolarmente fonte di rivelazioni, ha sviluppato dei malware informatici che vengono utilizzati su larga scala e che permettono di “piratare” i dati di milioni di computer, come dicono gli ultimi documenti di Edward Snowden. Secondo i nuovi report presentati dall’ex consulente della Nsa e pubblicati mercoledì scorso sul sito della Intercept, rivista online dall’ex giornalista del “Guardian” Glenn Greenwald, la Nsa ha impiantato in milioni di computer dei malware che vengono utilizzati per rubare i dati provenienti dalle reti telefoniche e dalla rete Internet all’estero.
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Ucraina, non solo gas: le mani sull’ex granaio di Russia
Tutti parlano – giustamente – della “guerra del gas” che ieri opponeva il Cremlino a Kiev e che domani potrebbe armare il pericoloso braccio di ferro tra Putin e Obama sull’approvvigionamento energetico dell’Europa. Ma, senza dimenticare le immense riserve del sottosuolo ucraino, pari a 39 trilioni di metri cubi di gas non ancora estratto, e sul quale la Chevron firmò un contratto da 10 miliardi di dollari già all’epoca di George W. Bush, sono in pochi a parlare dell’altro immenso tesoro del paese orientale: il grano. L’Ucraina, ricorda Alfredo Jalife-Rahme, è il terzo produttore mondiale di frumento, insieme all’Australia, dopo Stati Uniti e Argentina. Quella che potrebbe andare in scena è dunque anche la prima “guerra del grano” del terzo millennio. «La trasformazione dei prodotti alimentari è un importante segmento nell’economia ucraina: un lavoratore su quattro è impiegato nel settore agricolo o forestale». Grazie alla sua prateria fertile e ricchissima di sostanza organica, perfetta per coltivare grano e orzo ma anche segale, avena, girasole e barbabietola è «il granaio di Russia ed Europa».Le “guerre del grano” esistono, eccome, ricorda Jalife-Rahme in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”: «Si potrebbe sostenere che altre guerre per il grano e i cereali sono in atto in forma occulta tanto in Sudan quanto in Argentina». Il Sudan, «leggendario fienile d’Africa», è stato «ridotto a un continuo disordine politico con l’emergenza del Sud Sudan, ricco di petrolio, cosa che ha attirato gli interessi di Stati Uniti e Israele». E l’Argentina, potenza ceralicola fin dall’inizio del ventesimo secolo, «sta soffrendo una brutale guerra multidimensionale, specificatamente nel suo molto vulnerabile sistema finanziario controllato dall’accoppiata Stati Uniti-Inghilterra, con mire sulla Patagonia, il più grande granaio sudamericano». Sul Mar Nero – quello in cui si protende la Crimea – si affacciano invece i porti attraverso cui l’Ucraina esporta i suoi cereali. Secondo il governo di Kiev, più del 50% dell’economia della Crimea dipende dalla produzione e dalla distribuzione alimentare.Il World Fact Book della Cia dichiara che l’Ucraina produceva il 25% delle esportazioni agricole dell’Urss, mentre oggi esporta sostanziali quantità di grano, il cui valore è esploso durante la delicata crisi di cambio di regime pro-Fmi a Kiev, che ha suscitato la reazione russa in Crimea. Le esportazioni agricole dell’Ucraina sono dirette al 20% in Russia e al 17% in Europa; seguono Cina, Turchia e Stati Uniti. Il “Financial Times” ricorda che sono state fatte guerre tra Russia, Polonia e l’Impero Ottomano per il controllo del prezioso “chernozem”, la prateria fertile dell’Ucraina. Nel 2011 l’Ucraina ha ottenuto un raccolto record di 57 milioni di tonnellate. Secondo la Berd, la Banca per la Ricostruzione e Sviluppo in Europa, le adeguate trasformazioni e applicazioni delle nuove tecnologie nell’agricoltura ucraina potrebbero duplicare la produzione di grano già nella prossima decade.Nell’ultimo decennio, scommettendo sull’enorme potenziale agricolo dell’Ucraina, molte delle sei multinazionali del cartello anglosassone che controlla il grano e i cereali (tra cui Cargill, Adm e Bunge, in pieno accordo con Nestlè e Kraft) hanno investito miliardi di dollari. Anche la temibile Monsanto, aggiunge Jalife-Rahme, si è messa in coda per il “chernozem” ucraino assieme alla DuPont Pioneer. «Oggi l’Ucraina ottiene 12 miliardi di dollari dalle sue esportazioni di grano e cereali e dalla sua particolare partnership commerciale con l’Europa», che ovviamente – insieme agli Usa – ha “acceso la miccia” della crisi a Kiev. «L’interesse ad incorporare l’Ucraina nel mercato europeo includeva l’obiettivo ad avere un “supermercato del pane e carne” in Europa mediante una maggiore disponibilità ad affittare o vendere i suoi terreni fertili».L’analista australiana Anna Vidot considera che la scalata all’Ucraina possa avere un impatto significativo nei mercati mondiali del grano. Washington stima che l’Ucraina fornisca il 16% del totale mondiale di mais e grano, la maggior parte del quale passa per il porto di Sebastopoli, in Crimea, sede della flotta russa nel Mar Nero, in una penisola che vanta abbondanti riserve marine di gas naturale. «La realtà è che la balcanizzazione di questo paese comporta come corollario la frattura catastale delle sue riserve di shale gas e del suo grano». I prezzi schizzano rapidamente alle stelle: «La corsa alla conquista della Crimea ha portato già ad un aumento del 40% del petrolio, dell’oro e del grano», conclude Jalife-Rahme. E avverte: «Gli incroci geopolitici per gli idrocarburi, il grano e i cereali sono soliti essere spesso tragici».Tutti parlano – giustamente – della “guerra del gas” che ieri opponeva il Cremlino a Kiev e che domani potrebbe armare il pericoloso braccio di ferro tra Putin e Obama sull’approvvigionamento energetico dell’Europa. Ma, senza dimenticare le immense riserve del sottosuolo ucraino, pari a 39 trilioni di metri cubi di gas non ancora estratto, e sul quale la Chevron firmò un contratto da 10 miliardi di dollari già all’epoca di George W. Bush, sono in pochi a parlare dell’altro immenso tesoro del paese orientale: il grano. L’Ucraina, ricorda l’analista economico messicano Alfredo Jalife-Rahme, è il terzo produttore mondiale di frumento, insieme all’Australia, dopo Stati Uniti e Argentina. Quella che potrebbe andare in scena è dunque anche la prima “guerra del grano” del terzo millennio. «La trasformazione dei prodotti alimentari è un importante segmento nell’economia ucraina: un lavoratore su quattro è impiegato nel settore agricolo o forestale». Grazie alla sua prateria fertile e ricchissima di sostanza organica, perfetta per coltivare grano e orzo ma anche segale, avena, girasole e barbabietola è «il granaio di Russia ed Europa».
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Non crea una banca pubblica? E io denuncio lo Stato
Per «dolosa omissione governativa», coperta da «combutta del silenzio tra mass media, istituzioni, politica», l’avvocato Marco Della Luna annuncia che, insieme a Loris Palmerini, sta lavorando alla redazione di una denuncia alla Corte dei Conti per “danno erariale”. Un buco colossale, da 80 miliardi di euro l’anno. E’ quanto lo Stato potrebbe “risparmiare”, tagliando di colpo il debito pubblico, semplicemente facendo ricorso all’articolo 123 del Tue, il Trattato di Maastricht, fondativo dell’Unione Europea. Il trattato, scrive Della Luna nel suo blog, «consente agli Stati dell’Eurozona di dotarsi di una banca statale e di usarla per finanziarsi presso la Bce ai tassi che questa pratica alle banche, cioè ora allo 0,25%». Risultato: «Lo Stato italiano potrebbe così risparmiare circa 80 miliardi l’anno». Perché nessuno si decide a imboccare questa strada? Germania e Francia già lo fanno, evitando di tassare a morte i cittadini e svendere il patrimonio nazionale a colpi di privatizzazioni.A far impennare i tassi di interesse, il deficit e l’indebitamento pubblico, scatenando il declassamento del nostro paese, ricorda Della Luna, è stata innanzitutto la scelta, già nel 1981, di rinunciare alla sovranità pubblica della Banca d’Italia, che garantiva lo Stato, costringendo in tal modo il governo a finanziare il proprio debito pubblico sui mercati finanziari speculativi internazionali. «Prima, il debito pubblico era sotto controllo. Da allora in poi, e sempre più, l’impennata dei rendimenti sta operando un massiccio trasferimento di redditi e asset, attraverso le tasse e i tassi, dalla popolazione generale e dal settore pubblico alla comunità bancaria-finanziaria sovrannazionale». L’Italia ha un forte avanzo primario. E il suo deficit, gonfiato dagli interessi passivi, è arrivato a 2.100 miliardi. Tutto questo serve solo a «“mungere” il lavoro e il risparmio degli italiani, anche attraverso un artificioso liquidity crunch che li costringe a svendere e a svendersi».Questo drammatico travaso, continua Della Luna, è aggravato in modo decisivo dal sistema dell’euro: la Bce ha infatti prestato migliaia di miliardi allo 0,50% non più allo Stato ma alle banche. Denaro col quale gli istituti di credito comprano Btp che rendono anche oltre il 4%. Se questa è la regola aberrante dell’Eurozona – privilegiare le banche e colpire lo Stato – è pur vero però che il Trattato di Maastricht concede una scappatoia: lo Stato può farsi prestare gli euro direttamente dalla Bce attraverso una banca pubblica, o di cui sia comunque azionista di maggioranza. Perché i governi non vogliono approfittarne, salvando le finanze pubbliche senza più imporre “sacrifici umani”, super-tasse e tagli ai servizi vitali? «Perché sono al servizio degli stessi beneficiari di questo travaso», si risponde Della Luna, secondo cui l’ormai lontano divorzio tra Tesoro e Bankitalia resta una tappa fondamentale, sulla via della soppressione della sovranità monetaria e quindi della democrazia, insieme a Maastricht, all’euro, al Fiscal Compact.Una tappa fondamentale «non solo per la destabilizzazione finanziaria permanente dell’Italia e il suo perpetuo sfruttamento», ma anche per «la sottomissione politica dell’Italia al potere e all’interesse finanziario: è il grande golpe iniziale, rispetto a cui quelli recenti e ripetuti di Napolitano sono solo sotto-golpe attuativi». Due analisti indipendenti come Giovanni Zibordi e Claudio Bertoni hanno ottenuto conferma dalla Bce: se solo volesse, l’Italia potrebbe ottenere denaro a interesse bassissimo dalla Banca Centrale Europea, tagliando il debito di decine di miliardi l’anno, proprio in base all’articolo 123 del Tue. Obiettivo teoricamente a portata di mano, ma secondo Della Luna in realtà non realizzabile, perché «va contro gli interessi e i poteri che hanno, con successo e profitto, realizzato quanto sopra, acquisendo il dominio delle istituzioni nazionali ed europee».Per «dolosa omissione governativa», coperta da «combutta del silenzio tra mass media, istituzioni, politica», l’avvocato Marco Della Luna annuncia che, insieme a Loris Palmerini, sta lavorando alla redazione di una denuncia alla Corte dei Conti per “danno erariale”. Un buco colossale, da 80 miliardi di euro l’anno. E’ quanto lo Stato potrebbe “risparmiare”, tagliando di colpo il debito pubblico, semplicemente facendo ricorso all’articolo 123 del Tue, il Trattato di Maastricht, fondativo dell’Unione Europea. Il trattato, scrive Della Luna nel suo blog, «consente agli Stati dell’Eurozona di dotarsi di una banca statale e di usarla per finanziarsi presso la Bce ai tassi che questa pratica alle banche, cioè ora allo 0,25%». Risultato: «Lo Stato italiano potrebbe così risparmiare circa 80 miliardi l’anno». Perché nessuno si decide a imboccare questa strada? Germania e Francia già lo fanno, evitando di tassare a morte i cittadini e svendere il patrimonio nazionale a colpi di privatizzazioni.